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23rd Mar2013

Aerosmith – Music From Another Dimension!

by Gianluca Scala

Mettetevi comodi e siate pazienti, il nuovo album degli Aerosmith é ormai sul mercato da quattro mesi, ma quando si ha un appuntamento con la storia tutto si può perdonare, anche il fatto di recensirlo con un pò di ritardo rispetto alla sua pubblicazione. Dopo mesi di conferme e smentite, voci di scioglimento date per certe perchè il singer Steven Tyler aveva preso troppi impegni extra come partecipare al talent show American Idol in qualità di giudice insieme a star del calibro di Jennifer Lopez e Ronnie Jackson, o quello di fare uscire un intero album solista che avrebbe ulteriormente fatto slittare l’inizio dei lavori per il 15° album della sua band madre (fortunatamente registrò un solo brano inedito, (It)Feels So Good uscito come download digitale), alla fine l’album ha visto la luce ed è arrivato nei negozi alla fine dell’anno scorso. Ad inizio novembre è uscito in tutto il mondo questo lavoro dal titolo molto intrigante Music From Another Dimension! accompagnato da una copertina fumettistica con il logo della band bene in evidenza. L’uscita del disco é stata anticipata di poco dall’uscita del singolo Legendary Child, brano che ha messo in chiaro subito una cosa, che ci saremmo dovuti aspettare dei grandi risultati, tanto hard rock come solo loro sanno fare infarcito da una miriade di stili diversi. Era dai tempi di Just Push Play che gli Aerosmith non pubblicavano un album con del materiale inedito, nel corso degli anni la band aveva riempito questa lacuna pubblicando qualche greatest hits ed un album di cover per omaggiare le loro origini blues (Honkin’ On Bobo uscito nel 2004), il genere che insieme al buon vecchio rock americano ha influito maggiormente nelle teste di questi cinque vecchi rockettari.

Il tempo sembra non passare mai per gli Aerosmith ed il primo brano Luv XXX parte fortissimo sprigionando energia pura, un mix di buon rock’n’roll con un innesto di funk e tanta melodia retrò che ci riporta in un lampo ai mitici anni ’80, sembra di sentire un brano uscito da Permanent Vacation, il best seller pubblicato dai nostri nel lontano 1987. La seguente Oh Yeah suona come un pezzo degli Stones, grande riff ed un sottofondo di cori azzeccati che sostengono questa grande canzone. In Beautiful ci troverete un bel tocco di modernità dall’andamento rappato che si discosta un pò dal classico sound della band, ma l’esperimento sembra comunque godibile, grazie anche all’interpretazione sopra le righe del grande Steven Tyler. Il bassista Tom Hamilton firma anche un brano: Tell Me, una canzone rock che suona come un pezzo da juke box e che se fosse stata messa su Get A Grip avrebbe fatto la sua porca figura. Gli Aerosmith hanno scritto sempre delle gran ballatone strappa lacrime e di questo loro sono dei veri maestri del genere, qui troviamo il pezzo che vi farà sognare o piangere dalla gioia per un pò di tempo: What Could Have Been Love è la canzone che gli Aerosmith scriveranno sempre per l’universo femminile che gli orbita intorno da sempre e per sempre, romantica e dolce quanto basta con un gran ritornello. Anche Can’t Stop Loving You ha ritmi sul lento andante, cantata in duetto con la singer Carrie Underwood e che si confonde con un country rock che in America va per la maggiore.

Ci sono molti pezzi accattivanti ed esplosivi come Out Go The Lights, Lover Alot e Something sono una bomba. Riff micidiali stile anni ‘70 dall’incedere funkeggiante con una sezione di cori e fiati ben sorretti da un Tyler strabiliante e da un Joe Perry indemoniato negli assoli. Oltre alle due ballad citate ci sono altri due titoli che seguono la stessa scia e che sembrano più dei tappabuchi, We Are Fall Down e Closer fanno da preludio all’ultimo brano che chiude il tutto in gran bellezza, Another Last Goodbye é pura poesia ragazzi, voce dal refrain accattivante accompagnata da un pianoforte e la formula giusta per farvi piangere di romanitcismo é servita. In conclusione si può considerare questo disco un ritorno in grande stile con grandi canzoni, mai sottotono e davvero ispirato con un mix di suoni potenti che richiama il periodo d’oro che la band ha attraversato durante gli anni ottanta e novanta, pubblicando dei gran dischi e senza la minima voglia di smettere di farci sognare. Bentornati cari Aerosmith, avanti così!

Autore: Aerosmith Titolo Album: Music From Another Dimension!
Anno: 2012 Casa Discografica: Columbia Records
Genere musicale: Hard Rock Voto: 8
Tipo: CD Sito web: http://www.aerosmith.com
Membri band:

Steven   Tyler – voce, armonica

Joe Perry   – chitarra

Brad Whitford – chitarra

Tom   Hamilton – basso

Joey   Kramer – batteria

Tracklist:

  1. Luv XXX
  2. Oh Yeah
  3. Beautiful
  4. Tell Me
  5. Out Go The Lights
  6. Legendary Child
  7. What Could Have Been Love
  8. Street Jesus
  9. Can’t Stop Loving You
  10. Lover A lot
  11. We All Fall Down
  12. Freedom Fighter
  13. Closer
  14. Something
  15. Another Last Goodbye
Category : Recensioni
Tags : Hard Rock
1 Comm
22nd Mar2013

Scorpions – Savage Amusement

by Giancarlo Amitrano

In preda a smanie intercontinentali, la band tedesca prosegue nel suo strizzare l’occhio al mercato d’oltreoceano, anche a costo di sacrificare leggermente la sua vena artistica. Se con Love At First Sting il gruppo confermava la sua valenza tecnica ormai presente in ogni lavoro, con Savage Amusement esso spazia ancora una volta dal puro hard di base a retaggi psichedelici ancora presenti in esso, per poi giungere clamorosamente (in alcune tracce) a sonorità quasi dance. Chiudendo con questo album la storica collaborazione con la consolle di Peter Dierks, il gruppo riesce fortunatamente a non lasciarsi del tutto alle spalle la sua vena originaria che si manifesta con la traccia d’apertura, ben congegnata sui canoni classici che non prevedono contaminazioni di sovra incisioni o overdub in fase postproduttiva. Le asce sono ben tarate ed il cantato di Meine sgorga ancora una volta melodico ed incisivo al tempo stesso, con la sezione ritmica che alterna tempi sfalsati ad accelerazioni improvvise. La immancabile e puntuale ballad, oltre che doveroso singolo, giunge con Rhythm Of Love, brani in cui le atmosfere tornano ad essere incantate sia pur rese aggressive il giusto nella fase centrale del brano: il lavoro degli axeman si mantiene su livelli di eccellenza, grazie anche all’ottima prestazione vocale, che in alcuni passaggi torna a raggiungere i picchi del suo range tecnico. Un delicato riff di metà pezzo lascia con il fiato sospeso per la sua capacità di coinvolgere nei pur elementari accordi, invero ben piazzati.

