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16th Nov2011

Garden Wall – Assurdo

by Marcello Zinno

Finalmente l’avant-garde appare nelle scelte compositive di band nostrane. Una lacuna che ci portiamo avanti da un pò, come se fossimo solo il popolo delle canzonette e non avessimo artisti in grado di Sperimentare, con la “S” maiuscola. Vero è che avant-garde non sembra una definizione allineata al biglietto da visita dei Garden Wall che si presenta come “avant math prog ethnic metal band”, ma all’ascolto di questi dieci brani ci sembra il contenitore che meglio rappresenta le diverse sfumature che questi cinque musicisti sono in grado di originare. E vero è, inoltre, che dietro agli originatori di queste musicalità aspre e talvolta innaturali compare in vese di promotore anche Claudio Milano, a noi già noto e già cantante dei Nichelodeon, conoscuti per il loro approccio musicale anticonvenzionale molto dedito al teatro sperimentale.

Dopo una piacevolmente indefinibile Iperbole, da questo Assurdo ci travia una Butterfly Song che anch’essa pesca da diverse fonti: i primi Sadist per le atmosfere, il progressive rock che timido fuoriesce a sprazzi ed i fraseggi di chitarra, caratteristica spesso presente (seppur originata da strumenti vari) come manifestazione di eccentricità per un’uscita che tutto vuole essere tranne che vicina al jazz/fusion et similia. Nonostante tutto ciò il brano sembra di una spanna sotto rispetto alla successiva Trasfiguratofunky, traccia che è in grado di originare sonorità capaci di far a cazzotti tra di loro (voce, chitarra con wah wah, basso in ovvio stile funky, tempi dispari di batteria) e che nel complesso appaiono un urlo piacevole di un folle di mente. Non esistono delle vere e proprie linee vocali mentre il mood trascinante, lento e lacinante ci ricorda i tempi in cui i Meshuggah si divertivano a sottovalutare la batteria e rendere quasi psichedelico il proprio sound (chi ricorda Catch 33??); quello che resta è il ritmo, aspetto non proprio insito nell’anima dei Garden Wall ma che talvolta fuoriesce intrinsecamente come secca espressione delle capacità tecniche (e non solo) dei musicisti.

Alcuni passaggi risultano poco musicali (ad esempio Negative), segno di una proposta che vuole andare oltre il concetto stesso di insieme di brani ed avvicinarsi più alla realizzazione artistica ed unica in quanto tale (molte parti risulterebbero anche di difficile replicabilità in sede live). Restano le domande dinanzi ad alcune scelte compositive, con la stessa intensità con cui ci si avvicinerebbe ad un quadro di un artista neorealista sconosciuto, ma ancor più forte è il difficile senso (per alcuni versi anche piacevole) di digeribilità della proposta dei Garden Wall, lontana dai canoni discografici, distante anni luce da quanto i mass-media ci possano aver mai abituato. Clamores Horrendos Ad Sidera Tollit è un altro passaggio piacevole di schizzofrenia dove la frase “Essere o non essere…nè l’uno nè l’altro” rende giustizia ad un voler inquadrare qualcosa che sfugge come un’anguilla di minuto in minuto e cambia colore come un serpente che cerca di mimetizzarsi in un campo dai colori arcobaleno. Interessante Vacuum Fluctuation che si concentra di più sulla musica e sui tanti arrangiamenti (dai violini alle scene orientaleggianti) facendo scorrere più agevolmente i suoi otto minuti, mentre Re-Awakening risulta un incontro di boxe tra techno death metal ed ambient.

A volte ci si aspetta dagli artisti più originalità. Il vero problema di Assurdo, se problema può essere considerato, è che di originalità ce n’è anche troppa. Un male o un bene? A voi la risposta.

Autore: Garden Wall Titolo Album: Assurdo
Anno: 2011 Casa Discografica: Lizard Records
Genere musicale: Avant-garde Voto: 6,5
Tipo: CD Sito web: http://www.gardenwallband.com
Membri band:

Alessandro Seravalle – heart-felt emissions, electronics, keyboards, poems & guitars

Raffaello Indri – lead and various guitars

William Toson – fretted and fretless bass guitars

Ivan Moni Bidin – drums

Gianpietro Seravalle – electropercussions

Tracklist:

  1. Iperbole
  2. Butterfly Song
  3. Trasfiguratofunky
  4. Negative
  5. Just Cannot Forget
  6. Flash (Short-Lived Neorealism)
  7. Clamores Horrendus Ad Sidera Tollit
  8. Vacuum Fluctuation
  9. Re-Awakening
  10. Isterectomia
Category : Recensioni
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15th Nov2011

Kiss – Love Gun

by Gianluca Scala

Ed eccoci qui a parlare del sesto capitolo targato Kiss, Love Gun! I Kiss sfornarono un altro disco impeccabile, premiato dalle vendite ma anche dalla critica che per la prima volta riconobbe al gruppo di essere qualcosa di più che un semplice fenomeno temporaneo, mentre si allungava la fila dei fan che giuravano di aver visto o fotografato il vero volto dei loro idoli (un giornale ai tempi mise una taglia scrivendo che avrebbe premiato chi fosse riuscito in tale impresa). Fu il secondo album della loro carriera a vincere il disco di platino e fu anche l’ultimo album in cui suonarono i quattro componenti in tutte le canzoni (già a partire da Alive II si avrà alla chitarra solista Bob Kulick a sostituzione di Frehley in 4 dei 5 brani inediti, così come Anton Fig prenderà il posto di Criss dietro i tamburi in quasi tutti i brani dell’album Dynasty; ma di questo parleremo più avanti).

