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10th Nov2011

Piccoli Omicidi – Ad Un Centimetro Dal Suolo

by Matteo Iosio

Ancora una volta ci troviamo a parlare di un a band proveniente dall’Emilia Romagna, una regione che si conferma, ancora una volta, come fucina di nuovi talenti musicali. Quest’oggi è il turno di un gruppo proveniente da Reggio Emilia, dall’inquietante nome di Piccoli Omicidi, angosciante solo nel nome, poiché si tratta di una promettente band appena giunta nel panorama indie-rock nostrano. Il progetto nasce nel recente 2005 da un’idea di Piergiorgio Bonezzi, talentuoso chitarrista nonché compositore di spessore. Il gruppo esordisce quest’anno aprendo l’oceanico concerto di Ligabue al Campovolo di Reggio Emilia e, subito, si fa notare per la vivacità della performance e per i pezzi proposti. Passata questa difficile prova davanti ad un pubblico smisurato, riescono a far breccia nel cuore del famoso produttore musicale Paolo Benvegnù che decide immediatamente di produrli e lanciarli nel mercato mainstream. Nasce così il loro primo lavoro dal nome Ad Un Centimetro Dal Suolo, undici tracce cantate in italiano, ben realizzate ed eseguite; un sound che risulta un discreto mix tra Verdena, Tiromancino, Marlene Kuntz ed Afterhours. Nulla di innovativo, ma non per questo noioso o  non ottimamente suonato.

Con l’ultimo album la band rispolvera un sound tipicamente indie-rock dei primi anni90, avolte con echi di buon impatto, altre con chitarre “Fuzz” che riportano alla mente sonorità da metà anni 80. Tutte le tracce presentano una struttura abbastanza varia e mai banale. I testi poi, cercano di affrontare principalmente temi di spessore, passando dalla denuncia sociale ai problemi generazionali vissuti dai giovani della nostra epoca. L’unica nota negativa, ma non di poco conto, che affiora durante l’ascolto, riguarda la mancanza di una personalità ben delineata e definita. Il gruppo sembra cercare di riprodurre in maniera troppo marcata e parossistica il sound e lo stile di gruppi che cavalcano trionfalmente il genere sul territorio della nostra amata penisola; mancando invece, di sviluppare quel qualcosa che potrebbe caratterizzarli in modo migliore e far fare loro così, un salto qualitativo importante. Ogni traccia, sembra prendere in prestito idee e struttura già sentite altrove da nomi ben più blasonati e questo, non può che penalizzare questi ragazzi che possiedono tutte le qualità tecniche necessarie per fare ottimamente, ma che a causa di una  mancanza di coraggio e audacia, finiscono per  mostrare  tutti i loro attuali limiti. In definitiva ci troviamo di fronte ad un discreto album, ben realizzato ma lacunoso dal punto di vista della profondità e dello sviluppo del progetto.

Autore: Piccoli Omicidi Titolo Album: Ad Un Centimetro Dal Suolo
Anno: 2011 Casa Discografica: Still Fizzy Records
Genere musicale: Alternative Rock Voto: 5,5
Tipo: CD Sito web: http://www.piccoliomicidi.it
Membri band:

Piergiorgio Bonezzi – voce, chitarre, piano

Roberto Panisi – basso

Giulio Martinelli – batteria

Tracklist:

  1. Fino Alla Fine Del Mondo
  2. Il Paese Degli Idioti
  3. Spine
  4. Le Notti Bianche
  5. La Canzone DelPartigiano
  6. Vedrai Vedrai
  7. Il Mondo Rosa
  8. Vietato L’Accesso
  9. B.
  10. Vivo Da Poco
  11. Va Giù (Vajont)

 

Category : Recensioni
Tags : Alternative Rock
0 Comm
09th Nov2011

Sun King – Prisoners Of Rock

by Tiziana
Mi appresto al primo ascolto di Prisoners of Rock, ultimo album/raccolta dei Sun King,  con gran curiosità ed un pizzico d’entusiasmo. Sarà il nome della band, infatti il pensiero corre subito al pezzo famoso dei Beatles, contenuto in Abbey Road: con quel testo che, improvvisamente, diviene spagnoleggiante, come se i 4 di Liverpool fossero “posseduti”, fuori da sè. La verità sui Beatles è sempre una sola : l’originalità è stata la chiave che ha aperto loro le porte del successo. Niente di più lontano dalla realtà, perchè il sound che propongono questi quattro ragazzi marchigiani è puro hard rock, che eseguono sicuramente con maestria. Il cantante Ivan Perugini ricorda molto le grandi voci rock del passato, da Ozzy Osbourne ad Axl Rose, giocando in alcuni frangenti a scimmiottarli un pò.
 
