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29th Nov2018

Jimmy Page & Robert Plant

by Aldo Pedron

Jimmy Page & Robert PlantAncora oggi, dopo cinquant’anni dalla loro nascita, ogni notizia, libro, disco solista, reunion o flashback sui Led Zeppelin è in grado di catalizzare l’attenzione degli amanti del rock e del mondo intero più di ogni altra cosa. Eppure il gruppo di Jimmy Page e compagni si è sciolto nel lontano 1980 anche se sembra ieri e l’eco è ancora recente del loro leggendario concerto del dicembre 2007 alla 02 Arena di Londra. Nonostante sia chiaro a tutti che la forza prorompente della band dipendesse dal contributo di tutti e quattro gli elementi che la componevano, la magia è venuta meno alla prematura morte del batterista John Bonham (1980). E’ altresì certo, nell’immaginario collettivo e comune di tutti, che i meriti maggiori vanno invece divisi tra i due maggiori compositori: Jimmy Page e Robert Plant, stanno con le dovute proporzioni ad altre coppie davvero celeberrime come Lennon-Mc Cartney, Jagger-Richards o Roger Waters e David Gilmour dei Pink Floyd.

Tra Jimmy Page e Robert Plant c’è stata una fitta collaborazione tanto che i due hanno vissuto quasi in simbiosi e per bocca di Page il loro era una sorta di matrimonio! Forse, come dice qualcuno, dietro ad un grande uomo ci deve essere una grande donna così come dietro ad un grande chitarrista ci deve essere un grande cantante! Detto tutto ciò, che è anche scritto in parte come considerazione all’interno del libro (seconda di copertina), il volume si legge tutto di un fiato. Dopo le due paginette assai interessanti di prefazione di Jason Bonham (il figlio dello storico batterista della band), troviamo suddivisi una decina di capitoli che citandone i titoli vi faranno meglio capire come l’autore abbia voluto trattare una materia così affascinante ma complessa, partendo dagli esordi dei New Yardbirds del 1968 che poi cambiano nome in Led Zeppelin fino ai giorni nostro, scavando anche nel passato di Page e Plant.

Dai New Yardbirds al decollo del dirigibile, i primi due album, dalla terza fatica all’album senza titolo, lo zenit artistico prima del declino e magia rock’n’roll e angeli perduti sono i titoli dei primi 5 capitoli nelle 109 pagine iniziali. Dopo di che gli argomenti passano dal ripartire all’ombra dello Zeppelin, l’ambizioso progetto per MTV e il ritorno in studio per un album di inediti fino alla chiusura e “una nessuna centomila reunion” e i successi e le avventure solistiche. Nel libro non mancano citazioni, storielle, testimonianze, notizie curiose, aneddoti e frasi celebri raccontate da addetti ai lavori, artisti, musicisti e da coloro che vivevano a stretto contatto con la band. Luca Garrò, giornalista con esperienza più che decennale ed esperto di rock inglese (ex collaboratore di Jam, Rolling Stone, Classic Rock) sviscera ogni minimo particolare del famoso quartetto britannico facendo rivivere la leggenda di Jimmy Page e Robert Plant attraverso i momenti cruciali ed essenziali della loro vita e della loro carriera.

Category : Articoli
Tags : Libri
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19th Nov2018

Le Sfide del Rock raccontate dal Prof. Garage: Def Leppard vs Whitesnake

by Ottaviano Moraca

Prof Garage docente di storia del rockIl Professor Garage è docente di Storia del Rock all’Università della Musica. Di quando in quando però le sue lezioni non si tengono per la strada, che sarebbe il loro posto deputato, e nemmeno vicino ad un furgone sgangherato, come sarebbe consuetudine. No, qualche volta è più istruttivo commentare degli incontri, o per meglio dire degli scontri, tra i grandi protagonisti della scena mondiale. E allora bando alle ciance, mettetevi comodi e preparatevi a tifare per i vostri beniamini. Queste sono le sfide del rock che il Prof. Garage organizza in queste particolari occasioni.

Non vi pare che sia arrivato il momento di una nuova sfida? Anche a me, quindi sospendiamo un momento la serie sulla band oggi meno note di cui avevamo parlato a questa pagina per affacciarci nuovamente sul mainstream ed incontrare due realtà solidamente radicate nella storia stessa del rock. Prima di presentarvi gli sfidanti però è bene che vi prepari a questo particolare duello. Dovete sapere che sono stato redarguito dal magnifico rettore di questa università a causa della pericolosità del confronto che avevo organizzato per lo scorso episodio di questa rubrica. Di conseguenza questa volta ho chiesto ai nostri partecipanti di cimentarsi in qualcosa per cui entrambi eccellono: un concorso di bellezza! Forse voi non ci crederete e a vederli oggi magari potrebbe essere legittimo nutrire qualche dubbio, ma negli anni ‘80 questi due gruppi facevano letteralmente strage di cuori…e chi se li ricorda può ben capire perchè!

Rockofili e Rockofagi di ieri e di oggi, da un lato della passerella abbiamo una della band più solide e al contempo tormentate del panorama hard’n’heavy mondiale: i Def Leppard. All’altro capo il gruppo che sua maestà Dave Coverdale volle per poter esprimere il proprio rock: i Whitesnake. Signori e soprattutto Signore, queste due compagini avevano un seguito femminile così accanito che nessun ragazzo ha mai dovuto faticare più di un secondo per farsi accompagnare ad un concerto dalla propria morosa. Io stesso ho visto volare sul palco di Mr. Coverdale diversi reggiseni…senza purtroppo riuscire ad identificarne le proprietarie perse nella folla in delirio! Questo particolare sport lo inventarono comunque i Def Leppard che avrebbero potuto sanare il deficit di un piccolo stato se avessero venduto tutta la biancheria racimolata durante i concerti di una carriera lunga più di quarant’anni.

Un’altra particolarità di questo confronto è che le nostre band sono per certi versi simili e per altri completamente agli antipodi. Fortunatamente io non sono nella giuria che dovrà scegliere il vincitore. Iniziamo col dire che i Whitesnake sono praticamente il progetto solista di Dave Coverdale che, una volta abbandonati i Deep Purple in seguito agli attriti con Blackmore, si circondò di artisti di calibro internazionale sempre diversi. L’idea era di esprimere la propria visione di un rock duro ma melodico, tecnico e mai banale di volta in volta attraverso le collaborazioni più adatte. In realtà diversi musicisti fecero parte della band per molto tempo, o ci tornarono a più riprese, mentre altri ne sono considerati ex-membri senza aver mai nemmeno inciso una canzone. Figuratevi che sono circa una quarantina gli artisti che negli anni hanno partecipato al progetto e tra questi Steve Vai, Warren DeMartini e Vivian Campbell, che ritroveremo tra poco nei Def Leppard, furono fugaci apparizioni mentre Cozy Powell e ben due ex-Deep Purple, ovvero Jon Lord e Ian Paice, vi rimasero diversi album…questo tanto per citare alcuni nomi.

Completamente opposto l’approccio dei Def Leppard che vantano una formazione estremamente longeva. Pensate che sono solo quattro gli ex-membri e di questi, due risalgono agli albori della band e non appaiono su nessun disco, mentre uno è stato sostituito dopo i primi due dischi e ne ha preso il posto Phil Collen, che poco prima aveva tentato di entrare negli Iron Maiden e a cui venne preferito Adrian Smith. L’ultimo ex purtroppo è deceduto prematuramente nel 1991 lasciando il posto al già citato Vivian Campbell (vi avevo detto che lo avremmo incontrato di nuovo) che, bizzarrie del destino, soffiò il posto proprio ad Adrian Smith, da poco uscito dalla vergine di ferro. Dal 1977 l’unione è dunque la vera forza di questa band e non è venuta meno nemmeno quando il batterista perse il braccio sinistro in un tremendo incidente d’auto. Il gruppo a quell’epoca era sulla cresta dell’onda e negli USA rivaleggiava per popolarità addirittura con i Rolling Stones. Molti avrebbero sostituito il compagno menomato sacrificandolo in nome del successo, invece i Def Leppard si fermarono, assecondarono i desideri del loro amico di provare a tornare nella band e dopo poco meno di due anni… vinsero la scommessa! Con l’ausilio di una batteria elettronica Rick Allen imparò a sopperire con le gambe alle parti che non poteva più suonare con il braccio perduto e continuò il glorioso cammino insieme ai compagni. Storie così non si ascoltano tutti i giorni nel mondo della musica e proprio per questo è importante ricordarle.