L’album si apre con l’intensa I Stole Your Love, brano dall’armonia molto dura, e prosegue con Christine Sixteen, aperto da un ritmato passaggio di pianoforte. Shock Me è la prima canzone cantata da Ace Frehley ed è caratterizzata da un ritornello di facile presa e molto orecchiabile. Quando si arriva a Tomorrow And Tonight non si può fare altro che cominciare a cantare con Paul Stanley il chorus e ballare insieme a lui, questo è un brano carico di adrenalina così come lo è la title track, l’episodio più hard rock di tutto il disco e che a lungo andare ha avuto più successo. Tra gli altri brani c’è da segnalare una bella cover di Then He Kissed Me delle Crystal, una girl band degli anni ‘70, il cui brano venne di conseguenza rinominato in Then She Kissed Me. Una curiosità da menzionare è anche il fatto che la canzone Plaster Caster (dedicata all’artista Cynthia Plaster Caster) fu ispirata dal fatto che lei fosse una ex groupie nota per l’abitudine di creare dei calchi di gesso degli organi genitali di alcuni musicisti rock.

Love Gun lo si potrebbe considerare quindi un disco che per i Kiss fu di transizione, perché come descritto sopra oltre ad essere stato un buon successo commerciale, fu da apri pista verso una serie di cambi di line up, elemento frequente nel futuro della band. Non un disco da sottovalutare comunque perché aveva tutte le carte in regola per fare bene sia in classifica che in fatto di qualità sonora, ed è comunque tuttora uno degli album più amati di sempre dai fans.

Autore: Kiss Titolo Album: Love Gun
Anno: 1977 Casa Discografica: Casa Blanca Records
Genere musicale: Hard Rock Voto: 7
Tipo: CD Sito web: http://www.kissonline.com
Membri band:

Paul Stanley – voce e chitarra

Gene Simmons – voce e basso

Ace Frehley – chitarra (voce in Shock Me)

Peter Criss – batteria (voce in Hooligan)

Tracklist:

  1. I Stole Your Love
  2. Christine Sixteen
  3. Got Love For Sale
  4. Shock Me
  5. Tomorrow And Tonight
  6. Love Gun
  7. Hooligan
  8. Almost Human
  9. Plaster Caster
  10. Then She Kissed Me
Category : Recensioni
Tags : Album del passato, KISS
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15th Nov2011

Genesis – Selling England By The Pound

by Amleto Gramegna

“Can you tell me where my country lies???” Piange l’Unifauno in un dialogo con la Regina dei Forse “Vendendo l’Inghilterra a peso”…cerchiamo di capire di cosa si parla e chi sono questi due personaggi. Dunque siamo nel ’73 e facciamo un salto indietro in quel periodo: in Italia si parla di “Austerity”, non abbiam petrolio, tiriam la cinghia e andiamo a piedi. I dischi si vendono come 33 e come 45 giri. In vetta alle hit parade del periodo abbiamo Crocodile Rock di Elton John (seguito da Pazza Idea della Pravo…strana classifica) e tra gli LP troviamo al quarto posto i Genesis con Selling England By The Pound.. un momento i Genesis?!? In Italia? Chiederete voi? Ebbene sì in Italia…bel periodo i ’70, oggi trovi spazzatura in classifica, sottoprodotti da televisione e da programmacci, con giurie fatte da gente che di musica ne capisce quanto il sottoscritto di fisica quantistica e all’epoca ci trovavi i Genesis. E teniamo conto che Genesis, The Police, Gentle Giant divennero famosi prima in Italia poi nel resto dell’Europa…non lo sapevate? ora che lo sapete chiamate Giacobbo e fatevi spiegare il perchè. Ma andiamo avanti.

Insomma i nostri cari Genesis dopo aver dato alle stampe quel capolavoro di Foxtrot e aver definitivamente trovato la line up definitiva con Collins (alla batteria) e Hackett (alla chitarra), continuano a dare voce ai deliri di un Peter Gabriel sempre più maturo e sicuro nel ruolo di leader. Nuovi personaggi si aggiungono al suo vasto repertorio artistico (che darà definitivamente vita all’art rock…in Italia gli Osanna ne furono folgorati!). Nel Tour che seguirà il disco il personaggio di Britannia, farà compagnia al Fiore, all’uomo-bambino, alla donna con testa di volpe e così via. Il primo brano Dancin With The Moonlit Knight inizia con Peter che canta, non accompagnato da alcuno strumento, le prime strofe; subito dopo una esangue chitarra elettrica accompagna la voce fino al temino principale (che si ripeterà più volte nel corso del disco), via via gli altri strumenti si aggiungono alla voce dando luogo al crescendo che porterà al primo, maestoso, cambio di tempo. Iniziano qui i problemi legati ai testi in quanto molti dei protagonisti delle canzoni dell’album sono, naturalmente, invezioni legate a giochi di parole di Peter Gabriel (ad esempio la Regina dei Forse è una contrazione con The Queen of May, ossia la Regina della primavera, figura mitologica inglese) comunque ci torniamo dopo non preoccupatevi!

