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24th Feb2020

WildKing – Back Home

by Gabriele Rusty Rustichelli
I WildKing sono un trio che arriva dalla Brianza e propone un hard blues efficace e d’effetto. Band attiva dal 2009 con un’ottima attività live presenta il suo Back Home che attira l’attenzione di Classic Rock UK e questo dà respiro e possibilità alla band di farsi ascoltare anche in radio. Tra le influenze vengono citati ZZ Top, Jimi Hendrix, Lynyrd Skynyrd, Stevie Ray Vaughan, Joe Bonamassa, Ritchie Kotzen, SteppenWolf, Rolling Stones, Eric Sardinas, Popa Chubby, ACDC…stiamo parlando di blues, suonato con attitudine rock e grinta da vendere. La produzione del disco in questione è buona, il mix ben fatto e perfettamente in target con il genere. Basso e batteria si muovono egregiamente nello stile dando un’impronta più hard che blues e questo permette alle canzoni di avere un appiglio davvero interessante. Le chitarre di Rena fanno il loro lavoro tra ritmiche e assoli. È di certo un genere musicale divertentissimo da suonare che lascia spazio anche ad improvvisazioni dal vivo. Dudu, oltre che bassista è anche la voce della band, lavora con melodie interessanti e con un timbro di voce perfetto per lo stile, forse unica cosa su cui si può avere margine di crescita è la pronuncia, solo per puntare ad essere vendibili anche all’estero.

Non facile tenere testa ai grandi nomi precedentemente citati, specie per un genere che abbiamo ereditato e che non abbiamo nel nostro DNA. Ma in definitiva il disco dei WildKing suona bene, autentico e porta l’ascoltatore in un mondo musicale che fa viaggiare. Un bel sound, bravi musicisti e buona musica. Un mix perfetto per godere a pieno di un album.

Autore: WildKing Titolo Album: Back Home
Anno: 2019 Casa Discografica: Autoproduzione
Genere musicale: Hard Blues Voto: 7
Tipo: CD Sito web: www.facebook.com/wildkinghardblues
Membri band:
Dudu – basso, voce
Rena – chitarra
Silvio – batteria
Tracklist:
1. Long Way Back to Home
2. Make It Right
3. Circus
4. Roll The Dice
5. DownHome
6. The Jackal
7. Middle Finger
8. Into My Soul
9. Rockstar
Category : Recensioni
Tags : Hard Rock
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14th Feb2020

Montrose – Jump On It

by Giancarlo Amitrano
Il meglio è passato: va al contrario, la storia della band oltreoceano, oramai lontana dai fasti della pur relativamente breve discografia. Non solo l’addio di Hagar ha delineato la china sulla quale si è incamminato il combo, ma anche e soprattutto le scelte musicali intraprese dal Nostro per tentare di continuare a portare avanti con dignità la sua creatura artistica. Continuando a godere della fiducia della propria casa discografica, pur sotto sotto dubbiosa circa la continuità dei loro accordi, il chitarrista assembla l’ennesimo “mark” assoldando un nuovo bassista, sotto la supervisione del guru Jack Douglas che la Warner impone come produttore. Il risultato è un album sorprendentemente buono, con ritmi ed armonie nettamente lontani dalle recenti esibizioni: sin da Let’s Go si assiste ad una abbastanza valida “rinascita” del gruppo, con il singer abile a districarsi su di un buon groove e la sei corde che non risulta stavolta appiattita e ripetitiva. Anche What Are You Waitin’ For? si muove sulle medesime coordinate, senza produrre (bene chiarirlo) chissà quali sconvolgimenti acustici, ma con un suo stile abbastanza ritrovato e senza fronzoli che la nuova produzione abolisce del tutto.