I primi tre brani Turn Me On, Three Times Rock e Your Love scorrono veloci e senza peculiarità. A questo punto, credo mio malgrado di essermi imbattuta in un disco che ha un grosso limite creativo: non va oltre sè stesso, non c’è alcuna ricerca, nè spessore. A Sign è completamente fuori contesto, quasi surreale, parte folk e poi impazzisce: però il risultato finale non è male, anzi è uno dei pochi spunti davvero interessanti che i Sun King offrono. After The Night ha un buon groove, ma siamo sempre lì: questi ragazzi non riescono ad osare. I Rock I Roll è la seconda degna di nota, un pò più classica ma decisamente sempre attuale, scongiurando il rischio di sembrare “inflazionata” come molte altre. I Just Want è un pò più punk, in certi frangenti quasi velvettiana, pur cedendo alle schitarrate e agli assoli alla Guns’n’Roses. Hippogriff, scelta per la realizzazione di un videoclip, è la più interessante del disco, quella che racchiude un pizzico di originalità in più, avvicinandosi all’alternative, o addirittura al britpop.
 
In conclusione rimane l’amarezza per cui tanta bravura nell’esecuzione non risulti determinante nella riuscita di un disco. Ciò che manca è, probabilmente, una produzione artistica adeguata che riesca a far superare a questi ragazzi alcuni enormi scogli, aiutandoli a scrollarsi di dosso quell’aura retrò, in favore di qualcosa di più espressivo ed illuminante.
 
Autore:Sun King Titolo Album: Prisoners Of Rock
Anno: 2010 Casa Discografica: U.d.U. Records
Genere musicale: Hard Rock Voto: 6
Tipo: CD Sito web: http://www.sunking.it
Membri band:

Ivan Perugini – voce, chitarra, piano

Daniele Sincini – basso

Giacomo Pettinari – chitarra

Roberto Tesei – batteria

Tracklist:

  1. Turn Me On
  2. Three Times Rock
  3. Your Love
  4. A Sign
  5. After The Night
  6. I Rock I Roll
  7. A Wave
  8. I Just Want
  9. The Dance Of Darkness
  10. Man Of The Mountain
  11. Hippogriff
Category : Recensioni
5 Comm
09th Nov2011

Petula Clark – Instinction

by Federico Cacciatori

Instinction, secondo album del duo belga, prosegue sulla strada di Aye Aye Aye offrendoci un potpurri di distorsioni elettriche e percussioni esagerate, senza purtroppo un vero elemento di novità rispetto al primo lavoro. Le quattordici tracce, tutte cortissime, scorrono via velocemente e anche andando in loop di ascolti è difficile riuscire a trovare una traccia
di spicco. Curioso è il monile della band che riprende il nome di una nota artista (cantante ed attrice) britannica, considerata da molti una delle voci più popolare dello scorso secolo.

L’album è un buon esercizio di stile e ritmo, forse molto adolescenziale: ci sembra di tornare a quella
saletta prove dove passavamo ore e ore dando libero sfogo a tutta la nostra rabbia ed energia da adolescenti inc…ati. Un’improvvisazione che incornicia quindici minuti (solo?!) di musica suonata di istinto, artigianalmente
vivisezionata in quattordici tracce: come dire che i numeri stavolta fanno la differenza. Sicuramente la radice è profondamente rock intinta nel noise più confusionario di quelli che stona a confronto di una copertina dall’immagine
invece così convenzionale. Ma il tutto è sicuramente più vicino al concetto di EP che di vero e proprio album completo.

Aspettiamo il terzo lavoro dei Petula Clark per capire se e come vorranno rimanere nel panorama del rock moderno.

Autore: Petula
Clarck
Titolo Album: Instinction
Anno: 2011 Casa Discografica: None Records/ Independenza/ Black Nutria
Genere musicale: Noise, heavy metal Voto: 5
Tipo: CD Sito web: http://www.myspace.com/petulaclark
Membri band:

Matt Flasse – voce, chitarra

Daniel Flasse – batteria

Tracklist:

  1. Escape From Ghouls’N’Ghosts
  2. Sulfate
  3. Dededin
  4. Ballerine
  5. Rate
  6. Die Petula Die!!!
  7. Pylone
  8. Chacal
  9. Baffff
  10. Yazoulk
  11. Sors De Ce Corps
  12. DaltonTerror Cops
  13. Yeah
  14. Attila
Category : Recensioni
Tags : Noise
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08th Nov2011

Kiss – Rock And Roll Over

by Gianluca Scala

Rock And Roll Over segnò il ritorno a delle sonorità hard rock per la band, più semplici e graffianti degli album degli esordi dopo il successo di vendite faticosamente raggiunti dall’album precedente Destroyer, solo grazie alla ballad Beth e non ai brani che presentavano sonorità più elaborate. Tocca questa volta a Eddie Kramer convogliare le idee del gruppo verso nuove canzoni. Tornano a dominare in questo album i temi spensierati e le melodie dolci come nell’opener I Want You o come Mr. Speed e Makin’Love che vengono impreziositi dagli efficaci assoli di Ace Frehley. Gene Simmons canta e scrive una grande hit dal nome Calling Dr. Love, brano famoso per il suo riff iniziale e che diventerà un classico dal vivo negli anni a seguire.