Passion Rules The Game vede protagonista la voce quasi “sintetizzata” del singer: probabilmente aiutato da accorgimenti in studio, Meine sforna un’ugola davvero mefistofelica che nel suo immaginario ci conduce attraverso il refrain ed il ritornello davvero interessanti. I mid-tempo che la sezione ritmica adotta, donano al brano la magia che in alcuni passaggi risalta a pieni amplificatori: senza giri di parole, il brano va dritto al cuore ma anche alla mente. Con Media Overkill la band torna alle origini: sound tipicamente aggressivo e sfuriata chitarristica come Dio comanda, mentre ancora Meine produce ghirigori vocali da fuoriclasse, che vengono fuori con la naturalezza che solo i grandi posseggono. Basato su di un facile giro della sei corde, il brano riesce ad evolversi con decisione nella fase centrale, su cui si innestano anche dei poderosi assoli brevi ma incisivi il necessario. Ancora una strizzata all’oceano per Walking On The Edge che è calibrata per le stazioni FM all’epoca imperanti: con le sue melodie quasi AOR, la band riesce nell’intento di coniugare potenza e passione, energia e melodia condensati nei canonici quattro minuti. Non si può disconoscere la grandezza di una band che riesce a tirare fuori il massimo anche da episodi (relativamente) secondari come il brano in esame, solo da loro reso superiore.

Con We Let It Rock…, il punto più basso dell’album giunge puntuale: in questa occasione la band appare del tutto slegata, desiderosa solo di portare a termine il compitino, senza slanci particolari od entusiasmi interpretativi. Sempre ben prodotto tuttavia il brano risente dell’apatia che in questo frangente pare attanagliare il combo che fortunatamente ritrova in fretta la rotta con Every Minute Every Day. Il brano stavolta risale prontamente dal punto di vista tecnico e compositivo, senza tacere dell’interpretazione davvero valida e coinvolgente. Senza fronzoli, il quintetto nel rimettersi all’opera consegna alle chart dell’epoca l’ennesima potenziale hit, con tutti i canoni per raggiungere il successo. Sono gli ottimi cori a dare maggiore spessore al sound ed a potenziare l’estensione vocale del singer, qui ben coadiuvato dalla band a suo agio nell’esecuzione. Ancora una parentesi (in questo senso dovremo esprimerci anche in futuro) dura e pura con Love On The Run, in cui il combo torna a percorrere le assolate vie del sano hard anni 80’. Tutta la strumentazione è accelerata e rende alla perfezione lo stile della band. Cantato aggressivo, asce infuocate e sezione ritmica sparata al massimo sono il marchio di fabbrica: inconfondibile la timbrica del singer ed i duetti della premiata ditta Schenker/Jabs che chiude in bellezza con Believe In Love: ennesimo singolo tratto dall’album che guarda maggiormente alle chart che all’animo selvaggio del gruppo. Senza nulla togliere alla validità tecnica del brano, esso non raggiunge le vette che un inizio molto gradevole lascerebbe sperare, data la buona lena che il quintetto immette nella fase iniziale.

Un passaggio (quasi) a vuoto che tuttavia è lo specchio di quanto i gusti possano differire da un lato all’altro del globo, sia pur nel rispetto massimo per una delle band più influenti del genere.

Autore: Scorpions Titolo Album: Savage Amusement
Anno: 1988 Casa Discografica: Polydor
Genere musicale: Hard Rock Voto: 7
Tipo: CD Sito web: http://www.the-scorpions.com
Membri band:

Klaus Meine – voce

Rudolf Schenker – chitarra

Matthias   Jabs – chitarra

Francis   Buchholz – basso

Herman Rarebell – batteria

Tracklist:

  1. Don’t Stop At The Top
  2. Rhythm Of Love
  3. Passion Rules The Game
  4. Media Overkill
  5. Walking On The Edge
  6. We Let It Rock…You Let It Roll
  7. Every Minute Every Day
  8. Love On The Run
  9. Believe In Love
Category : Recensioni
Tags : Hard Rock, Scorpions
1 Comm
15th Mar2013

Sixty Miles Ahead – Millions Of Burning Flames

by Antonluigi Pecchia

Avevamo già previsto di avere a che fare con una band che presto ci avrebbe deliziati con prodotti di elevata fattura quando ci siamo occupati dell’EP d’esordio dei milanesi Sixty Miles Ahead dal titolo Blank Planet (recensito a questa pagina) ma nessuno avrebbe mai pensato che il suo seguito sarebbe giunto alle nostre orecchie così presto questo Milions Of Burning Flames e neanche che sarebbe stato così fiammante! Sì, credo che il titolo dell’opera riesca a descrivere al meglio il suo contenuto, un concentrato di hard rock semplice, digeribile sin dal primo ascolto, dal forte stampo americano diretto al mercato mainstream. Se queste parole non vi convincono, la potenza e l’energia sprigionata da brani come While Luck Is On Our Side, la title track  e Change Our Stars, riusciranno a darvi tutte le certezze di cui avrete bisogno. La particolarità dell’opera è che, seppur la band sia insieme da soli due anni, si riesce già a delineare una certa personalità soprattutto nei momenti più carichi della loro musica. Non esiste passo falso nel corso del disco, la carica del rock riesce a mescolarsi alla perfezione a episodi più melodici e ritornelli che restano impressi all’istante scorrendo senza intoppi fino alla conclusione dell’album affidata dalle note acustiche e malinconiche di Chances, brano già presente nel precedente lavoro della band.

Tutto rasenta la perfezione, un album del genere come non lo si ascoltava da tempo, se fosse stato realizzato da una band americana avrebbe sicuramente scalato le classifiche e reso questi quattro ragazzi delle rockstar nell’immediato. Allora cari rocker, siete pronti ad infiammare l’atmosfera? Millions Of Burning Flames rappresenta la benzina, il vostro stereo è la scintilla, “datevi fuoco!” esclamerebbe il buon Pino Scotto. Buon sano hard rock a tutti!

