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26th Apr2017

Intervista a Le Orme

by Cristian Danzo

Le Orme 2017 Michi Dei Rossi Enrico Vesco conferenza stampaPresso la sede milanese  del distributore Self, abbiamo incontrato un monumento della storia musicale italiana: Michi Dei Rossi, batterista dei leggendari Le Orme. Accompagnato dal produttore e manager Enrico Vesco, durante la conferenza stampa ci ha parlato del nuovo progetto del gruppo: ClassicOrme (uscito l’8 di aprile in tutto il mondo). Sentiamo cosa hanno detto ai microfoni dei giornalisti.

E.V.: Buongiorno a tutti i presenti. Prima delle domande vorrei fare una piccola introduzione. Le Orme hanno un’attività discografica e live che pochi artisti in Italia possono vantare. Avendo scelto di uscire da quelli che sono i meccanismi della discografia e dell’industria, come la partecipazione televisiva a trasmissioni o festival, molti hanno perso le tracce della band. Eppure in sei anni sono stati realizzati tre lavori ufficiali ed abbiamo sempre avuto un’attività incessante. Nell’ultimo mese, oltre al nuovo ClassicOrme, sono stati ristampati vari album, senza contare quelli in catalogo alle major che sono continuamente rieditati.  Le caratteristiche della band sono la continua presenza in catalogo dei grandi classici. Se chiamaste una major in questo momento e ordinaste cento copie di Uomo Di Pezza (album del 1972,nda) piuttosto che Felona E Sorona (1973), il giorno dopo  le ricevereste. Questo per fare capire la costante presenza de Le Orme nel mondo musicale. Inoltre, nonostante l’uscita dal mondo dello show business, continuiamo a girare Europa ed Italia attivamente in lungo ed in largo. Possiamo dire ed annunciare ufficialmente che ad un settimana dall’uscita del nuovo album siamo già in ristampa con il nuovo lavoro. Questo perché i preordini hanno già bruciato le mille copie dell’Lp e le cinquecento copie del 45 giri che abbiamo realizzato.

M.D.R.: ClassicOrme è la mia anima trasferita in questo progetto, un disco molto romantico e che contiene molte emozioni. E’ un disco che volevo realizzare da tantissimi anni, che ho concepito almeno dagli anni 90. Ero frenato dal realizzare un disco di musica classica. Avevamo già tentato di avvicinarci a questo mondo negli anni ’70 realizzando Florian, ma c’è una notevole differenza: lì eravamo noi a suonare con l’orchestra. Mentre per questo progetto gli arrangiamenti sono pensati completamente ed unicamente per gli strumenti di musica classica, realizzati come se fosse una romanza di Puccini, ad esempio. Per realizzare un album di musica classica mi mancavano i cantanti. Realizzare un lavoro orchestrale con la voce pop non era nelle mie intenzioni e nemmeno come lo avevo pensato sin dall’inizio. Ho voluto che si respirasse l’atmosfera dell’opera.  E’ stata mia moglie a farmi scoprire questo mondo molti anni fa e mi sono reso conto dei brividi e delle sensazioni che mi davano le opere. Ovviamente ho dovuto propendere per gli strumenti della musica da camera e non per l’orchestra intera, anche perché avere il romanticismo con un’orchestra completa è molto difficile. A questi sono stati aggiunti altri strumenti, tipo il mellotron. I cantanti sono stati trovati tramite una collaborazione con il Santa Cecilia (la scuola di musica più importante di Roma nda) grazie alla collaborazione del tenore Francesco Grollo. A dire il vero io ero intimorito quando sono arrivato lì, ma poi ho scoperto che molti degli allievi conoscevano la nostra musica e mi hanno accolto con un calore inaspettato. Abbiamo ascoltato due cantanti, ritenuti i migliori allievi del conservatorio nel loro campo, a cui non ho nemmeno quasi lasciato finire il provino. Due grandi voci che spero facciano tanto successo. Eero (Lasoria, tenore finlandese nda) è un tenore fortissimo, di stampo verdiano mentre Marta (Centurioni, soprano, nda) sembra che sia un marziano. Una voce stupefacente, chiara, emotiva. Ogni volta che ascolto questo disco mi emoziono particolarmente e veramente. Mentre quando ascoltavo i nostri dischi passati mi piacevano, e non per sminuirli, questo mi emoziona. Sarà perché è musica classica. Mi piace sperimentare ma sicuramente farò altre cose di questo genere. Abbiamo realizzato un 45 giri che contiene due inediti non presenti nell’album: mentre in passato venivano realizzati i 45 come estratti dell’album, oggi abbiamo fatto il passaggio inverso.

R.G.: Sono stati esclusi da ClassicOrme oppure sono realizzati appositamente per il 45?
M.D.R: Sono stati realizzati appositamente per il 45, perché nell’album volevo mettere solo i pezzi de Le Orme riarrangiati in chiave classica.

R.G.: Come sarà rappresentato dal vivo questo disco?
M.D.R.: In sede live avremo il quintetto d’archi, i cantanti lirici e tutte le parti di clavicembalo, mellotron e pianoforte in questo caso campionati. Mentre tutti i suoni dei fiati e del glockenspiel verranno realizzati con le tastiere. Comunque l’ossatura, cioè gli archi, saranno presenti sul palco.
E.V.: A parte la partecipazione che ci vedrà coinvolti al festival prog di Villa Bertelli, dove eseguiremo Felona e Sorona integralmente, da ottobre ClassicOrme sarà eseguito dal vivo durante un tour che si svolgerà nei teatri.

R.G.: Come avete scelto i brani per il nuovo album dal vostro vasto repertorio?
M.D.R.: Il primo passo per la scelta è stato il puro istinto. Secondariamente, avevo una scaletta composta da questi brani che mi girava in testa da anni. Come dicevo in apertura, questo progetto mi ronza in mente da parecchio tempo.

R.G.: Vediamo nel libretto del CD che non vengono citati gli autori dei brani. Cosa ne pensano gli altri?
M.D.R.: Posso darti il loro telefono così puoi chiedere (risate,nda). Tony Pagliuca (ex tastierista,nda) forse lo ascolterà. Aldo Tagliapietra (ex chitarrista e bassista,nda) sicuramente no. Anche perché a lui la musica lirica non è mai né interessata né piaciuta.

R.G.: Ci sono già le date o qualche riferimento temporale più specifico per il tour?
M.D.R.: Non abbiamo ancora pensato ai dettagli delle date né alle città che saranno coinvolte. Sicuramente il tour sarà organizzato con il supporto dei musicisti locali. Ad esempio, se dovessimo suonare a Bari, verrà chiesto al Conservatorio locale o alle scuole di musica di fornirci i musicisti per gli strumenti classici. Speriamo solo che le istituzioni scolastiche accettino questo tipo di proposta. Vorremmo dare possibilità ai giovani di avere una possibilità.

R.G.: C’è stata una proposta, almeno per una sola serata, durante questi anni, per rimettere insieme la line up storica?
E.V.: Certamente! C’è stata un’offerta anche molto consistente che Tagliapietra e Pagliuca hanno rifiutato.
M.D.R.: Tre anni fa abbiamo speso tre mesi di trattative per rimettere assieme la band ma loro non hanno accettato per il vil danaro. Potete tranquillamente scriverlo perché quello che dico corrisponde alla verità. Secondo loro l’offerta non era consona e si pensava che la reunion de Le Orme valesse molto di più. Noi sul mercato valiamo quello che valiamo, mentre loro due pensavano altro. Ho proposto almeno qualche concerto per i fans e per divertirci. A me dei soldi non fregava nulla. Ma niente. Abbiamo sudato in ambito diplomatico per non ottenere poi nulla.

R.G.: Sono anni dove il prog è tornato in auge. Ti dà fastidio essere inquadrato in questa corrente ed avere questa etichetta?
M.D.R.: Vorrei svincolarmi dall’essere incasellato ma la verità è una sola: la musica de Le Orme è musica progressive, e da lì non si scappa. Ma non sarebbe giusto: nei confronti di quello che abbiamo fatto e nei confronti dei nostri ascoltatori. Il problema è suonare alcune canzoni che hanno pochissimo margine di riarrangiamento e di cambiamento e quindi suonare tantissime di queste canzoni dagli anni ’70 nello stesso modo non è sempre facile. Quello che dico è che il prog è nato come musica libera e di ispirazione momentanea: quindi il cambio delle canzoni e delle strutture musicali dovrebbe essere una cosa naturale. Mentre molti vogliono ascoltare gli stessi dischi del passato oggi rifatti uguali ed identici. Non lo dico assolutamente in tono polemico, non mi permetterei mai. Volevo dare una spiegazione di quello che è il prog. Infatti ai tempi i discografici arrivavano ad album finito e fatto, proprio perché quel genere era completamente inteso come completa libertà.

Category : Interviste
Tags : Progressive
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16th Mar2017

Intervista ai Sepultura

by Cristian Danzo

Paulo Jr dei Sepultura con Cristian Danzo per RockGarageIn occasione della data live dei Sepultura a Trezzo sull’Adda a supporto del nuovo album Machine Messiah, abbiamo incontrato Paulo Jr, storico bassista della band brasiliana e membro fondatore dal lontano 1984, quando fondò il gruppo insieme ai fratelli Cavalera. Sentiamo cosa ha detto ai nostri microfoni.

R.G.: Buongiorno Paulo e benvenuto in Italia e su RockGarage

P.J.: Buongiorno a voi e a tutti i vostri lettori!

R.G.: Iniziamo parlando del vostro nuovo album “Machine Messiah”. Come si è svolto il processo di composizione ed il lavoro di registrazione?

P.J.: Le cose basilari sono state realizzate nel nostro studio a San Paolo e fondamentalmente è stato il classico processo di lavorazione che facciamo sempre in occasione di un nuovo disco. E’ cambiata la composizione nel senso che questa volta abbiamo realizzato molte idee in solitaria per poi inviarcele e rispedircele tramite internet. In studio abbiamo lavorato come sempre a parte per le sessioni di batteria che sono state registrate in Svezia negli studi di Jens Bogren, a Stoccolma e Örebro. La ragione di questa scelta è stata dettata dal fatto di uscire dal Brasile per cogliere diverse vibrazioni rispetto a quelle di casa nostra, in un posto calmo e tranquillo. E la Svezia era il luogo perfetto.

R.G.: Puoi parlarci delle tematiche trattate nei testi?

P.J.: La maggior parte delle canzoni parla della robotizzazione a cui siamo andati ed andremo incontro, specialmente in questi ultimi anni che ci siamo lasciati alle spalle. Le persone sono sempre più dietro le quinte dei software invece che esporsi personalmente e la dipendenza dalla tecnologia è sempre più palese e quasi inevitabile. Sembra che ci sia una sorta di dipendenza che diventerà sempre più forte e sarà molto difficile poi tornare indietro. Questo è il tema che ha portato a Machine Messiah.

R.G.: E’ una sorta di concept o le canzoni sono slegate nonostante la tematica comune?

P.J.: Diciamo che non doveva esserlo ma poi il tema comune della robotizzazione l’ha trasformato in una sorta di concept.

R.G.: Devo dirti che la copertina assomiglia molto a quella di Arise (uscito nel 1991 e diventato caposaldo del thrash nda) con queste chele che reggono il cervello e la struttura che ricorda molto quella del castello sulla cover del vostro storico album. E’ una cosa voluta oppure è del tutto casuale?