Subito dopo arriva I Know What I Like, un brano mid tempo che fa tornare la pace. Si narra della copertina del disco ossia di un giardiniere che, in luogo di lavorare, si fa la pennica su una panchina del parco. La musica è molto solare e rilassante proprio come un bel sonnellino in un pomeriggio di sole. Terza traccia: la maestosa Firth Of Fifht, intro di piano, dannazione di ogni giovane promettente pianista, cambi di tempo astrali, un senso di vuoto dentro incolmabile (vedi assolo di flauto di Gabriel) e Hackett che ci tiene a far sapere che suona la chitarra; la quarta traccia More Fool Me è un’anticipazione dei futuri Genesis in quanto canta il batterista Phil Collins (è il primo brano in assoluto cantato per intero da Collins) e la traccia non ha nulla di progressive quanto di una semplice, seppur bella, ballata chitarra e voce “falòsullaspiaggia-piccolograndeamore-girodidò-nonsofareilbarrè”. The Battle of Epping Forest è la cronaca di uno scontro tra bande giovanili, per una questione di territorio, raccontato alla maniera di una guerra civile: da questo punto di vista è giusto l’iniziale incedere marziale per poi spostarsi in tempi dispari complessi. After The Ordeal è una strumentale con un magnifico lavoro di chitarra classica di Stephen Hackett che sfocerà poi in un bellissimo assolo elettrico.

Arriva il capolavoro dell’album: The Cinema Show. Una delicatissima chitarra elettrica a 12 corde ci introduce in questa suite di 11 minuti. Abbiamo un Giulietta appena tornata dal lavoro che si prepara ad andare al cinema con suo bel Romeo metalmeccanico, per tacere della figura mitologica di Tiresia. La struttura della suite può ricordare vagamente la vecchia The Musical Box specie per quegli arpeggi sognanti di chitarra, il recitato sognante di Gabriel, ed il furore finale che darà di nuovo spazio al tema di chitarra già ascoltato nel primo brano che porterà ad Aisle Of Plenty vero brano collegamento con il primo (si parlò di un concept album ma in realtà solo il primo ed ultimo brano sono legati da una vera continuità); infatti il tema musicale citato sarà, ripetuto ad libitum, la vera chiusura dell’album. Avevamo accennato ai testi, Peter Gabriel era (o è) un appassionato del non sense, delle opere di Lewis Carrol (come John Lennon del resto), dei giochi di parole, roba che Bartezzaghi ed Eco ci possono scrivere saggi maestosi. Quindi, considerando che nel ’73 internet non esisteva, la casa discografica decise di far tradurre i testi dell’album in italiano da Armando Gallo che faticò non poco, considerando ciò che aveva davanti.. Unifauno? Sogni di Wimpey? Ma che vuol dire? E non parliamo di Aisle Of Plenty! Consiglio da amico che vi do è cercare il vinile originale del ’73 edizione italiana (la ristampa del ’94 su cd non aveva i testi tradotti) almeno per dare un’occhiata alla traduzione (ovviamente andare su internet è la soluzione più facile ma il vinile ha più fascino.. Punto!). Ma “it’s scrambled egg” in chiusura ad Aisle Of Plenty a cosa è riferito? Perchè il disco si chiude con questa frase? Semplice! Foxtrot (album precedente) si chiudeva con “Supper’s ready” (tradotto “la cena è pronta”) fanta-avventura di due innamorati che, all’ora di cena, affrontavano un’apocalisse improvvisata. Le “uova strapazzate” erano la cena, non consumata, dei due ragazzi!

Sicuramente un gran disco che non può mancare nella classica raccolta di dischi (vinile vi prego!), se vogliamo ultimo lavoro della classica formazione (no, non ho dimenticato il successivo The Lamb Lies Down On Broadway ma, nonostante sia un lavoro collettivo da molti “genesis-fan” è considerato il primo lavoro solista di Peter Gabriel…ma ne parleremo tranquilli!).

Autore: Genesis Titolo Album: Selling England By The Pound
Anno: 1973 Casa Discografica: Charisma
Genere musicale: Progressive Rock Voto: 7
Tipo: CD Sito web: http://www.genesis-music.com
Membri band:

Peter Gabriel – voce, flauto, oboe, percussioni

Stephen Hackett – chitarra

Michael Rutherford – basso, sitar, chitarra 12 corde

Phil Collins – batteria, percussioni,voce

Tony Banks – tastiere, chitarra 12 corde

Tracklist:

  1. Dancing With The Moonlit Knight
  2. I Know What I Like (In Your Wardrobe)
  3. Firth Of Fifth
  4. More Fool Me
  5. The Battle Of Epping Forest
  6. After The Ordeal
  7. The Cinema Show
  8. Aisle Of Plenty
Category : Recensioni
Tags : Album del passato, Progressive
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14th Nov2011

Iron Maiden – Fear Of The Dark

by Marcello Zinno

Anno 1992, gli Iron Maiden sono ancora in grande attività dopo cedimenti, fasi critiche, successi importanti, ferite ma anche capolavori. È il momento di Fear Of The Dark, album quanto mai rilevante non solo a causa della famosissima title track ma anche come risalita rispetto al precedente insignificante No Prayer For The Dying. Gli intenti dell’album sono subito chiari: superare l’insuccesso ottenuto due anni prima, riacquistare un pò d’immagine smorzando le voci che parlino di declino e far tornare al centro del sound la “cattiveria” vocale di Bruce Dickinson. In realtà non risulta un album eccellente per la performance vocale di Bruce, ultimo sforzo prima dell’arrivo di Blaze Bayley dietro il microfono, ma viene spontaneo il confronto con le uscite del passato: a differenza di Seventh Son Of A Seventh Son in cui si sperimentava una parte del sound tutta nuova che incuriosiva e non permetteva avvicinamenti ad altre uscite maidiane, Fear Of The Dark sembra più vicino al classico trademark della band, come fosse scritto per accontentare i fans delusi dai precedenti lavori.