Autore: Sixty Miles Ahead Titolo Album: Millions Of Burning Flames
Anno: 2013 Casa Discografica: Antstreet Records
Genere musicale: Hard Rock Voto: 8
Tipo: CD Sito web: www.sixtymilesahead.com
Membri band:

Sandro Casali – voce

Fulvio Carlini – chitarra

Davide Bosio – basso

Luca Caserini – batteria

Tracklist:

  1. Ignition
  2. While Luck Is On Our Side
  3. Unfaithful Confessions
  4. Infection
  5. Hit Me, Shoot Me, Stab Me
  6. Millions Of Burning Flames
  7. Not Supposed To Crawl
  8. Change Our Stars
  9. Split Personalities
  10. Something To Blame
  11. Cry, Cry, Baby
  12. Reach My Destination
  13. Chances (Acoustic Version)
Category : Recensioni
Tags : Hard Rock
1 Comm
12th Mar2013

Midnite Sun – Anyone Like Us?

by Francesco Damiano

Ed ecco che quando meno te lo aspetti, afflitto dalle ciofeche che spesso ti tocca ascoltare tra le nuove proposte, ti giunge sulla scrivania un disco che ti fa davvero drizzare le orecchie grazie alla qualità dei brani proposti. Decisamente positiva questa seconda fatica discografica dei nostrani Midnite Sun, che giungono da Cremona a dimostrarci che se hai qualità, puoi fare anche in Italia dell’hard rock come si deve. Ma andiamo con ordine. I Midnite Sun esordiscono nel lontano 2005 con Groovin Sexplosion e dopo ben sette anni tornano sul mercato discografico a sfornare un nuovo disco, questo Anyone Like Us?, dopo aver maturato buona esperienza live, avendo aperto concerti anche per nomi importanti come UDO e House Of Lords. Il genere con cui si cimentano i Nostri è un hard rock a stelle e strisce molto energico, ai limiti del metal in certi momenti, che ha il gran pregio di non rimandare a nulla di già sentito in particolare. Ed infatti, trovare dei riferimenti stilistici nel caso dei Midnite Sun non è affatto semplice: in alcuni casi potremmo parlare degli ultimi Metallica, o anche degli Alter Bridge, ma in ogni modo non renderemmo bene l’idea della proposta musicale dei cremaschi. Dopo aver ammirato la copertina in cui fa bella mostra di sé una graziosa fanciulla al bancone di un bar, partiamo con l’ascolto del disco e cominciamo decisamente bene.

Lost In A Killing Field è il primo singolo estratto dai Nostri, scelta decisamente convincente. Pezzone davvero potente con una produzione monstre a mettere in evidenza le capacità musicali dei Midnite Sun, con l’ottimo cantato di Enrico Sarzi in primo piano. La successiva Mind The Gap è a parere di chi scrive uno dei due capolavori dell’album: una canzone che ci ha fatto letteralmente sobbalzare dalla sedia, e che sarà in grado di convincere anche i più scettici sulle capacità degli italiani di comporre grandi canzoni hard rock. Bravi. Molto convincente anche la successiva Right Wrong Way in cui certi rimandi ai Metallica sono forse più forti, mentre Inferno è il secondo gioiello del disco. Se avete amato i Whitesnake più potenti ed eleganti, questo è il pezzo che fa per voi, in cui i Nostri sono in grado di miscelare potenza e melodia in maniera sublime. Dopo quattro pezzi davvero convincenti, il livello delle canzoni tende fatalmente ad abbassarsi. Se Lady Bullet si mantiene sulle potenti coordinate stilistiche dei precedenti pezzi, con la successiva Fault  il “mood” del disco cambia ed i Midnite Sun si concentrano su pezzi più lenti, comunque non sfigurando. Attenzione a non pensare però alle classiche ballad strappa lacrime: siamo, invece, sui territori dei grandi pezzi d’atmosfera dei grandi nomi del passato, alla Eagles per capirci.

Ed infatti dopo la buona Unbreakable, si arriva alla convincente Cannibal Love, dove di nuovo il class metal dei Whitesnake fa capolino: una song che, come si usava dire nei mitici anni ’80, trasuda feeling da ogni singola nota. Arriviamo, quindi, alla cover dei Roxette The Look rifatta a modo Modnite Sun: in verità, a parere di chi scrive, l’unico vero momento di stanca del disco. La conclusiva lenta Postcards From My Life chiude degnamente l’album, in cui comunque in definitiva i momenti migliori sono concentrati nella prima parte. Bel disco, belle canzoni, album per nulla ripetitivo. Stavolta ci sentiamo davvero di consigliare vivamente l’ascolto di questa fatica discografica. Abbandonate ogni pregiudizio, nel Bel Paese l’hard rock finalmente è di casa.

Autore: Midnite Sun Titolo Album: Anyone Like Us?
Anno: 2012 Casa Discografica: Logic(il)logic Records
Genere musicale: Hard Rock Voto: 7,5
Tipo: CD Sito web: http://www.midnitesunband.com
Membri band:

Enrico Sarzi– voce

Chris Vicini–    chitarra

Uncle Sappa – basso

Willy Nicolini – chitarra

Mike Galletto – batteria

Tracklist:

  1. Lost In A Killing Field
  2. Mind The Gap
  3. Right Wrong Way
  4. Inferno
  5. Lady Bullet
  6. Fault
  7. Unbreakable
  8. Cannibal Love
  9. The Look
  10. Postcards From My Life
Category : Recensioni
Tags : Hard Rock
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15th Feb2013

Scorpions – Tokyo Tapes

by Giancarlo Amitrano

Anche per gli eroi giunge il momento di immortalare le loro performances dal vivo, profittando della loro già consolidata fama nella terra del Sol Levante, i cinque nibelunghi rilasciano il succo di alcune serate al Sun Plaza Hall della capitale nipponica. Definire hit-parade il disco è quanto meno riduttivo. Vero è che le tracce siano equamente estratte da tutti i lavori sino ad allora realizzati, compresa un’inedita All Night Long,  pur tuttavia la perfezione sonora con cui essi vengono riprodotti consegna l’album alla leggenda ed a tutte le ideali charts dei migliori live acts di sempre. Ultimo lavoro con Roth all’ascia, esso si caratterizza per la straordinaria partecipazione dell’uditorio all’esibizione del quintetto. A piene mani trasuda, sin dalla prima traccia, l’energia e la potenza che i cinque concedono alla platea, ricorrendo probabilmente alle allora imperanti sovraincisioni, il gruppo dona ancor più impatto ai brani, che sono spugnanti di energia e coinvolgimento sin dai primi solchi. Come detto, tutta la discografia viene ricompresa nell’estrazione dei brani, che in questa sede appaiono ancora più maestosi e degni del massimo onore, ivi compresa una monumentale We’ll Burn The Sky, per l’occasione composta in memoria della leggenda Hendrix dall’ex compagna Monika Dannemann, allo stato casualmente legata ad Uli Roth.