P.J.: Ti dirò, è una sorta di coincidenza. Quando Andreas (Kisser, chitarrista della band, nda) stava facendo ricerche sul concetto del Deus Ex Machina ha visto in internet il quadro di Camille Dela Rosa, pittrice filippina, ha deciso che sarebbe stata un’ottima copertina, per il fatto di vedere rappresentato il Messia dentro una macchina, un essere umano che nasce da un aggeggio artificiale che gli dona il sangue e la vita. Non c’è stata una decisione di fare e modernizzare un vecchio artwork. Siamo rimasti convinti dal soggetto del quadro che rifletteva la tematica dell’album e da tutti i dettagli presenti nel dipinto, che contiene caratteristiche moderne ma anche old school. Vedendo quell’immagine mi sono venute in mente le copertine degli anni ’70, tipo quelle dei King Crimson o degli Yes. Queste sono le prime sensazioni che mi hanno riguardato nel vedere quell’immagine. E poi è altamente comprensibile a tutti.

R.G.: Rimanendo sull’argomento della tecnologia, qual è la tua opinione in merito al cambiamento che ha portato nel modo di fruire la musica e nel mondo del mercato musicale? E se c’è stato, è stato un cambiamento positivo o negativo?

P.J.: La tecnologia ha completamente cambiato il modo di fruire della musica. Può essere una cosa altamente positiva, come sempre quando si parla di evoluzione. Il problema è che ancora non si è trovato un equilibrio tra le due facce della medaglia. Ad esempio, è vantaggioso il fatto di poter cercare musica in ogni momento e che sia accessibile in tutto il mondo. Ad esempio, negli anni ’80 in Brasile per avere un disco che non fosse di quella nazione ci volevano anche tre mesi dall’uscita prima di poterne entrare in possesso. E quando arrivava si facevano copie in cassetta in quantità industriali perché non tutti se lo potevano permettere. Preferisco sicuramente i vecchi supporti e la vecchia industria, ma è innegabile che sia positivo potere acquistare in tempi brevissimi tutto quello che vuoi. E poi qui (mostra lo smartphone, nda) puoi portarti anche mille dischi in viaggio. Mi ricordo di quando andavo in tour o in viaggio e mi dovevo portare un borsone con dentro le cassette o i cd. Penso che nella scena heavy metal e rock l’impatto sia stato minore nel senso che i veri fan e gli appassionati sono ancora molto attaccati al supporto fisico. E’ un comportamento unico e molto old school. Quando ci siamo messi a comporre Machine Messiah l’abbiamo fatto con l’idea del vinile: intro, pezzo strumentale e tracklist studiata con l’idea che uscisse su vinile come supporto primario, mantenendo le vibrazioni e le tradizioni della vecchia scuola.

R.G.: Nell’ultimo DVD degli Annihilator (da noi recensito a questa pagina) Dave Ellefson (bassista dei Megadeth, nda) afferma in un’intervista che il Big Four ha due estensioni: una a nord, gli Annihilator appunto, ed una a Sud, che sono i Sepultura. Cosa pensi di questa dichiarazione?

P.J.: Non saprei proprio (ride, nda). Potrebbe essere. Siamo nel giro da tantissimo e rispettiamo molto le band storiche, quelle che ascoltavamo da ragazzi e penso che loro rispettino altrettanto noi. Quindi, perché no?

R.G.: Allora sarebbe il caso di mettere in piedi un bel Big Six, che dici?

P.J.: Lo spero! (ride,nda) Perché no? Sarebbe fichissimo suonare con questi ragazzi!

R.G.: Puoi parlarci dei tuoi primi anni da musicista? Cosa ti ha spinto ad imbracciare uno strumento da adolescente? E’ stato difficile in un Paese come il Brasile?

P.J.: Sono molto sincero: non mi ricordo minimamente il perché ho iniziato! (risate, nda) Gli inizi sono sempre molto difficili. Eravamo giovanissimi e non era facile suonare un certo genere e affrontare certe tematiche a Belo Horizonte (metropoli brasiliana dove i Sepultura si formarono, nda) città ultra cattolica. A noi interessava suonare e tutti gli aspetti riguardavano soltanto la musica. E’ stato basilare avere il supporto delle nostre famiglie. Senza di loro non saremo qui oggi. Comunque era durissima : non si trovavano gli strumenti giusti, gli amplificatori giusti, degli studi all’altezza. Inoltre noi eravamo senza alcuna esperienza. Abbiamo davvero imparato tanto quando abbiamo iniziato a viaggiare, a fare tournée. Allora in Brasile hanno potuto vedere i nostri progressi tecnici e gli studi hanno iniziato ad interessarsi ed a riadattarsi per potere competere con il resto del mondo, modernizzandosi. Ora la tecnologia ha azzerato tutto e puoi farti uno studio ed un album in casa. E’ cambiato davvero completamente lo scenario. Ora è molto più facile e meno dura, ma quando ripenso a quei giorni non sono dispiaciuto. Anzi. Sono affascinato dai vecchi tempi.

R.G.: Ti piace quello che Antichrist (Wagner Lamounier, primo cantante della band,nda) ha realizzato con i Sarcófago (band black metal che influenzerà moltissimo la scena, nda)?

P.J.: No. Gli stili così radicali non mi sono mai piaciuti. Fondamentalmente le mie basi sono rock’n’roll. Ho parlato non con lui, ma con chitarrista e bassista della band, con cui eravamo molto amici in passato e con i quali non avevo rapporti da anni. Non ci siamo rivisti ancora di persona. Ma il giorno che lo faremo potrete vedere le foto sull’Instagram ufficiale dei Sepultura! (ride di gusto, nda)

R.G.: Quali sono le tue maggiori influenze musicali?

P.J.: Le mie maggiori influenze sono state i Venom, i Kreator, i Black Sabbath, i Queen, i Metallica e tutta la scena thrash. Penso che siano poi le band che influenzano anche la scena attuale in cui ci sono molte proposte valide, come Danko Jones ed i Clutch. Poi sai il discorso non è così settario perché per me la musica, indipendentemente dal genere, o è buona o è cattiva. Io la divido così, non per generi.

R.G.: C’è un artista o una band con cui non hai mai suonato e sogni di poterlo fare un giorno?

P.J.: Rush! (risate, perché non facciamo nemmeno in tempo a finire la domanda, nda). Li ho visti, li ho incontrati ma non ho mai avuto l’onore di suonarci assieme. Penso che sarebbe molto carino suonare anche con i Pink Floyd. Abbiamo suonato con grandissimi artisti ma il mio sogno proibito sono in assoluto i Rush.

R.G.: Grazie Paulo per la tua disponibilità ed in bocca al lupo per lo show di questa sera!

P.J.: Un saluto a tutti i lettori ed a tutti i nostri fans italiani!

Category : Interviste
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07th Mar2017

Intervista a Danko Jones

by Piero Di Battista

Intervista Danko Jones e Piero Di BattistaA pochi giorni prima dell’uscita del nuovo disco, intitolato Wild Cat, presso un hotel milanese, durante il suo promo day, abbiamo incontrato Danko Jones, cantante e leader dell’omonima band canadese, che ci ha raccontato non solo la genesi del nuovo album ma anche la sua su diversi argomenti che gravitano attorno alla musica in generale.

R.G.: Ciao Danko e benvenuto su RockGarage, allora come stai?
D.J.: Grazie! Si sto molto bene direi!

R.G.: A breve uscirà il vostro nuovo disco, “Wild Cat”, parlacene un po’.
D.J.: Sì, Wild Cat è il nostro ottavo album in studio, il primo con l’etichetta AFM Records, ed anche questo è stato prodotto da Eric Ratz. Si tratta del primo album che rispetto al suo precedente non ha nessun cambiamento: stesso produttore, stesso studio, stessa line-up. Il processo è stato semplice ma comunque dettagliato e molto accurato. Abbiamo iniziato a lavorarci su da gennaio dello scorso anno, ed abbiamo finito nella scorsa estate. Lavorando con Eric, con lo stesso studio, e con le stesse persone che conosciamo da tempo il tutto è divenuto più semplice e naturale. Prima di entrare in studio abbiamo lavorato in maniera molto accurata su ogni singolo pezzo, curandone ogni minimo particolare, e quando i brani erano pronti, siamo entrati in studio. Tieni conto che su circa 40 brani che avevamo preparato, “solo” 11 sono stati inseriti nell’album. E’ stato molto bello lavorare così, e siamo molto soddisfatti del risultato, nonostante siamo una band che da anni è stata spesso sottoposta a cambiamenti dovuti a fattori interni ed esterni a noi.

R.G.: A proposito di questo; dici appunto i cambiamenti, ma se c’è una cosa che non è mai cambiata nel corso della vostra carriera è il vostro sound.
D.J.: Sì, noi ci consideriamo una band hard rock e nei nostri dischi, sia questo ma anche quelli che abbiamo pubblicato in passato, le differenze ci sono perché sono presenti diversi musicisti, sono diverse le produzioni, e sono anche diversi gli studi dove abbiamo lavorato. Ma se c’è una cosa che ci caratterizza è che ci siamo sempre concentrati sulla musica. Se c’è una cosa che non mi piace è sostenere che questo sia il nostro miglior disco, perché, come carattere, sono uno a cui piace guardare sempre avanti, e quindi sostenere che il nostro miglior disco sia il prossimo, ed il prossimo ancora. Ogni volta che mettiamo a punto un album ho sempre la sensazione di essere nervoso, una sorta di pressione per ogni volta che esce un nuovo album; ma sono anche nervoso per il fatto di non sapere come potrebbe risultare agli altri. Io ho amato tutti gli album, ognuno per motivi diversi ma Wild Cat è un album che mi dà tranquillità.

R.G.: Quindi questo è un album che non ti ha generato nervosismo. Come mai? Cosa c’è di diverso in “Wild Cat”?
D.J.: Be’ Fire Music era un album molto arrabbiato che parlava di persone uccise, mentre questo è un periodo molto armonioso e questo si riflette in Wild Cat. Probabilmente questo è il segreto del nuovo album, non ci sono tensioni, c’è armonia all’interno della band, sia sul palco che giù dal palco.

R.G.: A marzo partirà il vostro tour europeo, ma al momento non sono previste date in Italia, sai dirci il perché?
D.J.: Sì purtroppo al momento non è previsto alcun concerto qui da voi, e mi dispiace dato che ho dei bei ricordi dei nostri show in Italia. E’ solo una questione di date da fissare. Non si possono fissare date in tutti i Paesi fin dall’inizio. La nostra speranza è quella di riuscire a venire in occasione di qualche festival estivo, o comunque entro il prossimo inverno.

R.G.: Siete una band canadese che si è esibita in tutto il mondo. Quali sono le principali differenze che riscontrare in Europa tra i diversi Paesi? Non solo a livello live ma anche a livello discografico.
D.J.: Noi andiamo molto bene nei Paesi scandinavi ma anche in Italia andiamo bene eppure solitamente suoniamo solo a Milano. Ed è una cosa che non capisco. Ci sono alcuni Paesi europei in cui suoniamo quasi sempre, Germania, Benelux…lì andiamo bene e sono quelle le date che ci propongono. Ma in altri Paesi dovremo suonare in molte altre città. In Italia non c’è solo Milano, c’è anche Roma ed altri luoghi.