Per ottenere delle sonorità adatte al genere per quanto riguarda le percussioni leggenda vuole che Peter Criss registrò le sue parti di batteria all’interno dei servizi del teatro, lo Star Theatre di New York, comunicando via collegamento video con i compagni di gruppo. Criss inoltre è il cantante principale del brano Hard Luck Woman, il cui singolo estratto dall’album riuscì ad entrare nella Top 20 statunitense, arrivando fino alla quindicesima posizione. Il disco era comunque zeppo di brani efficaci e di facile appiglio come Ladies Room, Baby Driver o la ritmata Love’Em and Leave’Em. Rock And Roll Over vinse un disco d’oro e due dischi di platino e fu il primo disco dei Kiss ad ottenere questi riconoscimenti. Riscuotendo un successo tale che negli Stati Uniti divennero la band più popolare e in Giappone il loro successo di vendite superò quello riscosso dai Beatles nello stesso paese. Che altro si può aggiungere parlando di questo album che si presenta come uno dei più fortunati e riusciti della loro osannata carriera, forse che riscoprirlo dopo tanto tempo per analizzarlo in questa recensione dà sempre emozioni nuove e mai ti stancheresti di ascoltarlo quando si è come me amanti di questa musica.

Autore: Kiss Titolo Album: Rock And Roll Over
Anno: 1976 Casa Discografica: Casa Blanca Records
Genere musicale: Hard Rock Voto: 8,5
Tipo: CD Sito web: http://www.kissonline.com
Membri band:

Paul Stanley – voce, chitarra

Gene Simmons – voce, basso, chitarra

Ace Frehley – chitarra

Peter Criss – batteria, (voce principale in Baby Driver e Hard Luck Woman)

Tracklist:

  1. I Want You
  2. Take Me
  3. Calling Dr. Love
  4. Ladies Room
  5. Baby Driver
  6. Love ‘Em And Leave ‘Em
  7. Mr. Speed
  8. See You In Your Dreams
  9. Hard Luck Woman
  10. Makin’ Love
Category : Recensioni
Tags : Album del passato, KISS
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08th Nov2011

Andead – With Passionate Heart

by Giulia Galvani

With Passionate Heart è il nuovo lavoro dei milanesi Andead. Andead è lo pseudonimo utilizzato per presentare la band di Andrea Rock, autore e deejay di Virgin Radio, dove conduce, insieme a Giulia Salvi, la trasmissione “Virgin Generation”, e veejay per Virgin Radio Television. La band vede tra le sue fila, oltre al frontman sopraccitato, Gianluca Veronal e Robi alla chitarra, Ste al basso e Kasio alla batteria, rispettivamente ne Le Club Noir, Ball And Chain, This Grace e Poppers. With Passionate Heart è un disco dall’essenza puramente punk rock. Un lavoro, che come si sente sin dal primo ascolto, suona sincero e appassionato. Forse è proprio la passione messa in questo progetto musicale, tributata doverosamente nel titolo del disco, ad attribuire un quid in più a questa seconda release degli Andead. With Passonate Heart fa seguito a Hell’s Kitchen, il primo album pubblicato dalla band nel 2009. In questi due anni gli Andead non si sono fermati e dopo aver suonato sui palchi di tutta Italia e non solo, forti dell’esperienza acquisita e della maggiore consapevolezza sull’essenza del progetto Andead, tornano in studio di registrazione, regalandoci una piccola perla che risplende di luce punk rock, fatta di anima e cuore.

Così nasce With Passionate Heart, registrato al Mono Studio di Milano con la collaborazione di Enea Bardi, già loro fonico live, musicista e arrangiatore affermato. Esce ufficialmete l’8 novembre per Rude Records in una confezione che contiene Vinile + CD. With Passionate Heart è sostanzialmente una miscela di punk rock e rockabilly, schekerata con una buona dose di originalità. Stile rock e forme espressive basate essenzialmente sull’impatto sonoro. Riff abbastanza semplici così come le linee di basso, il tutto accompagnato dalla batteria. Non c’è spazio per i tecnicismi, ma il tutto si basa sulla purezza del suono e delle melodie, che seguono e accompagnano lo scorrere dei testi, descrivendo lo stato emotivo e il mood di ogni singola traccia. With Passionate Heart rappresenta un’immagine, un’istantanea, del momento creativo della band. Un disco più maturo e consapevole rispetto al lavoro precedente. Consapevolezza che deriva dalla chiarezza di intenti maturata all’interno del progetto Andead, che senza pretese, propone un sound incontaminato, senza i fronzoli dei trends del momento. Solido e sincero.

