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10th Apr2018

Insomnium+Tribulation@Legend Club (MI)

by Antonluigi Pecchia

Insomnium+Tribulation@Legend Club (MI)La release di Winter’s Gate ha messo alla luce un nuovo volto degli Insomnium, opera complessa ricca di epicità e meno melodica, caratteristica che invece aveva portato la band finnica alla fama. Io personalmente non ho mai apprezzato l’eccessiva melodia che caratterizzava il loro personale sound, nonostante abbia sempre riconosciuto l’ottima qualità dei loro precedenti lavori. La band, grazie agli ottimi riscontri ottenuti dall’ultimo album si è ritrovata di nuovo in tour per l’Europa a riproporre interamente la lunga suite da loro composta, in questo caso accompagnati dagli svedesi Tribulation freschi dall’uscita dell’ultimo Down Below. Varie sono state le tappe italiane previste per l’evento e la data milanese al Legend Club rappresentava un’occasione troppo ghiotta a cui mancare.

Apertura di concerto incredibile per gli svedesi Tribulation. Nei cinquanta minuti a disposizione della band svedese assistiamo ad uno show impeccabile basato su una setlist che ha pescato il meglio del periodo più maturo e personale del quartetto. Dal carico esordio con il singolo Lady Death si nota quanto la band sia in forma stasera. L’inarrestabile chitarrista Johnathan Ulthién e i suoi passi di danza classica tra fumo e odore di incenso ammaliano il pubblico che non riesce a distogliere lo sguardo dal palco, il restante compito lo svolge la carica che alla band non manca affatto e la scelta dei brani, la band sul palco si diverte e anche noi pubblico che l’ammiriamo. Gli estratti da The Children Of The Night quali Melancholia e In The Dreams Of The Dead sanno bene come farsi amare, nonostante siano pochi gli estimatori della band in sala. Infatti stiamo parlando di un act che con il suo ricercato gothic/death/heavy metal spiazza e affascina, anche a chi si ritrova a sentirlo per la prima volta, ancor meglio se dal vivo (come è capitato anche al sottoscritto qualche anno fa). Viene fatto un passo indietro al tempo di The Formulas Of Death con Rånda e la strumentale Ultra Silvam. Poi la band decide di ritornare all’ultimo uscito Down Below con Nightbound e l’immancabile singolo The Lament durante il quale il pubblico mostra un certo apprezzamento, dovuto magari anche alla semplicità e al tiro dei brani proposti. L’incenso sul palco ormai ha smesso di bruciare quando l’intro della sinistra Strange Gateways Beckon risuona negli speaker e con queste note i quattro non-morti salutano il pubblico in sala, lasciando il palco tra gli applausi più che meritati, speriamo di poter avere presto la possibilità di rivederli in Italia, magari in vesti di headliner.

Per la qualità della prova a cui abbiamo assistito, non è facile per una band dover prendere posto on stage ora ma la serata non è ancora terminata, giunge il turno degli Insomnium. Il palco si tinge di blu ed è l’intro di Winter’s Gate ad accompagnare i movimenti delle figure dei finnici sul palco acclamati da un locale ben affollato di loro sostenitori. Il frontman Niilo saluta Milano con una bestemmia in italiano ed è la musica a fare il resto delle presentazioni. La prima parte del set è rappresentata dall’ultimo disco, riproposto tutto d’un fiato come se fossimo a casa a gustarcelo su disco. Completamente assente è l’interazione con il pubblico che resta estasiato ad ascoltare l’opera nella sua interezza e con le sue svariate sfaccettature che compongono le imprese dei vichinghi del concept, riproposte in maniera impeccabile, prive di imperfezioni e sbavature. L’ex Sonata Arctica Jani Liimatainen non ci fa sentire la mancanza dei backing vocal e della chitarra di Ville Friman. Terminato l’album, la band decide di fare un passo indietro, proponendo una carrellata di brani dalle precedenti produzioni e lo show diventa più sciolto e attivo per i musicisti sul palco. Si parte con The Primeval Dark seguita da While We Sleep estratte dal fortunato penultimo Shadows Of The Dying Sun con cui il pubblico inizia a partecipare attivamente allo show cantando insieme ai nordici sul palco.

I finnici fanno un passo indietro con Mortal Share estratto dal disco della maturazione del loro sound personale Above The Weeping World, per poi ritornare alle ultime produzioni che li hanno portati al successo con Down With The Sun, Weather The Storm, Ephemeral e The Promethean Song. Per l’encore viene riservata Only One Who Waits che fa lasciare ai quattro il palco tra gli applausi e dimostrazioni di affetto da parte di un piccolo club pieno e sudato ben ricco di sudore. Ottimo show, preciso e che è riuscito a dimostrare tutta l’esperienza maturata dalla band nel corso dei suoi anni trascorsi in tour, la semplicità è la chiave dei loro live set, mettendo la musica al centro di tutto, infatti la formula live di questi ragazzi è rimasta immutata, nel tempo si sono fatti voler bene così e non hanno voluto cambiare questo loro aspetto. Bravi, una gran bella serata per tutti i presenti che hanno avuto modo di assistere a due show diversi ma entrambi di alto livello di due delle migliori band in circolazione. Possiamo tornare a casa soddisfatti e fieri di aver visto un concerto infrasettimanale e a non esserci fatti scoraggiare dalla pioggia di una tipica giornata temporalesca primaverile!

Live del 4 aprile 2018

Category : Live Report
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06th Apr2018

Bob Dylan@Auditorium Parco della Musica – Roma

by Sara Fabrizi

Bob Dylan Auditorium Parco della Musica - Roma 5 aprileCosa ha combinato il bardo di Duluth nella terza sera del suo tour romano? Pensavamo di trovarlo stanco e poco performante, con alle spalle già il carico delle 2 serate precedenti. E invece: effetti speciali, Signore e Signori! Non più il folksinger con il naturale corredo di chitarra acustica ed armonica, non più il rocker che dal ’65 in poi “eletrizzò” il folk fondando di fatto un nuovo genere, non più l’esecutore dalla voce stravolta ed irriconoscibile che tutti ci aspettavamo/temevamo. Il menestrello è qualcosa di più e qualcosa oltre le sterili etichette che ci ostiniamo ad attaccargli addosso da più di 50 anni, cercando di catturare e definire il suo personaggio. Quel personaggio, circondato da quella aura quasi mistica che noi pensiamo di conoscere, lui lo ribalta a suo piacimento. Nella costante demistificazione del suo mito, da cui paradossalmente, e suo malgrado, il suo mito esce rinforzato. Ieri sera all’Auditorium Parco della Musica in quelle 2 ore tiratissime di concerto Robert Zimmerman si è confermato essere un adorabile maledetto genio. Un live show elegante, raffinato e vivace. Atmosfere di un’America anni ’20, anzi di un’America timeless, tra cover di classici della canzone americana (cui ha dedicato i suoi ultimi 3 album) e riproposizione dei suoi classiconi storici in una veste nuova, meno rockeggiante ma più bluesy e jazzarola che ci ha letteralmente conquistati.