R.G.: Sì infatti, in Italia ci sono anche tantissime città al Sud. Forse è una questione economica? E’ troppo costoso portare un live lì?
D.J.: Non lo so onestamente. Può darsi che dipenda dalle politiche delle città o dal fatto che i locali chiudono, o forse dal promoter locale o dal fatto che in alcuni posti si suona di più rock o di più metal…ci sono così tanti fattori. Difficile dirlo con precisione.

R.G.: Cosa ne pensi delle attuali piattaforme come Spotify o Deezer? E’ solo cambiato il modo d’ascoltar musica, oppure c’è poca “educazione” all’ascolto?
D.J.: Penso che il mondo vada avanti, ed anche la musica, o meglio l’ascoltare musica vada pari passo con tutto il progresso tecnologico che il mondo attraversa al giorno d’oggi. Certo, noi siamo cresciuti ascoltando i vinili o i CD grazie agli stereo, stereo intendo quelli con le casse. Il risultato del progresso tecnologico è che oggi questo (indicando lo smartphone ndr) venga considerato come stereo; è come se io dicessi “questa è la toilette!” (indicando il tavolo ndr). Ma pensandoci non è poi proprio una questione odierna, già con l’arrivo dei CD la gente, quando giudicava un disco, iniziò a dire “sì il disco è bello, le mie preferite sono la 4, la 7 e la 10”, senza ricordarsi i titoli dei singoli pezzi.

R.G.: Forse è anche una questione di fruizione: oggi la musica si ascolta mentre si guarda la televisione o mentre si gioca al tablet. In passato la si ascoltava con i testi del booklet in mano e concentrandosi al massimo solo sull’ascolto. E’ una questione di “educazione”.
D.J.: Certo, è così. Quando io ero ragazzo e compravo una cassetta io avevo la mia completa attenzione sull’ascolto dell’intera cassetta. Ed ero interessato ad ascoltarla per intero. Oggi invece su Youtube puoi trovare qualsiasi album per intero…è pazzesco! Posso trovarlo ed ascoltarlo! Non potrei comprare qualsiasi album e su Youtube posso trovare album che non troverei al negozio. Ci sono lati positivi e lati negativi.

R.G.: Qualche anno fa abbiamo assistito al vostro show durante lo Sziget Festival in Ungheria; ricordo che dal palco dicesti “qui ci sono tante band che dicono di suonare indie, prog metal, death metal, metalcore…noi invece suoniamo hard rock!”. E’ cambiato qualcosa da quel momento? O meglio, pensi che nel futuro ci potranno essere nuove influenze musicali nel sound dei Danko Jones?
D.J.: Non credo, siamo una hard rock band. Se succedesse saremo un altro tipo di band. Non possiamo considerarci al livello di band come, ad esempio AC/DC, Slayer o Ramones, che hanno un’unica impronta musicale e che l’hanno portata avanti per tutta la loro lunga carriera. Prendi però gli AC/DC, hanno uno stile unico ma è logico che c’è differenza tra Back In Black o Highway To Hell. La stessa cosa capita a noi, noi abbiamo sempre suonato hard rock ma se ci ascolti bene ogni album ha delle particolarità: Fire Music era incazzato, Wild Cat è più celebrativo, Never Too Loud era super prodotto, Below The Belt è stato un ritorno alle origini…quindi se non conosci bene i Danko Jones ti sembrano tutti uguali. Noi non suoniamo come abbiamo fatto in passato.

R.G.: Una nostra curiosità: sappiamo che non dipende da voi, ma come mai i Danko Jones hanno cambiato spesso il batterista?
D.J.: Ok, non bisogna vedere il “di fronte”, ma bisogna vedere il “dietro le quinte”. Dietro le quinte non ci siamo solo io e J.C., noi abbiamo lo stesso management, lavoriamo con le stesse persone all’interno dell’etichetta o del management dal 2001 e con gli stessi organizzatori di concerti e siamo una vera e propria crew che lavora insieme. Tu non lo vedi questo, tu vedi solo che cambiamo batterista di nuovo, ma questo è sbagliato. Non vedi tutte le relazioni che ci sono dietro e che continuiamo ad avere. Quando un membro va via, un batterista va via, ovviamente è un dispiacere per me e J.C.. E ovviamente quando arriva un nuovo batterista lui è preoccupato, deve imparare, deve conoscerci e dobbiamo conoscerlo e passano circa 6 mesi prima di rodare. Non voglio parlare dei singoli membri e del perché hanno deciso di andare via, ogni batterista che è andato via è stato per motivi diversi, mi piacerebbe parlarne a lungo perché mi piacerebbe che le persone sapessero, ma in alcuni casi è così che vanno le cose. Ci sono alcuni comportamenti che non sono andati bene, le persone non tendono a lasciare a meno che non tu sia uno stronzo. Certo, se con le persone non condividi lo stesso bus, se ognuno sta nella propria camera d’albergo è molto più semplice restare insieme a lungo, ma noi viviamo sempre insieme, quindi c’è bisogno di rispetto reciproco. Quando un nuovo membro entra nella band, deve essere se stesso e deve sentirsi a suo agio come fosse il miglior batterista che abbiamo mai avuto. C’è bisogno di un rispetto reciproco. Se vuoi un segreto per restare insieme questo è “non essere un cazzone”. Ecco questo può essere il segreto.

R.G.: Grazie dell’intervista Danko, vuoi salutare i vostri fan italiani?
D.J.: Grazie a voi! Certamente, mi raccomando continuate a seguirci e speriamo di poter venir presto qui a suonare in Italia.

Category : Interviste
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03rd Mar2017

Intervista ai Motelnoire

by Cristian Danzo

Intervista ai Motelnoire con Cristian DanzoAbbiamo incontrato Nick Castaldi, chitarrista della band milanese Motelnoire, che hanno da poco pubblicato il nuovo abum On Tv (recensito da noi a questa pagina). Vediamo cosa ci hanno raccontato.

R.G.: Ciao Nick e benvenuto su RockGarage. Parlaci del vostro nuovo album, della sua composizione, delle fonti di ispirazione, della fase di registrazione.

N.C.: On Tv è un album scritto in poco tempo, molto istintivo e poco ragionato. I temi principali sono quelli legati alla società : il lavoro, il disagio, il potere, il terrorismo e tutto quello che si sente e che ci circonda. Non è propriamente un album di protesta ma è un disco che non vuole schierarsi ed adattarsi alle solite cose pop ed ai soliti argomenti d’amore. Non che non mi piaccia l’amore, io amo parlare di sentimenti però abbiamo preferito concentrarci su quello che sono il quotidiano e le grandi difficoltà della vita. E’ stato realizzato in maniera molto tradizionale, per quanto riguarda la realizzazione e l’arrangiamento. Metà del lavoro è stato registrato a Londra dal mio carissimo amico e collaboratore Matteo Cifelli, fonico di Tom Jones, de Il Divo e di Bryan Adams, solo per citarne alcuni. Pochi anni fa, lavorando ad un disco negli Stati Uniti, ho avuto la fortuna di conoscere Gary Wallis (batterista e percussionista dei Pink Floyd durante i tour Delicate Sound Of Thunder e Pulse, nda) e Nathan East (bassista turnista collaboratore di molti artisti tra i quali Eric Clapton, nda) con i quali ho registrato le ritmiche in presa diretta a Londra. Tutto il resto è stato realizzato dal resto della band con la collaborazione di Danilo Di Lorenzo, arrangiatore e responsabile del mix dell’album. Penso che la musica sia un modo per aggregare, che non ha frontiere e non ha lingua. Quando si fa musica si fa musica e mi sembrava bello tirare fuori vari punti di vista durante la lavorazione. On Tv è stato molto istintivo e veloce. L’unico pensiero che avevamo è stato quello di fare delle buone canzoni.

R.G.: Si nota subito che i temi affrontati nelle vostre liriche sono di protesta e di descrizione della società attuale. Quello che vi caratterizza però è il linguaggio molto chiaro e diretto, a differenza di alcune correnti del rock italiano, soprattutto quelle politicamente schierate, che si perdono in sofismi e linguaggio “difficile”.

N.C.: Innanzitutto io odio appartenere ad una determinata cerchia e non mi piace schierarmi. Anche da bambino mi piaceva avere più amici piuttosto che un amico o un’amica singola. Mi piace confrontarmi con più persone e quando penso alla politica ascolto tutti ma non appartengo a nessuno. Amo il concetto di anarchia, se costruttivo. Esiste una minoranza di persone che migliora la vita di tutti senza avere dei preconcetti. Noi come Motelnoire cerchiamo sempre durante le nostre serate di confrontarci su tutti i temi e le notizie che ci capita di sentire. Così nascono le tematiche che affrontiamo. Non apparteniamo a nessun tipo di corrente. Mi piace essere diretto, soprattutto nelle canzoni, perché voglio che il messaggio arrivi a più persone possibili e per questo voglio essere molto chiaro. Se vuoi possiamo dire che sono molto scarno e magari anche un po’ ignorantotto ma preferisco che se dico “vaffanculo” uno capisca vaffanculo e nient’altro. E’ inutile fare giri intorno ad un tema, lasciamoli fare a chi sa fare queste cose. Preferisco utilizzare un linguaggio semplice per fare capire cosa voglio dire e non rivolgermi soltanto ad alcuni. La torvo una forma di rispetto.

R.G.: Come è nata la collaborazione con Vince Tempera (storico arrangiatore italiano, nda) per la canzone Per Sempre?

N.C.: Quando ero un bambino sono rimasto fulminato dalle sigle dei cartoni animati e così Vince è diventato il mio eroe. Appena partiva una sigla iniziava un viaggio particolare ed ho sempre sognato di conoscere le persone che le cantavano o le scrivevano. Ho conosciuto Vince per caso in studio di registrazione a Milano. Mentre stavamo registrando le voci per l’album, ci ha sentiti ed è entrato in studio chiedendo chi eravamo e cosa stavamo facendo. Gli ho fatto ascoltare un brano strumentale, composto guardando alla mia grande passione per le colonne sonore cinematografiche. Adorando Ennio Morricone, ho chiesto a Vince se fosse possibile aggiungere una parte orchestrale a ciò che aveva ascoltato. Si è messo al lavoro sugli arrangiamenti ed abbiamo realizzato con un’orchestra Per Sempre.

R.G.: Rimanendo in tema, Per Sempre ricorda Libera L’Amore, canzone di Zucchero (contenuta in “Oro, Incenso e Birra”, nda) la cui musica è stata appunto scritta da Morricone. E’ per caso ispirata a quella?

N.C.: No è una somiglianza assolutamente casuale. La canzone è nata come ti raccontavo prima ed erano delle idee sparse di chitarra che poi sono state arrangiate e registrate così senza il cantato. Mi fa molto piacere che tu mi abbia detto questo e citato questo riferimento.

R.G.: Essere a contratto con una major vi schiaccia o vi lascia libertà di azione?