Da annoverare Afraid To Shoot Strangers, entrata tra i classici degli Iron, nella quale (la pari di Be Quick Or Be Dead) compare un Bruce ai confini tra la sperimentazione e l’autosoffocamento e dei riff ben posizionati all’interno della traccia. Inutile dire che Steve Harris sembra essere un fantasma, presente a sprazzi, ma nelle poche situazioni che lo vedono emergere lo fa con cognizione di causa. I doppi assoli a cui gli inglesi ci hanno abituati ritornano in auge per deliziare gli appassionati, così come i tempi cruenti dopo ritmi lenti da ballad: insomma la struttura delle tracce sembra ricalcata come i “golden years”! Childhood’s End è introdotta da una cavalcata di tamburi incisivi e da linee vocali essenziali e azzeccate come non mai; i riff cambiano da un momento all’altro imponendo nuove atmosfere, un imprevisto nella mente dell’ascoltatore che approva con un leggero headbanging per annuire l’operato degli artisti, ma non ancora convinto di quello che dovrà essere.

Il vero compito di questo brano resta quello di introdurre Wasting Love, singolo di successo e grande ballad scritta dai Maiden; soave, attributo lontano anni luce da ciò a cui siamo stati abituati dal 1980 in poi. Il video, giustamente lontano dal classico concerto su un palco rovente, ambientato in una stanza in cui l’oscurità ha vita insieme ad un uomo con tante donne ma senza un briciolo di felicità. Anche l’assolo è uno di quelli che resta stampato nel cervello ed indelebile compare nei momenti più diversi della giornata, grazie anche ad un caparbio Janick Gears. Altro bel pezzo è Chains Of Misery che pur restando sulle coordinate espresse fin qui, risulta più ruffiano e spinto fin dove basta per piacere sia agli appassionati di sempre che ad un pubblico più giovane. Tanti i pezzi di media caratura come, Fear Is The Key (lentamente penetrante), The Fugitive (costantemente rabbioso), The Apparition (privo di imprevedibilità), Judas Be My Guide (pacatamente cattiva), Weekend Warrior (razionalmente folle), che non aggiungono nulla a quanto gli Iron Maiden abbiano inventato ma offrono un piacevole ascolto, inquieto ed appagante rispetto all’obbrobriosa Tailgunner & Co.

Tutto scorre, tutto va, fin quando non giunge lei: Fear Of The Dark, grande capolavoro degli Iron Maiden riproposto nella maggior parte dei loro concerti. Già dai primi secondi si odono ambientazioni intricate che soggiacciono su una serie di emozioni difficili da descrivere ma semplicissime da provare. “I’m a man who walks alone…” canta Bruce e la sua voce è in grado di catturare tutta l’attenzione su di sé senza eccellere con vocalizzi particolari. La forza esplode così come una bomba, senza avvertimenti né compromessi, l’energia espressa da ogni singola nota sovrasta il palcoscenico ed incute terrore, mentre il ritornello fa correre come dei forsennati. Bridge, nel quale le chitarre sono corteggiatissime dal caldo e focoso basso di Harris, gli assoli partono e la mente vaga. Il timore non resta solo: l’inquietudine, la solitudine, l’amarezza, sono cantate tutte da quelle quattro parole che continuano a ripiombare come macigni, mentre la sezione ritmica non perde un colpo. Sette minuti di godimento ma anche di follia, bastano per presentare gli Iron come reduci da una battaglia, bastano per presentarli nella giusta veste: ottimi creatori di emozioni, splendidi sostenitori del New Wave Of British Heavy Metal!

Autore: Iron Maiden Titolo Album: Fear Of The Dark
Anno: 1992 Casa Discografica: EMI
Genere musicale: Classic heavy metal Voto: 7
Tipo: CD Sito web: http://www.ironmaiden.com
Membri band:

Bruce Dickinson – voce

Steve Harris – basso

Dave Murray – chitarra

Jenick Gears – chitarra

Nico Mcbrain – batteria

Tracklist:

  1. Be Quick Or Be Dead
  2. From Here To Eternity
  3. Afraid To Shoot Strangers
  4. Fear Is The Key
  5. Childhood’s end
  6. Wasting Love
  7. The Fugitive
  8. Chains Of Misery
  9. The Apparition
  10. Judas Be My Guide
  11. Weekend Warrior
  12. Fear Of The Dark
Category : Recensioni
Tags : Album del passato, Iron Maiden
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14th Nov2011

Madina Lake – World War III

by Marcello Zinno

I Madina Lake rappresentano uno di quei progetti nuovi, recenti se consideriamo tali le band con sei anni d’esperienza, ma di quelli che sono partiti con il botto. Con alle spalle la Roadrunner Records fino all’uscita precedente a questo World War III ed oggi approdati alla Sony, i Madina Lake non hanno avuto carenza di supporto nel poter dimostrare il loro talento musicale. Ciò che ci si chiede è cosa effettivamente questi due colossi della discografia internazionale abbiano trovato in questo progetto. I quattro musicisti di Chicago suonavano in due band diverse (The Blank Theory e Reforma) e solo grazie ad un fortuito incontro, oltre che a tanta insoddisfazione relativa ai progetti precedenti, che hanno unito le loro forze e formato i Madina Lake.