Lo abbiamo visto per quasi tutto il tempo dietro il suo piano, suonare con verve e cantare con la sua voce ormai notoriamente “diversa” da quella di un tempo ma gradevolissima, assolutamente non gracchiante come spesso gli haters sono soliti stigmatizzarla. Era in gran spolvero. Ogni tanto abbandonava la sua postazione, si alzava e, impugnata l’asta del microfono e assunta la posa di un vero crooner, dava sfogo al suo amore per quelle atmosfere antiche, fumose e rarefatte che lo hanno portato a dedicare l’ultima parte della sua carriera alla reinterpretazione del canzoniere americano pre anni ’60. Un artista raffinato, coadiuvato da una band grandiosa e spassosa. Sì, spassosa è il termine esatto. C’era un’aria frizzante, un non so che di vivace ed accattivante che aleggiava per la Sala Santa Cecilia. Ogni pezzo è stato eseguito con maestria e personalità, spaziando nella sua immensa discografia. L’apertura affidata a Things Have Changed, poi a seguire 3 pietre miliari: Don’t Think Twice, It’s All Right, Highway 61 Revisited, Simple Twist Of Fate. Diverse dalla versioni che ben conosciamo, ma assolutamente godibili. Del resto come si fa a riproporre in maniera meccanicamente identica gli stessi pezzi per ben 50 anni? Ben venga lo “stravolgimento” quando è fatto così. Quando l’artista riesce a liberare il pezzo dalla gabbia dorata della sua forma nota ed incantatrice, lo spoglia, lo veste a nuovo e riesce comunque a comunicarci la sua essenza profonda, la sua immutabile sostanza. Ed è proprio quello che Dylan ha realizzato ieri. Questa operazione di sdoganamento gli è riuscita con naturalezza. Ed ha fatto innamorare anche me, che sono una dylaniana intransigente.

Tangled Up In Blue, per esempio, era ardua da riconoscere immediatamente, così riarrangiata per il piano. Eppure quanta nuova bellezza ne è uscita. Desolation Row, invece, era già più nell’alveo della sua versione madre. Bellissima esecuzione, piena di pathos e di verve. Abbastanza fedele all’originale Sick Of Love (tratta da quell’album meraviglioso del ‘97 che è Time Out Of Mind), incantevole. Bellissima, veloce, frizzante, molto blueseggiante Thunder On The Mountain (tratta da Modern Times del 2006). E’ stato dato spazio anche al suo ultimo album di inediti, Tempest. Ben 3 pezzi da questo disco: Duquesne Whistle, Pay In Blood, Early Roman Kings. Esecuzione sempre magistrale, tra il blues ed il jazz, con il pubblico in delirio. La chiusura l’ha affidata a 2 zoccoli duri della sua discografia: una Blowin’ In The Wind messa a ferro e fuoco per come è stata rivisitata, ma ad ogni modo gradevole e funzionale a questo suo nuovo mood re-interpretativo. Quella che conosciamo come il manifesto del suo folk sognante ed impegnato, quella che conosciamo a memoria tutti, quella che più diretta, semplice e genuina non ce n’è, qui acquista un nuovo pathos e una nuova vivacità. E poi Ballad Of A Thin Man. Esecuzione epica e nei ranghi della versione studio. Pezzo emblematico. Qui Dylan faceva un’invettiva, non troppo velata, contro uno dei tanti giornalisti che si ostinavano a volerlo “capire” ed etichettare per forza. Quasi un monito a noi tutti: non statemi troppo appresso, non statemi troppo addosso, non ostinatevi a rinchiudermi in una definizione. E lo sappiamo bene, Mr. Dylan. A noi non interessa cristallizzare la tua arte e la tua essenza. Quell’ “another side of Bob Dylan” che abbiamo visto ieri sera a noi piace da morire.

 

Scaletta di Bob Dylan:

Things Have Changed

Don’t Think Twice, It’s All Right

Highway 61 Revisited

Simple Twist Of Fate

Duquesne Whistle

Melancholy Mood

Honest With Me

Tryin’ To GetTto Heaven

Full Moon And Empty Arms

Pay In Blood

Tangled Up In Blue

Early Roman Kings

Desolation Row

Love Sick

Autumn Leaves

Thunder On The Mountain

Soon After Midnight

Long And Wasted Years

Encore

Blowin’ In the Wind

Ballad Of a Thin Man

 

Live del 5 aprile 2018

Category : Live Report
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12th Feb2018

Pestilence+Rebaelliun+Distillator+guests@Elyon (MI)

by Antonluigi Pecchia

Pestilence_elyon-rozzano-milano-2018Per i metallari più sporchi e cattivi l’evento imperdibile di questo weekend è stato la data milanese del Fight The Plague Tour con cui i Pestilence hanno deciso di riprendere l’attività live, con una line-up completamente rinnovata dopo qualche anno di split. Un ritorno sulla scena che Patrick Mameli ha deciso di festeggiare con una setlist di brani tratti unicamente dai primi quattro album della band. La tappa milanese del tour a Rozzano è caduta di sabato sera, evento più unico che raro per gli amanti del death metal di vecchia scuola. Varchiamo le porte del locale mentre i romani Sudden Death stanno ultimando il loro set. Un godibile brutal death metal il loro, apprezzato e ascoltato con distacco da un club man mano sempre più affollato. Riusciamo a goderci per intero lo show degli olandesi Distillator, energico come solo il thrash metal classico di natura europea sa essere. Il trio ce la mette tutta senza risparmiarsi nonostante il pubblico in sala, sempre più in continuo aumento, preferisca ascoltare e sorseggiare una birra anziché lasciarsi trasportare. In ogni caso molto bravo il terzetto che non si è lasciato sfiduciare, regalando comunque un’ottima prova!

Sembra che per il pubblico il vero e proprio concerto inizi con l’esibizione dei brasiliani Rebaelliun. La platea inizia a muoversi verso le prime file, cominciando a dimostrare un po’ di calore verso i musicisti. Nonostante l’inizio dello show non sia dei migliori a causa dell’audio un po’ basso, problema risolto dopo un paio di brani, tutto scorre esattamente come deve andare. Il granitico death metal della band viene sparato colpo su colpo sul pubblico lasciandolo senza fiato. Vengono mescolati brani tratti dal primo disco Burn The Promised Land passando per The Hell’s Decrees e per l’ultimo EP Bringer Of War (The Last Stand). Il momento migliore dello show è quando viene chiamato sul palco Tya (ex-Antropofagus, ora voce degli Hellish God , act in apertura che noi ci siamo persi a causa del traffico) in aiuto per Legion. Il massiccio brano contenuto nell’ultimo disco dei brasiliani risulta, grazie alla voce del deathster milanese, un muro di suoni invalicabile che sovrasta un pubblico stupito dalla brutalità dello show.

Scatta l’ora dei Pestilence. Il club è totalmente pieno quando la band fa la sua entrata on stage in modo molto naturale: Patrick Mameli posiziona il suo smartphone sull’asta del microfono, tocca il tasto play su l’intro Malleus Maleficarum. Non c’è altro da aggiungere. Il pubblico è ben a conoscenza di ciò che avrà modo di ascoltare e in un istante il club si trasforma in una bolgia. Il sudore scorre a fiumi, più che pogare si pattina, ma a nessuno importa in questo incontro con la storia del death metal. I classici vengono riproposti uno dopo l’altro, con un po’ di freddezza, lasciando che sia la cruda musica a fare lo show. La scelta dei brani in programma comprende i più tirati dei primi album. Malleus Maleficarum, Consuming Impulse e Testimony Of The Ancient vengono saccheggiati a più non posso. Spheres risulta un po’ trascurato dato che viene proposta solo la bellissima Mind Reflections verso la conclusione, prima che la band abbandoni il palco per poi ripresentarsi per l’encore Out Of The Body. Uno show brutale e diretto, privo di fronzoli, forse un po’ freddo per quanto riguarda l’interazione con il pubblico in sala, soddisfacente per far comprendere quanto Mr. Mameli sia caduto nuovamente in piedi. Ha riformato una band da zero, capace di realizzare uno show privo di errori dove forse l’unica pecca può essere riscontrata proprio per quanto riguarda il suo atteggiamento. Probabilmente se avesse mostrato un po’ più di entusiasmo avrebbe reso ancora più gradevole la performance, ma non si può pretendere tutto.

In fondo abbiamo assistito ad un evento più unico che raro, in cui la setlist tanto attesa ha fatto più della metà dell’opera. Il resto l’ha fatto l’ottimo lavoro svolto dai musicisti, arricchito da un pubblico giusto per divertirsi in occasioni del genere. Non credo ci sia bisogno di altro da aggiungere nella ricetta per un ottimo concerto death metal. Aspettiamo il ritorno della band, in tour per la promozione di Hadeon (lavoro di fresca pubblicazione), per avere la prova definitiva del valore di questi nuovi Pestilence.