Non è tutto. Sulla fine degli anni ottanta i Def Leppard, forti del loro Hysteria, erano il maggior successo commerciale del pianeta e surclassarono nomi del calibro di Bon Jovi e Guns’n’Roses. Fu proprio allora che il chitarrista Steve Clark ebbe bisogno di uno stop. L’essere finito in coma etilico con un tasso alcolemico pari al doppio di quello che uccise John “Bonzo” Bonham, mai abbastanza compianto batterista dei Led Zeppelin, lo costrinse a curare i suoi problemi di alcolismo. Altri avrebbero cercato un sostituto invece i Def Leppard, nonostante tutti gli impegni promozionali, live e in studio di registrazione, convinsero il compagno ad entrare in un programma di recupero garantendogli sei mesi di aspettativa. Un bel gesto che purtroppo si rivelò inutile perchè, proprio quando l’axeman avrebbe dovuto rientrare in formazione, venne stroncato da un mix accidentale di farmaci e alcol. Come vi ho accennato i Def Leppard hanno pagato a carissimo prezzo la loro fortuna.

Altrettanto non si può dire dei Whitesnake che di passerella in passerella hanno cavalcato l’onda di un successo travolgente praticamente dalla fine degli anni settanta fino ad oggi, se pur con qualche interruzione. C’è però una curiosità: la popolarità di queste due compagini inglesi ha percorso cammini opposti. Se infatti il “serpente bianco” ha conquistato fama e gloria in patria per poi rivolgere la propria attenzione oltreoceano, i Def Leppard hanno sfondato prima negli Stati Uniti per poi conquistare l’Inghilterra solo in un secondo momento. Pensate che il video del singolo Photograph, estratto dal terzo album Pyromania, aveva già scalzato addirittura Beat It di Michael Jackson come video più frequente nella rotazione di MTV, prima che la band riuscisse ad ottenere l’attenzione che meritava dal pubblico europeo. Parliamo di una platea che stava recependo da poco, ma con crescente interesse, il fenomeno hair metal americano. In questo movimento i Nostri non si sono mai identificati al contrario dei Whitesnake che vi si erano prontamente rivolti avendo già conquistato da tempo il mercato del vecchio continente. Per darvi un’idea della fama raggiunta dal serpente bianco considerate questo: nel 1983 la band di Coverdale fu headliner del leggendario Monsters of Rock, il più importante festival hard’n’heavy di fine millennio. Salire su quel palco era un onore a cui soltanto pochi potevano ambire e per loro non era nemmeno la prima volta!

Curiosamente entrambe le compagini nel tempo vennero accusate di aver modificato troppo il proprio sound pur di accontentare i gusti del pubblico americano. Ovviamente, e ora ci è facile capire perchè, questo avvenne in momenti diversi. Fatto sta che sia i Whitesnake che i Def Leppard ad un certo punto della loro carriera si ritrovarono prossimi a sonorità AOR più che all’hard rock degli esordi. In verità i Def Leppard vennero inizialmente inseriti nella corrente NWOBHM mentre i Whitesnake, che proprio in seguito a queste critiche arrivarono addirittura a ripudiare la stampa inglese, iniziarono la loro sfilata da lidi più classicamente rock blues. Poco male, l’evoluzione stilistica è nelle corde di questi artisti che, con una carriera quarantennale, non avrebbero comunque potuto rimanere ancorati troppo saldamente alle proprie radici. Resistettero però tutti alla seduzione delle nuove sonorità del movimento grunge, che ovviamente arrivò ad appannare il successo dei Def Leppard mentre non potè toccare il progetto Whitesnake, messo in pausa da Coverdale stesso per buona parte degli anni novanta. E parlando di stile va menzionata anche la sterzata stilistica del “serpente bianco” verso i lidi presidiati dai Led Zeppelin. Particolarmente evidenti sul finire degli anni novanta queste influenze portarono alla band altre critiche. Personalmente ritengo comunque questa vicinanza stilistica ampiamente giustificata dal seguente progetto portato avanti dall’istrionico frontman dei Whitesnake proprio con Jimmy Page, mitico chitarrista del “dirigibile”, che evidentemente non deve aver trovato nulla di strano o offensivo in quell’album.

Urge ora un breve confronto tra i frontman. La leggenda vuole che un giorno Joe Elliott, perdendo un autobus, si ritrovò a partecipare ad un’audizione come chitarrista. Non la superò ma fu subito evidente che sarebbe stata la persona giusta da mettere dietro il microfono degli… Atomic Mass. Fu proprio lui a suggerire successivamente di cambiare il nome della band in Deaf Leopard (il leopardo sordo) poi deliberatamente storpiato in Def Leppard. Del percorso che portò Dave Coverdale a fondare i Whitesnake vi ho già accennato quindi aggiungerò un piccolo aneddoto per testimoniare quale straordinario frontman sia. Durante un concerto a Milano si prese la briga di eseguire un classico del gruppo solo con la voce. Parcheggiò il resto della band, si sedette sul bordo del palco e, mentre stava già pensando che ne sarebbe venuta fuori una sbruffonata senza senso, riuscì ad incantare qualcosa come trentamila persone. E sì, nel pubblico c’ero anch’io e, credetemi, ho ancora la pelle d’oca a pensarci: rimanemmo tutti increduli e capaci solo di reggere un accendino acceso sopra la testa. Il concerto fu fantastico ma quel momento fu speciale e ci mostrò, non solo un navigato professionista, ma anche un uomo dalla straordinaria sensibilità.

Torniamo alla nostra gara: i nostri protagonisti si sono sfidati sulle passerelle di tutto il mondo e, come spesso capita alle top model, è stato uno scontro durissimo. Ovviamente c’erano altri gruppi a sfilare insieme a Whitesnake e Def Leppard nel panorama internazionale e tutti, con il loro sfrenato sex-appeal, mietevano consensi, cuori e dischi di platino con eguale disinvoltura. Di fatto i nostri sfidanti furono la risposta europea all’invasione di band a stelle e strisce. Tennero alto il nome dell’Inghilterra in un periodo in cui il rock parlava prevalentemente lo slang americano ed ebbero il grande merito di battersi ad armi pari con i colleghi d’oltreoceano vincendo anche diversi concorsi…un’impresa, oggi come allora, tutt’altro che facile. Dischi come Hysteria e Adrenalize valsero ai Def Leppard molte fasce celebrative a cui i Whitesnake risposero con Slide It In e soprattutto con l’album omonimo garantendosi ghirlande di fiori a profusione. Ma a chi diamo la corona e lo scettro? Le palette dei voti si sono alzate e noi possiamo prepararci ad aprire la busta col nome del vincitore.

Seppur meno vicini ai miei gusti personali la standing ovation di fine sfilata va tributata senz’altro ai Def Leppard. Non certo per aver saputo vendere più dischi, questi risultati a noi non interessano, ma per il grande esempio di lealtà e cameratismo dimostrato in un ambiente notoriamente disumanizzante come quello del music business, dove l’unica cosa che conta sono i numeri. Sicuramente non è facile nemmeno doversi accompagnare di volta in volta, sul palco o in studio, con musicisti diversi tant’è che, se misurassimo la bontà di una band pesando solo la caratura dei singoli componenti, probabilmente i Whitesnake vincerebbero a mani basse su chiunque. Va senz’altro ricordata anche la tenacia di Mr. Coverdale di ricominciare da capo e più volte, incurante dei diversi problemi alle corde vocali che ne hanno minacciato la carriera a più riprese costringendolo anche ad un calvario di operazioni chirurgiche. In questa sede vogliamo però premiare chi ha saputo raggiungere il tetto del mondo con il cuore, con la forza delle idee e, non ultimo, partendo da zero senza dimenticare mai il punto di partenza. Follow the Professor!