Alternative rock, di quelli non eccessivamente travolgenti e dallo stile marcatamente americano, esce fuori da queste dodici tracce che compongono l’album, tracce in cui non si riesce a captare un vero e proprio porta bandiera di quello che i ML possono offrire alle soglie del 2011: tra una Fireworks che si concede alla dance, una Across 5 Oceans che sfocia nel pop rock da classifica non si viene a galla e nemmeno Imagineer, che vede dietro i ruoli di produttore Billy Corgan (Smashing Pumpkins), riesce a convincere con le sue influenze industrial. We Got This tocca i livelli più bassi mentre qualche sprazzo di lucidità è messo in luce dal singolo Hey Superstar, originale e groove, e dal brano Blood Red Flags che dimostra una certa maturità compositiva, ma troppo poco per alzare le fortune di questo lavoro. Vero è che l’alternative rock è un fenomeno che ha smosso gli scenari ideando molto di più nel vecchio continente che negli States, però non è ben chiaro cosa possa offrire questa band come elemento differenziativo e soprattutto come vorrebbe accreditarsi nel molto più temuto e agguerrito panorama rock.

Se la prima parte dell’album che annunciava la Terza Guerra Mondiale aveva suscitato un pò di curiosità, la seconda parte conduce sicuramente al calo dell’attenzione ed il vero sbigottimento ci assale quando leggiamo che per l’uscita europea si è scomodata la Long Branch Records, divisione della quotatissima SPV, etichetta che ha nel proprio roster nomi di tutt’altra caratura rispetto ai Madina Lake. Molto difficile che questi ultimi riescano a farci cambiare idea in futuro a meno di ripensamenti non solo sul sound ma sull’intero loro approccio musicale.

Autore: Madina Lake Titolo Album: World War III
Anno: 2011 Casa Discografica: Sony
Genere musicale: Alternative Rock Voto: 4
Tipo: CD Sito web: http://www.madinalake.com
Membri band:

Nathan Leone – voce

Mateo Camargo – chitarra, voce

Matthew Leone – basso, voce

Dan Torelli – batteria, percussioni, voce

Tracklist:

  1. Howdy Neighbor!
  2. Imagineer
  3. They’re Coming For Me
  4. Hey Superstar
  5. Fireworks
  6. Across 5 Oceans
  7. We Got This
  8. What It Is To Wonder
  9. Heroine
  10. Blood Red Flags
  11. Take Me Or Leave
  12. The Great Divide
Category : Recensioni
Tags : Alternative Rock
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13th Nov2011

Andrea Ra – Nessun Riferimento

by Marcello Zinno

Il coraggio e la capacità di osare sono degli ingredienti che noi di RockGarage apprezziamo a dismisura, elementi incontestabilmente (onni)presenti in questo lavoro del bassista Andrea Ra. Già il fatto di avere tra le mani e trovare nei negozi di dischi un lavoro di un bassista, ruolo in genere assoldato nelle seconde linee di una band, risulta molto poco scontato e davvero rallegrante per chi scrive qui negli ulteriori scomodi panni di ex collega di Andrea.

In genere fattori come i testi in italiano e la generica categorizzazione come lavoro rock fanno subito intravedere, almeno per le uscite del nostro Paese, pochi spiragli di originalità ed invece dobbiamo amettere che Andrea Ra riesce sempre a tenere alta l’attenzione dell’ascoltatore non solo da un punto di vista musicale, che sguazza agiatamente nel crossover più raffinato e meno aggressivo, ma anche secondo un aspetto squisitamente ideativo. Nessun Riferimento infatti è un psycoconcept che si incastra intorno al tema del nubifragio, un viaggio onirico che continua dal precedente Scacco Matto e nel quale il senso di perdizione del protagonista (un punto di non ritorno) si specchia con le patologie che la società mostra di avere. Brani non banali in termini compositivi ma pur sempre adatti anche ad un ascolto semplice (Mi Avveleno Di Te), pur talvolta arricchiti da interventi preziosi come lo slap esuberante di C’è La Luna Piena (Stasera), il cantato fuori stile della title track (a Morgan piacerebbe molto questo pezzo), la pazzia di Mr.Vanni che si rifà senza mezze misure ai Primus e stecchisce con il suo saltare dal crossover allo swing senza alcuna difficoltà.

Sentite un vuoto perchè i Bluvertigo ormai sono scomparsi e non sapete più da chi attingere originalità e nuova ispirazione? Siete nel posto giusto. Questo lavoro va seguito track-by-track come un vero e proprio viaggio perchè, come fosse un romanzo di Ken Follett, non fornisce indizi su come procederà ed ogni ulteriore passo risulta un mistero ricoperto sempre da quella vena dark-wave che ci aiuta a restare sulle spine.

Un artista che va oltre il concetto musicale, un artista a cui la dimensione live potrebbe stare stretta visto che andrebbe apprezzato nella sua interezza creativa. Noi nel futuro di questo artista vediamo ancora più coraggio, perchè le possibilità ci sono tutte e poco conta se si fa strada il rischio che il pubblico si stringa ad una cerchia ristretta di fan, l’importante è riuscire a proporre qualcosa ancor più fuori dai canoni, ancor più unico. Se possibile.