Tutti i brani recano con sé una nota caratteristica, anche quelli apparentemente più soft quali ad esempio Hound Dog e Long Tall Sally, tratti direttamente dal repertorio presleysiano e tuttavia riadattati in chiave rock and roll con la giusta maestria. Svicolando tra le tracce del disco, dobbiamo ricomprendervi tra i must l’assolo possente di Rarebell in Top Of The Bill, dove il drummer dà fondo a tutto il repertorio del buon batterista. Le due asce sono del tutto in simbiosi ed ogni brano risente dell’interazione che i due axeman riescono a dare allo strumento, mai sopra le righe e sempre preciso nella battuta. Dal suo canto, l’ugola al vetriolo di Meine si eleva di una spanna a causa della timbrica profonda ed allo stesso tempo melodica che il singer riesce a donare ad ogni singolo brano, che in questa sede viene opportunamente mixato in fase di post produzione in studio dall’impagabile Dieter Dierks, potendo notarlo, ad esempio, anche in Koyo No Tsuki, in cui un inno tradizionale giapponese viene interpretato dal singer in totale comunione di intenti con un audience adorante. Ideale spartiacque della loro carriera, questo live si pone senza meno tra i primissimi di ogni tempo, e per la qualità dei brani, e per la loro esecuzione ed anche per la perfezione che il sound raggiunge in fase di proposta.

Grida, tuttavia, vendetta la ripubblicazione dell’album nel 2001 in versione singola per contenere tutta la scaletta, omettendovi purtroppo Polar Nights, fortunatamente recuperato come b-side di Taken By Force nell’edizione rimasterizzata. Le esigenze commerciali purtroppo predominanti a volte deturpano ciò che in assenza delle moderne tecnologie riveste ancora un profilo romantico, quale il vecchio e caro LP. I Nostri, tuttavia, non se ne danno per intesi: consegnando alla storia un capolavoro assoluto quale quello oggi in esame, sono pronti alla seconda fase della loro carriera, mettendo a frutto tutte le conoscenze, i mutamenti e le innovazioni che di lì a poco ad essi si presenteranno.

Autore: Scorpions Titolo Album: Tokyo Tapes
Anno: 1978 Casa Discografica: Rca Records
Genere musicale: Hard Rock Voto: 9
Tipo: CD Sito web: http://www.the-scorpions.com
Membri band:

Klaus Meine – voce

Rudolf Schenker – chitarra

Ulrich   Roth – chitarra

Francis   Buchholz – basso

Herman Rarebell – batteria

Tracklist:

  1. All Night Long
  2. Pictured Life
  3. Backstage Queen
  4. Polar Nights
  5. In Trance
  6. We’ll Burn The Sky
  7. Suspender Love
  8. In Search Of The Peace Of Mind
  9. Fly To The Rainbow
  10. He’s A Woman, She’s A Man
  11. Speedy’s Coming
  12. Top Of The Bill
  13. Hound Dog
  14. Long Tall Sally
  15. Steamrock Fever
  16. Dark Lady
  17. Kojo No Tsuki
  18. Robot Man
Category : Recensioni
Tags : Hard Rock, Scorpions
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01st Feb2013

Scorpions – Virgin Killer

by Giancarlo Amitrano

È un’esplosione anche oltreoceano ad investire il combo teutonico con la pubblicazione del nuovo album: anche per motivi extramusicali, il disco scatena polemiche infinite. Ad iniziare dalla cover originale dell’album giudicata oscena per la presenza di un’adolescente in tenuta adamitica, deve essere sostituita di corsa con una più convenzionale e rassicurante. Dal punto di vista artistico, l’album sfonda finalmente anche nel vecchio continente, oltre che nell’ormai amico Sol Levante, rivelandosi come un “best of”, pur come full-lenght. Grazie al taglio ormai quasi heavy che specie il lavoro di Roth dona al disco, questo scala tutte le chart internazionali grazie al suono ben più aggressivo rispetto ai precedenti lavoro, oltre che alla produzione impeccabile ad opera di Dieter Dierks. Anche i brani sono più diretti ed immediati, consentendo alla band di esplicitare in questa sessione tematiche molto serie ed aggressive quali la stessa title-track conferma. Pictured Life si rivela brano tosto, ostico nella comprensione a causa del lavoro superbo che Meine svolge nel cantato e nei mid-tempos che le due asce svolgono quale ideale supporto tecnico. La sezione ritmica si conferma di metronoma precisione e con le sue battute ad orologeria trae linfa vitale dagli assoli notevoli dei due axeman. In breve tempo, il brano diviene uno dei “must” in sede live, dove la sua linea sonora viene stravolta nella sua interpretazione, che raggiunge quasi picchi reggae (?!) dove fa bella mostra la voce slide del singer, a suo agio sui toni più bassi.

Con Catch Your Train le sonorità ritornano ad essere più aggressive, con Meine che dispensa tutto il campionario vocale con la massima naturalezza. anche il resto del gruppo adotta una timbrica più ruvida con gli strumenti accordati al massimo senza soluzione di continuità. Le distorsioni delle sei corde sono evidenti, mentre basso e drumming divengono quasi ossessivi nella ricerca della giusta direzione tecnica da adottare; uno dei brani più duri del disco, che qui appare orientarsi verso una direzione esclusivamente metallica, ma non fine a sé stessa. In Your Park vede la band al completo servizio del singer: raro esempio di connubio musicale, in cui ognuno dei componenti riesce a ritagliarsi il suo momento di celebrità, sempre nel contesto del brano che qui si dipana attraverso un complicato intreccio di assoli e svolazzi tecnici. Su Backstage Queen il gruppo sfoggia una lezione di umiltà, pur nel pieno dei suoi mezzi tecnici, non disdegna tuttavia di rendere il brano accessibile a tutti, senza eccedere negli assoli. La voce sgorga pulita e tecnicamente impeccabile, grazie alla maestria di Meine nel proporci scale alternate spazianti dai toni acuti a quelli sotto dosati con sapienza. Anche questo brano di qui a poco si consegna all’empireo delle hit da proporre dal vivo.