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05th Nov2018

Lampi di Gloria raccontati dal Prof. Garage: American Woman by The Guess Who

by Ottaviano Moraca

Prof Garage docente di storia del rockIl Prof. Garage è docente di Storia del Rock all’Università della Musica. Nella sua materia non sfoglia libri e non traduce lingue antiche ma sul suo furgoncino sgangherato ascolta la musica e i cuori di chi ha il Rock nel sangue. Durante i suoi studi di tanto in tanto si imbatte in brani stupendi, divenuti giustamente celeberrimi, i cui autori però, per un motivo o per l’altro, non godono più di altrettanta fama o sono stati addirittura dimenticati. E’ per soddisfare i più curiosi e sopperire a questa ingiustizia che il Prof. Garage ci guida attraverso la Storia del Rock seguendo questi… Lampi di Gloria.

Continuiamo la serie dedicata a brani rappresentativi di compagini ormai dimenticate di cui avevamo parlato già a questa pagina per chiarire un malinteso che spesso si sente anche sulle labbra dei più preparati maestri del rock. Rockofili e Rockofagi di ieri e di oggi ricordatevi che la celeberrima American Woman non è stata scritta da Lenny Kravitz e nemmeno dai The Who. Il primo ne ha registrato nel 1999 una bella cover caratterizzata da un tempo più lento e senza l’iconico assolo che, pare, avesse un sound troppo difficile da riprodurre. I secondi hanno un nome simile ma non uguale agli autori originali: i The Guess Who. Ed è proprio di loro che ci occuperemo oggi ma non prima aver chiarito un ulteriore malinteso. Successe nel 1970 in seguito alla pubblicazione dell’album American Woman. Il famoso verso “American woman, stay away from me” (trad. “donna americana stai lontana da me) venne interpretato da alcuni come un messaggio misogino mentre altri videro nel resto del testo un’aperta critica al militarismo americano in un periodo, occorre ricordarlo, in cui gli Stati Uniti erano impegnati nella Guerra del Vietnam. Tutto questo ovviamente non portò nulla di buono alla band che dovette a più riprese chiarire il vero messaggio del brano: i The Guess Who sono canadesi e preferivano le ragazze del loro Paese alle americane alle quali chiedevano appunto di…stare lontane! Tutto qui…potremmo stare per ore a discutere di gusti e di ragazze ma il Preside non approverebbe quindi è meglio tenere il discorso per quando saremo al bar davanti ad una bella birra gelata!

Torniamo invece al nostro pezzo storico. American Woman fu un successo immediato e conquistò la prima posizione nelle classifiche di molti paesi tanto al di qua quanto al di là dell’oceano. Nel tempo è stato votato addirittura come miglior singolo canadese di tutti i tempi ed è incredibile se consideriamo che è frutto di un’improvvisazione. E’ davvero una bella storia e devo proprio raccontarvela: il chitarrista Randy Bachman stava cambiando una corda rotta sul palco prima di un concerto e iniziò a suonare qualche accordo per verificare l’accordatura. Ne venne fuori un riff a cui si unì il resto della band e la fortuna volle che un ragazzo del pubblico stesse immortalando questa jam session spontanea con un registratore portatile. La band lo notò, chiese di poter avere il nastro e quella divenne la prima presa di una delle canzoni più popolari e di maggior successo che il rock canadese abbia mai sfornato! A volte è così (nella musica come in tante altre forme d’arte): non bisogna essere solo tanto bravi da scrivere un brano di successo, bisogna anche essere così svegli da riconoscere il valore del materiale che si ha per le mani. Bravi.

Vi avevo promesso di parlarvi dei The Guess Who ed è proprio giunto il momento. La prima cosa che oggi stupisce di questo gruppo è la durata della sua carriera. Il primo album è datato 1965 ma la prima formazione, seppur con un altro nome, risale addirittura al 1958. Partiti con un rock leggero, e confinato per lo più in patria, la band si è poi spostata verso territori più duri in occasione dell’album american Woman del 1970 per poi approdare a lidi più progressive e dall’impostazione jazzistica intorno al 1975, quando il gruppo si sciolse a causa delle divergenze artistiche che tanti cambi di rotta avevano portato. Solo due anni più tardi una formazione rimaneggiata rimise in pista il progetto che da allora non ha più subito arresti. Fino agli inizi degli anni ottanta la band ha continuato a produrre nuovi album di altalenante successo per poi dedicarsi quasi esclusivamente all’attività live. Non è mancata comunque la pubblicazione di materiale inedito tanto che è atteso proprio per il 2018 un loro nuovo disco. Ad oggi dunque i The Guess Who possono vantare una ventina di lavori in studio, una miriade di live e di raccolte disseminati in quasi sessant’anni di presenza sui palchi e sugli scaffali dei negozi di tutto il mondo. Ovviamente nel tempo molti componenti sono entrati e usciti dalla band ma è un piacere notare che la compagine attuale annovera ancora tra le sue file la sezione ritmica originale. Davvero mirabile!

Ecco insomma perchè, non solo dovrebbero essere apprezzati, ma anche perchè sia arrivato il momento di ricordarsi di un gruppo che per estrazione e carriera è da considerarsi per veri appassionati di rock d’annata nonchè per palati fini in grado di rivalutare una proposta e un sound particolarissimi. A chi non li conosceva affatto o a chi voglia mettere in pista un corposo ripasso consiglio di iniziare dagli album della prima metà degli anni settanta: Canned Wheat (1969), American Woman (1970), Share the Land (1970), Road Food (1974), Flavours (1974), Power in the Music (1975). Buon ascolto! Follow the Professor…

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22nd Ott2018

Lampi di Gloria raccontati dal Professor Garage: Eye Of The Tiger by Survivor

by Ottaviano Moraca

Prof-Garage-docente-di-storia-del-rockIl Prof. Garage è docente di Storia del Rock all’Università della Musica. Nella sua materia non sfoglia libri e non traduce lingue antiche ma sul suo furgoncino sgangherato ascolta la musica e i cuori di chi ha il Rock nel sangue. Durante i suoi studi di tanto in tanto si imbatte in brani stupendi, divenuti giustamente celeberrimi, i cui autori però, per un motivo o per l’altro, non godono più di altrettanta fama o sono stati addirittura dimenticati. E’ per soddisfare i più curiosi e sopperire a questa ingiustizia che il Prof. Garage ci guida attraverso la Storia del Rock seguendo questi… Lampi di Gloria.

Cari Rockofili e Rockofagi di ieri e di oggi, parlarvi di questi Lampi di Gloria ogni tanto è davvero strano! I Survivor per esempio sono una band che può vantare otto album, un live e un’infinità di compilation e per di più sono ufficialmente ancora in attività… eppure chi ancora li conosce se li ricorda ormai quasi esclusivamente per il singolo che ne ha decretato la fortuna. In quaranta anni (!) di carriera la band è riuscita a piazzare altri brani in zone importanti delle classifiche ma non ha mai più rivisto il successo toccato con Eye Of The Tiger. Certo, gran parte della notorietà di quel pezzo è derivato probabilmente dall’aver fatto parte della colonna sonora del film Rocky III ma da solo questo non basterebbe a giustificare il disco di platino, la presenza nelle classifiche di tutto il mondo, la permanenza al primo posto della Billboard statunitense per oltre un mese e mezzo o la rotazione quasi asfissiante sull’allora neonata MTV! Vale dunque la pena di lasciarci momentaneamente alle spalle il Mondo del Rock della scorsa puntata per spendere due parole su quello che, con ben nove milioni di copie, è diventato uno dei singoli più venduti di sempre.