Autore: Andrea Ra Titolo Album: Nessun Riferimento
Anno: 2011 Casa Discografica: Modern Life
Genere musicale: Crossover Voto: 8
Tipo: CD Sito web: http://www.andreara.com
Membri band:

Andrea Ra – voce, basso, chitarra

Giacomo Anselmi – chitarra

Damiele Click – batteria

Marco La Fratta – chitarra

Luna Gualano – cori

Tracklist:

  1. Mezzanotte
  2. C’è la luna piena (stasera)
  3. Mezzanotte e 16
  4. I soldi del pupazzo
  5. Mezzanotte e 39
  6. Mi avveleno di te
  7. L’una e 02
  8. Nessun riferimento
  9. L’una e 36
  10. Mr. Vanni
  11. Le due e 21
  12. Anche oggi uguale a ieri
  13. Le due e 25
  14. Agnello
  15. Le tre e 26
  16. Lo sapevi benissimo
  17. Le quattro e 22
  18. Insieme al vento
  19. Le cinque e 19
  20. Non sarò il tuo Borromini
  21. Le cinque e 27
  22. Domani partirò
  23. Le sei
Category : Recensioni
Tags : Crossover
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12th Nov2011

Visions Of Atlantis – Delta

by Gianluca Scala

Dopo quattro studio album pubblicati nell’arco di undici anni, gli austriaci Visions Of Atlantis non sono riusciti a fare il botto. E secondo me il motivo del mancato salto di qualità risiede proprio nella loro musica ed in dischi come questo Delta. Il loro symphonic metal, sebbene sia tecnicamente ineccepibile, manca di mordente e personalità: l’utilizzo smisurato delle keyboards per abbellire gli arrangiamenti non riesce a celare la mancanza di personalità del combo austriaco. La cantante Maxi Nil cerca di risollevare le sorti del disco con la sua incantevole voce, che non viene supportata a dovere da brani che sanno troppo di minestra riscaldata.

Sono trascorsi ben quattro anni dall’album precedente che era di ben altra fattura, in tutto questo tempo il gruppo avrebbe potuto sfornare un disco di ben altro valore: a poco servono brani come Black River Delta o Memento che nonostante la quasi perfezione artistica, tonfano nella noia perpetua. Di questo passo i Visions Of Atlantis finiranno per essere fagocitati nel calderone del power/symphonic senza via di scampo.

Autore: Visions Of Atlantis Titolo Album: Delta
Anno: 2011 Casa Discografica: Napalm Records
Genere musicale: Symphonic Metal Voto: 5
Tipo: CD Sito web: http://www.visionsofatlantis.com
Membri band:

Maxi Nil – voce

Mario Plank – voce

Werner Fiedler – chitarra

Martin Harb – tastiere

Thomas Caser – batteria

Tracklist:

  1. Black RiverDelta
  2. Memento
  3. New Dawn
  4. Where Daylight Fails
  5. Conquest Of Others
  6. Twist Of Fate
  7. Elegy Of Existence
  8. Reflection
  9. Sonar
  10. Gravitate Towards Fatality
Category : Recensioni
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11th Nov2011

U2 – The Joshua Tree

by Tiziana
“Abbiamo veramente iniziato a far soldi solo dopo l’uscita di The Joshua Tree. Dopo The Joshua Tree abbiamo investito un sacco di soldi in Rattle and Hum ; perciò, più che fare un sacco di soldi, abbiamo visto un sacco di soldi che però sono stati reinvestiti immediatamente. Se non ricordo male, alla fine del tour, mi sono ritrovato con ventimila dollari; avevo risparmiato per anni e anni per potermi comprare una Harley e quella fu il primo vero lusso che mi concedetti…” (Larry – Gli U2 alla fine del mondo – Bill Flanagan, 1996).
 
L’album The Joshua Tree è un successo clamoroso, che ufficialmente fa salire gli U2 sull’Olimpo del rock. Lo testimonia la copertina del Time nel 1987, subito dopo l’uscita dell’album, con i quattro dublinesi e la scritta U2 in fiamme: una vera dichiarazione d’amore nei loro confronti da parte degli U.S.A. Un sentimento corrisposto che si trasforma talvolta in odio, teso a distruggere un pò il mito americano. Specie quando si tratta di politica: in quegli anni Reagan era finito nello scandalo (risolto con l’insabbiamento) dei soldi ai Contras del Nicaragua; è proprio durante un viaggio in quelle terre e a San Salvador, durante il Cospiracy of Hope Tour di Amnesty International, che Bono tocca con mano la situazione terribile in cui versano le popolazioni locali. Dal punto di vista melodico, le influenze di Van Morrison e di Bob Dylan per alcuni aspetti e di Keith Richards per altri, rendono questo lavoro un incrocio tra folk irlandese ed americano ma soprattutto più blues che mai. Inoltre, la produzione è affidata alla coppia Brian Eno/Daniel Lanois e questo è cosa buona e giusta.
 