Giungiamo alla title-track: la perfezione che il combo raggiunge nell’esecuzione del brano è di rara intensità, grazie al taglio qui dato da Roth. Riff “maligni” donano al brano una connotazione molto dura, che consente al pezzo di dipanarsi in maniera molto lineare e senza sbavature: ancora una volta, la leadership delle asce e del singer viene confermata dalle acrobazie virtuose che qui possiamo ben udire. Del resto, tutti i brani del lato B (all’epoca vigente per gli LP) sono di pertinenza Roth, il quale si differenzia dai pezzi scritti con gli altri componenti del gruppo. Ben più aggressiva la linea sonora e la timbrica che conseguentemente viene affidata al singer, il quale non si tira indietro per offrire ancora una prestazione impeccabile. Hell Cat è un momento interlocutorio del disco, 3 minuti di esercizio di stile da parte della band, che non toglie e non mette all’economia totale dell’album, qui in una parentesi abbreviata di tecnica. Con Crying Days ci si rimette in moto: la padronanza che la band ha dei singoli brani si manifesta con virulenza in questa occasione grazie alla poderosa sezione ritmica che Buchholz/Lenners offrono a supporto del lavoro asfissiante della doppia ascia. Davvero la band ci mette del suo per offrire un brano che guarda al di là del momento contingente: senza fronzoli, il quintetto accetta di dosare bene all’interno del brano la cadenza delle battute. Anche Meine si rivela all’altezza del compito con le sue uscite vocali di sicuro impatto, stante la sua caratteristica inpostazione quasi nasale della sua voce.

Polar Nights ci dona davvero sensazioni glaciali: lungo tutto l’arco del brano possiamo intravedere le sfumature molto tecniche che in questo frangente la band intende dare al pezzo. Sembra durare ben oltre il consentito il lavoro delle chitarre, che sapientemente usano i distorsori a mò di contraltare alla voce stentorea del singer. Un singer che, dal canto suo, prende su sé il peso del brano per tramortirci con le sue acrobazie a volte quasi “slow” nella loro esecuzione. Sipario con Yellow Raven, che conduce la band idealmente al capolinea dell’avventura con un brano che conserva in sé il sapiente mix delle varie esperienze musicali della band. La melodia ispirata del singer con la ruvidezza di Schenker, nonché la tecnica di Roth e la solidità della sezione ritmica rendono il brano ideale canto del cigno per quest’album, che ad oltre 30 anni dalla sua pubblicazione, merita ancora e sempre un ascolto più attento del solito, tanto da augurare lunga vita alla band (che ringrazia e mette in pratica l’auspicio).

Autore: Scorpions Titolo Album: Virgin Killer
Anno: 1976 Casa Discografica: Rca Records
Genere musicale: Hard Rock Voto: 8
Tipo: CD Sito web: http://www.the-scorpions.com
Membri band:

Klaus Meine – voce

Rudolf Schenker – chitarra

Ulrich   Roth – chitarra

Francis   Buchholz – basso

Rudy Lenners – batteria

Tracklist:

  1. Pictured Life
  2. Catch Your Train
  3. In Your Park
  4. Backstage Queen
  5. Virgin Killer
  6. Hell Cat
  7. Crying Days
  8. Polar Nights
  9. Yellow Raven
Category : Recensioni
Tags : Hard Rock, Scorpions
0 Comm
28th Gen2013

Blue Öyster Cult – Tyranny And Mutation

by Giuseppe Celano

In confronto alla buona prova iniziale, questa successiva uscita appare come il primo di una serie di passi che consacrerà i Blue Öyster Cult nell’olimpo del rock. Se non vogliamo usare iperboli, scomodando i soliti assolutismi, possiamo dire che Tyranny And Mutation è quanto di più vicino al capolavoro nel loro ruolino personale. Tyranny And Mutation è un lavoro serrato che non lascia respirare, non mostra crepe o cedimenti, nessun segno di stanchezza né un minuto di magra emergono durante l’intero viaggio. I generi toccati, pur fondendosi fra loro, non perdono la loro identità definita magnificamente dal sapiente dosaggio degli ingredienti. Dal punto di vista tecnico i Nostri sono macchine da guerra. Il songwriting è sempre complesso e strutturato, ma tanto elastico da inglobare una melodia sbilenca, capace di stuzzicare un pubblico altro che, incuriosito dalla fantasiosa ricetta, s’avvicina in numero sempre maggiore alla band. È passato solo un anno dall’esordio, ma sembra che questi bikers dell’hard rock abbiano fatto tesoro delle loro esperienze sfoggiando una maestria impeccabile. Apre le danze The Red & The Black, capace di risucchiare tutto l’ossigeno mandandovi in apnea, seguita dall’altrettanto micidiale, e pericolosamente vicina al thrash, Hot Rails To Hell, altro capolavoro assoluto del disco. Sia chiaro la band rimane sempre oscura, con una luce sinistra e magnetica, a cui è impossibile resistere. Il lavorio incessante delle chitarre di Dharma crea atmosfere ammantate di mistero su cui i testi esoterici s’incastonano perfettamente.

O.D.’d On Life System è un brano tipicamente a là B.O.C., esplora e ampia un concetto di ricerca a cui i cinque non vogliono rinunciare. Il rhythm and blues e il rockabilly affrontano la durezza dei Black Sabbath su un terreno neutro generando una creatura proteiforme. I toni cangianti, la policromia degli show, la sezione ritmica ossessiva e la voce sognante di Bloom fanno il resto. Sanno suonare bene, catturano l’attenzione e infilano i giusti ritornelli mostrando una spiccata tendenza verso alcune soluzioni melodiche vincenti. Quanto appena detto trova la sua massima espressione in 7 Screaming Diz-Busters, dai toni cupi e dagli “stop and go” brucianti in cui si può facilmente rintracciare l’omaggio zeppeliniano nel giro del basso costruito sulla falsa riga di Whole Lotta Love. Anche Baby Ice Dog fa parte della schiera sperimentale mentre la successiva Wings Wetted Down rappresenta il trait d’union fra le strutture hard e un certo tipo di pop molto delicato. Quest’ultima vanta un’indiscutibile unicità, comprovata dal dialogo fra chitarre e tastiere, con l’onnipresente basso nero pece a ricordarci che le radici sono saldamente affondate nel buio degli abissi astrali.