Questa è la sua storia: voluto da Sylvester Stallone stesso, che non era riuscito ad accaparrarsi un brano dei Queen, Eye Of The Tiger venne commissionato ad un gruppo allora emergente e decisamente di buone speranze. Nel 1982 i Survivor avevano già pubblicato un paio di album discreti passando nel frattempo da un hard rock classicamente settantiano ad un AOR più modaiolo e di maggior respiro. Furono il gruppo giusto, al momento giusto e nel posto giusto e non mancarono il bersaglio. Il brano aveva il tiro e la grinta che ci volevano senza essere inutilmente cattivo. Sapeva esprimere rabbia e aggressività senza diventare pesante e anzi sapeva catturare l’ascoltatore trascinandone l’attenzione e gasandone l’umore con grandissimo mestiere. Epico e marziale il brano era coadiuvato da un testo che era un vero inno alla lotta in tutte le sue forme e che, rifuggendo qualsiasi forma di resa, faceva rimare alla perfezione Rocky e Rock. Il refrain evocativo e il riffing esaltante poi erano un tripudio di spavalderia ed essenzialità allo stesso tempo e mostrarono un clamoroso esempio di come si poteva essere tremendamente efficaci anche senza virtuosismi sperticati o esasperate complicazioni compositive. I ruggiti delle tigri aggiungevano poi la ciliegina sulla torta… ma solo nella versione cinematografica.

Il successo fu immediato e planetario…al punto che, spoiler alert, ripeterlo fu impossibile. Ad onor del vero i Nostri ci provarono sfornando anche lavori di caratura oggettivamente migliore che però non furono opportunamente promossi dalla loro casa discografica. Questo portò ai prevedibili dissapori, alle solite recriminazioni e infine all’inevitabile scioglimento. La band venne quindi parcheggiata ma i suoi membri continuarono a suonare tanto che ne seguì l’immancabile reunion… ovviamente con tutti i guai legali del caso. Questa però è storia vecchia e cose simili le abbiamo viste accadere mille volte, ben più importante è notare come il pubblico accolse il ritorno di una band che si presentava dopo due anni rimodernata da una nuova line-up. Andò bene…almeno all’inizio: cimentandosi là dove avevano già dimostrato di essere forti i Survivor presero parte alle colonne sonore di Karate Kid, Rocky IV, Driven e non di meno piazzarono in classifica diversi altri singoli allontanandosi però sempre più dai riflettori del mainstream e scivolando lentamente ma inesorabilmente nel dimenticatoio. Problemi di salute e noie legali portarono negli anni altri cambi di formazione, infatti è da almeno vent’anni che l’unico membro “superstite” della compagine originale è il chitarrista Frankie Sullivan. Vien da sorridere amaramente a definirlo così perché a quanto pare il nome del gruppo Survivor (sopravvissuto) deriva proprio dall’essere scampato ad una terribile tragedia! Le cronache riportano infatti che solo per puro caso non riuscì ad imbarcarsi insieme agli altri membri di una band, con cui avrebbe dovuto tenere un concerto, su un aereo che poi finì per schiantarsi. Ma torniamo alla nostra storia.

Dicevamo che la lunghissima carriera dei Nostri è costellata di brani più che pregevoli. Niente da recriminare quindi sulla produttività o sulle capacità della band il cui torto piuttosto, semmai ce ne sia stato uno, è stato forse quello di voler bissare a tutti i costi il successo di Eye Of The Tiger. D’altronde chi non lo avrebbe voluto?! Così facendo sono però caduti nella trappola di un immobilismo artistico che ne ha impedito l’evoluzione proprio in un periodo di grande fermento com’è stata la fine del millennio scorso e l’avvio del nuovo. Nuove tecnologie, nuove idee, nuove tendenze hanno attraversato il mondo del rock e chi non è stato in grado di cavalcare l’onda ne è rimasto inesorabilmente sommerso. I Nostri erano partiti con il piede giusto poi tra una causa legale, un problema di salute, una lite con la casa discografica, un cambio di formazione e chi più ne ha più ne metta, hanno raccolto molto meno di quello che avrebbero potuto, arrivando addirittura a non riuscire più a trovare un’etichetta disposta a sostenerli… ed è davvero un peccato perché nel vuoto che hanno lasciato si sono infilati nomi non sempre altrettanto meritevoli.

Ironicamente, “omen nomen”, i Survivor sono quindi diventati davvero dei sopravvissuti. Vestigia di un tempo glorioso in cui il rock si suonava in un altro modo. Forse non migliore e nemmeno peggiore, ma comunque diverso. Non per questo meritano di essere dimenticati, anzi, mi piace richiamare la vostra attenzione su un gruppo dall’integrità incrollabile che, gioco forza, oggi giorno può essere apprezzato maggiormente da chi ha qualche capello bianco sulla testa ma che ha comunque scritto alcune pagine preziose della Storia del Rock. Follow the Professor!

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08th Ott2018

Il mondo del Rock raccontato dal Prof. Garage: Il primo Gods Of Metal

by Ottaviano Moraca

Prof Garage docente di storia del rockIl Prof. Garage è docente di Storia del Rock all’Università della Musica ma nelle sue lezioni non si parla solo di arpeggi e controtempi o di assoli e groove. No, il Rock ormai e ben più di un genere musicale, è anche un’attitudine mentale e, per alcuni, persino uno stile di vita. Ecco perché il Prof. Garage, a bordo del suo furgoncino sgangherato, si aggira tra luoghi, eventi, aneddoti e soprattutto persone che in qualche modo hanno contribuito a creare la scena Rock come la conosciamo oggi. Salite a bordo e godetevi il viaggio.

Lasciamoci alle spalle i Lampi di Gloria a questo link della scorsa puntata ma continuiamo a parlare al passato perché oggi voglio raccontarvi una storia davvero eccezionale che chi c’era potrà sicuramente confermarvi. Torniamo indietro di oltre vent’anni. Correva l’anno 1997 e la scena metal italiana stava per subire un violento scossone, uno positivo per fortuna. Innanzitutto cerchiamo di inquadrare la situazione: i metallari venivano da un lungo periodo buio in cui, dai fasti degli anni ‘80 e dall’opulenza di band e album portata della NWOBHM e dalle neonate frange estreme del death, del thrash e del black, si era passati troppo improvvisamente ad un periodo di carestia senza precedenti. L’avvento del grunge aveva costretto molte band a chiudere i battenti e portato le altre a sperimentare con crossover non sempre memorabili. Il risultato fu che molti, pur di pogare, abbandonarono il chiodo per la camicia di flanella in una crisi d’identità che indebolì ancora di più un genere già in difficoltà. Nemmeno i big se la passavano tanto bene come dimostra la seguente ondata di split, anche piuttosto eclatanti, che investì il mainstream e che per lo meno servì a riempire le pagine delle riviste specializzate, neanche a dirlo, affogate a loro volta in lacrime amare. A queste separazioni seguiranno quasi altrettante reunion portando con sé un egual numero di impennate nelle vendite e quindi di risanamenti in conti dissestati, ma questa è un’altra storia.

Come molti già sanno il mercato discografico, o per meglio dire il music business, è spietato e, a livello mondiale, le metal band che sopravvissero arrivarono verso il nuovo millennio praticamente già attaccate alla canna del gas. In Italia naturalmente non andava affatto meglio e la pur florida scena underground soffriva per la mancanza di sbocchi concreti. Inaspettatamente però nel 1997, proprio in un contesto tanto drammatico, si erse come un faro nella notte un’iniziativa meravigliosa che infatti fu osannata e perdurerà, pur in varie incarnazioni, per molti anni a seguire. Rockofagi e Rockofili avreste dovuto esserci! Il Gods Of Metal era un festival come non si era mai visto nel nostro paese: solo e soltanto metal, band di grandissimo spessore, fruibilità ai massimi livelli, buona organizzazione e il tutto per di più a prezzi abbordabili. Non si poteva chiedere altro e improvvisamente il Monster Of Rock e il Wacken Open Air, leggendari festival d’oltralpe a cui solo pochi fortunati avventurieri italiani riuscivano a partecipare, pur vantando numeri e proporzioni molto maggiori non facevano più così tanta invidia.

Ne derivò un grandissimo fermento! Le band in programma, che più o meno erano già tutte in tour in Europa, guadagnarono subito un’enorme e insperata visibilità mentre l’attesa saliva a dismisura. Vi basti sapere che in quel periodo assistetti ad uno dei concerti più memorabili a cui sia mai stato (e sappiate che ne ho visti davvero tanti): Angra, Vanden Plas e gli italianissimi Time Machine diedero vita ad una performance entusiasmante proprio sull’onda dell’euforia che si respirava in quei giorni. Avete mai visto un concerto chiudersi con tre band di questo calibro fuse in un unico super gruppo da otto o dieci componenti che improvvisa per più di mezz’ora i classici del metal?! Ecco, ora avete la misura di quello di cui sto parlando! Ma torniamo alla nostra storia: le riviste di settore impazzirono letteralmente dividendosi tra le interviste ai protagonisti e le anticipazioni dei preparativi per quella che si preannunciava come la più grande festa del metal da molto tempo a quella parte. E lo fu davvero!