N.C.: In effetti è strano parlare di anarchia e di libertà e poi essere sotto contratto con una multinazionale. Con Sony abbiamo però trovato un giusto equilibrio: noi siamo liberi di fare ciò che vogliamo senza essere intralciati. E senza essere completamente indipendenti in termini di produzione cosa che, se è vero che ti lascia la possibilità di decidere completamente tutto, dall’altra parte ti rende magari “invisibile”. E’ durissima anche con una grossa azienda, figuriamoci provando a fare tutto da soli. Quello che ci ha convinti è stato il fatto che non ci abbiano mai proposto di cambiare anche una sola nota del disco, proponendoci un percorso molto commerciale che noi abbiamo rifiutato. Credo che sia doveroso per una band essere sincera e suonare il più possibile altrimenti non si contribuisce per nulla allo sviluppo musicale e ci si riduce a fare radio, talent e magari a suonare davanti ad un pagante. Tutto questo non ci interessa. Ci piacerebbe aprire un movimento artistico nel quale potrebbero confluire altre band emergenti, in modo da poterci supportare l’uno con l’altro senza nessuna competizione o invidia. In un momento come quello che stiamo vivendo per quanto riguarda la musica, ci vorrebbe maggiore coesione e collaborazione. E’ pieno di artisti che quando arrivano in alto chiudono i battenti e tanti saluti a tutti, al supporto ed all’aiuto.

R.G.: Quali sono le tue maggiori influenze musicali?

N.C.: Ho un debole per la musica napoletana classica e questo è dovuto al fatto che mio padre ne era un grande appassionato. Di quella corrente mi entusiasmano il modo in cui esprimono il sentimento e l’amore nel cantato, nei testi e negli arrangiamenti. Crescendo ho studiato chitarra classica ed ho iniziato ad ascoltare musica classica. Poi ho scoperto i Pink Floyd, tutto il rock che va dai ’60 agli ’80, il jazz. Per farla breve, ho dei generi preferiti ma una bella canzone è una bella canzone, indipendentemente dalla corrente in cui viene incasellata. Il bello dei Motelnoire è che tutti i componenti hanno differenti influenze ed esperienze, creando così una sacco di contaminazioni. Quando compongo solitamente mi si presentano in testa delle immagini o delle fotografie, da cui trarre ispirazione per scrivere la musica.

R.G.: Come vedi il rock nei prossimi vent’anni? Perché viviamo in un’ epoca di contraddizioni assurde: ad esempio l’anno scorso sono stati stampati più vinili che CD nonostante continui a proliferare il file sharing e comunque siano presenti mezzi come internet dove trovare tutta la musica da ascoltare. Crissie Hynde (cantante dei Pretenders, nda) in una recente intervista ha affermato che si tornerà ad ascoltare rock e fruirne come in passato, ora è solo un problema di crisi di identità del mondo che non sa che strada imboccare. Alla luce di questo, come sarà secondo te il futuro?

N.C.: Ricordo che mi prestarono Master Of Puppets e misi da parte i soldi per comprarmi il vinile. Il mio atteggiamento è sempre stato quello di avere in mano le cose delle band che amo. Credo che chi fa questo mestiere con coscienza sotto tutti i punti di vista non punta ad un mero ritorno economico e che se i fruitori, indipendentemente dalla loro età, riescono a riconoscere questa caratteristica, sentiranno il bisogno di investire dei soldi nell’acquisto di un prodotto. Ognuno dovrà fare la sua piccola parte per fare ripartire questo cerchio.

R.G.: Grazie mille Nick per il tempo concesso e per la disponibilità.

N.C.: Grazie a voi! Un saluto a tutti i lettori di RockGarage.

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28th Feb2017

Intervista agli Hammerfall

by Antonluigi Pecchia

Intervista a Fredrik Larsson degli Hammerfall con Antonluigi PecchiaEsistono band nel panorama metal mondiale che sin dal debutto sono riusciti a forgiare uno stampo musicale personale che hanno mantenuto nel nome della perseveranza nel corso degli anni, album dopo album. Tra questi nomi è impossibile non citare gli svedesi Hammerfall, con ormai più di venti anni di storia sulle spalle. La band è tornata lo scorso anno con un nuovo lavoro studio, dal titolo “Built To Last” che rispecchia in pieno la “tamarraggine” che li ha resi importanti sulla scena. A qualche ora dalla loro esibizione presso il Live Club di Trezzo sull’Adda abbiamo avuto l’onore di sederci in compagnia di qualche altro giornalista come noi per avere la possibilità di sottoporre un paio di quesiti a Fredrik Larsson, bassista al servizio della band da un bel po’ di anni ormai. Qui a voi un estratto dalla conferenza stampa.

D.: Il vostro ultimo disco “Built To Last” ricorda molto il sound dei vostri primi lavori, soprattutto per quanto riguarda il songwriting e la struttura dei brani. Ci parleresti un po’ delle differenze esistenti tra il processo di lavorazione di quest’ultimo rispetto ai lavori di quel periodo?

F. L.: Dopo la pausa che ci siamo dati nel 2013 siamo ritornati con il pieno delle nostre energie così abbiamo realizzato il disco (r)Evolution che credo sia molto simile a quest’ultimo lavoro studio, che forse per la mia opinione si tratta di un disco migliore e più stimolante. Con (r)Evolution siamo ritornati a farci ispirare da ciò che in passato erano le nostre fonti di ispirazione, come un ritorno alle nostre radici.

D.: Credo che uno dei vostri principali punti di forza sia rappresentato dalla produzione dei vostri lavori, il vostro sound moderno incontra uno stile musicale tipicamente old school. Credi che questo riesca a rendere le vostre produzioni molto attraenti sia per un pubblico giovane che a quello più adulto?

F. L.: La nostra intenzione è scrivere heavy metal classico, insomma la musica con cui noi tutti siamo cresciuti. Vogliamo proprio conservare questo stile però allo stesso tempo non possiamo di certo far uscire un album che suoni esattamente come se fosse uscito negli anni ’80, abbiamo bisogno di qualcosa di nuovo. Io per esempio negli ultimi periodi ho recuperato dei dischi di quegli anni che non avevo mai ascoltato in passato e devo ammettere che non sia semplice ascoltarli oggi per la loro produzione nonostante all’interno del disco ci siano le canzoni migliori di sempre, risulta difficile oggi provare a tornare indietro ascoltandoli. Quindi noi volevamo avere una produzione nuova e fresca dietro il nostro metal old school.

D.: Il vostro primo album “Glory To The Brave” compie 20 anni quest’anno, un disco da molti ancora considerato il vostro capolavoro assoluto. Dopo questo siete stati capaci di realizzare tanti altri ottimi dischi. Non vi infastidisce il fatto che gli Hammerfall vengano principalmente associati ai primi album?

F. L.: No, alle volte è difficile perché quando una band pubblica un disco che diventa molto importante per un dato periodo, lascia il segno in molte persone. Quindi magari anche i primi due o tre dischi di una band vengono considerati come i “classici” della loro discografia da parte di tutti. Eppure allo stesso tempo noi abbiamo diversi dischi tra le produzioni più recenti o nel periodo centrale che il pubblico ha riscoperto e ha saputo apprezzare e alle volte anche pensato che sia stato il periodo migliore degli Hammerfall. Guardando il canale Youtube si può notare come uno dei video più cliccati tra quelli usciti qualche anno fa sia Last Man Standing. Però ovviamente, se il primo disco riscontra un enorme successo del genere, quell’album rappresenterà la tua immagine nella testa di tutti quando si dovrà giudicare la tua band.

D.: Dato che quest’anno ricade proprio il ventennale, avete in mente di fare qualcosa di speciale per festeggiarlo?

F. L.: Purtroppo questa ricorrenza è ricaduta in un “brutto” periodo perché avevamo appena rilasciato Built To Last e avevamo pensato di fare qualcosa per festeggiare questo traguardo di Glory To The Brave ma per il momento siamo impegnati nella promozione dell’ultimo disco, forse più tardi nel corso dell’anno ma ancora non abbiamo pensato a nulla di specifico.

D.: Avevate già in mente un’idea precisa di come volevate che suonasse il vostro ultimo “Bluit To Last” nel corso della fase di composizione oppure è stato qualcosa che è venuto nel corso della sua registrazione?

F. L.: Abbiamo un modo ben strutturato su come lavorare ad un album. Oscar e Joacim scrivono la maggior parte del brano, ce lo propongono quando si tratta già di una struttura piuttosto definita. Loro due hanno sempre un’idea ben precisa su come il brano debba suonare a lavoro ultimato. E’ difficile cogliere l’idea di brano ultimato partendo dall’ascolto della demo grezza. Noi l’ascoltiamo e la sistemiamo, ognuno mettendoci la propria parte. Quindi io registro la linea di basso, poi la batteria e così via. In fine vengono incisi diversi livelli di chitarra per ottenere così il suono degli Hammerrfall. Non riesco sempre a cogliere il sound finale delle demo ma sono sicuro che in ogni modo funzionerà in studio come lavoro completo.

D.: Cosa ci puoi dire invece riguardo al tuo side project Death Destruction?

F. L.: Non abbiamo abbandonato il progetto ma attualmente non abbiamo nulla in cantiere per questo. Io mi sto dedicando agli Hammerfall mentre Henrik e Jonas sono impegnati con gli Evergrey e Tony con i suoi diversi progetti. Ritorneremo, anche se non abbiamo un’etichetta discografica, quindi senza pressioni…ma ritorneremo!

D.: Sappiamo che non sei tu l’autore dei testi degli Hammerfall ma alle volte ci chiediamo come si fa a cantare di epiche e gloriose tematiche per 20 anni e riuscire ancora a trovare nuove parole per farlo?

F. L.: Lo so, alle volte è molto difficile riuscirci (ride, ndR)! Di solito quando Oscar scrive la musica di una canzone, la intitola anche e così passa la palla a Joacim che ha il compito di interpretare il titolo del brano utilizzando ciò che sente nei confronti di quel titolo.

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06th Feb2017

Intervista ai Cirque Des Rêves

by Amleto Gramegna

Cirque Des Rêves intervista RockGarageUna delle più recenti uscite discografiche che maggiormente c’ha colpito è stata quella dei Cirque Des Rêves, band partenopea dedita ad un sound particolarmente sofisticato ed etereo. Purtroppo, è notizia di questi giorni, la band ha subito la dolorosa perdita del chitarrista (e fondatore) della band Giovanni Ilardo. Era da un po’ che noi di RockGarage avevamo intenzione di sottoporre ad un fuoco di domande il gruppo, ma a causa di vari impegni, il tutto non si è mai concretizzato. Solo oggi abbiamo parlato con Lisa Starnini, co-fondatrice e voce solista, per fare due chiacchiere e sapere quale sarà il percorso – laddove vi sarà – della band, orfana di uno dei suoi fondamentali membri.

R.G.: Ciao Lisa. Anzitutto complimenti per questo disco, a noi di RockGarage è piaciuto molto. Ad un primo ascolto abbiamo individuato parecchi riferimenti ad altri artisti, sia della scena musicale italiana, sia – ovviamente – di quella internazionale: vuoi dirci quali sono i tuoi nomi di riferimento?
L. S.: Ciao a tutti e grazie per aver deciso di dedicarci questo spazio su RockGarage! In effetti le influenze sono tantissime, da Regina Spektor a Tori Amos a Eva Cassidy passando per Deftones, Tool, Dresden Dolls e tantissimi altri. Ho sempre ascoltato generi anche molto diversi tra loro, amo spaziare in base all’umore del giorno e Mirabilia ripercorre molte di queste mie diverse sfaccettature.