Degno di nota, il primo singolo estratto, che anticipa l’uscita dell’album, My Little Horror, track uno del disco, che introduce ed invoglia all’ascolto. La formazione è la classica, basso, chitarra e batteria. La voce accompagna la melodia ottimamente. E via così fino alla fine. Così come la title track, With Passionate Heart, una ballata coinvolgente e struggente. Un piccolo manifesto dell’idea di musica degli Andead. Dal vivo poi sono una bomba! Buon ascolto.

Autore: Andead Titolo Album: With Passionate Heart
Anno: 2011 Casa Discografica: Rude Records
Genere musicale: Punk Rock Voto: 7
Tipo: Vinile + CD Sito web: http://www.facebook.com/AndeadOfficial
Membri band:

Andrea Rock – voce

Gianluca Veronal – chitarra

Robi – chitarra

Ste – basso

Kasio – batteria

Tracklist:

  1. My Little Horror
  2. Have You Ever
  3. Me Vs The Outside World
  4. Devilman
  5. Punk Rock Revolution
  6. It’s Not My Fault
  7. With Passionate Heart
  8. I Drove All Night
  9. Kill The Loneliness

 

Category : Recensioni
Tags : Punk Rock
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07th Nov2011

Iron Maiden – No Prayer For The Dying

by Marcello Zinno

E così dopo precisi 10 anni dalla prima uscita, gli Iron Maiden giungono all’inversione di rotta, non tanto per un nuovo sound (che come abbiamo detto è avvenuto già a partire da Somewhere In Time, tutto da apprezzare) bensì per una loro piattezza compositiva ed una bassissima percentuale di idee presenti di qui in avanti. Un fattore molto importante che ha spinto verso questa direzione è stata l’uscita di Adrian Smith, ottimo chitarrista, il cui contributo era fondamentale per le sorti della band. Dedicatosi al suo progetto solista ASAP (Adrian Smith And Project), ha lasciato il posto vacante a Janick Gers, chitarrista di indubbia tecnica, già spalla di Bruce Dickinson nel suo primo lavoro solista dal titolo Tattooed Millionaire, uscito nello stesso anno di questo No Prayer For The Dying. Un Bruce che sembra sotto tono in questo lavoro targato Iron Maiden, non sicuramente in forma come in passato.

In effetti anche dopo parecchi ascolti (ma in realtà ne basterebbe uno solo) non si riesce a cavare nulla di buono se non una scontatezza ed un ritorno “obbligato” verso il sound classico della band, forse per far intendere ai propri fans che anche con un nuovo chitarrista si poteva continuare a sfornare capolavori. Ma l’intento non è raggiunto, chiaro l’obiettivo fin da Tailgunner che risulta sciapa e banale. Il livello si alza un pò con la title track, ballad in classico stile della Vergine di Ferro che appassiona per le parti lente e carica per quelle spinte. Si avvicina molto di più al sound futuro della band ed in pratica risulta uno dei pochissimi spunti nuovi ricercati in questo album. La forza bruta mista alla velocità si schierano in prima linea a metà brano, quando la precisione e la mitragliata di note profuse dalle due chitarre ci colpiscono a freddo. Stacco, cambio, ripresa….ma in tutto questo l’imprinting di Harris è sparito, perso nella stanchezza di 10 anni di uscite o forse nella voglia di posizionarsi sopra gli altri, in quanto a capo della scena. E di nuovo si riparte con la stessa banalità dei primi due pezzi con una Public Enema Number One in cui Bruce cerca un’aggressività diversa ma senza trovare nessun giovamento. I risultati ottenuti con il già citato Somewhere In Time sono lontani anni luce dal riprodursi; probabilmente questo album sarebbe stato meglio intepretato da Paul Di Anno se l’intenzione era quella di optare per la stessa direzione vocale/stilistica.