Chiudono Teen Archer, altro brano con una sua identità ben definita e totalmente riconducibile al loro mood, seguita da Mistress Of The Salmon Salt che ripone il “solito” monolite nero di fronte alle vostre orecchie. Non abbassate la guardia, loro sono sempre pronti a mordere, inoculando un veleno letale che mieterà nuove vittime. L’appartenenza alla setta del culto dell’ostrica blu è del tutto gratuita e parte in automatico dopo il primo ascolto, se siete a digiuno o neofiti e avete letto questa recensione non potrete fare a meno di ascoltarli e di conseguenza adorarli. Teatrali, (melo)drammatici quanto basta e muscolari come ogni band rock che si rispetti, i Blue Öyster Cult del 1973 sono al loro massimo splendore pronti a regalarci nuovi capitoli da brivido. R.U. Ready 2 Rock?

P.S. Nelle riedizioni del 2001 il CD è rieditato e ampliato con quattro versioni dal vivo di Cities In Flames With Rock And Roll, Buck’s Boogie, 7 Screaming Diz- Busters e O.D.’d On Life System. Questo è l’unico album dei Blue Öyster Cult che riporta il nome della band come “The Blue Öyster Cult”.

Autore: Blue Öyster Cult Titolo Album: Tyranny And Mutation
Anno: 1973 Casa Discografica: CBS Records
Genere musicale: Psychedelic Hard Rock Voto: 8,5
Tipo: CD Sito web: http://www.blueoystercult.com
Membri band:

Eric Bloom – voce

Donald “Buck Dharma” Roeser – chitarra

Allen Lanier – tastiere

Joe   Bouchard – basso

Albert   Bouchard – batteria, percussioni

Tracklist:

  1. The Red And The Black
  2. O.D.’d On Life Itself
  3. Hot Rails To Hell
  4. 7 Screaming Diz-Busters
  5. Baby Ice Dog
  6. Teen Archer
  7. Wings Wetted Down
  8. Teen Archer
  9. Mistress Of The Salmon Salt (Quicklime Girl)
Category : Recensioni
Tags : Blue Öyster Cult, Hard Rock
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26th Gen2013

Hardcore Superstar – Thank You (For Letting Us Be Ourselves)

by Francesco Damiano

Dopo il botto con l’imperdibile Bad Snaekers And A Pina Colada, gli Hardcore Superstar capiscono che è il caso di battere il ferro finchè è caldo, e decidono di rigettarsi dopo appena un anno di nuovo sul mercato discografico un nuovo lavoro, quello che andiamo ad analizzare in questa sede, Thank You (For Letting Us Be Ourselves). Tra le frasi fatte celebri del mondo musicale, c’è quella che recita “non è mai facile ripetersi, riuscire a mantenersi un alto livello dopo un esordio con il botto”. E va detto che il precedente album degli svedesi era stato davvero fragoroso, con un impatto davvero devastante sulla soporifera (comatosa?) scena hard rock di inizio millennio. Il rischio, di sbagliare o peggio ancora di limitarsi ad una ripetizione della formula vincente era, pertanto, molto alto. A conti fatti si può tranquillamente affermare che questo sequel, pur non essendo all’altezza del fenomenale esordio, è comunque un signor disco, in grado di confermare l’ispirazione dei Nostri. L’album parte con un doppietta decisamente adrenalinica: la scanzonata e festaiola That’s My Life e a seguire la più veloce e convincente Not Dancing Wanna Know Why, pezzo che si avvicina parecchio al tema musicale dell’esordio degli svedesi. Shame è la prima ballad dell’album, una canzone decisamente catchy, di un intensità notevole. Con Just Another Score qualcosa inizia a scricchiolare nell’ascolto, con un marcata tendenza al ritornello facile.

Summer Season’s Gone è forse la canzone simbolo di questa fatica degli Hardcore Superstar: a parere di chi scrive una canzone davvero molto bella, forse la migliore del lotto, con un non so che di malinconico a raccontarci dell’estate che se ne va, molto convincente ma…ad onore del vero, anche molto “pop”. Ed è questo il mood che si respira lungo tutto l’ascolto di questo Thank You (For Letting Us Be Ourselves): le canzoni ci sono, eccome se ci sono, ma c’è anche l’impressione di un freno a mano tirato a scemare un pochettino l’irruenza selvaggia dei Nostri, a fronte di un approccio più levigato. Tornando all’esame delle tracce, Wimpy Sister riporta i giri del motore a ritmi più elevati per introdurci alla successiva Do Me That Favour, il pezzo forse più Hardcore del disco, in cui il muro sonoro sviluppato dagli svedesi torna ad essere notevole e a ricordare all’ascoltatore che i nostri sono puro hard rock a tinte dure quando vogliono (e se vogliono). Significant Other è un altro pezzo che lascia, nuovamente, disorientati: ancora una volta gli svedesi dimostrano di avere talento nello scrivere canzoni, ma di nuovo gli innesti quasi pop sono predominanti, con un cantato simil-Oasis (ebbene sì, siamo pure sempre agli inizi del 2000) in certi frangenti.

Dear Old Fame è la ballad migliore del disco, una canzone davvero convincente, un classico per una band street/sleazy, decisamente riuscita. Smoke’Em probabilmente avrebbe potuto chiudere degnamente l’album invece, come già nel precedente lavoro, gli Hardcore Superstar allungano forse troppo “il brodo”, con latri tre pezzi che nulla aggiungono al disco, se non per il simpatico titolo della song They Are Not Even A New Bang Tango, un auspicio a non essere una band meteora, che con il tempo può dirsi decisamente realizzatosi per gli svedesi. In definitiva, Thank You (For Letting Us Be Ourselves) è un gran bel lavoro discografico, che pecca probabilmente di due piccoli nei su tutti. Il primo è un evidente ammiccamento da parte degli Hardcore Superstar al mondo musicale mainstream: gli svedesi hanno assaggiato il successo con Bad Snaekers And A Pina Colada, e (probabilmente assieme alla casa discografica dell’epoca) si sono ingolositi. Risultato?! Quel tasso di adrenalina misto a carica punk che caratterizzava l’esordio si è affievolito, per lasciare spazio a soluzione decisamente più immediate. Secondo neo: in un disco decisamente buono, manca però la hit per eccellenza, la Liberation o Someone Special del passato, il pezzo che vale da solo l’acquisto di un disco. Ma non c’è da temere: le promesse sono state comunque mantenute, questa è una band con gli attributi, altro che chiacchiere.