 

Setlist Pestilence:

  • Malleus Maleficarum/Antropomorphia
  • Parricide
  • Subordinate To The Domination
  • Commandments
  • Dehydrated
  • Chronic Infection
  • Echoes Of Death
  • The Secrecies Of Horror
  • Twisted Truth
  • Land Of Tears
  • Prophetic Revelations
  • Presence Of The Dead
  • Mind Reflections
  • Encore: Out Of The Body
Setlist Rebaelliun:

  • War Cult Anthem
  • Spawning The Rebellion
  • Affronting The Gods
  • Legion
  • The Path Of The Wolf
  • The Last Stand
  • Anarchy (The Hell’s Decrees Manifesto)
  • The Legacy Of Eternal Wrath
  • At War

 

Live del 10 febbraio 2018

Category : Live Report
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12th Dic2017

Voina+Unoauno+Colla@Arci Ohibò (MI)

by Marcello Zinno

Voina unoauno colla arci ohibò 2017 finalPiano piano, senza clamore, è andata in scena l’8 dicembre scorso una data bomba all’Arci Ohibò di Milano. Headliner i Voina di Lanciano (ex Voina Hen) in promozione del loro ultimo album che avevamo recensito a questa pagina. Compaesani del Management Del Dolore Post-Operatorio, da cui prendono stile e filosofia, i Voina sono una realtà sicuramente promettente dell’indie italiano ma ci siamo stupiti nel trovare un locale così affollato segno che anche Milano sta riconoscendo un peso a questa band.

La data è stata emozionante fin dai supporter. Alle 22:00 sono entrati in scena i Colla, un power trio proveniente da Vicenza e formatosi da circa un anno. Un’esibizione diretta e coinvolgente, grande professionalità ed esperienza dei (quasi) ragazzi che sono riusciti con il loro rock, a tratti indie a tratti alternative, a coinvolgere da subito il pubblico pur essendo praticamente “in trasferta”. Testi in italiano e ritornelli ripetuti (in alcune tracce forse un po’ troppo) hanno facilitato la presa sui presenti, già numerosi anche se a parer nostro i Colla meritavano almeno il triplo delle persone al di sotto del palco. Con Non Siamo Indie e Vicenza hanno chiuso il loro live e salutato, per il momento, Milano.

È stato poi il momento degli Unoauno, altro trio con meno primavere all’anagrafe e soprattutto con un synth che faceva bella mostra in sostituzione della canonica chitarra elettrica. Le trame ritmiche sono sembrate di spessore e artisticamente ricercate (ci hanno ricordato in parte il sapore dei colleghi Il Teatro Degli Orrori) mentre le parti vocali (che hanno invece richiamato lo stile di un giovane Lindo Ferretti) e le andature rallentavano il tutto per rendere uno stile introspettivo e a tratti più pesante. Peccato per il synth che poteva apportare un contributo ben più significativo al sound, bassa anche la padronanza del palco e di conseguenza l’interazione con il pubblico. Ma su questi aspetti sicuramente si migliorerà con il tempo.

È giunto così il momento dei Voina che hanno fatto irruzione sul palco con un ingresso da pura deflagrazione: fin dalle prime note di Welfare, anche opener del loro ultimo album, il pubblico è partito con un pogo che si è concluso solo al termine dello show. La band ha annunciato quasi subito il suo paese di origine scatenando un boato tra i presenti e il frontman Ivo Bucci non ha di certo risparmiato parole affilate e cinismo, come da suo stile. Vari sono stati i ripescaggi dal primo lavoro, come Questo Posto È Una Merda o Il Funerale brani che hanno guadagnato di una nuova vita risultando molto più “cattivi” a livello sonoro in sede live; chiaramente molti erano lì per ascoltare i pezzi di Alcol, Schifo E Nostalgia e oltre l’opener, il singolo Io Non Ho Quel Non So Che, Bere o anche Gli Anni 80 sono stati tra i momenti migliori del live. Tante le parti cantate dal pubblico, l’album ha di sicuro lasciato un segno della scena indie italiana, e l’attitudine dei ragazzi ha di certo rimarcato questo successo. Energia, sudore e obiettività hanno fatto da padroni in uno show che ci è sembrato durare pochissimo ma che ha riassunto ermeticamente il potenziale di questa band di cui sentiremo parlare ancora di più in futuro.

Setlist Voina:

  1. Welfare

  2. Calma Apparente

  3. Io Non Ho Quel Non So Che

  4. Bere

  5. Ora Basta

  6. Il Futuro Alle Spalle

  7. La Provincia

  8. Morire 100 Volte

  9. Questo Posto È Una Merda

  10. Il Jazz

  11. Ossa

  12. Il Funerale

  13. Gli Anni 80

Live dell’8 dicembre 2017

Category : Live Report
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02nd Dic2017

Management Del Dolore Post-Operatorio+Bee Bee Sea@Circolo Magnolia (MI)

by Marcello Zinno

Management Del Dolore Post-Operatorio Bee Bee Sea Circolo Magnolia 1 dicembre 2017Il tour di Un Incubo Stupendo, ultimo lavoro dei Management Del Dolore Post-Operatorio, vive in questi mesi una seconda fase, quella della chiusura del 2017 che segna la fine di un periodo dedicato alla promozione dell’album e l’inizio del tempo dedicato alla scrittura dei nuovi brani che vedrà la band “scomparire” per un annetto in attesa del ritorno sulle scene. In questo tour li avevamo già visti, proprio al Circolo Magnolia, lo scorso marzo (a questa pagina il nostro live report) e abbiamo subito riscontrato ieri sera un pubblico più folto, segno che l’album è stato apprezzato o comunque che il seguito della band sta crescendo. Ma andiamo con ordine.

A scaldare il pubblico è toccato ai Bee Bee Sea, un power-trio dalla ricetta molto semplice e immediata. Un po’ i The Black Keys dei poveri, hanno messo in scena un rock dalla struttura ossea minuta, con il singer che ingeriva pillole di follia sul palco pur proponendo delle linee vocali tutt’altro che fondamentali (contrariamente all’headliner della serata). Mezz’ora scarsa di show che è piaciuta ai presenti; la batteria ha espresso un lavoro calzante, tenendo alto il coinvolgimento fisico del pubblico che cercava anche di scaldarsi date le temperature basse della serata meneghina (complice anche la vicinanza dell’Idroscalo che come sempre contribuisce in fatto di umidità). Buoni i suoni, bello l’impatto sonoro, apprezzata l’energia impressa nel live, ci siamo trovati dinanzi una band comunque agli esordi che ha in futuro la possibilità di sviluppare il proprio stile per non rischiare di ripetersi. Apprezzato anche il fronte merchandising con CD, vinili e audiocassette: scelta coraggiosa e non da tutti.

Si è aperto il momento dei MaDeDoPo e la band è stata subito accolta da un boato. Le persone erano lì per loro. Luca in grande forma come sempre ha assunto il ruolo di oratore dal palco del Magnolia ricordando di quando avevano suonato per la prima volta lì con un cachet di 80€; musicisti all’altezza della situazione, con il trio I Muri a dar man forte (come di consueto) a Marco in sede live. La scaletta ha mantenuto una struttura simile alle varie esibizioni della band, partendo da Il Mio Corpo (proclama contro la libertà fisica e, pensiamo noi, anche verso concetti più alti come l’eutanasia) e terminando con Lasciateci Divertire, che sdrammatizza su tutti i pensieri nichilisti espressi durante il concerto riportandoci sulla pura gioia di divertirsi (quasi come fosse S’i’ Fosse Foco di Cecco Angiolieri). Tanto spazio al nuovo album (Il Mio Corpo, Il Vento, Visto Che Te Ne Vai, Esagerare Sempre, Naufragando) ma anche tante proposte del passato per nulla scontate come Nei Palazzi e l’affondo dall’album Auff!! a cui è stato dato rilievo. Noi abbiamo apprezzato le proposte di McMAO, album che andrebbe valorizzato maggiormente dal vivo a nostro parere, e la continua scarica adrenalinica che arrivava dalle due chitarre.