Fates Warning apre con delle sonorità (guarda caso) molto comuni proprio al gruppo che porta questo nome, diretto da Jim Matheos, sonorità appunto atmosferiche. Ma dopo circa un minuto gli Iron riconquistano il loro mood senza coinvolgerci più di tanto e non aggiungendo nulla a quanto già sapessimo di loro. Da salvare l’assolo in coppia, interessante anche se a tratti include una positività che stona con il resto dell’album, e qualche stacco che ci conquista ma non basta per far risalire le sorti della band. Simili cose possono essere dette per The Assassin, in cui i Nostri eseguono il compitino assegnato a casa senza nessuno spunto ulteriore, Run Silent Run Deep, all’ascolto della quale ci si chiede se fosse stata proprio necessaria come traccia (chi ha parlato di riempitivo?), Hooks In You che ricerca un hard rock senza trovarlo (ed anche un pò di sano pop nel ritornello), Mather Russia interessante solo a tratti e Bring Your Daughter…To The Slaughter che rimarca la piattezza di contenuti e di idee del resto del lavoro.

Inutile aggiungere dell’altro, se avete accumulato una dozzina di euro elemosinando o magari con del duro lavoro, tenetevi a distanza da questa uscita se non altro perché ci sono tantissimi altri album degli Iron Maiden di gran lunga molto più affascinanti.

Autore: Iron Maiden Titolo Album: No Prayer For The Dying
Anno: 1990 Casa Discografica: EMI
Genere musicale: Classic heavy metal Voto: 4
Tipo: CD Sito web: http://www.ironmaiden.com/
Membri band:

Bruce Dickinson – voce

Steve Harris – basso

Dave Murray – chitarra

Janick Gers – chitarra

Nico Mcbrain – batteria

Tracklist:

  1. Tailgunner
  2. Holy Smoke
  3. No Prayer For The Dying
  4. Public Enema Number One
  5. Fates Warning
  6. The Assassin
  7. Run Silent Run Deep
  8. Hooks In You
  9. Mother Russia
  10. Bring Your Daughter…To The Slaughter
Category : Recensioni
Tags : Album del passato, Iron Maiden
1 Comm
06th Nov2011

Black ‘N Blue – Hell Yeah!

by Gianluca Scala

Dopo anni di silenzio e senza uscite discografiche ufficiali tornano i Black ‘N Blue di James St. James! Si erano perse le tracce di questo gruppo americano originario dell’Oregon quando il singer biondo crinito aveva deciso di entrare a far parte dei Warrant, altra grande band statunitense. All’epoca le leggende raccontavano che i Black’ N Blue stessero lavorando ad un fantomatico successore dei quattro album  usciti negli anni ’80 che avevano proiettato il gruppo tra le stelle della scena hard rock statunitense. E quando tutti pensavano che si trattasse di una bufala, ecco arrivare la notizia della reunion! E specialmente la firma di un contratto con l’etichetta italiana Frontiers Records.

Ma passiamo a parlare di questo ritorno discografico, molto gradito da pubblico e critica che a distanza di 23 anni dalla precedente release, non commette l’errore del passato e guarda molto di più all’hard rock del loro debut album, che al genere hair metal degli album successivi. Ci troviamo davanti quindi ad un ottimo disco con forti richiami ai Kiss di fine anni ’70, soprattutto ascoltando la seconda traccia Target e in taluni casi accenni agli Ac/Dc (la title track su tutte). Le spensierate atmosfere del passato sono quindi sostituite da solidi brani come Fools Bleed e So Long, da cui emerge la maestria di musicisti che non si improvvisano rockettari per una notte, ma suonano esattamente la musica cui sentono di appartenere. Da segnalare l’ottimo lavoro del nuovo chitarrista Shawn Sonnenschein chiamato a sostituire Tommy Thayer, ormai entrato in pianta stabile nei Kiss, che contribuisce con il suo stile tagliente a dare alle tracce di Hell Yeah un’impronta più energica. Bentornati vecchi Rockers!

Autore: Black ‘N Blue Titolo Album: Hell Yeah!
Anno: 2011 Casa Discografica: Frontiers Records
Genere musicale: Heavy metal Voto: 7
Tipo: CD Sito web: http://www.myspace.com/blacknblueofficial
Membri band:

Jaime St. James – voce

Shawn Sonnenschein – chitarra

Jeff Warner – chitarra

Patrick Young – basso

Pete Holmes – batteria

Tracklist:

  1. Monkey
  2. Target
  3. Hail, Hail
  4. Fools Bleed
  5. C’mon
  6. Jaime’s Got The Beer
  7. Angry Drunk Son Of A Bitch
  8. So Long
  9. Trippin’ 45
  10. Falling Down
  11. Candy
  12. Hell Yeah!
  13. World Goes Round
  14. A Tribute To Hawking (Outro)
Category : Recensioni
Tags : Heavy Metal
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05th Nov2011

Emerson, Lake & Palmer – Brain Salad Surgery

by Amleto Gramegna

“Welcome back my friends…”. Un teschio (opera di quel gran genio di H. R. Giger) con parte del volto di donna, ci squadra dalla cover  del disco in questione, opera del 1973 del super trio E, L & P. Già, super trio…unire tre mostri sacri è sempre un azzardo (vedi alla voce “Cream”), ma unire tre mostri sacri del prog quali Keith Emerson, fresco fresco dai Nice, Greg Lake scappato dai King Crimson e Carl Palmer, che aveva appena tolto il  grembiulino dagli Atomic Rooster di Vincent Crane, poteva essere un’impresa davvero disperata. La sfida, almeno fino all’obbrobrioso Love Beach con copertina degna di Albano, fu decisamente vinta  in quando se piazzi un poker d’assi quali Trilogy-Tarkus-Pictures-Brain devi decisamente vincere.