Autore: Hardcore Superstar Titolo Album: Thank You (For Letting Us Be Ourselves)
Anno: 2001 Casa Discografica: Music For Nations
Genere musicale: Hard Rock Voto: 6,5
Tipo: CD Sito web: http://www.hardcoresuperstar.com
Membri band:

Jocke Berg – voce

Silver Silver – chitarra

Martin Sandvik – basso

Magnus Andreasson – batteria

Tracklist:

  1. That’s My Life
  2. Not Dancing Wanna Know Why?
  3. Shame
  4. Just Another Score
  5. Summer Season’s Gone
  6. Wimpy Sister
  7. Do Me That Favour
  8. Significant Other
  9. Dear Old Fame
  10. Smoke’Em
  11. Riding With The King
  12. They Are Not Even a New Bang Tango
  13. Mother’s Love
Category : Recensioni
Tags : Hard Rock
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18th Gen2013

Scorpions – Fly To The Rainbow

by Giancarlo Amitrano

Squadra che vince non si tocca: solitamente è così, ma non sempre la logica si sposa con la pratica. Nel caso dei nostri eroi, il quintetto teutonico rinunzia a cuor leggero, sia pure per motivi diversi da quelli strettamente tecnici, allo Schenker junior e all’intera sezione ritmica. Cooptando comunque un signor axeman come Uli Roth e l’accoppiata Rosenthal/Buchholz, la band rilascia a metà anni ‘70 un signor album che aggiunge subito un altro tassello di eccellenza. Messo alle spalle il periodo psichedelico, i brani del disco si incamminano spediti sui ruvidi sentieri hard in voga ad inizio seventies. Speedy’s Coming si fonda sulla perfetta linea vocale di Meine, che utilizzando saggiamente anche il falsetto consente al brano di snodarsi in forma quasi mid nella fase centrale, dove il lavoro della sezione ritmica diventa rovente con il rallentamento delle battute della grancassa. Unito al sapiente dosaggio delle asce, il pezzo diviene un cavallo di battaglia in sede live per tutta la decade successiva. Con They Need A Million il gruppo si consente una digressione quasi soft nell’approccio al brano: mettendo al servizio del singer la maestria tecnica del nuovo arrivato Roth, il maggiore degli Schenker si mette nella sua scia con una serie di arpeggi ravvicinati tra loro che consentono alla sezione ritmica di dosare con sapienza il suo lavoro. Una prestazione solida di Meine dona concretezza ed energia al pezzo, che su di una basilare linea melodica non ha tempi morti nemmeno nell’apparentemente morbida fase centrale. Drifting Sun non fa nemici: un brano davvero sostenuto che si articola con il classico archetipo “strofa-ritornello-assolo”, il tutto però articolato con una pregevole linea sonora. Le evoluzioni vocali dello stesso Roth sono al servizio anzitutto della coppia di asce che dal suo canto rilascia una sincronia di note ben congegnata, senza sovrapporsi in una ideale sfida di sei corde. La linfa vitale di Roth si fa sentire eccome, mentre la sezione ritmica si prende sulle spalle il tempo delle battute ritmiche delle percussioni e delle quattro corde, ben modulate nella fase centrale.

Ma è con la ballatona Fly People Fly che le sinora abbozzate doti vocali di Meine divengono stratosferiche, grazie ad un superbo lavoro della sei corde che consente al singer di mostrare appieno la sua clamorosa estensione vocale. Del tutto non fine a se stesso, il brano si innesta nell’economia dell’album quale spartiacque di quanto le prime tracce del disco lasciassero trapelare, ovvero la presenza di ulteriori e seminali tracce di rock spaziale tanto influente nel primo lavoro del gruppo. Primi embrioni di ballad strappalacrime in cui negli anni il combo si specializzerà sono invece visibili ampiamente nel brano in questione, che dà la stura al repertorio futuro, in cui si mostreranno epigoni e maestri da imitare. Il livello di eccellenza ormai raggiunto lo rinveniamo ancora in This Is My Song, dove ancora una volta apprezziamo la linfa vitale della sezione ritmica, qui sparata davvero al massimo, che consente il dipanarsi di una linea sonora d’impatto e resa al vetriolo dalla voce ruvida e graffiante di Meine, che si inerpica da par suo in un complicato ghirigoro vocale. La coppia di chitarre ancora una volta sfodera una prestazione monstre anche sulla base di un improvvisato mid-tempo che caratterizza tutto il brano. Far Away è “affare di famiglia”: composta dal transfuga Schenker junior, risente della sua bizzarria compositiva per quanto riguarda lo snodarsi del brano. Il refrain lento ed a tratti melanconico viene presto seguito dal potenziamento del lavoro delle sei corde, che lungo la durata del brano ne costituiscono il cardine attorno al quale ruota ancora una superba prova vocale del vocalist. Ed è proprio la lunghezza del brano a costituirne il segreto vincente: non potendo infatti esprimere il consueto clichè tecnico in 180 secondi, il combo dosa alla perfezione i momenti di stacco tra percussioni e cantato, prendendosi tutto il tempo per la costruzione dell’impalcatura tecnica completa, altrimenti non realizzabile in pochi minuti.

Chiudendo il lavoro con la title-track, la band poggia le basi su cui vivere di rendita per un bel po’ di tempo anche in sede live: altro cavallo di battaglia on stage, il brano può senza meno definirsi tra i migliori dell’intera discografia della band. Un cadenzato mix di arpeggi, intimismo e lirica si sovrappone ad un altrettanto valido concentrato di sano rock’n’roll ed allegoria strumentale tipicissima dei primi anni della decade di cui ci si occupa. I 10 minuti di durata del brano non lo appesantiscono assolutamente consentendone, anzi, la completa valorizzazione tecnica grazie alla sapiente prova di ogni singolo componente. Con ancora la collaborazione del minore dei germani Schenker, la tecnica più pura viene fuori a piene note, rendendo il brano il must di tutto il disco. Omerici i cambi di tempo e sontuose le alchimie vocali che si susseguono senza requie. Colpevolmente dimenticato negli anni, è questa l’occasione per rendere onore e giustizia a questo autentico gioiello, cui per fortuna ancora tanti debbono seguire.