R.G: come è nata l’idea di questo lavoro? Sei (o siete) legata a qualche brano in particolare? (io adoro Tramonti Di Stelle)
L.S.: Mirabilia è nato con spontaneità, componendo in ascensore, in coda nel traffico o nel silenzio della notte quando i miei bimbi finalmente dormivano. Ogni brano racconta una parte di me: sogni, speranze, illusioni, cadute, protagonisti positivi e anche negativi… è un viaggio nella mia vita e nel mio cuore. Difficile dire se sono legata più o meno a un brano in particolare. Posso dire che sia Notte d’Aprile che Mirabilia sono state registrate piangendo (e in alcuni punti si sente). Volevo ripetere le registrazioni ma Maartin si oppose perché si era commosso a sua volta dall’altro lato del vetro.

R.G.: Ecco, mi hai anticipato. Tra i nomi impegnati nella produzione del disco spicca quello di Maartin Allcock, figura di spicco del folk rock inglese dei ’70, oltre che collaboratore di sua maestà Robert Plant: come è stato lavorare con lui e quanto di quella esperienza ha portato nel vostro lavoro?
L.S.: Maartin è stato ed è tuttora una guida, un’ispirazione e un amico oltre a un’anima stupenda. Mi ha insegnato a non vergognarmi di essere me stessa e a credere in me, ha saputo tirare fuori il meglio di ognuno di noi mettendo in risalto i nostri punti forti e ordine nel nostro costante caos creativo. Lavorare con lui mi ha cambiata, cresciuta e aiutata a capire chi sono musicalmente parlando. La cosa che gli riconoscerò per sempre è avermi insegnato a non aver paura di esprimermi, ovunque mi porti la mia voce.

R.G: Il disco è stato accolto decisamente bene, ma quanto ha influito il supporto dei vari Spotify e di piattaforme similari? Che ne pensi di questo modo di fruire la musica? Occhio che parli con maniaci del vinile, ma maniaci old school!
L.S.: Ah non dirlo a me… Mirabilia doveva uscire in vinile ma non abbiamo avuto nessun tipo di supporto (visto il genere catalogato “senza scaffale” e quindi non vendibile) e il costo si è purtroppo rivelato elevatissimo. Le piattaforme digitali sono ormai fruibili da chiunque e dopo un anno e mezzo dalla fine delle registrazioni (passato alla ricerca di etichette interessate a scommettere sul disco) abbiamo deciso di farlo uscire con i nostri mezzi e questo è il massimo che ci siamo potuti permettere.

R.G.: Mirabilia è formato da tanti piccoli quadretti di atmosfera notturna, come preferite riproporli live? Un ambiente familiare e ristretto, come può essere un club, un luogo più “solenne” come un teatro, o addirittura un grande palco?
L.S.: Abbiamo sempre preferito teatri, castelli e festival con palchi adatti a proporre lo spettacolo con i nostri amici artisti di strada. Il Cirque Des Rêves live viaggia in carovana con mangiafuoco, trampolieri, clown, danza aerea e tanto altro… la realtà dei locali non si è mai rivelata molto adatta sia per contesto che per pubblico poco attento.

R.G: Quale sarà il futuro della band, alla luce di quanto è accaduto? Avete intenzione di proseguire e di preparare una tournée?
L.S.: Mirabilia è l’ultimo viaggio del Cirque Des Rêves e con essa si congeda anche a fine album. Non credo ci saranno date o tour. Nessuno di noi intende sostituire Gianni alla chitarra. Come dice anche la canzone “Il viaggio finisce qua…“. Per il momento il Circo dei Sogni si ferma. Ognuno di noi prosegue comunque con i propri progetti musicali.

R.G.: Allora cosa vedi nel tuo futuro? Sarà possibile un’uscita in vinile del disco?
L.S.: Sicuramente spero di riuscire in futuro a uscire con l’album fisico e il vinile. Per quanto mi riguarda proseguirò il viaggio musicale con gli Elyza Jeph e con l’album in duo con Maartin Allcock.

R.G: Cosa ascolti in questo momento?
L.S.: Sinceramente questo per me è un momento di silenzio. Sicuramente strano per un musicista ma la musica per me è espressione di emozioni e sto attraversando un periodo di chiusura. Tornerò alla musica non appena mi sentirò pronta ad aprirmi di nuovo.

R.G.: Ultimissima domanda e ci salutiamo. Quali sono per te i tre dischi da portare sull’isola deserta?
L.S.: Grace di Jeff Buckley, Aenima dei Tool e Blue Light ‘Til Dawn di Cassandra Wilson.

R.G.: Grazie per la chiacchierata Lisa, e quando incontri Maartin diglielo che lo invidiamo per aver lavorato con Sandy Denny!
L.S.: Erano molto legati…ha sofferto molto per la sua perdita e so che sarà felice di sapere quanto la abbiate amata anche voi! Grazie per questo spazio e per l’affetto! A presto.

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22nd Dic2016

Intervista agli Shandon

by Piero Di Battista

olly-riva-degli-shandon-e-piero-di-battistaPoche settimane dopo la nuova reunion degli Shandon, questa volta definitiva, che ha portato la band lombarda a pubblicare l’EP Brandelli d’Italia, lo storico cantante del gruppo Olly Riva ci ha invitato a casa sua per concederci un’intervista. Attraverso questa lunga conversazione Olly ci ha raccontato di questa nuova avventura, delle sue nuove motivazioni e della sua ritrovata serenità, ritrovata grazie anche agli altri progetti musicali che lo vedono coinvolto.

R.G.: Ciao Olly, e benvenuto su RockGarage! Allora come sta andando il tour?
O.R.: Ciao e grazie! Direi benissimo, anche se come spesso succede, ci sono alti e bassi. Ci sono delle città ad esempio dove l’affluenza è proporzionata alla location dove si suona. Mi spiego: certa gente fa dei ragionamenti assurdi tipo “questo locale ci sta sul cazzo e quindi non ci andiamo!”, piuttosto che “la birra lì costa troppo!” o “è un posto frequentato da discotecari!”. Ho notato quindi che ultimamente c’è questa sorta di “snobbismo” legato alle location. Assurdo.

R.G.: Parliamo dell’EP “Brandelli d’Italia” uscito nei primi del mese, com’è nata l’idea di questo lavoro?
O.R.: E’ stata diciamo un’esigenza. Quando hai una certa età prendi per scontato che chiunque sappia cosa accadeva anni fa in campo musicale. Durante questo tour abbiamo visto tanta gente che veniva anche da lontano per vedere gli Shandon ed anche padri di famiglia che ci seguivano vent’anni fa che si sono presentati con i propri figli, piuttosto che con il fratellino che all’epoca era un bambino. Succede che poi, quando questi giovani, magari nati nel 1995 (e tieni conto che noi Shandon siamo nati nel 1994) pensano che noi siamo stati tra i primi a proporre un certo genere. E noi ovviamente gli raccontiamo che prima di noi ci sono state tante altre ottime band. Chiacchierando tra di noi, della band, non ci rendevamo conto che erano ragazzi nati a fine anni 90 e che non sapevano, ad esempio, chi fossero i Negazione, gli Skiantos o gli Africa Unite. Ed allora abbiamo pensato all’idea di realizzare un EP, raccontando praticamente ciò che succedeva prima di noi nel panorama alternative italiano, per far capire ai più giovani anche quali gruppi ci hanno maggiormente influenzato. Quindi abbiamo pensato che in qualche modo dovevamo tramandare questa storia. Questa è stata dunque la start-up di questo EP.

R.G.: Immagino che sia stata difficile la scelta dei pezzi e che, a malincuore, qualcuno l’hai dovuto escludere, o sbaglio?
O.R.: Ovviamente. Anche perché non volevamo fare il classico album, cosa che abbiamo già fatto in passato e che, in qualche modo, suscitò alcune polemiche. Ed al giorno d’oggi, attraverso Facebook e altri social networks, le polemiche si sprecano, non hai idea di quante cagate siano state dette su di me e su di noi.

R.G.: Ti riferisci anche a quella dove si dice che la vostra reunion è avvenuta esclusivamente per questioni economiche vero?
O.R.: Ovvio infatti guarda dove vivo! (in senso ironico, trattandosi di un normale appartamento ndr) Ma anche se fosse? Cioè non penso che la gente lavori gratis o sbaglio? Se uno considera un musicista che fa questo lavoro esclusivamente per soldi è un ipocrita. La libertà di parola è sacrosanta, ma lo è anche quando io ti mando a cagare quando mi vengono dette queste cose.

R.G.: Il disco è stato accolto bene direi, leggende e sentendo vari pareri. Sei uno che legge le recensioni?
O.R.: Guarda, io ho quattro lavori e una moglie! Tra l’insegnamento di canto, lavori di produzione che a volte mi portano a stare in studio anche diciotto ore, ovviamente quando torno a casa vorrei rilassarmi in famiglia, nei weekend solitamente si suona, quindi la mia vita sui social è veramente risicata, tant’è che spesso mi sgridano perché “posto” poco o non faccio contenuti. Quindi, davvero non ho tempo! C’è anche da dire una cosa: siete veramente tanti oggi che scrivete! Quando ero più giovane ovviamente ero più curioso nel leggere recensioni, e la figura del giornalista era molto diversa da oggi; oltre ad essere, dico in generale, magari più competente, aveva un senso più cinico nel descrivere un disco. C’era quello che ti consigliava di non fermarti al primo ascolto, ma di approfondire più volte l’ascolto. Oggi, a causa della rete, o è tutto figo o tutto fa cagare!

R.G.: Dal disco “Back On Board” a questo EP c’è stato un anno intenso per gli Shandon, da dove arriva questa nuova carica?
O.R.: Dai SoulRockets! Ti sembrerà strano, ma è proprio così! Il tour con loro, di quasi quattro anni, mi ha portato una grande serenità. Tieni conto che venivo da vent’anni di tour, fatti di migliaia di chilometri, magari anche pagato poco o nulla, con sbattimenti sia fisici che mentali, precludendoti una vita “normale” per fare una vita da musicista, il che, visto dagli occhi del pubblico, può sembrare una cosa fighissima. I SoulRockets mi hanno riportato in quella dimensione dove andare in giro a suonare non è necessariamente sbronzarsi a fine serata, andare con le ragazze di mezzo locale…a me queste cose non sono mai interessate; non bevo, non fumo, non mi drogo e sono felicemente sposato! Certe cose, negli anni, ti fanno venire un fegato così ed intendo dal punto di vista psicologico. E quindi con i SoulRockets ho ritrovato serenità ed entusiasmo che mi hanno portato a scrivere, ad esempio, roba tranquilla, reggae, rock-steady, ska, tutta roba in levare. Cose che però non potevano andare né con i SoulRockets né con i The Fire, quindi sono rimaste lì. Una sera sono andato a cena con Max (trombonista degli Shandon ndr) e quando gli ho detto questo mi ha proposto di riformare gli Shandon. All’inizio ero molto scettico; il mio scetticismo era dovuto al fatto di non voler andare incontro a nuovi sbattimenti, al fatto che, con il precedente tour, avevamo detto chiuso definitivamente con gli Shandon, non volevo andare incontro nuovamente a futili polemiche. Lui mi consigliò di smetter di pensare che fossi io la causa dello scioglimento degli Shandon, e di godermi la parola Shandon come la mia band ed il mio progetto. Le sue parole sono state per me una forte motivazione, tant’è che ho preso i pezzi di cui ti parlavo poco fa e con Max abbiamo iniziato a provarli in sala prove, solo io e lui. E dopo ho pensato, cosa faccio richiamo gli altri? Non era facile perché alcuni vivono all’estero tra Dublino, Australia, quindi ho scelto Alecs dei The Fire che è un super batterista, oltre al fatto che per me è un fratello. Poi Iasko (trombettista ndr) che suonava già negli Shandon che mi ha segnalato Willi (bassista ndr) che suonava con lui nei Figli Di Madre Ignota ed infine Massa (chitarrista ndr) che ama il questo genere. Abbiamo provato e sin dalle prime prove è stato bello risentire alcuni nostri pezzi eseguiti da una band quasi totalmente nuova. E qui torno alla serenità che cercavo in passato, e che oggi la stiamo portando in tour con gli Shandon. Ed è bellissimo vedere che le nostre date sono andate sold out…tutte! Loro hanno rispetto per me, non mi considero un leader, ma sanno benissimo che io ho delle responsabilità che loro non hanno, come se fosse un’azienda, dato che mi occupo anche della gestione generale che può riguardare i contatti con i locali, fatture, merchandising, contatti con le etichette, sponsor e tanto altro. E’ un nuovo inizio, i concerti ce li godiamo di più, le performance vengono meglio, le registrazioni degli ultimi dischi le facciamo in pochi giorni.