Sabato 7 giugno Eldritch e Time Machine tennero alto il nome dell’Italia aprendo di buon mattino una giornata che chi c’era non potrà dimenticare facilmente. I portoghesi Moonspell, che avevano da poco conquistato l’Europa con Irreligious e il suo accattivante mix di esoterismo, atmosfere mistiche e metal estremo, aprirono da par loro la parata dei big. Fu poi il turno di Grave Digger e Rage che, con show solidi e di sicuro effetto, portarono sul palco due grandissimi album: rispettivamente Tunes Of War e End Of All Days, pietre miliari della produzione teutonica che mi sento di consigliarvi anche oggi. Discorso a parte meritano i brasiliani Angra che in quel periodo avevano letteralmente incendiato il cuore degli appassionati venendo addirittura proclamati “i nuovi Iron Maiden”. Le cose andarono diversamente ma la preparazione tecnica del frontman Andre Matos surclassava comunque di diversi diplomi di conservatorio (pianoforte, canto lirico, composizione e direzione d’orchestra) i colleghi che lo avevano preceduto…e parliamo di gente del calibro di Fernando Ribeiro, Chris Boltendahl e Peavy Wagner, non so se mi spiego?! Tanto per farvi capire: in quel periodo il chitarrista degli Angra era Kiko Lureiro oggi in forze nei Megadeth di sua maestà Dave Mustaine! Ad ogni modo, virtuosismi a parte, il metal a tinte classiche con richiami alla musica brasiliana di Angels Cry e soprattutto di Holy Land non mancò di stupire e incantare il pubblico del Gods Of Metal che a questo punto aspettava solo gli headliner…gli immarcescibili re del metallo: i Manowar!

A quell’epoca Louder Than Hell era già negli scaffali dei negozi da un anno ma ne erano passati quattro dalla precedente apparizione discografica dei quattro difensori americani del metal quindi l’attesa era molto alta. Non erano mancate comunque le critiche e siccome il più feroce detrattore di quell’album fu proprio Andre Matos, la curiosità era tanta. Come se non bastasse la maggior parte dei fan doveva ancora verificare con i propri occhi la resa sul palco di Karl Logan, ultimo assunto in formazione, nonché riabbracciare il rientrante Scott Columbus…e le aspettative non vennero disilluse. Se volete una band che si faccia in quattro sul palco per rendere il vostro show veramente epocale la scelta più sicura sono certamente i Manowar. I Nostri non lesinarono energia, tecnicismi, sbruffonate, i classici di tutta una carriera o… decibel tanto che la stampa nei giorni successivi riportò il caso di una ragazza a cui gli alti volumi fecero scendere il sangue dal naso! Ci risparmiamo facili commenti maschilisti anche perché val la pena di ricordare che la band deteneva il record per il concerto più rumoroso mai tenuto al chiuso… al chiuso, proprio come la location milanese del Gods Of Metal 1997. Il Palavobis, così si chiamava allora quel palazzetto, vibrava così tanto che il sottoscritto vide con i suoi occhi quadri e poster staccarsi dalle pareti e rovinare a terra! E fu magnifico!

Nelle successive edizioni gli organizzatori pensarono bene di spostare la manifestazione all’aperto, poi di allestirci due palchi, poi di distribuirla su più giornate in un crescendo di successo e popolarità che sembrava inarrestabile. Non fu così. Scelte sbagliate e problemi economici ne comprometteranno il futuro ma per quindici anni il Gods Of Metal fu il concerto dei concerti per ogni defender degno di questo nome. Un giorno magari vi racconterò anche delle altre edizioni, di quando ho incontrato un famoso chitarrista perché era in fila davanti a me per un piatto di tortellini (anche i metallari mangiano), di quando una tromba d’aria ha letteralmente sventrato l’impianto luci del palco, dell’avventura a luci rosse ma non proprio privata di un membro dei Cradle of Filth o di quando ho dovuto tenere d’occhio un adolescente in mezzo ad una platea buia di trentamila metallari esaltati.

Per ora vi basti sapere che quella prima edizione durò qualcosa come quattordici ore e furono, pur con le inevitabili ingenuità (c’era poco o nulla da mangiare) e gli immancabili imprevisti (faceva così caldo che i muri grondavano condensa) memorabili e mostrarono a tutta l’Italia del metallo la luce in fondo ad un lungo tunnel buio! Follow the Professor!

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24th Set2018

Lampi di Gloria raccontati dal Prof. Garage: Born to Be Wild by Steppenwolf

by Ottaviano Moraca

Prof Garage docente di storia del rockIl Prof. Garage è docente di Storia del Rock all’Università della Musica. Nella sua materia non sfoglia libri e non traduce lingue antiche ma sul suo furgoncino sgangherato ascolta la musica e i cuori di chi ha il Rock nel sangue. Durante i suoi studi di tanto in tanto si imbatte in brani stupendi, divenuti giustamente celeberrimi, i cui autori però, per un motivo o per l’altro, non godono più di altrettanta fama o sono stati addirittura dimenticati. E’ per soddisfare i più curiosi e sopperire a questa ingiustizia che il Prof. Garage ci guida attraverso la Storia del Rock seguendo questi…Lampi di Gloria.

Rockofili e Rockofagi di ieri e di oggi dopo la ventata di novità della scorsa puntata disponibile a questa pagina e di nuovo tempo di un tuffo nel passato. Francamente però fa quasi impressione parlare di “lampo di gloria” per una band che, seppur in varie incarnazioni e con un certo numero di pause nel mezzo, può vantare più di dieci album e una carriera lunga quasi cinquant’anni. Di fatto la verità è che dopo un esordio fragoroso gli Steppenwolf hanno prematuramente imboccato il viale del tramonto in una discesa verso il dimenticatoio che solo la caparbietà di John Kay, leader fondatore del gruppo, ha saputo rallentare in qualche misura. Al giorno d’oggi è ancora possibile assistere a qualche loro concerto ma il progetto ha preso molto le distanze da quell’omonimo debutto che nel 1968 posò una pietra miliare nella storia del rock…e non solo. Già perché qualcuno ritiene che il più famoso singolo estratto da quel disco sia la prima canzone heavy metal mai registrata!

Born To Be Wild è quindi un pezzo storico che venne glorificato immediatamente entrando a far parte della colonna sonora del cult movie Easy Rider. Vi prego ditemi che lo conoscete… c’è ancora una domanda sulle motociclette di quel film nei test d’ingresso a questa Università, giusto?! Ad ogni modo, proprio al rombo di motori si riferiva il famoso verso che parla di “heavy metal thunder” (tuono di metallo pesante) e tanto bastò. Era la prima volta che le parole “heavy” e “metal” venivano accostate in un brano musicale, la ruvidità degli arrangiamenti e l’inconsueta (per l’epoca) potenza sonora fecero il resto e donarono al nostro brano il suo primato. Non fu comunque per questo che sfondò. Piuttosto furono le caratteristiche di rottura rispetto alla scena dell’epoca a mettere in luce una band che poco o nulla aveva da spartire con la maggior parte degli assai più morigerati colleghi. Dovete sapere infatti che gli Steppenwolf come pochi altri si ersero a bandiera delle contestazioni sessantottine garantendosi così il supporto di un’ampia platea che nella loro musica controcorrente e nel loro stile anticonvenzionale poteva trovare specchio della propria ribellione.