Autore: Scorpions Titolo Album: Fly To The Rainbow
Anno: 1974 Casa Discografica: Rca Records
Genere musicale: Hard Rock Voto: 8
Tipo: CD Sito web: http://www.the-scorpions.com
Membri band:

Klaus Meine – voce

Rudolf Schenker – chitarra

Francis Buchholz – basso

Jurgen Rosenthal – batteria

Uli Roth – chitarra

Tracklist:

  1. Speedy’s Coming
  2. They Need A Million
  3. Drifting Sun
  4. Fly People Fly
  5. This Is My Song
  6. Far Away
  7. Fly To The Rainbow
Category : Recensioni
Tags : Hard Rock, Scorpions
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11th Gen2013

Scorpions – Lonesome Crow

by Giancarlo Amitrano

Benvenuti nel vero mondo hard (rock), dal centro della vecchia Europa, nel cuore del vecchio mondo, eccoci faccia a faccia con i componenti di una ideale triade hard/metal mitteleuropea, che all’epoca già comprendeva numi tutelari quali Deep Purple, Led Zeppelin e Black Sabbath. Provenienti dalla gloriosa Hannover, gli Scorpions rappresentano la risposta del continente alla su menzionata trimurti che obbligatoriamente divenne con essi un quadrumvirato. Con una solida base alle spalle e studi tecnici di prim’ordine, i fratelli Schenker (qui per l’unica volta insieme su di un intero album) arruolano il fenomenale Meine ai microfoni e due ottimi turnisti alla sezione ritmica per giungere al loro album di debutto, già seminale. E pur tuttavia, questo primo lavoro avrebbe fatto di tutto per non far catalogare la band tra le progenitrici dell’odierno hard rock o proto-metal. La genesi di Lonesome Crow, difatti, si orienta maggiormente verso l’allora imperante rock spaziale-psichedelico, pur mostrando già i prodromi di quella che sarebbe divenuta di lì a poco la loro maturazione tecnica ed artistica. Lo possiamo notare sin da I’m Going Mad, dove la pur già sopraffina tecnica viene inquinata da una serie di “coretti” che annacquano il contesto del brano, in cui la voce di Meine risalta comunque per la sua pulizia e la timbrica inconfondibile. It All Depends tenta di indirizzarsi verso una forma grezza di hard rock, grazie alla “premiata ditta” Schenker che in perfetta sintonia sonora sciorina una serie di arpeggi rimarchevoli e sui quali Dziony ed Heimberg colgono bene i tempi di inserimento. Tutto senza che il brano ne risenta nella sua economia totale, che anzi risulta briosa e ben cadenzata soprattutto nell’azzeccato passaggio centrale di sicuro impatto.

Salendo di tono con Leave Me, il quintetto cerca di stringere i tempi ed avviarsi subito lungo la strada che hanno ben in mente: un singer titanico, una sezione ritmica di precisione certosina ed una coppia di asce da far invidia ai migliori axeman dell’epoca, rendono il brano un autentico gioiellino. Tenendo conto della giovane età del combo e che Schenker junior non fosse ancora maggiorenne all’epoca, possiamo ben gridare al portento, per la completezza che egli riesce a raggiungere nei suoi solos già infuocati e traboccanti di tecnica allo stato brado, lungi dall’essere incanalata in standard prefigurati che non fossero quelli canonici quali “strofa-ritornello-solo” al momento dominanti. In Search Of The Piece Of Mind è il must dell’album: una girandola di cambi di tempo, di cantato e di giri di chitarra ci catapultano per davvero in un brano quasi onirico e visionario. Lo slide che il duo di asce imprime alla fase centrale è davvero in anticipo sui tempi, mentre Meine riesce a dosare con acume il tono vocale sino all’esplosione della strofa, che sgorga come una bomba ad orologeria al momento giusto. I germani chitarristi fanno a gara nell’esibirsi in una serie di interventi davvero azzeccati, che rendono il brano molto appetibile anche in sede live, dove tuttavia fu proposto per la prima volta solo 6 anni dopo durante la loro tournée nel Sol Levante (di cui resta memorabile traccia nel leggendario Tokyo Tapes del 1978), in una versione storica con Uli Roth.

Con Inheritance si continua sulla falsariga delle atmosfere psichedeliche e spaziali, sulle quali anche l’approccio compositivo della band risulta essere decisamente soft. Stante il taglio maggiormente tendente all’aspetto contenutistico, il sound viene messo in secondo piano dal punto di vista compositivo. Il buon lavoro della ditta Schenker viene messo al servizio dell’ovattata voce di Meine che non disdegna alcuni gorgheggi che sarebbero di qui a breve spariti dal suo repertorio. Action non incide come vorrebbe: in questo frangente la band appare quasi come slegata dal contesto del disco, a causa anche dello scarso arrangiamento in sede di legatura delle parti vocali. Siamo nel 1972 e tuttavia la band, almeno su questo brano, appare per un attimo ancora legata alla passata decade, dove anche le atmosfere potenzialmente roventi venivano “sedate” dai toni psichedelico-spaziali dei gruppi all’epoca in voga. La title-track chiude degnamente il loro primo lavoro: 13 minuti nei quali la band si sbizzarrisce in una lunga cavalcata inframmezzata da vari stili, che spaziano con facilità dal rock classico alle prime sfumature hard/heavy future a venire. La buona prestazione vocale di Meine si eleva di una spanna sul resto della band, che comunque svolge alla perfezione il suo compito.

Prodromico di brani successivi più concettuali, Lonesome Crow traccia le linee guida della band, che ha appena mosso i primi passi nell’empireo degli dei. Ci sono appena altri 40 anni di carriera che ci aspettano.

Autore: Scorpions Titolo Album: Lonesome Crow
Anno: 1972 Casa Discografica: Rhino Entertainment
Genere musicale: Hard Rock Voto: 7
Tipo: CD Sito web: http://www.the-scorpions.com
Membri band:

Klaus   Meine – voce

Rudolf   Schenker – chitarra

Michael Schenker – chitarra

Lothar   Heimberg – basso

Wolfgang   Dziony – batteria

Tracklist:

  1. I’m Going Mad
  2. It All Depends
  3. Leave Me
  4. In Search Of The Piece Of Mind
  5. Inheritance
  6. Action
  7. Lonesome Crow
Category : Recensioni
Tags : Hard Rock, Scorpions
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