L’albero di Joshua, che dà il nome al lavoro, simboleggia invece il grande amore di Bono per il paesaggio americano, le suggestioni che esso suscita in lui: “Amo essere qui, amo l’America, amo la sensazione di ampi spazi selvaggi, amo i deserti, amo le catene montuose, amo anche le città…” ; inoltre, sono chiaro presagio delle tematiche religiose affrontate nuovamente anche in quest’album. Il successo planetario arriva immediatamente: gli U2 salgono al top delle classifiche inglesi ed americane; inoltre vincono i loro primi due Grammy Awards, ma mantengono sempre la loro immagine, quasi il successo piovesse loro dal cielo: questa genuinità li rende delle vere star negli States e loro cavalcano l’onda vendendo ben 14 milioni di copie in tutto il mondo. Il primo brano non ha certo bisogno di presentazioni, Where The Streets Have No Name è una delle più belle canzoni che siano mai state scritte. Il video è girato sul tetto di un supermarket di Los Angeles e resta impresso per la mole incredibile di gente danzante che si riversa in strada e si affaccia dalle finestre per vedere gli U2. Il riff inconfondibile di Edge è meraviglioso, trascinante come non mai. Il testo è ispirato ad un viaggio in Etiopia compiuto da Bono con la moglie Ali, dopo il Live Aid del 1985. Il secondo brano, I Still Haven’t Found What I’m Looking For è una meravigliosa ballata che parla di fede in maniera poetica e profonda, come solo la splendida voce di Bono sa fare: “Ho parlato la lingua degli angeli/ Ho tenuto per mano un diavolo/ Era calda nella notte/ Io ero freddo come una pietra/ Ma non ho ancora trovato quello che sto cercando”… L’inossidabile With Or Without You balza subito al primo posto nelle classifiche statunitensi come singolo ed è, a tutt’oggi, uno dei brani più amati della band, non c’è bisogno di aggiungere altro anche in questo caso. E’ capace di catturare, con la sua sensualità e sobrietà al tempo stesso, anche l’ascoltatore più scettico.
 
Bullet The Blue Sky è una canzone di denuncia, insieme a Mothers Of The Disappeared rappresenta uno dei momenti più densi di contenuto dell’album. Il riff di Edge è la riproduzione del rombo degli aerei da guerra in cielo ed intende colpire la politica militare americana, che in quegli anni vede la più grossa corsa agli armamenti della storia. Red Hill Mining Town parla della difficile condizione dei lavoratori delle miniere nel Regno Unito, durante il governo Tatcher: “Le file sono lunghe/ E non c’è ritorno/ Attraverso mani d’acciaio/ E cuori di pietra/ La nostra giornata di lavoro è giunta ed è andata/ E ci lasci ad aspettare/ A Red Hill Town/ Mentre le luci scendono”. Running to Stand Still è un brano sulla droga e parla della dipendenza dall’eroina di una ragazza: un modo delicato e disarmante di affrontare la problematica più grossa degli anni ‘80. In God’s Country e Trip Through Your Wires sono canzoni d’amore, la seconda in chiave country con tanto di armonica, che lasciano il segno: due autentici capolavori, risentono dell’aria e del sole del deserto. La meravigliosa One Three Hill (come del resto tutto l’album) è in ricordo di Greg Carroll, un assistente neo-zelandese di Bono morto in un incidente stradale a Dublino. E’ magia pura, una meraviglia indescrivibile. Exit, partendo da un rumore di cicale nella calda notte estiva, con la voce di Bono che sussurra, è caratterizzata ad un certo punto dal basso di Adam che cresce finchè la melodia non esplode di nuovo, impadronendosi di tutto.
 
Questo album resta un’indelebile traccia degli U2 nella storia della musica: ne colpiscono la profondità culturale come la varietà musicale, in quanto parte come un’esplosione di energia, si inasprisce per poi divenire delicato, come una preghiera sussurrata, che dia voce ai tanti innocenti caduti a causa della violenza umana. Un lavoro immenso che, come il vino, invecchiando non può che assumere valore.
 
Autore: U2 Titolo Album: The Joshua Tree
Anno: 1987 Casa Discografica: Island
Genere musicale: Rock Voto: 9
Tipo: CD Sito web: http://www.u2.com
Membri band:

Bono – voce

The Edge – chitarra, cori

Adam Clayton – basso

Larry Mullen Jr. – batteria

Tracklist:

  1. Where the Streets Have No Name
  2. I Still Haven’t Found What I’m Looking For
  3. With or Without You
  4. Bullet the Blue Sky
  5. Running to Stand Still
  6. Red Hill Mining Town
  7. In God’s Country
  8. Trip Through Your Wires
  9. One Tree Hill
  10. Exit
  11. Mothers of the Disappeared
Category : Recensioni
Tags : Album del passato, U2
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11th Nov2011

Warrant – Rockaholic

by Gianluca Scala

I Warrant sono finalmente tornati! Sì proprio loro, sono ritornati sulle scene a distanza di tanti anni con un nuovo album che anche se non fà gridare al miracolo riesce a catturare l’attenzione ed a coinvolgere l’ascoltatore in modo festaiolo e travolgente. Un album che riesce a centrare il difficilissimo obiettivo prefissato, riportandoci indietro nel tempo con successo e, a dirla tutta anche con un pizzico di nostalgia. E il risultato prodotto è fortunatamente dei migliori. Certo niente di innovativo sia chiaro, ma non sarebbe stato nemmeno quello che si sarebbero aspettati le migliaia di fan che erano in attesa di un loro come back, infatti la band ci regala un disco di eccitante rock‘n’roll. Dimenticate gli episodi a dir poco sotto tono e fuori contesto come il fin troppo alternativo Ultraphobic, perché qui si fa sul serio e si suona solo e unicamente hard rock di ottima qualità.