Come si suol dire “il resto è storia” e a quell’album seminale ne seguirono altri di sempre minore spessore che, pur posizionando qualche singolo in posizioni importanti delle classifiche, non riuscirono mai a bissare il successo dell’esordio. Poi arrivarono gli immancabili problemi di line-up, finché non rimase il solo Kay a tirare il carretto. Addirittura ad un certo punto uscirono con lo stesso monicker anche alcuni album senza il membro fondatore in una sorta di pasticcio legal-burocratico che sembra ordito apposta per disorientare i fan. Altresì, tanto per confondere ancora un po’ le acque, esistono diversi dischi della parallela carriera solista di Kay, durata diversi anni tra alti e bassi, oltre ovviamente ad un certo numero di live e raccolte.

Insomma ora avrete capito perché Born To Be Wild figura in questa rubrica, quello che ancora non sapete è che originariamente non fu nemmeno scritta dagli Steppenwolf ma da un certo Mars Bonfire, nome d’arte di un rocker canadese, che la compose per la band del fratello. Quel gruppo, i The Sparrows, poi cambiarono nome e sound optando per qualcosa di molto più aggressivo e nacquero gli Steppenwolf come tutto il mondo li conobbe. Visto il successo e i riconoscimenti che il singolo ha rastrellato nello scorso mezzo secolo, fossi in lui, io mi sarei mangiato le mani anche se, ad onor del vero, la paternità del pezzo non è mai stata messa in discussione.

Torniamo al nostro brano. Per avere un’idea dell’influenza che ha avuto sulla storia del rock basta considerare quanti gruppi ne hanno registrato una cover: dai Blue Öyster Cult ai The Cult, dagli INXS a Ozzy, da Joe Lynn Turner agli Slayer oltre ad almeno un’altra dozzina di nomi di estrazioni e generi anche molto differenti. Tutto questo per non parlare dell’essere diventato l’inno di milioni di biker che scorrazzano in tutto il mondo sulle loro motociclette tonanti metallo pesante al coro di “Born To Be Wild…”. E come biasimarli: è innegabile che sia un gran pezzo e che con la sua carica esagerata ancora oggi e come pochi altri faccia desiderare grandi spazi liberi e una vita senza restrizioni. Non mi credete? Entrate in autostrada e alzate l’autoradio a manetta… poi mi direte! Follow the Professor

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22nd Set2018

La questione Firenze Rocks e Ed Sheeran vs pubblico

by Marcello Zinno

Firenze Rocks Ed SheeranOrmai la notizia la conoscete tutti: gli organizzatori del Firenze Rocks hanno annunciato Ed Sheeran quale uno degli headliner per l’edizione 2019. Come l’ha presa il pubblico? Abbiamo seguito il fenomeno sui social e abbiamo riscontrato tre tipologie principali di reazioni che potremo definire in qualche modo tre gruppi diversi di hater. Il primo gruppo si è scagliato subito contro il Firenze Rocks tacciando la manifestazione di infedeltà nei confronti del vero rock; ci sono due cose che fanno incazzare questo gruppo (diciamo più intollerante): innanzitutto che Ed Sheeran è un artista mainstream, il secondo è il suo forte legame al mondo del pop. Poi c’è un altro gruppo di hater (perché anche loro sono catalogabili come hater) che si è scagliato contro il primo, definendolo uno stormo di intolleranti e manifestando tutto lo stupore verso una scelta, quella del Firenze Rocks, che non è poi così strana. Hanno scritto che è per colpa di teste ottuse come quelle di chi ha criticato il Firenze Rocks che in Italia non arriverà mai la musica di qualità… “vi meritate questo…” e affermazioni del genere. Poi c’è un terzo gruppo più morigerato che ci ha scherzato su creando dei meme fasulli in cui si presentavano delle fantomatiche locandine del Firenze Rocks con headliner Gigi D’alessio, Biagio Antonacci et similia, il tutto lercio-style.

Adesso, a parere di chi scrive, sarebbe da populisti dire che hanno ragione tutti e che il mondo è bello perché è vario. La verità, secondo noi, è che se crei una manifestazione rock, che negli anni ha coinvolto Guns N’Roses, Pearl Jam, Iron Maiden e che si è collocata verso un certo tipo di suoni e di target musicale, quando fai una scelta diametralmente opposta ti giochi tutto. Potrai avere tutte le motivazioni di questo mondo (vendere più biglietti ad esempio) ma finirai per scontentate molti e per ridicolizzarti. Faccio un esempio: se un organizzatore qualsiasi creasse il “Milano Jazz Festival” e come headliner annunciasse i Napalm Death sarebbe, nella migliore delle ipotesi, deriso. Nella peggiore farebbe un flop enorme perché il nome della rassegna avvicinerà un pubblico che non conosce o non ama i Napalm Death e il metallaro medio non sentirà di voler seguire al 100% quell’iniziativa. Quindi perché soprassedere sul caso del Firenze Rocks, che incluse la parola rock?! In altri termini fare i finti “open minded” accusando gli altri di essere ottusi ma sapere già dentro di sé che quel biglietto non lo compreranno mai.

Il punto centrale della discussione è questo: ormai in Italia il termine “rock” viene usato troppo impropriamente. Quando ascolti grunge o post-grunge si dice che ami il rock, quando uno si veste di nero o ama i colori scuri viene confuso per un “rockettaro” (anche se magari ascolta tutt’altro), esistono radio che dicono che la cultura rock passa anche per l’abbigliamento e per il life-style e addirittura alcune webzine che si chiamano “rockqualcosa” recensiscono l’ultimo album di Gue Pequegno o quello di artisti pop che non hanno nulla da spartire con il rock e con la sua mentalità. In un scenario come questo il termine “rock” è diventato generalista. Per molti ha un significato talmente tanto esteso da farlo arrivare a inglobare anche Ed Sheeran.

Secondo noi questa visione non è quella giusta. Il rock, inteso in senso stretto, non è mai morto ed è giusto che riconquisti la propria identità. Il rock non è nato per piacere a tutti anzi è da sempre un simbolo concreto di rottura. Uno dei motivi per cui nacque RockGarage 7 anni fa è proprio quello di contribuire a fare in modo che il rock riacquisti questo valore. Ma in fondo è probabile che al Firenze Rocks e al suo organizzatore non gliene freghi nulla di tutto ciò…l’ipotesi è che abbiano voluto solo far parlare di sé. In questo, nel bene o nel male, ci sono riusciti ed è il motivo per cui tutti sapete che Ed Sheeran verrà in Italia. Noi, di certo, non ci saremo.

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10th Set2018

Special Guest del Rock raccontati dal Prof. Garage: Dirty Thrills

by Ottaviano Moraca

Prof Garage docente di storia del rockIl Prof. Garage è docente di Storia del Rock all’Università della Musica. Nel suo infinito peregrinare tra concerti e festival di tanto in tanto invita per una chiacchierata sul suo furgoncino sgangherato band di ogni tipo, grandi e piccole, famose ed emergenti, alcune davvero troppo valide per essere trascurate. Per ora questi gruppi possono soltanto aspirare allo status di Leggenda del Rock ma sono comunque “osservati speciali”, ospiti del Prof. Garage che, sempre attento alle nuove tendenze, all’originalità e all’innovazione vi parla di quelli che oggi sono Special Guest nella Storia del Rock.

Cari Rockofili e Rockofagi di ieri e di oggi, in questa puntata voglio parlarvi di una band nuova. Due i motivi: prima di tutto perchè i Dirty Thrills sono stati davvero gli special guest di un concerto a cui ho assistito di recente. Secondo: perché se lo meritano davvero e sono pronto a scommettere tutti i gessetti della mia lavagna che hanno sotto i piedi una lunga strada lastricata di gloria tutta da percorrere. Tra l’altro hanno già suonato in grandi arene e aperto per gruppi del calibro di Europe e Skid Row…guarda caso tutta gente di cui si è già parlato in queste stesse pagine.