R.G.: Possiamo dire quindi che la reunion degli Shandon non è una cosa temporanea, giusto?
O.R.: Esatto, non è temporanea. Certo non sappiamo fino a quando, però non è una reunion legata a questo EP e conseguente tour. Infatti con Max siamo subito arrivati all’accordo che non doveva essere una cosa di un anno e ci siamo messi nell’ottica che per i prossimi anni sarà così, kilt compreso!

R.G.: Shandon, Fire, SoulRockets, GoodFellas; negli anni ti sei dimostrato come un artista poliedrico; quali sono le tue influenze musicali, o comunque come ti sei avvicinato a suonare generi lontani da quello degli Shandon?
O.R.: Tieni conto che la vita dell’artista è sempre in salita. L’artista ha il compito di creare e non di intrattenere, io ragiono come artista e non come intrattenitore, altrimenti sembra che non ho nulla da dire. Ogni esperienza di cui ho fatto parte è logico che per me ha avuto una funzione di arricchimento personale quanto professionale. Per assurdo, nell’ultimo degli Shandon, c’è molto più di Pino Scotto che delle esperienze musicali che ho avuto in passato. Ma non Pino Scotto in senso musicale; Pino per me è un fratello anche se ha l’età di mio padre! Lui mi ha spronato eticamente, musicalmente ed artisticamente a fare determinate scelte, e quindi è stato più determinante lui per me che lo ska-punk. Lui è una persona meravigliosa, tutti pensano che sia un metallaro, ma lui è un esperto di jazz e blues, e ti sa fare nomi e cognomi di qualsiasi cosa. E’ una persona dolcissima nonostante sia volgare come la merda! (risate ndr) E’ uno che in studio tira fuori delle perle che ti lasciano sbalordito, è un ragazzino di sedici anni del corpo di un sessantasettenne. E questo mi ha insegnato che se non scrivo con entusiasmo, il tutto diventa una merda. Poi ovviamente arriva quello che ti dice che non siamo più gli Shandon di una volte..e quindi? Dov’è il problema? C’è sempre questo complotto che il cambiamento porti a voler vendere più dischi, ma magari! Ma poi nell’epoca di Spotify che devo vendere? Ma meno male che non sono più quello di Janet, nel senso che se creassi una Janet 2 in maniera naturale ben venga, ma se non viene, non viene!

R.G.: In altre tue interviste ho letto che condanni fortemente piattaforme proprio come Spotify, sei sempre della stessa idea?
O.R.: Assolutamente si! Ma rimane una battaglia persa. Quando una roba è gratis è gratis, puoi raccontarla come vuoi, ma la sostanza non cambia. C’è chi dice che se ascolti un disco su Spotify e ti piace, poi vai a comprarlo. Non ci crederò mai, proprio perché è gratis! Siamo anche stati accusati di non aver messo il disco su Sportify per fare soldi nelle vendite, roba assurda, anche perché i soldi che ho investito nel disco non li rivedrò mai perché i dischi non si vendono più ed i concerti sono sempre pagati meno, quindi come recupero il mio investimento? Va sfatato il fatto che dentro la musica circolano enormi quantità di soldi. Pensano che chi esce, ad esempio, da X-Factor fa soldi a palate, mentre in realtà rimangono con un microfono in mano e fregati per cinque anni, ed a parte rare eccezioni, vanno in giro per locali a far karaoke con le basi. Spotify mi fa l’effetto “all you can eat” ma gratis, cioè entri, mangi, ma non sai cosa stai mangiando, si è arrivati a punto che molta gente dice che gli piace una canzone di quel gruppo, poi due di quell’altra band.

R.G.: Dall’alto della tue esperienza, e non solo come musicista, qual è il primo consiglio che daresti ad un giovane che vorrebbe approcciarsi in questo mondo?
O.R.: Oggi è dura, quand’ero io ragazzino i consigli che ci venivano dati ad esempio era quello di andare da quell’etichetta e non da quell’altra. La prima cosa che direi oggi è quella di non farsi dei film in testa, dove tutto è bello, facile ed immediato. Io rispetto molto Fedez, dal punto di vista imprenditoriale, anche perché è uno che è partito dai concerti al Leoncavallo davanti a cinque persone, a fare due sold-out consecutivi al Forum di Assago. Lo prendo come esempio perché ha fatto tutto da solo, e in un periodo come questo non è affatto facile, sfruttando al meglio i social network e youtube. Una sorta di “do it yourself” degli anni 70, riportato a giorni nostri. Serve la tipica gavetta, ma diversa da com’era prima. Prima era sbattersi per locali per cercare delle date, ora la cosa è più ampia, anche a livello di immagine. E chi fa hip-hop l’ha capito prima, come ad esempio Salmo, che ha una band dove suona Dade dei Linea 77, è uno che è partito dall’estetica, dai video, e da come parlare alla gente. Come così nacque Caparezza, ed io, mi sento un po’ vecchio proprio perché non riesco a stare dietro i social, ma anche perché non ho un ego così sviluppato. Ben inteso che non considero l’egocentrismo una cosa necessariamente negativa, ma sono una persona che preferisce il lavoro “dietro le quinte”.

R.G.: Come procede la tua attività da produttore ed a tal proposito vorresti consigliarci qualche artista che merita d’esser seguito?
O.R.: Procede bene, ovviamente tra le band e le lezioni ho dei limiti di tempo. Ora sto lavorando al secondo disco dei Mataleon, è una band interessantissima perché riescono ad integrare testi in italiano cari all’alternative come possono essere quelli di Verdena o Afterhours, con le chitarre degli Slipknot. Quando mi si presentarono ero un po’ dubbioso ma lavorando mi hanno pienamente convinto, anche perché sono persone intelligenti, e che si fanno aiutare e consigliare. E fa piacere perché capita anche che gruppi che vengono da me, mentre lavorano si chiedono “ e qui cosa farebbe Olly?”. E per me è un motivo d’orgoglio.

R.G.: Grazie dell’intervista Olly, e buon proseguimento del tour!
O.R.: Grazie a te ed a RockGarage! A presto!

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15th Dic2016

Intervista ai Luca Turilli’s Rhapsody

by Cristian Danzo

cristian-danzo-e-luca-turilli-dei-luca-turillis-rhapsodyAbbiamo incontrato al Rock ‘N Roll di Milano, in una giornata che più piovosa non si poteva, uno dei più grandi chitarristi italiani: Luca Turilli. Il giorno prima della nostra intervista è stata annunciata la reunion con Fabio Lione ed il tour che ne seguirà. Vediamo cosa ha avuto da dire ai nostri microfoni il favoloso axe man.

R.G.: Ciao Luca e benvenuto su Rockgarage.it. Non possiamo non iniziare parlando della notizia freschissima della reunion con Fabio Lione per celebrare i vent’anni di “Legendary Tales” (primo leggendario album dei Rhapsody, uscito nel 1997, nda).
L.T.: In realtà la reunion non è riferita all’album ma per celebrare i vent’anni della band. Io non farei mai una reunion per celebrare un singolo album, ma per un senso speciale, unico e definitivo. Non ci sarà mai più alcuna reunion dopo.

R.G.: Eseguirete integralmente “Legendary Tales” durante questo tour?
L.T.: Assolutamente si!

R.G.: Come vi è venuta l’idea di portare una pietra miliare del metal in tour?
L.T.: Essendo il ventennale della band continuavamo a ricevere un sacco di richieste di tutti i tipi da moltissime parti. Dopo tanto tempo ci siamo sentiti io e Fabio (Lione, torico cantante dei Rhapsody e della scena metal italiana ed internazionale, nda) ed ci siamo detti: “Ok, facciamolo per un’ultima volta”. Soprattutto per fare contenti quei fan che non avevano potuto godere delle performance live della band in prossimità della nostra separazione, avvenuta in maniera abbastanza sorprendente lasciando molti con l’amaro in bocca. Per me e Fabio questo passo rappresenta la chiusura di un capitolo importante della nostra carriera artistica e musicale. Personalmente è anche un personale addio, da parte mia, a quello stile che rappresentava le mie composizioni, mentre ora faccio altre cose e ci saranno nuovi progetti in arrivo. Il ventennale ha fatto scattare la reunion che rimarrà un qualcosa di unico, non una cosa commerciale che poi si ripete ogni cinque anni. Questa è l’ultima volta, definitivamente, che suoneremo insieme quelle canzoni. Sarà molto emozionante sia per chi assisterà che per noi che staremo sul palco.

R.G.:Come è andato il tour di supporto a Prometheus Symphonia Ignis Divinus ( ultimo album dei Luca Turilli’s Rhapsody uscito nel 2015 nda) e che feedback ne hai tratto?
L.T.: E’ stato faticosissimo, per fortuna è finito! (risate,nda). In Sud America è stato grandioso ed esaltante. E’ stato incredibile: inneggiavano ad Alessandro (Conti, cantante del gruppo, nda) come ad un cantante famosissimo. Era la prima volta che tornavamo in quei posti con la nuova band e non ci aspettavamo un’accoglienza così incredibile. Nessuno se lo aspettava. In Europa le cose sono andate diversamente: ci sono Paesi in cui ci aspettavamo di trovare molte più persone ed invece il pubblico era calato mentre la situazione era ribaltata in altre nazioni. Ad esempio nell’Est Europa improvvisamente ci siamo trovati con una risposta molto grande, in Paesi come Polonia e Repubblica Ceca. Dopo le difficoltà dello split ci stiamo ricostruendo un pubblico e questo ci permette di ripartire bene. Era solo questione di aspettare e pazientare dopo avere cambiato stile.