Quella di ieri era una serata speciale visto che la band ha invitato sul palco Riccardo dei Pinguini Tattici Nucleari per il brano Norman e Lodo de Lo Stato Sociale per La Pasticca Blu, entrambe esibizioni cariche di energia. Più intima invece Naufragando che ha visto salire sul palco Matteo dei Canova il quale è stato accolto con minore foga dal pubblico ma ha proposto un’interpretazione emozionante del pezzo, pur senza stravolgerlo. Lo show non poteva non essere inframmezzato dai comizi di Luca Romagnoli sulla vita, sulla bellezza della morte, sul sesso (spesso in versione anale) e su quella che noi chiamiamo “filosofia da passeggio” ma scomoda alla quale da sempre ci ha abituati, non mancando di riutilizzare concetti già diffusi proprio da Lo Stato Sociale (la natura fa schifo o l’invito ad ammazzarvi tutti). Ma in fondo i Management sono questi, loro affermano di non essere mai cambiati e di non inseguire le mode, il loro ultimo lavoro ha confermato il loro stile (cinico?!) pur proponendo qualcosina di più evoluto (il pensiero nei confronti dell’amore), sonorità che il pubblico ha digerito. L’abbiamo quindi salutati con un “arrivederci” in attesa del prossimo album.

 

Scaletta Management Del Dolore Post-Operatorio:

1. Il Mio Corpo

2. Il Mio Giovane E Libero Amore

3. Amore Borghese

4. Oggi Chi Sono

5. Nei Palazzi

6. Il Vento

7. Un Incubo Stupendo

8. Norman (con Riccardo dei Pinguini Tattici Nucleari)

9. Vieni All’Inferno con Me

10. Visto Che Te Ne Vai

11. Esagerare Sempre

12. Irreversibile

13. La Pasticca Blu (con Lodo de Lo Stato Sociale)

Encore

14. Curami

15. Il Cantico Delle Fotografie

16. Naufragando (con Matteo dei Canova)

17. Pornobisogno

18. Auff!!

19. Lasciateci Divertire

 

Live dell’1 dicembre 2017

Category : Live Report
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01st Dic2017

Royal Blood@Fabrique (MI)

by Marco Castoldi

ROYAL-BLOOD-fabriquePrimo giorno di freddo cane a Milano e unica tappa italiana del tour di How Did We Get So Dark. A differenza di altre date (tipo Dublino) dove allo stesso prezzo ti vedi pure gli At The Drive In come spalla, la line-up al Fabrique prevede solo loro, che per quanto possano suonare, con due album alle spalle fatti di solo basso, batteria, birra e powerchord non credi possano durare più di un’oretta. Quindi aspettative settate bassissime di default. Aspettative smentite e stroncate fino dal pre-concerto: kebab + birra a tre euri e mezzo a Milano non si vedevano dal tour promozionale di Aftermath dei Rolling Stones. Il Fabrique, per quanto pregevole, riesce a fatica a contenere sia il sound che il pubblico. Ovunque ti giri, dal palco, al bancone, alle scale dei cessi c’è una foresta di teste pronte a scaldarsi. L’impressione, prima dell’attacco, è di trovarsi nella stiva di una petroliera pronta a saltare. Con l’attacco di Get So Dark Mike Kerr ha buttato una sigaretta accesa dentro la pompa della benzina. Bisogna ammettere che per tutte le due ore (dove abbiamo constatato che la chitarra è uno strumento sottovalutato) l’impressione è stata che la potenza della musica dei Royal Blood stesse scoperchiando il locale. La potenza disumana della batteria di Ben Thatcher perfora i timpani: pure i water del Fabrique sono crollati sotto il rullante dell’assolo di batteria dei Royal Blood.

In due ore il duo copre (oltre alla voce delle coriste meramente ornamentali a fondo palco) tutta la propria discografia e noi dalla platea capiamo finalmente perché Dave Grohl, Josh Homme e Jimmy Page decantano la figosità del duo di Brighton. Oltre all’energia incredibile di pezzi grandiosi come Loose Change, Lights Out e Little Monster i Nostri ci mettono un carisma granitico che esalta la folla. Non manca niente nella formula del concerto perfetto: grandi vibrazioni, animazione del frontman, stage diving, pogo. C’è l’ombra del terrore che sonorità a base di basso, batteria e powerchord tra il punk e lo stoner bruceranno i Royal Blood velocemente, tuttavia non ce ne frega una cippa, perché c’è anche la certezza, abbandonato un live più sudati e adrenalinici della band, di avere visto qualcosa di unico, innovativo, iconico e ganzo. Insomma, dal vivo i Royal Blood sono la prova inconfutabile che il rock è vivo, può innovare e rinnovarsi.

Scaletta Royal Blood:

1. Get So Dark

2. Where Are You

3. Lights Out

4. Come On Over

5. Cruel

6. Only Lie

7. Creeping

8. Little Monster

9. Hook Line

10. Blood Hands

11. Sleep

12. Hole In Your Heart

13. Ten Tonne

14. Loose Change

15. Figure It Out

16. Hole

17. Out Of The Black

Live del 2 novembre 2017

Category : Live Report
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26th Set2017

Rolling Stones@Lucca

by Massimo Volpi

Rolling Stones a Lucca 23 settembre 2017La città. Rolling Stones, Lucca. L’evento dell’anno, forse. Di sicuro per la bellissima città toscana, che risponde in un modo a dir poco esemplare. Dentro le mura è tutta una festa. Lingue in ogni angolo, vetrine addobbate a tema; Rolling Stones ovunque. Musica dai bar e canzoni cantate in coro nelle piazzette. Strade chiuse dove necessario, personale preparato e disponibile a dare indicazioni. Parcheggi numerosi e ben segnalati già dall’uscita delle autostrade. Lucca è sempre bella e si è presentata più che preparata all’invasione pacifica dei fan degli Stones. Abituata a quella bella realtà che si chiama Lucca Summer Festival, non si è fatta trovare sorpresa nemmeno per l’evento gigante finale di questa ventesima edizione. Bella e perfetta.

I Rolling Stones. Sono storia del rock’n’roll e quello che hanno portato a Lucca non è stato uno show ma un “semplice” concerto rock. Praticamente nessun effetto speciale, qualche fiamma sul pezzo iniziale e giusto un paio di fuochi artificiali su quello finale. Fine. Il resto è puro rock’n’roll. Una hit dietro l’altra, come normale che sia, ma spazio anche a Blues And Lonesome, ultimo capolavoro in ordine di comparsa. Il ritmo tra un pezzo e l’altro non è serrato, sarebbe stupido pretendere diversamente. Gli outfit di Mick e soci sono invece strepitosi, icone di stile, non solo di musica. L’audio è buono nonostante qualche pasticcio iniziale, del fonico o di Keith poco importa. La perfezione di esecuzione, anche se parliamo di un live e non di un album, non c’è ma non è certo questo che ci si aspetta da questi monumenti del rock’n’roll, soprattutto a questa età. Il concerto è godibile anche grazie a 4 megaschermi verticali posizionati sopra il palco che, per molti, non è stato nemmeno intravedibile poiché molto basso. La presenza degli schermi ha forse contribuito a evitare quello che poteva essere un disastro. Gli Stones sono stanchi, Mick è sembrato come al solito il più performante, insieme con Ronnie Wood. Mr. Watts in chiaro affanno riesce in qualche modo a completare il concerto e Keith è sempre Keith ma, inutile negarlo, l’età e la vita rock’n’roll non risparmiano nessuno. Nel complesso, monumentali.