Mi duole ricordare nella storia recente della band la morte tre mesi fa dello storico singer Jani Lane, trovato morto in una stanza d’albergo in quel di Los Angeles (RIP Brother!). Nel suddetto disco troviamo ai microfoni Robert Mason, già nelle fila dei Lynch Mob, chiamato a sostituire lo scomparso Lane. L’album si apre con la bellissima Sex Ain’t Love seguita dal primo singolo Innocence Gone, altra grande rock song. Che ritmo gente! Canzoni così devono essere la nostra colonna sonora da qui all’infinito. Si va avanti con la ritmata Snake e con Dusty’s Revenge che risulta essere un pezzo per nulla banale con un buon chorus, accompagnato da un riff  molto roccioso. La seconda parte del disco è molto più soft ed è contraddistinta dalla presenza di diverse ballad come l’intensa Home o la pimpante What Love Can Do dal ritornello più orecchiabile dell’ album. Life’s A Song è un’altra canzone dai riff strabordanti e dal piglio molto radiofonico, mentre con Show Must Go On si ritorna ai ritmi sostenuti e carichi di quel groove che ti fa ballare e saltare per tutta la stanza.

E cosa si può dire dell’esplicita Cocaine Freight Train dal refrain divertente e dal chorus praticamente contagioso con quell’armonica a bocca che si fa strada in mezzo alla canzone sottolineando il tutto con un pizzico di blues? Con la successiva Found Forever gli accendini illuminano il buio della sala da concerti, altro pezzo lento e sognante di un disco che non si stanca mai di ascoltare. Davvero ottima la prova del nuovo entrato ai microfoni anche se bisogna ammettere che Lane era tutt’altra cosa a livello di stile ed estensione vocale. Tears In The City è la ballad che chiude il disco in bellezza insieme alla potente The Last Straw, per un totale di 14  pezzi che non tarderanno a farvi scuotere e sognare per tanto tempo a venire. Gran bel ritorno, davvero gradito.

Autore: Warrant Titolo Album: Rockaholic
Anno: 2011 Casa Discografica: Frontiers Records
Genere musicale: Hard Rock Voto: 9
Tipo: CD Sito web: http://www.warrantrocks.com
Membri band:

Robert Mason – voce

Joey Allen – chitarra, voce

Erik Turner – chitarra, voce

Jerry Dixon – basso, voce

Steven Sweet – batteria

Tracklist:

  1. Sex Ain’t Love
  2. Innocence Gone
  3. Snake
  4. Dusty’s Revenge
  5. Home
  6. What Love Can Do
  7. Life’s A Song
  8. Show Must Go On
  9. Cocaine Freight Train
  10. Found Forever
  11. Candy Man
  12. Sunshine
  13. Tears In The City
  14. The Last Straw
Category : Recensioni
Tags : Hard Rock
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10th Nov2011

Girlschool – Hit And Run Revisited

by Gianluca Scala

Il passato che ritorna! E che passato! “The best rock record ever recorded by an all girl band” cita la striscia di presentazione del promo cd in mio possesso e non ha tutti i torti. Soprattutto se pensiamo che questo album risale al 1981, quando l’heavy metal muoveva i suoi primi passi, e considerando inolte che Hit And Run è stato il più grande successo commerciale delle Girlschool. Del resto l’entusiasmo per il disco da parte dell’ambiente musicale è del tutto giustificato perché si tratta di un lavoro solido, potente ed accattivante nello stesso tempo, a mio parere senza punti deboli, ma con undici canzoni davvero notevoli. Operazione nostalgica dunque, un pò scontata devo dire ma anche affascinante. E soprattutto operazione che funziona, dato che le canzoni reggono ottimamente la riverniciatura (moderata).

L’unico difetto, se così si può chiamare, è la troppa somiglianza dell’intero sound del disco in alcuni frangenti ai Motörhead. L’uso del basso distorto, la chitarra tagliente ed acida e la batteria così impetuosa sono tratti distintivi che emergono fortemente nell’iniziale C’mon Let’s Go, in (I’m Your) Victim e nella buona cover degli ZZ TOP dal titolo Tush. Questa è comunque una grande interpretazione, veloce e travolgente con un ottimo assolo ed una certa vena southern rock resa in maniera più metal. Questo è un disco che ha fatto storia dicevo all’inizio, senza dubbio oggi le ragazze terribili hanno deciso di tornare sui loro passi dopo trent’anni dalla pubblicazione dell’originale visto che si tratta del disco che gli ha dato il vero successo. Va segnalata anche la presenza della cantante Doro Pesch che appare durante l’esecuzione della title track proposta come bonus track del lavoro. Se avete scoperto da poco questa storica band, l’acquisto è obbligato. Se invece le conoscevate già e magari avevate l’originale è solo consigliato. In ogni caso non butterete via i vostri soldi.

Autore: Girlschool Titolo Album: Hit And Run Revisited
Anno: 2011 Casa Discografica: Wacken Records
Genere musicale: Heavy metal Voto: 9
Tipo: CD Sito web: http://www.girlschool.co.uk
Membri band:

Kim McAuliffe – voce, chitarra

Jackie Chambers – chitarra, voce

Enid Williams – voce, basso

Denise Dufort – batteria

Tracklist:

  1. C’mon Let’s Go
  2. The Hunter
  3. (I’m Your) Victim
  4. Kick It Down
  5. Following The Crowd
  6. Tush
  7. Hit And Run
  8. Watch Your Step
  9. Back To Start
  10. Yeah Right
  11. Future Flash
  12. Demolition Boys (Bonus Track)
  13. Hit And Run (Bonus Track)
Category : Recensioni
Tags : Heavy Metal
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