R.G.: Come è nata l’idea di remixare l’album in Dolby Atmo?
L.T.: Non è stata un’idea perché non avrei avuto i mezzi economici per farlo! (risate,nda) E’ stato veramente un colpo di fortuna. E’ successo che per caso (poi sai, io credo più in un discorso di energie e se vuoi una cosa fortemente con tutte le tue forze prima o poi la ottieni) in uno studio di Monaco di Baviera equipaggiato con questa tecnologia, lo Msm, dove registrano colonne sonore per il cinema, ci fosse Chris Hayes, uno dei più grandi ingegneri del suono del mondo, che ha sentito il nostro album e la nostra musica venire da uno studio vicino. Incuriosito è entrato dal suo collega chiedendo che musica fosse ed è rimasto a bocca aperta che ci fosse del metal suonato e composto in quel modo. E’ rimasto molto stupito ed ha chiamato subito Dolby e Yamaha, facendogli ascoltare King Solomon And The 72 Names Of God. La Dolby rimase anche lei a bocca aperta e stupita favorevolmente e così, dopo vari meeting e riunioni, mi viene proposto di mixare l’intero album con questa nuova tecnologia! E’ stata individuata la nostra musica, per la sua poliedricità e tutti i suoi differenti colori, come quella perfetta per valorizzare il Dobly Atmos. Per noi questo è stato l’inizio di una grande avventura. Per me che amo il cinema poi questa è una soddisfazione incredibile. Tutte le sale americane sono ormai equipaggiate con questa nuova tecnologia che ora arriverà anche in Europa. Ti posso dire che entro due anni sostituirà il Dolby Surround, perché ti offre un suono che è veramente tridimensionale. Figurati che quando ho ascoltato il mix di Prometheus ho sentito tracce di strumenti che avevo composto e che non mi ricordavo nemmeno più perché erano sparite dal mix stereo. E’ stato un risultato incredibile, un sound dove senti tutto.

R.G.: Come avviene il processo compositivo della tua musica?
L.T.: Il mio modo di comporre è molto particolare. Non parte con la band in sala che prova e riprova. Io sono uno di quelli che sta chiuso in casa ed improvvisamente grazie ad una particolare sensibilità si connette a queste “dimensioni parallele” da cui traggo particolari vibrazioni. C’è una sorta di passaggio di energia che si traduce in titoli e “visioni”. Per me parte tutto dal titolo: quando io ho quello c’è già un mondo rappresentato da colori e cose che dopo vengono tradotte in musica. Poi posso comporre sulla tastiera o la chitarra. Quando finisco un album o una saga, mi piace vedere tutto di diversi colori: ogni canzone per me ha una colorazione diversa, è tutto riportato ai colori ed alla loro vastità. E’ per quello che tutto è così vario quando compongo. Suonare uno strumento ad un certo livello mi è sempre interessato soprattutto per avere la dimestichezza per potere comporre qualcosa di vario e valido.

R.G.: C’è una domanda che ho fatto anche in una precedente intervista ad Alex Staropoli (ex tastierista dei Rhapsody e, dopo lo split, dei Rhapsody Of Fire, nda). Ti sei accorto della portata che ebbe l’uscita di “Legendary Tales”, storicamente parlando, insieme ad altri gruppi, in un periodo commercialmente difficile per il metal? In quegli anni si riprese ed iniziò a rialzare la testa come genere musicale.
L.T.: Prima di noi soprattutto gli Angra, poi noi a ruota e poi gli Hammerfall. Se la guardiamo facendo un’analisi storica adesso, sicuramente sento molto questa cosa. Soprattutto per il panorama italiano, dove finalmente le etichette si accorsero che c’erano band anche qui che producevano un certo tipo di sound. A quei tempi componevamo già quello che poi col tempo è stato definito “cinematic metal”. E la differenza con il metal sinfonico sta nel fatto che ogni parte orchestrale non è fatta di semplici accordi o tappeti sinfonici, ma da una parte orchestrale arrangiata in maniera completa e singola. La parte orchestrale per me è importantissima e fondamentale. Ciò che dà l’epicità è proprio questo. Io non riesco ad ascoltare e comporre cose troppo intimiste ad un certo punto ho bisogno di esplodere (risate, nda). E’ il mio modo più naturale di esprimermi. Per tornare alla tua domanda, quando noi siamo nati era per essere diversi, solo che la tecnologia dei tempi non ti permetteva come ora di mettere in risalto tutte le componenti della musica. Non eravamo innovativi, perché avevamo preso l’elemento folk dei Blind Guardian, che adoravamo, quello epico dei Manowar, quello neoclassico della chitarra di Yngwie Malmsteen. Tutto questo mix, con la voce di Fabio, aveva creato qualcosa di innovativo, nel senso di idea dell’innovazione. Fu un successo clamoroso che nessuno si aspettava, nemmeno la nostra etichetta. Quando iniziammo ci furono delle difficoltà perché nessuno si era mai trovato di fronte ad una proposta del genere. Quando Sascha Paeth (il produttore di Legendary Tales,nda) rivoluzionò la nostra musica in fase produttiva noi rimanemmo molto delusi. Per fortuna la Limb Music (etichetta dei Rhapsody a quei tempi, nda) gli impose di non cambiare nulla. Quella fu la nostra salvezza e così uscì il nostro primo album. Ci tengo a dire che se il nostro manager avesse accettato la completa rivoluzione del nostro stile ci saremmo rivolti ad altri produttori. E magari la storia sarebbe stata completamente diversa in peggio.

R.G.: Cosa pensi del fenomeno che è assurto ormai su tutti i media nazionali del secondary ticketing?
L.T.: E’ una truffa colossale che penso danneggi i musicisti stessi! Con noi sicuramente non capiterà mai perché siamo troppo piccoli per suscitare interessi di certi tipi!

R.G.: Quale pensi sia il futuro della musica nei prossimi dieci anni anche alla luce del fatto che i mostri sacri, per motivi anagrafici, prima o poi si ritireranno?
L.T.: Posso sicuramente dire, ed è sotto gli occhi di tutti, che il mercato è in decadenza. Le stesse case discografiche, anche le major, non sanno cosa risponderti su un periodo ancora più breve rispetto a quello che mi hai chiesto tu. Purtroppo l’evoluzione tecnologica ha portato con sé questo lato oscuro che danneggia l’ambiente. Per le nuove generazioni acquistare qualcosa sembra molto strano. L’unica cosa che puoi fare è adattarti. Solo che molte case discografiche si sono trovate impreparate e non hanno saputo reagire. Così i musicisti cercano delle loro soluzioni. Essendo io prettamente un compositore il lavoro non mi manca mai, per fortuna. Per un semplice musicista invece è molto dura, anche perché c’è tantissima offerta ormai. In ogni tracollo di mercato c’è una parte che paga il dazio più di un’altra purtroppo.

R.G.: Grazie Luca per la chiacchierata e la disponibilità.
L.T.: Grazie a voi! Aspetto tutti i lettori dal vivo durante il tour della reunion!

Category : Interviste
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10th Nov2016

Intervista agli In Flames

by Cristian Danzo

bjorn-gelotte-degli-in-flames-e-cristian-danzoAbbiamo incontrato in quel di Milano Bjorn Gelotte, chitarrista degli storici In Flames, nella città meneghina per promuovere il nuovo album della band svedese, uscito con il titolo di Battles sotto l’egida della nota Nuclear Blast. Ecco a voi il resoconto di una sostanziosa chiacchierata.

 

R.G.: Ciao Bjorn e benvenuto ai microfoni di Rockgarage.it. Iniziamo l’intervista in maniera canonica. Parlaci del nuovo album, del suo processo di creazione e composizione e delle sue fasi di registrazione.
B.G.: Il processo di creazione e di composizione è stato lo stesso come sempre. Parti da alcune melodie, da alcuni riff e la creazione di demo davvero grezzi. E’ dopo che tutto cambia ed è nella fase successiva che ogni album prende una piega ed una storia a sé stante. Questa volta siamo riusciti a lavorare con un produttore che è da sempre uno dei nostri eroi (Howard Benson, nda) ed il management ci ha aperto le porte verso orizzonti ed idee che prima non eravamo mai riusciti a raggiungere, facendoci parlare e comunicare con chi volevamo noi. Così abbiamo potuto decidere direttamente con chi lavorare, persone che conoscevano la nostra musica e cosa volevamo. In passato, per essere completamente onesti verso di noi ed il pubblico, anche se la cosa è molto egoistica, abbiamo sempre scartato in maniera gentile ciò che i produttori suggerivano, facendo poi sempre ciò che volevamo. Stavolta abbiamo aperto i nostri orizzonti accettando e valutando suggerimenti da parte di chi lavorava alla registrazione dell’album. Dopo 11 dischi, fare una cosa del genere è merdosamente spaventoso. In realtà, questo atteggiamento si è rivelato assolutamente fruttuoso ed appagante. Questo è potuto accadere perché nessuno ci voleva portare in direzioni opposte a quelle che avevamo in mente. C’erano solo consigli utili e un aiuto a focalizzarci in maniera determinata su alcune cose senza volere apportare cambiamenti a tutti i costi. Per fare questo, bisogna lavorare con tutto il team in maniera coesa per quanto riguarda il songwriting, il cantato e gli arrangiamenti di tutti i materiali. E’ stato superproduttivo! L’album dove essere composto da undici canzoni; quella era l’idea di partenza. Ne abbiamo poi inclusa una in più. Essere in studio tutti assieme per otto ore, comporre e registrare ogni giorno con la presenza di un produttore ti permette di sprecare meno tempo, tenere alta la tensione creativa per tutto il tempo che passi lì.

R.G.: Avete anche realizzato un video a supporto del vostro nuovo lavoro (“The End”, nda). Parlaci anche di questo.
B.G.: C’è una storia che lega il video di The End e quello di The Truth. Vedendoli entrambi avrai la visione completa del cerchio. Ognuno ovviamente avrà poi una sua opinione ma quello che penso io è che al giorno d’oggi è tutto troppo veloce: i media in generale ma i social media in particolare. E’ cambiato il mondo a cui eravamo abituati. Al giorno d’oggi shoccare qualcuno è davvero un’impresa ardua. Chi è affascinato dalla morte o da tutto ciò che riguarda la morte oramai può andare su Google e trovare tutto ciò che gli interessa. Sotto un certo punto di vista tutto questo è abbastanza spaventoso. Quando ero piccolo, ed internet non c’era, io e tutti dovevamo aspettare. Se leggevo su una rivista che gli Slayer o i Metallica avrebbero fatto un nuovo disco dopo sei mesi, ero lì che contavo letteralmente i giorni e c’era uno scambio di opinioni febbrile con i miei amici. Non potevi assolutamente avere anticipazioni a portata di mano. Come è adesso, dove puoi entrare nella vita di ognuno. Questo porta le persone a pensare di avere il controllo su ogni cosa ma non è così.