Organizzazione. Arrivano le note stonate ma non provengono certo dal palco. Escludendo le zone gold e gli skybox vari dove pare tutto sia filato liscio, l’organizzazione dell’area del concerto è stata a dir poco un fallimento. Certo era difficile portare gli Stones a Lucca, questo lo si sapeva dall’inzio, ma non può certo essere una giustificazione. Come per gli iDays a Monza, l’impressione è che non ci sia stata proprio organizzazione. E questo da un player del calibro di D’Alessandro&Galli non è ammissibile. Stiamo parlando di un evento da 50/60mila persone, di certo non tra i più grandi visti nel nostro Paese, Vasco ne ha fatti quasi quattro volte tanto 3 mesi fa senza problemi logistici o di ordine. Il problema grosso si è avuto alla fine del concerto, in fase di deflusso. Ovviamente in questo momento la folla si sposta quasi tutta nello stesso momento ed è normale si formino rallentamenti e ingorghi. Quello che non è normale è che ci si blocchi completamente, senza sapere dove andare, schiacciati dalla folla e rimbalzati a destra e sinistra. Il tutto trovandosi in un posto all’aperto e non all’interno di uno stadio o di un palazzetto. La fortuna è che non è stato necessario abbandonare l’area per un’emergenza, altrimenti saremmo qui a parlare di un disastro e di come si sarebbe potuto evitare. Di come si poteva evitare ciò che (non) è successo, invece, se ne può parlare; anzi si deve fare. Guardando il disegno dell’area si intuisce che di errori ne sono stati fatti, e anche banali. L’unica via per accedere, e abbandonare, l’area è stata ristretta posizionandoci tendoni di merchandising, consegna vip pass, cassa token e stand enogastronomici che hanno portato, inevitabilmente, ad assembramento di gente interessata a questi prodotti.

Di fronte una fila di bagni chimici che hanno di fatto contribuito a stringere ancora di più la via. Bagni chimici in numero palesemente inferiore al necessario e posizionati molto male tanto da impedire l’accesso al prato B prima del concerto e addirittura ostruire la visuale durante lo stesso. Visuale compromessa in parte anche dai tendoni di cambio token, food e drink. Male, male. Molto male. La dislocazione dei vari tendoni lascia intendere un approccio mercenario all’evento, più che a sicurezza riuscita sembra si sia dato importanza al denaro da incassare. Lo stesso obbligo al cambio minimo di 15 euro in token, non rimborsabili, già visto ahimé in altre occasioni quest’anno, non fa altro che confermare quanto supposto. L’importante è incassare. Ciò che questi signori forse non capiscono è che una migliore organizzazione porterebbe a un incasso ancora maggiore, nonché a far percepire l’evento in maniera migliore e quindi con la voglia da parte della gente di partecipare nuovamente. Ormai è diventato normale rinunciare a bere, mangiare e anche usare i servizi per evitare di perdere gran parte o anche tutto il concerto facendo la fila. Come anche, se costretti, far diventare bagni qualsiasi angolo di natura o edificato, proprio come successo sabato addirittura già nel pomeriggio. L’area riservata ai disabili era posizionata su una pedana precaria, lontano dal palco e molto bassa, che ha reso impossibile la visione del concerto da parte di chi la occupava. Bagni chimici presi da assalto, scalati per trovare una posizione migliore; così come i trabattelli sui quali erano posizionati i fari lungo il lato dell’area del concerto. Se da una parte ha sbagliato la gente ad arrampicarsi, dall’altra è stata un’azione possibile come invece non dovrebbe essere. Nessun controllo, richiamo all’ordine o impedimento. Più che sbagliato o inadeguato diremo più che altro personale assente.

Per esperienza personale da frequentatore di festival di diverse dimensioni, trovo molto più intelligente delocalizzare tutto ciò che non è parte fondamentale del concerto. Cioè tutto, tranne il palco. Il merchandising è oggettivamente una cosa in più, che il fan va comunque a cercare; non è necessario usare strategie da supermercato o da duty free di aeroporto per sbattere in faccia i prodotti al fan. In fondo all’area e basta. Food e drink sono una parte importante ma non il centro dell’evento. In fondo all’area e comunque in una zona che non influisce con la riuscita dell’evento o addirittura la visuale del palco. Servizi igienici…. aumentare, aumentare, esagerare. E non saranno mai troppi. Le proporzioni di un bagno ogni tot paganti devono decisamente cambiare, per legge. Come anche non è possibile che tutto ciò fosse posizionato nell’unica via di fuga dell’area che dovrebbe essere sgombra per definizione. Fallimento totale. Gente arrampicata su tralicci della luce e bagni chimici, per vedere il palco e per evitare di essere travolta all’uscita. E signori, una cosa facilissima, quando finisce il concerto luci accese, non spente. Non si vedeva quasi nulla. Questo è davvero stupido ma sintomatico di quanta poca cura c’è nei confronti del pubblico pagante, e non poco pagante. “Per fortuna non è successo nulla” è una delle frasi più ricorrenti, nei racconti di chi era lì e nei post sui social network. Fortuna. Non ci si può sempre affidare alla fortuna, soprattutto di questi tempi nei quali l’allerta deve essere massima. Controlli (leggeri) va benissimo, ma anche più rigidità nel progettare l’area. Imparando da realtà più importanti e preparate, in Europa e mondo. Imitare e imparare dai più bravi è segno di intelligenza, come anche imparare dai propri sbagli. Capisco che rispondere alle lamentele, o addirittura chiedere scusa, significherebbe ammettere le colpe ma anche tacere o fare finta di niente non è una buona strategia e il risultato è praticamente lo stesso.

In un passo dell’unico, a oggi, comunicato stampa diramato dagli organizzatori si legge. “Quella della sicurezza è stata, come sempre, la nostra priorità assoluta in fase di preparazione dell’evento e siamo felici di poter celebrare a distanza di 24 ore questo risultato eccellente…” – che suona un po’ come presa in giro nei confronti delle migliaia di persone che si stanno lamentando attraverso i social, con commenti e fotografie, e addirittura attraverso azioni legali, class action e esposti al Codacons. Sarà anche solo rock’n’roll ma così non ci piace.

COMUNICATO D’ALESSANDRO e GALLI a questa pagina

CODACONS a questa pagina

 

Scaletta:
Sympathy For The Devil
It’s Only Rock’n’roll (But I Like It)
Tumbling Dice
Just Your Fool
Ride ‘Em On Down
Let’s Spend The Night Together
Con Le Mie Lacrime (As Tears Go By)
You Can’t Always Get What You Want
Paint It Black
Honky Tonk Women
Happy
Slipping Away
Miss You
Midnight Rambler
Street Fighting Man
Start Me Up
Brown Sugar
(I Can’t Get No) Satisfaction
——-
Gimme Shelter
Jumpin’ Jack Flash

Live del 23 settembre 2017

Category : Live Report
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17th Set2017

Node+Genus Ordinis Dei+Black Rage+D With Us+Scum@Legend (MI)

by Marcello Zinno

Node+Genus Ordinis Dei+Black Rage+D With Us+Scum@Legend (MI)Si apre così una nuova stagione del Rock In Park, rassegna musicale del Legend che anche stavolta e anche in autunno ci regala un cartellone di tutto rispetto. E questa data non potevamo di certo perderla: 5 band di livello della scena metal estrema tricolore, ognuna che ci spingeva ad essere lì per un motivo diverso, e una serata completamente ad ingresso gratuito. In pratica non c’erano motivi per perderci questo evento e qui vi raccontiamo com’è andata. L’apertura era lasciata agli Scum, un giovane sestetto proveniente dalla Toscana che si è trovato di fronte un pubblico già non propriamente modesto. La band ha mostrato tutti i crismi di una djent metal band, con chitarre a sette corde, plam mute e irruenza on stage; il loro sound è sicuramente potente ed ha mostrato bene i muscoli, peccato per la presenza di tre chitarre in formazione a nostro parere non adeguatamente valorizzate (quanto proposto poteva essere creato da due chitarre senza enormi differenze). Tempi non sempre veloci ma piuttosto riff potenti e cadenzati arricchiti da un growl di impatto, hanno caratterizzato il loro show, una scaletta che sul finire ha mostrato anche delle influenze melodic death metal. Bravi, sicuramente cresceranno musicalmente in futuro.