Ora bando alle ciance e veniamo alle presentazioni. Dopo avervi parlato a questa pagina nell’ultima sfida di due vecchi leoni ancora ruggenti e dai denti molto ben affilati, mi è parso giusto dare spazio ai giovani e i Dirty Thrills lo sono davvero. Due album e tre EP, in una carriera iniziata quasi per scherzo appena cinque anni fa, sono già un bel bottino per questo quartetto londinese. Dediti ad un rock’n’roll verace e sanguigno i Nostri hanno saputo da subito smentire quell’aria da fighette snob che le foto d’ordinanza lascerebbero sospettare. In verità la band è solidamente strutturata tanto su sudore e fatica che su tecnica e carisma come solo i bei gruppi di un tempo sapevano essere. E’ ai ruggenti anni settanta infatti che i Dirty Thrills si ispirano per il loro rock venato di blues e di riffettoni orecchiabili e trascinanti. Ciò non di meno sono figli del loro tempo quindi il sound non puzza di muffa, i brani non stonano se passati alla radio e i video si meritano ampiamente la rotazione su Mtv.

Come le band a cui si rifanno anche i Nostri si sono fatti le ossa calcando palchi e sudando note davanti al proprio pubblico e infatti sono dei veri animali da palcoscenico. Quando possono guardare i fan negli occhi sanno sfoderare un’insospettabile energia e coinvolgere la platea con show degni di nomi assai più blasonati. Qualcuno ha detto che suonano sempre come se fossero gli headliner di un grande festival e non potrei essere più d’accordo. Ed è proprio così che dovrebbe essere…quei gruppi apatici che salgono sul palco come se svolgessero un compitino e che suonano come se mi facessero un favore mi fanno così incazzare che gli tirerei il cancellino! Avrete capito che per fortuna i Dirty Thrills sono di tutt’altra pasta…quella giusta!

Si è scritto tanto sul fatto che il cantante, Louis James, sia figlio d’arte. Suo padre era un bluesman negli anni sessanta ma a me pare irrilevante. Molto più importante mi sembra l’amalgama che si è formata con Jack Fawdry, chitarrista di squisito gusto melodico e ottima tecnica, e con una sezione ritmica tutta ruvida grinta che vede Steve Corrigan dietro le pelli e Aaron Plows al basso. Quest’ultimo ha un po’ quell’aria stralunata che lo fa sembrare sempre, come si suol dire, “appena caduto dal pero” ma è solo un’impressione. Avendo avuto la fortuna di scambiarci due parole vi garantisco che non solo è terribilmente presente a se stesso ma è anche di un’energia e di una simpatia dirompenti…e chiassose! Non ho incontrato gli altri di persona ma posso dirvi per certo che non hanno ancora perso quel carattere gioviale e quella disponibilità che prima o dopo il successo sa strappare anche dall’animo del rocker più umile. A loro ancora non è accaduto e speriamo che non capiti mai perché vedere dei ragazzi così sinceri, appassionati e genuini nonostante il loro monicker abbia già una dimensione internazionale francamente fa davvero piacere.

Torniamo però ancora sulla loro musica, che in fondo è quello che ci interessa. Hard rock con ampie concessioni al blues, grande grinta nei pezzi tirati, squisita delicatezza nei brani più cadenzati, raffinato senso melodico, tecnica quanto basta e anche di più, graffianti arrangiamenti che hanno il profumo del live anche su CD…cosa manca? Gli ingredienti effettivamente sono quelli giusti, altrimenti non ne parleremmo in questa rubrica, e non manca nemmeno quella firma che rende ogni brano riconoscibile come parte della discografia dei Dirty Thrills ma io per la lode chiederei un pizzico di originalità in più. La personalità c’è, perché bisogna averne per affrontare Led Zeppelin, Deep Purple e compagnia bella sul loro campo, persino a distanza di molti anni. Ora è necessario che la lezione di questi grandi maestri venga trasformata in qualcosa di veramente unico. Questo è il bersaglio grosso e non chiederei tanto se non credessi veramente che questi ragazzi possano centrarlo in pieno. Ci vuole tempo, lo so, ma classe e qualità non mancano quindi basterà aspettare il momento giusto che, credetemi, non è lontano. Intanto possiamo goderci il loro attuale contributo alla scena Rock…ed è già tanta roba.

Insomma i Nostri stanno facendo tutto nel modo giusto e infatti hanno già vinto numerose battaglie. A questo punto la guerra possono soltanto perderla loro ma intanto io segno un appunto sul mio registro perché conto di seguirli ancora per molto, molto tempo…e consiglio anche a voi di fare lo stesso. Follow the Professor!

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05th Set2018

Quando il rock divenne polvere di stelle Parte 3

by Raffaele Astore

Quando il rock divenne polvere di stelle Parte 3Ha attraversato tutte (o quasi) le epoche del rock, ne è stato un’icona incontrastata, è stato dandy, trasformista, ambiguo, e quella strada di Londra che ne richiama i grandi momenti musicali è la copertina di uno dei suoi capolavori. Io ci sono stato in quella strada (potete sbirciare il mio profilo facebook) e come me ci sono stati tanti altri per vivere l’emozione di un momento che è diventato storia, sì, storia del rock. Come si fa ad andare a Londra e non recarsi lungo la Regent Street, tra Piccadilly Circus ed Oxford Circus, per poi accedere in Heddon Street dove una targa nera ricorda che proprio lì David Bowie, convinto dal fotografo Brian Ward, era sceso in strada per alcune pose fotografiche, nonostante il freddo pungente, che avrebbero poi dato corpo alla copertina di uno dei più grandi album di tutti i tempi, The Rise And Fall Of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars. E se è vero come è vero che Bowie è stato il padrino di tanti movimenti, tra i quali il glam, la sua metamorfosi artistica lo porta a creare quella rockstar caduta sulla terra venuta a sconvolgere decenni di musica rock, e non solo quella. Ed è proprio Bowie a fare con questo lavoro il suo ingresso alla corte dei Tirannosaurus Rex, anzi di Marc Bolan, già a quel tempo stella del firmamento glam.

Bowie infatti era già stato artista di spalla dei T. Rex durante la tournée del 1969 e fu proprio lì che maturò la sua teatralità ed il suo poliedrico essere del futuro. Ziggy Stardust è il personaggio inventato per annunciare il declino dell’occidente, ed è per questo, tra ispirazione artistica e le ferree regole di mercato, che Bowie diventa Ziggy proiettandosi verso le più alte vette del rock. Infatti, solo un’artista così poliedrico e mutevole come Bowie poteva passare da The Man Who Sold The World a Life On Mars per diventare lo Ziggy alieno ed umano allo stesso tempo, ultima, forse, vera rockstar di un mondo destinato ad essere distrutto. In undici pezzi Bowie si muove come in un racconto alieno, i brani che lo compongono sono vere e proprie perle di un’intensità assoluta e la musica varia con passaggi che vanno dal proto punk al rock più che melodico, malinconico. Ed è qui che esplode tutto ciò che Bowie sarà e diventerà per il rock del futuro. Prendete ad esempio Velvet Goldmine, il film che diventerà il vero e proprio manifesto del glam, la descrizione della Swimnging London dove l’arrivo di colui che raccoglierà lo scettro del rock verrà visto come la comparsa sulla terra di chi si reincarnò nel nuovo Wilde.

E se Bolan è stato il padre del glam rock, Bowie né è stato il principe incontrastato ed unico, colui che è stato in grado di attraversare epoche differenti rappresentandole con la maestria che fu di Lindsay Kemp, recentemente scomparso, che ha insegnato molto allo stesso Bowie e ad altri grandi del rock. Ma già l’anno prima, nel 1971, Bowie pubblica Hunky Dory, vero e proprio manifesto del glam che unisce folk rock degli albori insieme alla decadenza velvettiana per un mix di rock piacevole con pezzi che faranno epoca come Changes ed in particolare Life Of Mars? perla dell’uomo che cadde sulla terra. L’album è la parodia dei miti della società consumistica e diventa da subito un vero capolavoro per la sua poliedricità musicale che spazia tra glam rock ed altri stili che saranno, in futuro, più consoni allo stesso Bowie. L’aria che si respira qui è fatta anche delle influenze bolaniane che Bowie dimostrerà sempre di avere a cuore. The Rise And Fall Of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars è un concept senza fronzoli, senza se e senza ma, è un capolavoro assoluto, uno dei tanti apici che Bowie ha voluto lasciare su questa terra e non come l’alieno venuto tra noi, ma l’uomo caduto sulla terra a creare scompiglio nella musica…e non solo in quella. “Come Bolan – scrive Simon Reynolds – anche Bowie si lasciò travolgere dal mod, movimento incentrato sull’immagine al quale sia Bolan che Bowie, aggiunsero quell’androginia che conquistò i vari manager dell’epoca.