R.G.: Il vostro stile musicale, rispetto agli esordi, è cambiato molto ma il vostro trademark musicale c’è sempre. La vostra evoluzione musicale è tenere sempre le basi sonore che vi permettono di essere riconosciuti al volo da chi vi conosce, instillando nella musica sonorità moderne sempre al passo con i tempi ma senza mai snaturarvi.
B.G.: Concordo con te al cento per cento! Io la chiamo l’essenza degli In Flames. Noi tutti della band amiamo il metal, siamo cresciuti con quello ed è lo stile musicale che più definisce ognuno di noi. Sono cresciuto ascoltando Thin Lizzy, Deep Purple, Black Sabbath, Rainbow… scoprendo poi più tardi il death. Cannibal Corpse, Mobid Angel, Death… tutta la roba che arrivava dalla Florida. Questo mix di generi per me è qualcosa di molto importante. E lo è anche per i miei compagni. Ci vogliono almeno un paio di album per definire il proprio sound . Per fare questo devi amare ciò che fai e non prestare attenzione a ciò che la gente pensa. Non mi interessano le opinioni delle case discografiche, del management, dei giornalisti… mi interessa quello che pensa il pubblico ma senza farmi angosciare e sovrastare da queste opinioni. Non potrò mai soddisfare ogni singola persona e quindi mi interessa che io, e la band nel suo complesso , si senta soddisfatta e felice di ciò che fa. Solo così si può essere completamente onesti. A qualcuno piace, a qualcuno no. E’ da anni che dividiamo i nostri fan in quanto ad opinioni ma lasciami dire che questa è anche la bellezza della musica. La musica non è un diritto acquisito ma siamo fortunati che esista un qualcosa che può ridefinire il tuo mondo, che può permetterti di ragionare, lasciando da parte tutti i problemi e le brutture della vita e della società. Ed io sono molto fortunato a vivere di questo, ad avere questa opportunità. Lo dico dopo dodici dischi e più di vent’anni di carriera. Se penso a ciò che ho fatto nel passato, posso solo dire che da quello ho da imparare ancora molto. Non lo rinnegherò mai ma mi sento di dovere sempre aggiornare qualcosa per creare nuovi stimoli e creare nuove cose. Abbiamo bisogno di cose fresche per potere essere sempre soddisfatti. Non andremo mai a cambiare e stravolgere il cuore del nostro sound. Questo non cambierà mai. Se dovessimo fare un album country, comunque troveresti la nostra impronta identificativa. Poi capisco che tutto questo o certe evoluzioni possano non rientrare nei gusti delle persone. Se non mi piace qualcosa, non gli presto attenzione. Amo suonare, amo la mia musica, le mie composizioni, essere seduto a Milano a parlare con te in compagnia di una birra gelata. In conclusione, siamo cambiati e cambieremo ancora. E’ ovvio che se fai ascoltare ad uno che non ci conosce Lunar Strain (primo album degli In Flames pubblicato nel 1995, nda) e Battles uno dopo l’altro gli risulteranno completamente opposti. Ma ci sono di mezzo vent’anni. Un viaggio lungo ed anche in termini anagrafici cambia tutto rispetto all’epoca degli esordi, soprattutto come forma mentis.

R.G.: Quindi qual è la tua opinione riguardo alle noiosissime questioni che portano le persone a dire: “Ah, vedi, quella band ha cambiato il sound perché vuole vendere di più, perché ha firmato per una major e si sta svendendo al mercato”?
B.G.: Molte persone si ergono a giudici assoluti e sinceramente non me ne frega nulla. Come dicevo prima, non sono qui e non suono per fare piacere a qualcuno. Quello che faccio è davvero per me. Se penso a quanto sia breve la vita e vedo quanto tempo si sprechi a sputare addosso agli altri… beh, per me è un loro problema e tempo davvero buttato. E’ veramente triste vedere che non trovino nulla di meglio e di positivo da fare. Ti facciamo cagare? Mi va bene lo stesso. Non sto dicendo di avere ragione ed essere nel giusto. Si può sempre ascoltare altro.

R.G.: Quando siete usciti con i primi album il death metal era in una fase abbastanza calante. Voi ed altre band scandinave avete rivitalizzato e rigenerato in maniera storicamente importante il genere, creando qualcosa di totalmente nuovo. Cosa pensi in merito a questo?
B.G.: Eravamo tutti amici. Noi, i Dark Tranquillity, gli At The Gates. Giravamo in tour assieme e c’è stata sempre una sorta di competizione amichevole. Sono stato fortunato a diventare parte di questo e capisco benissimo quello che tu stia dicendo. A Stoccolma c’era un sacco di fermento in quel periodo e un sacco di band che sperimentavano diversi generi. Era davvero stupefacente vedere tutto questo. Quando abbiamo iniziato non avevamo piani e non sapevamo nemmeno come sarebbe stato il nostro secondo album.

R.G.: E’ curioso sentire la tua risposta perché anche quando abbiamo intervistato Miakel Stanne (il cantante dei Dark Tranquillity, nda) all’Hellfest 2015 sembrava che anche lui non avesse idea o desse peso all’impatto che le vostre band hanno avuto sulla storia del metal e della musica in tutto il mondo.
B.G.: E’ fantastico sentirselo dire ed ho la pelle d’oca in questo momento (mi mostra il braccio, nda) ma veramente non ci rendevamo conto di questa cosa dall’interno. Sono orgoglioso ed emozionato quando mi sento dire queste cose.

R.G.: Siete stati tra i primi a porre l’attenzione dei testi sull’interiorità e la coscienza umana invece che essere semplicemente gore o horror.
B.G.: Sotto questo punto di vista non siamo mai stati una band death classica. E’ molto più interessante scrivere dell’animo e della mente umana piuttosto che di barbecue e birra (risate, nda). Le questioni più profonde che hai dentro di te, quelle che ti fanno rodere dentro, i temi etici e morali. E’ molto più interessante che cantare “Guerra!” (esegue un growl, nda). Meglio delle cose merdose che vedi in televisione. Quello che hai dentro e ciò che scegli di fare è ciò che ti definisce in quanto essere umano. E io trovo molto interessante tutto questo. La birra ed il barbecue sono cose fantastiche, ma non così interessanti come i temi di cui parlavamo prima.

R.G.: C’è qualche band o qualche musicista con cui sogneresti di suonare o a cui aprire un concerto?
B.G.: E’ irrealizzabile ma viaggiamo con l’immaginazione. Vorrei andare in tour con i Rainbow nel ’76. Siamo stati molto fortunati come band. Abbiamo fatto un sacco di tour e festival senza avere mai paura di presentare la nostra musica, dividendo palchi con Metallica, Iron Maiden, Slayer, Black Sabbath e tantissimi altri grandi nomi. Siamo stati davvero baciati dalla fortuna. Anche se non sono mai soddisfatto e sono curioso di sapere con chi suonerò la prossima volta. Sono anche curioso di vedere cosa produrrà la scena attuale.

R.G.: Hai qualche influenza artistica che non deriva strettamente dalla musica metal?
B.G.: Saresti sorpreso se vedessi quanto poco tempo dedico ad ascoltare ora la musica in una giornata. Non riesco a rilassarmi totalmente ascoltando dischi. La cosa che mi rilassa davvero e che mi ispira tantissimo per poter comporre è dipingere. E’ una cosa che mi svuota e pulisce la mente completamente. Magari è una risposta stramba, ma è proprio così!

R.G.: Grazie mille Bjorn per il tempo dedicatoci! E’ stato un piacere!
B.G.: E’ stato un piacere anche per me. Saluto tutti i lettori ed i nostri fan italiani!

Category : Interviste
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02nd Nov2016

Intervista ai Satanic Surfers

by Piero Di Battista

satanic-surfers-con-piero-di-battistaFerragosto. Igea Marina. Riviera romagnola. Siamo alla seconda giornata del Bay Fest 2016 e ci prepariamo per un nuovo show all’insegna del punk rock, dove i protagonisti principali sono Derozer, Screeching Weasel e Satanic Surfers. E proprio questi ultimi, attraverso le parole del loro storico leader e cantante, Rodrigo Alfaro, ci hanno concesso un’intervista, nella quale ci hanno raccontato di questa reunion del gruppo svedese, ed anche dei loro futuri programmi.

R.G.: Ciao ragazzi e benvenuti su RockGarage! Pronti per stasera?
S.S.: Sì diciamo di sì, o meglio..quasi! (ridendo ndr)

R.G.: Come sta andando il tour? Immagino vi stiate divertendo!
S.S.: Sì il tour sta andando molto bene! Siamo stati in diversi festival in Europa e dopo questo in Italia andremo in Austria ed in Danimarca. E’ ovvio che ci stiamo divertendo!

R.G.: Com’è stato ritrovarsi assieme sul palco dopo diversi anni di inattività dei Satanic Surfers?
S.S.: Beh è stato assolutamente divertente, era una cosa alla quale ci pensavamo da tempo e siamo assolutamente contenti e soddisfatti di averla messa in atto, è bello!

R.G.: E com’è nata l’idea di questa reunion?
S.S.: Guarda sarò onesto: inizialmente l’idea di una reunion dei Satanic Surfers non faceva parte dei miei piani, o meglio, non era una delle mie principali priorità. Come sicuramente saprai, dal 2007 (anno dello scioglimento dei Satanic Surfers ndr) sono stato impegnato con altri progetti musicali. E’ successo poi che ci è arrivata un offerta per suonare in un festival in Canada, posto che per noi, per svariati motivi, è sempre stato speciale. Ne ho parlato con Magnus e con Fredrik, ed anche in loro notavo che c’era questa voglia, e di conseguenza…eccoci qui!

R.G.: Questa reunion è temporanea? O state pensando anche ad un nuovo disco?
S.S.: Guarda, al momento siamo concentrati esclusivamente sul fatto di volerci divertire suonando in questi festival. Ci siamo divertiti nelle precedenti date, sono certo che ci divertiremo stasera ed anche in quelle in programma. Le nostre porte sono aperte ad ogni decisione, non ci stiamo pensando più di tanto ad eventuali altri progetti, vogliamo divertirci, e poi in futuro chissà!

R.G.: Riguardo invece la vostra attuale line-up, è identica a quella di quanto pubblicaste “Taste The Poison”(ultimo disco della band, pubblicato nel 2005) eccetto per il batterista. C’è una motivazione precisa su questo?
S.S.: Robert (Samsonovitz, batterista in Taste The Poison ndr) non poteva perché aveva altri impegni in programma, così abbiamo dovuto cercare altre soluzioni. Ad ogni modo volevamo che ci fosse qualcuno della nostra cerchia di amicizie e Stefan (Larsson, attuale batterista ndr) lo è. Quindi abbiamo scelto lui, perché non solo è un ottimo batterista, ma soprattutto è un vecchio amico.

R.G.: Per stasera è facile immaginare una scaletta che ripercorra interamente la vostra carriera.
S.S.: Assolutamente, il nostro obiettivo è quello di fare un ottimo show, attraverso i nostri brani più conosciuti, ma anche quelli forse meno noti ai fans. Siamo convinti che ci divertiremo molto, sia noi che il pubblico.

R.G.: Se ti chiedessi qual è, secondo te, il miglior disco dei Satanic Surfers, quale sceglieresti?
S.S.: E’ molto difficile scegliere, perché ognuno di essi ha un valore, e sono speciali per diversi motivi. I primi hanno come caratteristica principale la loro innocenza, mentre quelli successivi hanno un valore per me più personale. Se proprio devo citarne uno allora ti dico Unconsciously Confined (pubblicato nel 2002 ndr) perché forse è quello che, più degli altri, è un insieme delle sensazioni che ti ho descritto poco fa.

R.G.: Grazie per l’intervista ragazzi, in bocca al lupo per stasera!
S.S.: Grazie a te! E ne approfittiamo per salutare i nostri fan italiani, siete sempre caldissimi e speciali!

Category : Interviste
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