Breve pausa e sono saliti sul palco i D With Us, quartetto diretto da Daniele Salomone voce e chitarra con una tecnica davvero di ottimo livello. Il live si è collocato subito nelle sonorità di un metalcore di stampo statunitense anche se i suoni non erano all’altezza della situazione; purtroppo, ma questa è la nostra impressione, non è stato dipeso da questioni di equalizzazione sul posto bensì di suono personale frutto di strumenti e di idee della band. Lo show è salito in qualità con The Present e Searching For The Light, il nuovo singolo; sempre riff molto tecnici proposti dal giovane quartetto accolto anche bene dal pubblico. Subito dopo è stato il momento dei Black Rage, band molto più rodata di scuola death metal che non ha temuto di portate tutta la propria potenza sul palco del Legend, un palco già varie volte solcato da loro. Il quintetto lombardo, caratterizzato da un ottimo singer che si destreggia ottimamente tra growl e scream, non ha lasciato un attimo di tregua al pubblico davvero numeroso, snocciolando tracce prive di quiete; in particolare il livello dell’esibizione è salito a partire da Six Feet Under e poi con Black Mirror e Sinner ha coinvolto i presenti, primo momento in cui è partito un pogo spontaneo sotto il palco. I Black Rage probabilmente sono stati la scelta più vicina per stile all’headliner della serata e questo ha di certo entusiasmato il pubblico. Chissà cosa ci attenderà il loro nuovo album.

Il piatto forte si stava avvicinando e non si trattava solo dei Node. I Genus Ordinis Dei sono saliti sul palco all’interno di un’ambientazione epica e ancestrale. Il loro symphonic death metal che già ci aveva conquistati con l’album The Middle (recensito da noi a questa pagina) ha assunto una veste ancora più coinvolgente dal vivo, con l’impatto deciso e se vogliamo un po’ fumettistico nel look scuro del quartetto. Ottimo Nick K, voce è anche prima chitarra della band coadiuvato da una formazione di assoluto rispetto. From The Ashes, il nuovo singolo, era attesissimo e non poteva mancare, il riffing muscoloso non ha lasciato incerti tra il pubblico; anche l’ultimo pezzo è stato all’altezza e ha chiuso uno show senza alcuna sbavatura, capace di collocare in primo piano l’ottimo potenziale del quartetto. Applausi e grandi consensi fanno lievitare le aspettative sulla band, ora soprattutto che è arrivato un contratto discografico con l’americana Eclipse Records e la band è pronta al nuovo studio album.

Ed eccoci al finale, i Node. Band molto attesa non solo per il fatto di essere un nome storico per il thrash/death italiano ma anche alla luce dei cambi di line-up che si sono avvicendati ad inizio decennio. Per l’occasione la band si è presentata con Gabriel Pignata al basso, già noto bassista dei Destrage, che ha contribuito a rendere ancora più coinvolgente lo show. In generale l’impatto con il suono dei Node è stato pericoloso e distruttivo: la band ha sciorinato una serie di tracce, dalle più recente ai pezzi più storici, vestite tutte con un sound live e moderno che non hanno lasciato spazio a timidezze di sorta. Purtroppo il pubblico andava via via diminuendo, probabilmente data l’ora tarda (la band doveva attaccare alle 00:20 ma tra qualche ritardo e altro il loro show è iniziato all’1:00 e si è concluso alle 2:00) o anche perché i fan che sono venuti a supportare le band precedenti si sono recati all’esterno del locale una volta che i Node sono saliti sul palco. Questo ha spinto il chitarrista Gary D’Eramo a lanciare varie frecciatine nei confronti del supporto alla scena metal italiana e al fatto che il locale si sia svuotato sul finire. Un discorso interessante, forse non è questa la sede per approfondirlo, ma di certo i Node si meritavano di più, sia per la loro storia sia per il sudore che hanno lasciato su quel palco.

In generale comunque un’ottima serata e chi è stato assente non sa (e non saprà mai) cosa si è perso.

Live del 15 settembre 2017

Category : Live Report
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22nd Ago2017

Bay Fest 2017 3° giorno@Bellaria Igea Marina (RN)

by Piero Di Battista

Bay Fest Rise Against 2017 3 giornoE’ Ferragosto. E ovviamente c’è aria di festa qui al BayFest, non è ancora passata la sbornia (in tutti i sensi) della serata precedente, anzi è accompagnata da quella curiosità e carica positiva create dal programma di questa terza giornata che si chiuderà nientemeno che con i Rise Against. Ma procediamo con ordine. Come accaduto nelle due giornate precedenti, sono i gruppi italiani ad aprire e i primi sono i LineOut, band proveniente dalla provincia di Milano e attiva dal 2012 che, con una sana personalità, riesce a coinvolgere i già molti presenti nell’area con il loro più che soddisfacente punk rock. Tra i pezzi proposto non mancano alcuni tratti da Blast In Turbigo, ultimo album dei LineOut pubblicato circa tre mesi fa attraverso White Russian Records. E come inizio non c’è male, anzi! Per la band seguente si cambia regione e si va in Veneto, precisamente a Treviso, città natale delle Cattive Abitudini. Nati più di dieci anni fa come spin-off dei Peter Punk hanno lentamente raggiunto una propria identità, pubblicando diversi dischi fino all’ultimo, 20:3, uscito pochi mesi fa tramite IndieBox. La setlist proposta dai quattro veneti dunque ha visto ripercorrere la loro carriera, non mancando, tra un brano e l’altro, di interagire in maniera goliardica con il pubblico che, a sua volta, ha gradito e soprattutto si è divertito con il punk rock proposto dalla band trevigiana. Bravissimi.

Dopo le Cattive Abitudini arriva il turno per un altro gruppo nostrano: i Vanilla Sky. Loro hanno bisogno di poche presentazioni; romani, attivi dal 2002 quindi con anni di esperienza alle spalle, anche con preziosi collaborazioni tipo con Mark Hoppus dei Blink 182. Ce la mettono tutta, realizzando un discreto show interagendo spesso con il pubblico, l’esibizione però è stata penalizzata da alcuni problemi tecnici non dipesi dalla band. Spesso quando si citano i Vanilla Sky il più delle volte si sente dire “ah quelli della cover di Umbrella di Rihanna!”. Umbrella però è assente nella scaletta dei quattro. Meglio così aggiungo, perché loro sono molto di più di quella semplice quanto riuscita cover e ce l’hanno voluto ulteriormente ricordare. Dopo l’antipasto a base di punk rock made in Italy arriva il momento delle portate straniere. Si parte subito con il botto perché sul palco arrivano gli Ignite. L’energia sprigionata dalla voce di Zoli e dal punk hardcore sound degli altri membri ci mette poco ad essere assorbita dai presenti sotto lo stage che accompagnano il gruppo di Orange County nei cori e nei refrain. La scaletta attinge molto dal disco Our Darkest Day con brani come Bleeding, Let It Burn e Poverty For All, dando spazio anche alla cover di Sunday Bloody Sunday degli U2. Gli Ignite sono sempre stati un gruppo impegnato socialmente, in particolare nell’ambito ecologico, e durante il loro show hanno concesso alcuni minuti di spazio per le parole di alcuni membri di Sea Sheperd Italia, O.N.G. che si occupa della salvaguardia della fauna marina. Tra punk hardcore e impegno sociale lo show degli Ignite è stato impeccabile, senza ombra di dubbio tra i migliori visti fino a questo momento. Volendo fare un paragone sportivo diciamo che sono da podio, ma mancano altri gruppi. E che gruppi.