Ma vediamo di cosa tratta quest’album. Lasciando perdere il titolo (pare sia uno slang  inglese per alludere alla fellatio ed occhio a cosa compare, anche se in ombra, vicino la bocca della donna!) un gran suono d’organo ci introduce Jerusalem, di cosa parla? Semplice, è la versione rock (che brutto termine!) di un canto religioso inglese con testo di William Blake; probabile che l’idea di riarrangiare i classici, dopo Pictures at an Exhibition ad Emerson non sia del tutto svanita, in ogni caso Lake si mette in luce, oltre che per le sue eccezionali doti bassistiche, per la pulizia della sua voce. Segue Toccata e qui ritorniamo al pallino della classica. Eh sì, perché l’idea di arrangiare un concerto per pianoforte del compositore argentino Alberto Ginastera doveva frullare in testa al buon Keith da parecchio, tant’è che ne fa una direzione decisamente curata tanto da accaparrarsi (chi ha il vinile originale del ’73 lo confermerà) i complimenti di quest’ultimo stampati all’interno della busta. Mica cotica! Ora tocca alla ballatona (alla Lucky Man che piace a tutti) ed ecco Still…You Turn Me On un bel momento di un Greg Lake, tenero ed acustico, con la sua dodici corde accordata con il re basso. Brano a dir poco fantastico (qui Lake fa davvero sentire la sua voce), peccato per il ritornello che, con quell’effetto wah wah, rovina praticamente tutta l’atmosfera facendo precipitare un sogno in una atmosfera semi-western (qualcuno ha parlato di assolo di moog in coda ad un brano??).

Ritorna l’atmosfera da saloon con Benny The Boucer e forse le uniche parole adatte per definire questo brano sono “riempitivo”, pianoforte honky-tonk e noia che affiora…saltiamola a piè pari ed arriviamo al vero capolavoro del disco: 29 minuti, tanto dura l’ultima traccia Karn Evil 9 (ovvio gioco di parole tra “carnival” ed “evil”, ma quel 9? Richiamo ai Beatles del White Album? chissà!) in realtà suddivisa in tre “impressioni”, ove spicca un secondo movimento totalmente strumentale. Il primo, ricordato per quel “Welcome back…” che diventerà titolo di un album live è magistralmente condotto da Keith Emerson, ben coaudivato dalla batteria di Palmer. Lake si destreggia in modo sicuro tra basso e voce (testi di Pete Sinfeld, vero deus ex machina della scena prog-rock inglese) imbracciando, anche se per pochi istanti anche una chitarra elettrica. Il secondo, come anticipato, è completamente strumentale e l’atmosfera che si respira è di quella fusion anni ’70 (penso ai Return To Forever) che tanto andava di moda allora. L’ultimo movimento cambia atmosfera passando al maestoso con un bel dialogo tra un uomo e un computer (e non so il perché ma questa parte mi ricorda un po’ il dialogo tra Bowman e Hal 9000 di 2001: Odissea Nello Spazio). Insomma 29 minuti che volano.

Quest’album fu considerato un pò il canto del cigno del trio in quanto, tutti i lavori successivi, non riusciranno mai ad attestarsi su quella genialità, ma al momento: “Welcome back my friend…to the show that never ends!”.

Autore: Emerson, Lake & Palmer Titolo Album: Brain Salad Surgery
Anno: 1973 Casa Discografica: Manticore
Genere musicale: Progressive Rock Voto: 7
Tipo: CD Sito web: http://www.emersonlakepalmer.com/
Membri band:

Keith Emerson – tastiere

Greg Lake – basso, chitarra, voce

Carl Palmer – batteria e percussioni

Tracklist:

  1. Jerusalem
  2. Toccata
  3. Still…You Turn Me On
  4. Benny The Bouncer
  5. Karn Evil N.9

 

Category : Recensioni
Tags : Album del passato, Progressive
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04th Nov2011

U2 – The Unforgettable Fire

by Tiziana
Oh, deep in my heart,
I do believe
We shall overcome, some day.
We’ll walk hand in hand,
We’ll walk hand in hand,
We’ll walk hand in hand, some day

(We Shall Overcome – Inno del movimento per i diritti civili U.S.A.)