Già, basti ciò a farci pensare ad un certo Lou Reed che in uno dei suoi pezzi del periodo, I’ll Be Your Mirror, cantato dalla musa di Warhol, Nico, ispirò in quel periodo lo stesso Bowie a scrivere The Mirror per un adattamento televisivo di Pierrot in Turquoise. Vite che si intrecciano, insomma, nella musica come in altre cose…ma se dovessimo dare una definitiva catalogazione a questa produzione bowiana, l’album potrebbe essere decifrato in “ascesa e caduta di polvere di stelle” che è di certo uno dei massimi livelli di espressione del glam rock dove la musica è anche travestimento, dove tutto sembra dare avvio ad una vera e propria influenza artistica che sfocerà in pezzi a dir poco unici nel loro genere. The Rise And Fall Of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars è un disco storico, assolutamente imperdibile, leggendario quasi come lo sono stati molti altri lavori del miglior Bowie. Inoltre il disco è un prodotto dell’ansia che si viveva in quel periodo dettate da emergenze di diversi generi, dell’apocalisse, della cultura del pessimismo. Ma per Bowie, la fine non era imminente anzi, la prospettava come l’arrivo degli “infiniti”, degli uomini caduti per caso sulla terra a dettare un nuovo modo di concepire la vita. Ecco perché The Rise And Fall Of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars è un vero e proprio manifesto dell’epoca così come Ziggy Stardust, la title track di questo disco, è davvero un classico, una musica mai ascoltata prima di allora, piena delle influenze del periodo dove glam fa rima con rock, teatro, mimica, travestimento, ambiguità.

Ma sarà anche un esempio che in molti seguiranno…lo capiremo leggendo le recensione dei dischi più importanti di alcune delle band che il glam lo hanno plasmato con il rock: T. Rex, Slade, New York Dolls, Ian Hunter, Roxy Music e così via. Seguiteci, non ve ne pentirete.

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29th Ago2018

Quando il rock divenne polvere di stelle Parte 2

by Raffaele Astore

Marc Bolan T.RexGli ultimi vagiti della Summer Of Love erano ormai un lontano ricordo sostituiti da quel nuovo modo di concepire musica che affondava le proprie radici in un rock sempre più elaborato. I variopinti volti dei giovani hippies erano ormai passato eppure il rock stentava molto a darsi una nuova veste se non fosse che sulla scena erano arrivati gente come Marc Bolan, David Bowie e tanti altri. E questi ultimi arrivati, a differenza dei primi, non erano fulgidi sognatori come i figli dei fiori anzi, erano proprio loro a voler fuggire da quel mondo concependo un modo diverso anche nell’affrontarlo. E’ probabile che la genesi di tale movimento, come lo fu quello del glam rock, abbia pescato a piene mani negli stili musicali di personaggi come Chuck Berry e Little Richard che sono stati da sempre definiti gli artisti capaci di mettere lo speed nella musica di quell’Elvis considerato da sempre l’incontrastato re del rock’n’roll. E sono stati proprio questi musicisti che hanno spinto il rock fino all’inizio degli anni ’70 facendogli assumere connotati ben diversi da quelli prediletti dai figli dei fiori. Gli anni ’70 legati indissolubilmente allo scoppio di un ’68 che aveva aperto i cancelli alle contestazioni del sistema da parte di tanti giovani che proprio nel glam si ritrovavano anche come cultura sovversiva dove, alla base di tutto, c’erano il travestimento, i lustrini, ed appunto, il rock.

Ed è proprio in questo clima che si proietta il nome di Marc Bolan che aveva dato avvio alla propria comparsa sulla scena nel periodo di quel Donovan artista inglese che si contrapponeva al menestrello statunitense Dylan. E l’importanza di Bolan per tutto il movimento che di lì a breve avrebbe assunto il nome di glam, si concretizzò sin da subito portandolo a produrre lavori di inestimabile valore sia musicale che politico perché furono anche uno schiaffo alla bigotta società inglese. Marc Bolan è l’artefice traghettatore di tutto quel rock immaginario della generazione sessanta alla efficacia di quello anni settanta, lui è il primo ad indossare lustrini e piume ed a giocare con l’identità anche sessuale, ambiguità che sarà trasferita in tutto quel glamour rock del periodo e che vedrà altri artisti seguirne le tracce, da Bowie a Lou Reed, dai Kiss, agli Slade e così via. Ed è così che quando nel 1971 arriva Electric Warrior, subito dopo T.Rex del 1970, tutto si ufficializza, tutto prende forma e diventa un mostro musicale mai estintosi completamente e che porta il nome di Tyrannosaurus Rex. Balzato al numero 1 delle classifiche inglesi, Bolan diventa l’idolo dei teenager dell’intero pianeta, così come lo diventa il suo modo di suonare che non ha nulla a che vedere con la sacralità di mostri quali Hendrix o Clapton, perché dimostra tutta la sua semplicità nella composizione delle musiche che diventano ben presto veri e propri inni e portando definitivamente Bolan ed i T.Rex a staccarsi dagli stili degli esordi che pure avevano mostrato buone cose.

Electric Warrior è una svolta definitiva per tutta la musica, non solo per il boogie o il glam, lì c’è tutta l’essenza di un rock con il quale è facile giocare pur realizzando ottimi pezzi che entreranno a far parte della storia. Ed il personaggio Bolan decolla e sfonda grazie anche ad un certo Bowie che con lui crea una sorta di dualismo con quelli che erano considerati, all’epoca, miti incontrastati come Beatles e Rolling Stones. Ma qui c’era di più che semplice musica, qui c’erano tutti gli ingredienti di un nuovo modo di essere, un modo al quale altri artisti di lì a breve si sarebbero ispirati e tra questi non vanno dimenticati gli Who con le loro opere rock, Rod Stewart o lo stesso Elton John anche se nessuno di loro ebbe il successo di vendita di singoli che Bolan aggiunse uno dopo l’altro alla sua carriera. Eppure, in questo disco che con il titolo ci fa pensare a quella sorta di elettricità guerraiola, si può dire che ci sia tutto tranne che quella elettricità che Bolan riverserà nei lavori successivi. Electric Warrior è un disco unico, fuori di testa, leggendario quanto basta a proiettare la band nell’olimpo del rock nonostante un personaggio, quale è lo stesso Bolan che sembra essere completamente fuori dal mondo perché riesce allo stesso tempo a far divertire il proprio pubblico oltre che a farlo sognare. E questo è anche il disco che anticipò di gran lunga la discesa sulla terra del marziano Bowie che nonostante si dichiarasse apertamente amico di Marc, ne soffriva intimamente per quelle innate capacità di dare tanto alla musica, alle parole, ed allo stesso “apparire in scena”, il marchio indelebile che indissolubilmente se ne andò via con la morte di Bolan avvenuta a causa di un incidente stradale.

Ma c’è anche una cosa importante da non sottovalutare storicamente: Electric Warrior è quasi il de profundis delle sonorità hippie; qui la chitarra elettrica di Bolan è davvero protagonista in tutti i sensi come lo è la chitarra acustica che si intrufola tra i solchi di un disco che nessuno può permettersi di non ascoltare. Come si fa a non pensare a classici quali Cosmic Dancer dove colpisce il bell’arrangiamento tra corde e corno, o Jeepster o la bella Mambo Sun con quella voce tipicamente bolaniana. Non vogliamo qui procedere a recensire questo disco del quale magari ce ne occuperemo più in là, ma mantenendoci su questo racconto che abbiamo voluto tracciare, Quando il rock divenne polvere di stelle – Parte 2, non possiamo non spingerci oltre affermando che Electric Warrior è quasi il manifesto del glam rock, l’album che ha ispirato di fatto tutto il movimento che in lui si è incarnato, comprese alcune di quelle band che giungeranno nel decennio successivo come addirittura gli Oasis che si sono ispirati proprio ad Electric Warrior per alcuni dei loro lavori. Allora che il glam sia con voi…Oasis a parte.

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