Il tempo di cambiare strumentazione, e sullo sfondo appare una bandiera americana appesa al contrario. No non sono i Pennywise, anche perché non usano più da anni quella scenografia. Sicuramente sarà una band che non ha peli sulla lingua quando si tratta di dir la propria riguardo la politica a stelle e strisce e non solo. Si, sono proprio gli Anti-Flag. La band di Pittsburgh è un’altra che sul palco difficilmente delude, e così è stato anche in questa occasione. Il bassista e cantante Chris Barker si è dimostrato un ottimo intrattenitore che, oltre a specificare il pensiero del gruppo su più argomenti, ha coinvolto i presenti come pochi sanno fare. E l’ha fatto, assieme al cantante Justin e gli altri, con una scaletta di tutto rispetto, che ha avuto come inizio nientemeno che The Press Corpse, passando per Fabled World, uno dei brani più recenti, per arrivare a perla come Turncoat, Die For The Government, Fuck Police Brutality e This Is The End (For You My Friend). Uno show impeccabile, al limite della perfezione, condito anche dai lontani fuochi artificiali che festeggiavano il Ferragosto. Show che si è concluso con Brandenburg Gate, brano tratto dal loro ultimo disco American Spring, pubblicato nel 2015. E come sempre accade, per questo ultimo pezzo il batterista Pat Thetic, si è spostato, assieme a Chris Barker, tra il pubblico con tutto il set della batteria, regalando un altro momento magico quanto divertente. Poco fa parlavamo di podi olimpici riguardo le prestazioni dei gruppi finora; ebbene gli Anti-Flag, dopo questo show, automaticamente sono diventati dei seri canditati per la medaglia d’oro.

E’ sera e abbiamo ancora due gruppi e i primi a salire sul palco, nonché i penultimi dell’intera rassegna, sono i Face To Face, punk rock band californiana, attiva da più di venticinque anni, con dieci album alle spalle, ultimo dei quali Protection, pubblicato lo scorso anno. Per chi non li conosceva, o li conosceva poco, i Face To Face sono stati un’autentica sorpresa, personalità e tanta grinta. C’hanno messo un attimo per farsi apprezzare anche dai più scettici. Un gruppo con voglia di spaccare i muri e voglia di divertirsi e soprattutto di far divertire e direi che questi obiettivi sono stati ampiamente raggiunti. Una menzione particolare la merita Scott Shiflett, bassista del gruppo che i più informati ricordano anche come chitarrista dei Me First And The Gimme Gimmes che si è fatto notare anche come ottimo strumentista, regalando anche un delizioso solo di basso, gradito particolarmente ai più avvezzi allo strumento. Face To Face: ottimi quanto sottovalutati.

Si giunge quindi agli ultimi, all’headliner della serata: i Rise Against. L’attesa per la band di Chicago era molta, vuoi per il nome, vuoi per vedere la resa live dei brani del disco Wolves, pubblicato un paio di mesi fa. Ma dopo aver elogiato tutte le band che abbiamo visto qui a Parco Pavese, ci tocca parlare della vera delusione dell’intera rassegna: si proprio il gruppo di Tim McIlrath. I Rise Against appaiono scarichi, poco convinti, verrebbe da dire stanchi. E non è un problema di scaletta; fermo restando che gli ultimi lavori restano discutibili, anche brani datati come Give It All, Ready To Fall o Like The Angel peccano di grinta, arma che Tim e soci non hanno mai fatto mancare durante i loro concerti. L’interazione con il pubblico è quasi assente e buona parte di esso si accorge del deficitario stato di forma, o di voglia, dei quattro. Lo “show” volge verso il suo epilogo con l’intimità di Swing Life Away creata da Tim con la sua chitarra acustica, passando per Prayer Of The Refugee, arrivando a Savior, brano che chiude l’esibizione dei Rise Against. I Rise Against hanno fallito e duole dirlo perché parliamo di una band fondamentale per il punk hardcore del nuovo millennio. Il loro concerto è stato talmente scarno e, a tratti, sembravano fuori contesto. Di certo non è stato l’epilogo che tutti ci aspettavamo, ma questo non va assolutamente a scalfire quanto di ottimo abbiamo visto lungo questi tre giorni.

Delle band presenti abbiamo parlato, tessendone ogni lode meritata. Ma una grande nota di merito va all’organizzazione dell’evento: alla LP Rock Events che ha realizzato un evento al limite della perfezione sotto molti aspetti, dalle aree ristoro agli stand, passando con diversi punti ricreativi come lo skate park e il free karaoke dove, tra un’esibizione e l’altra, chiunque poteva dilettarsi come cantante, tutto all’insegna del sano e puro divertimento. L’edizione 2017 del BayFest è riuscita così tanto che, nei vari commenti post-festival, non si è sentita, o letta, la tipica frase “dobbiamo prendere esempio dall’estero” o cose simili. Forse perché chi ha organizzato tutto questo l’ha davvero fatto? Non lo sappiamo ma la cosa fondamentale è che il tutto sia riuscito alla grande. Le aspettative per il 2018 sono ora altissime, ma restiamo fiduciosi. Lungo questo racconto abbiamo più volte citato gli anni 90; in quel periodo la Riviera Romagnola era nota per le varie discoteche, fortunatamente da qualche anno anche il punk rock si è guadagnato il giusto e meritato spazio. Merito anche delle 10.000 persone che non si sono fatte sfuggire questo evento. Non c’è altro da dire se non: ci vediamo l’anno prossimo!

Live del 15 agosto 2017

Category : Live Report
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20th Ago2017

Bay Fest 2017 2° giorno@Bellaria Igea Marina (RN)

by Piero Di Battista

Bayfest Bad Religion secondo giornoMesi fa, quando fu annunciato ufficialmente il bill del BayFest 2017, a quelli della generazione di chi sta scrivendo cadde immediatamente l’occhio sul programma del 14 agosto. Bad Religion, Pennywise, Good Riddance, Shandon. Sembrava di essere tornati indietro di vent’anni; quando i bill dei festival di una volta, come il Teste Vuote Ossa Rotte o il Vans Warped Tour, presentavano spesso questi nomi. Quindi non c’è stato niente di sorprendente nel vedere il Parco Pavese di Bellaria-Igea Marina pieno di chi quei 90’s li ha vissuti pienamente, pronti per questo salto indietro nel tempo. E così che abbiamo vissuto questa seconda giornata del BayFest. Prima dei grandi nomi già citati c’è stato spazio anche per gruppi nostrani. Ad aprire questa giornata sono stati i Linterno, hardcore band bolognese attiva da circa quindici anni. Seppur il tempo a loro disposizione sia stato ridotto, la loro esibizione è stata di certo positiva. Energia, rabbia e tanta carica come una band hardcore sa fare. Molto bravi.

Dopo di loro arriva il turno dei 7Years da Livorno, gruppo attivo dal 2001 che propone un ottimo hardcore melodico. Freschi di pubblicazione del disco Lifetime, che vede la partecipazione nientemeno che di Joey Cape dei Lagwagon, i 7Years confermano tutto ciò che di positivo si era visto e soprattutto sentito riguardo loro. Come i Linterno, anche l’esibizione dei livornesi ha delle tempistiche un po’ troppo ridotte, peccato perché almeno dieci minuti in più li avremmo graditi con piacere, ma non mancherà occasione. Arriva il turno degli Andead e la prima cosa che ci è venuta in mente guardando il loro live e quanto sia semplicistico e riduttivo definirli banalmente “la band di Andrea Rock di Virgin Radio”: il loro è un sound ruvido, ma che si lascia ascoltare piacevolmente, ed è proposto con quella giusta dose di personalità, il che stupisce poco considerato che parliamo di un gruppo con dieci anni di esperienza in cui hanno condiviso il palco con mostri sacri del punk rock. Nella loro setlist non mancano brani di IV The Underdogs, disco che il gruppo milanese ha da poco pubblicato tramite Rude Records.