Dopo il terzo album War ed il conseguente live Under a Blood Red Sky, nonchè il documentario Live At Red Rocks: Under a Blood Red Sky, gli U2 se la passano abbastanza bene economicamente. Il War Tour in giro per il mondo ha dato anch’esso i frutti sperati, ergo è la volta buona per il cambio di rotta, licenziando (con il suo completo benestare) Steve Lillywhite, in favore di Daniel Lanois ma, soprattutto, di quel geniaccio di nome Brian Eno. Nei primi anni ‘80, Eno è già conosciutissimo ed apprezzato per i lavori svolti con Roxy Music, Ultravox e Talking Heads, ma anche e soprattutto per preziose collaborazioni con musicisti del calibro di Robert Fripp, John Cale, Phil Collins, David Bowie (ricordiamo la trilogia composta da Low, Heroes e Lodger di cui fu artefice). Questa scelta di produzione è un vero giro di boa, in favore di un genere più sperimentale, infatti Eno in quegli anni è già in piena fase ambient, come sempre con un occhio attento al rock ed alla new wave. Gli U2 non si fanno scappare certo un’occasione per tentare nuove strade, pur rimanendo fedeli alle proprie indiscusse radici post-punk ed alla propria identità, cosa che colpisce molto positivamente Eno e lo spinge a collaborare con loro.

La registrazione avviene nel 1984 nello Slane Castle, antica fortezza nella contea irlandese Meath. Si tratta di un’esperienza indimenticabile e fortemente illuminante, che permette di dar sfogo totale al loro estro creativo, dalla quale ha anche origine, l’anno successivo, il documentario TV The Making of The Unforgettable Fire, parte di una vera e propria collection in VHS intitolata, per l’appunto, The Unforgettable Fire Collection. I testi dell’album sono per lo più un omaggio a Martin Luther King ed alla lotta per i diritti civili dei neri d’America, ma parlano anche di nucleare, infatti il titolo stesso dell’album e della title track sono ispirati alla tragedia di Hiroshima e Nagasaki. Ci sono inoltre accenni di vita privata, dolore per la perdita di un amico a causa dell’eroina, riferimenti agli indiani d’America e perfino ad un decadente Elvis Presley, durante i suoi ultimi anni di vita. Un mashup tanto folle quanto d’effetto, che suggella di fatto il loro ampio seguito e mostra gli U2 in chiave più creativa che mai.

A Sort Of Homecoming apre questo lavoro meraviglioso in modo folgorante: già dal primo brano siamo certi che, quest’album, ha qualcosa di diverso da comunicare. L’atmosfera è cambiata, si sente nettamente. “Tonight we’ll build a bridge/ Across the sea and land/ See the sky, the burning rain/ She will die and live again tonight/ And your heart beats so slow/ Through the rain and fallen snow” la poetica di Bono si fa più intensa, ispirandosi alla figura del poeta rumeno Paul Celan, che descrisse la realtà dei campi di concentramento. Il ritorno a casa, quindi, può simboleggiare sia il ricongiungimento con i propri cari, che la fine di una guerra. Il secondo pezzo è Pride, uno dei brani senza dubbio più famosi degli U2, dedicato a Martin Luther King nel giorno della sua morte. L’assolo di chitarra di Edge parte energico e la batteria di Larry arriva precisa, decisiva per l’inizio del pezzo. Sound unico che determina la hit del disco. Poi c’è Wire, una vera perla dell’album che risente molto dell’influenza di Eno: “Innocent, and in a sense I am/ Guilty of a crime that’s now in hand/ Such a nice day to throw your life away/ Such a nice day, to let it go” parla di droga, in maniera cinica e forte, la voce di Bono ricorda un pò la schizofrenia di David Byrne.