Se le premesse sono queste cosa dobbiamo aspettarci dai prossimi che calcheranno il palco del BayFest in questa giornata? Ed è proprio da dopo l’esibizione degli Andead che ci troviamo catapultati nella seconda metà degli anni 90, anni d’oro per la scena punk hardcore, inclusa quella italiana, nella quale hanno fatto parte anche gli Shandon. La band di Olly sale sul palco quando la location romagnola è già abbastanza piena e alternano brani più datati come Noir, Questo Si Chiama Ska e Janet (con la quale hanno chiuso il loro show) a pezzi più recenti come Skate Ska. Il loro è stato uno show encomiabile, con Olly e gli altri membri (quasi tutti nuovi) che si sono presentati in ottima forma e con una voglia pazzesca di far divertire i presenti, riuscendo pienamente nel loro intento. Tra battute, insulti verso la musica elettronica o la cosidetta “indie” attuale, Olly omaggia anche Alessandro Soresini, batterista degli Africa Unite recentemente scomparso a causa di una brutta malattia, dedicandogli un brano e soprattutto lo show. Verrebbe da dire bentornati Shandon, ma l’hanno fatto già alcuni mesi fa, e stavolta definitivamente come lo stesso Olly ci ha confermato in una recente intervista disponibile a questa pagina. Con l’esibizione si chiude la parte italiana della seconda giornata del Bayfest. E in arrivo ora una sorta di Santa Trinità del punk hardcore. E ad aprirla sono i Good Riddance.

Russ Rankin e compagnia si presentano sul palco portando con loro una carica e un’energia che solo pochi sanno trasmettere; pur essendo l’ultima data del loro tour europeo i quattro californiani regalano uno show incredibile, fatto di poche parole e tanta musica. La loro setlist sembra quasi una sorta di “best of” della loro carriera: Libertine, A Credit To His Gender, Mother Superior e Shadow Of Defeat sono solo alcune delle perle che la band di Santa Cruz regala all’ormai corposo pubblico presente nell’area. Tra i brani proposti non mancano altri loro brani noti come, tra gli altri, Salt e Last Believer. Se proprio vogliamo fare un appunto, nella scaletta non c’è stata Steps, loro storico pezzo ma che soltanto noi “veterani” ne abbiamo notato l’assenza. Ma ciò non scalfisce quella che è stata una delle migliori esibizione, finora, dell’intero festival. Li aspettiamo, ancora e ancora. Se con i Good Riddance eravamo a Santa Cruz, California, per la prossima band ci dobbiamo spostare più a Sud di quasi 600 Km, ovvero sulle coste di Los Angeles, più precisamente a Hermosa Beach, cittadina che ha dato i natali ai Pennywise.

Assieme ai Good Riddance, avevamo visto i Pennywise un anno fa, al Market Sound di Milano, assieme agli Offspring, e, come spesso accade, difficilmente deludono quando salgono su un palco. E così è stato anche sulle rive dell’Adriatico. Non essendo un tour legato alla pubblicazione di un disco (l’ultimo, Yesterdays, risale al 2014) ci si aspettava una scaletta varia e, ancora una volta, Jim e compagnia ci hanno accontentati. Tra brani di vecchia data come la opener Wouldn’t It Be Nice, seguita da Can’t Believe It e Fight ‘til You Die, i Pennywise realizzano uno show che può tranquillamente essere paragonato ad una sound track della scena punk hardcore californiana dei 90’s. Difatti sono molti i brani tratti da dischi del passato che vengono proposti: Society, Pennywise, My Own Country, intervallati dalle consuete cover di Blitzkrieg Bop dei Ramones, (You Gotta) Fight For Your Right dei Beastie Boys e la classica quanto amata dai più fedeli Stand By Me di Ben E. King. Il loro concerto si conclude senza alcuna sorpresa, ovvero con Bro Hymn, storico brano che i quattro dedicano a Jason Matthew Thirsk, bassista scomparso nel 1996, e dal coro inconfondibile che i presenti, nessuno escluso, non ha mancato di accompagnare la band. Ci sono poche cose certe nella vita: le tasse, la morte, e i Pennywise che realizzano grandi concerti. Le tasse le paghiamo, per la seconda possiamo ancora aspettare, mentre per la terza abbiamo avuto un’altra conferma.

Spesso i Pennywise sono stati headliners in questo genere di festival, ma l’aria che si respira e tutt’altro che dimessa, anche perché sul palco stanno per salire coloro che di questo genere possono vantar d’essere stati tra i primi a crearlo: se l’hardcore melodico di stampo californiano ha avuto, e ha ancora oggi, tanti proseliti, lo dobbiamo sicuramente ai Bad Religion. E, come in una fiaba dal lieto fine, sono proprio loro a mettere il punto conclusivo per questa seconda giornata del BayFest. Il loro ultimo disco è True North, pubblicato nel 2013. Come per i Pennywise anche in questo caso è lecito aspettarsi una scaletta varia, considerato che stiamo parlando di un gruppo con quasi 40 anni di attività alle spalle. Chiunque, o quasi, avesse pensato ad una sorta di “greatest hits” dei Bad Religion, avrebbe inserito la setlist che il Prof. Graffin e soci hanno proposto in quel del BayFest. Se l’inizio con American Jesus ha stupito buona parte dei presenti, il seguito è stato ancor più stupefacente. In un’ora e un quarto circa di durata, i Bad Religion hanno regalato al pubblico un sunto della loro carriera, ripercorrendo più fasi della loro vita, e proponendo buona parte dei brani più amati dai loro fan. L’elenco merita uno spazio a sé, ma basta semplicemente citare brani datati come Generator, Atomic Garden, Recipe For Hate, Do What You Want, per arrivare a pezzi del nuovo millennio come New Dark Ages, Let Them Eat War o Los Angeles Is Burning. Non vogliamo tediare ancor di più su quanto i Bad Religion siano fondamentali per questo genere, ma basti solo pensare che questi ragazzini over 50 conservano ancora una carica esplosiva che pochi altri possono vantare.

Lo show prosegue e quando dalla voce e dagli strumenti del gruppo californiano arrivano Sorrow e Punk Rock Song è segno che l’epilogo è dietro l’angolo. C’è spazio ancora per gli encore, dove vengono proposti The Handshake (che di rado eseguono nei live), Infected e Fuck Armageddon…This Is Hell, altra loro perla che va a fungere da punto conclusivo della serata. E così eccoci giunti anche alla conclusione della seconda giornata del BayFest, una giornata che ci ha visti tornare indietro di vent’anni grazie a chi, quegli anni, li ha resi indimenticabili. Il paradosso, positivo o meno ma non è questo il luogo e momento per approfondire, è che sono sempre queste band a richiamare le masse durante questi eventi, ma da quel che abbiamo visto, ascoltato, percepito e assorbito, non c’è alcuna fretta di un ricambio generazionale. Lunga vita a loro dunque e che continuino a regalarci questi momenti e queste serate, che ti portano ad abbandonare la location con una sensazione mista tra felicità e quel pizzico di sana nostalgia. Ora è tempo di riposarsi perché la terza giornata non sarà da meno, bastano solo due nomi per capire a cosa andremo incontro: Anti-Flag e Rise Against.

 

Scaletta Bad Religion:
American Jesus
New Dark Ages
Do What You Want
Atomic Garden
Let Them Eat War
Stranger Than Fiction
Along The Way
I Want To Conquer The World
Fuck You
The Streets Of America
Modern Man
No Control
Recipe for Hate
Against The Grain
Come Join Us
Anesthesia
Los Angeles Is Burning
21st Century (Digital Boy)
Generator
Sorrow
You
Punk Rock Song

Encore:
The Handshake
Infected
Fuck Armageddon… This Is Hell

Live del 14 agosto 2017

Category : Live Report
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