La title track è di un’intensità unica, è il vero pezzo ambient (con atmosfere jazz), il gancio di traino del disco. Brian Eno definiva la sua musica capace di far cambiare lo stato d’animo dell’ascoltatore. Indubbiamente si ha la sensazione, ascoltando The Unforgettable Fire, di essere completamente avvolti da essa, in un’atmosfera quasi surreale. E’ come trovarsi ad ammirare Impressione, Sole nascente di Monet: poesia pura di fronte alla quale non si può che inchinarsi. Ed all’improvviso ecco arrivare Promenade: un pezzo breve di due minuti e mezzo che ci offre uno scorcio della vita privata di Bono, con la sua Alison, in una casa nuova acquistata con i proventi di War. Dolce e soffusa, come la luce che filtra da una finestra che dà sull’oceano.In 4th Of July, completamente strumentale, il basso tesse una trama appena percettibile all’inizio, che si interseca con il suono sfuocato della chitarra, divenendo sempre più grave. Come un ricordo che riaffiora da un cassetto della memoria e viene a ricordarci da dove veniamo. Meraviglia pura. Bad è una bellissima canzone che parla di droga in modo dolce e ricco di umanità: “If I could through myself/ Set your spirit free/ I’d lead your heart away/ See you break, break away/ Into the light and to the day”; è un grido costante, una denuncia che però vuole anche contribuire, in qualche modo, alla redenzione. La magica voce di Bono in questo pezzo arriva ad un’intensità indescrivibile, come un’onda che giunge e porta via l’anima di chi ascolta. Il finale è introdotto da strofe con un’unica parola, che catturano e sconvolgono, portando lentamente alla deriva ciò che l’onda sonora aveva travolto.

Indian Summer Sky e Elvis Presley And America sono autentiche espressioni. La prima si riferisce (come suggerisce il titolo) ai nativi d’America. La seconda è una specie di sogno, in cui un Elvis ormai avanti con gli anni, ci propone un’ennesima esibizione. Sono entrambe frutto d’improvvisazione e per questo preziosi esempi di ciò che l’arte può produrre. Infine, una splendida ninna nanna che amo far ascoltare a mia figlia: MLK. Quest’album ha le sembianze di un viaggio: un ritorno a casa che, all’ultimo, ci fa virare verso l’ignoto. E senza alcun dubbio, niente è più poetico di questo: lasciarsi guidare dalla musica, in un posto sconosciuto e meraviglioso nel quale perdersi.

Autore: U2 Titolo Album: The Unforgettable Fire
Anno: 1984 Casa Discografica: Island
Genere musicale: Rock Voto: 9
Tipo: CD Sito web: http://www.u2.com
Membri band:

Bono – voce

The Edge – chitarra, cori

Adam Clayton – basso

Larry Mullen Jr. – batteria

Tracklist:

  1. A Sort Of Homecoming
  2. Pride (In The Name Of Love)
  3. Wire
  4. The Unforgettable Fire
  5. Promenade
  6. 4th Of July
  7. Bad
  8. Indian Summer Sky
  9. Elvis Presley And America
  10. MLK
Category : Recensioni
Tags : Album del passato, U2
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03rd Nov2011

Lola Stonecracker – Sharks Above

by Gianluca Scala

I Lola Stonecracker si presentano al pubblico con questo EP di 7 tracce di modern hard rock totalmente autoprodotto e bisogna dire che questi cinque ragazzi di Bologna ci sanno fare davvero. Le canzoni sono influenzate da diversi stili intrecciati magnificamente tra loro (street rock, grunge con un approccio vintage), dicevamo sette canzoni, di cui sei inediti ed una cover, ossia Relax dei Frankie Goes To Hollywood. Si parte con Jingsaw dove si sente già l’impronta multi stile che contraddistingue il genere da loro proposto con buoni arrangiamenti ed assoli di chitarra molto interessanti. La seconda traccia Witchy Lady è una buona rock song che ricorda molto i The Cult, sia nel cantato che nei ritmi molto sostenuti all’interno del pezzo, ancora con un bell’assolo di chitarra nell’intermezzo.

Mc Kenny Place parte con un bel chorus sottolineato da un riffone accattivante e molto robusto, uno dei brani più riusciti dell’intero lotto, mentre All The Way profuma di Pearl Jam ed ha un ritornello molto semplice ed efficace, ben congegnato. Lo stesso si può dire di Vulnerable, una bella ballad, altro pezzo post-grunge ben suonato e cantato dal singer Alex Fabbri che con il batterista Christian Cesari, i chitarristi Massimiliano Scarcia e Davide Pola ed il bassista Tiziano De Siati completano la line up. Possiamo aggiungere che sicuramente i Lola Stonecracker hanno ancora molto da dire e che questo loro EP promette bene, in attesa di un album vero e proprio.

Autore: Lola Stonecracker Titolo Album: Sharks Above
Anno: 2011 Casa Discografica: Autoproduzione
Genere musicale: Hard Rock Voto: 7
Tipo: EP Sito web: http://it-it.facebook.com/pages/Lola-Stonecracker/134094696650141
Membri band:

Alex Fabbri – voce

Davide Pola – chitarra e cori

Massimiliano Scarcia – chitarra e cori

Tiziano De Siati – basso e cori

Christian Cesari – batteria

Tracklist:

  1. Jigsaw
  2. Witchy Lady
  3. Mc Kenny’s Place
  4. All This Time
  5. Way Out
  6. Vulnerable
  7. Relax
Category : Recensioni
Tags : Hard Rock
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