Si prosegue con Tuft- Sedge e la sua venatura quasi interamente acustica e strumentale, laddove erompono con potenza echi zeppeliniani tanto cari al Nostro, che qui comunque dimostra di non aver nulla da invidiare a mentori ben più in auge. Ed eccoci ad uno dei momenti clou dell’album, con l’atmosfera incantata di Music Man ed il suo piano; incantatrice ed avvincente, la traccia avrebbe meritato senza meno la gloria del singolo per la sua capacità di intenerire e commuovere come i migliori intrattenitori da piano bar. La titletrack è un autentica cartolina rockeggiante a tutto tondo: con la giusta dose di carica aggressiva che ci si attende dal chitarrista, non sorprende la sonorità molto vicina agli epigoni del momento, come ad esempio un “semplice” Peter Frampton in Comes Alive! Non è “rumore”, come qualche inesperto potrebbe affermare: trattasi, invece, di solida cilindrata settantiana cui anche la band del Nostro deve pagare dazio, del resto ancora ampiamente imperante al momento. Rich Man rende ulteriormente giustizia alla patinata produzione di Douglas: patinata, non nel senso di ammorbidimento del sound, bensì di rendere più corpose le singole prestazioni dei musicisti, che qui ancora una volta non segnano il passo, consegnandosi anzi alle recriminazioni dell’ascoltatore che sa bene cosa avrebbe potuto attendersi dal quintetto.

Con Crazy For You abbiamo una ennesima validissima reinterpretazione del sound più verace della decade in cui ci si trova ad agire, con Montrose ancora sugli scudi e con il solido apporto di tutta la band, paradossalmente ancora compatta nonostante le nubi ormai pesantemente addensate su di essa. Si chiude con Merry-Go-Round ed occorre dire che stavolta dispiace che la fine sia giunta relativamente in fretta: è infatti un piacere ascoltare le alchimie che la ancora valida sezione ritmica riesce a produrre, su di un tappeto sonoro ampiamente costruito dal singer che qui riesce a far dimenticare (per poco, ovviamente) il rossocrinito collega precedente. Tuttavia nel complesso il lavoro si è svelato via via di buona levatura, con l’axeman nonostante tutto ancora presentissimo sul pezzo, capace di emozionare con i suoi riffoni del tutto “inerenti” il contesto in cui si trova (a suo agio) ad agire.

Autore: Montrose Titolo Album: Jump On It
Anno: 1976 Casa Discografica: Warner Bros
Genere musicale: Hard Rock Voto: 7
Tipo: CD Sito web: http://www.ronniemontrose.com
Membri Band:
Ronnie Montrose – chitarra
Bob James – voce
Jim Alcivar – tastiere
Danny Carmassi – batteria
Randy Jo Hobbs – basso
Tracklist:
1. Let’s Go
2. What Are You Waitin’ For?
3. Tuft- Sedge
4. Music Man
5. Jump On It
6. Rich Man
7. Crazy For You
8. Merry-Go-Round
Category : Recensioni
Tags : Hard Rock
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31st Gen2020

Montrose – Paper Money

by Giancarlo Amitrano
“Squadra che vince, non si cambia” (giustamente): questo saggio proverbio viene, di solito, ampiamente seguito dalla maggior parte dei forniti di sale in zucca, per continuare a percorrere la via del successo, o comunque della certezza della riuscita. Tranquilli, non è così: quasi provando piacere a farsi del male da soli (fa parte della natura umana, il masochismo…), nonostante reduce da un esordio col botto, anche la creatura del buon Ronnie decide di iniziare ad annullare quasi del tutto quanto di buono sinora fatto. Le già latenti tensioni tra ascia e microfono, che tra poco egualmente imploderanno, vengono precedute dall’abbandono del buon Church che lascia i compagni nel bel mezzo del tour di supporto all’album, rimpiazzato dal futuro Nightranger Alan Fitzgerald. Nonostante gli “autogol”, la band riesce a sfornare un secondo lavoro da altissime classifiche, godendo per giunta dello stesso team dietro la consolle ed in camera di produzione; i vari Templemann e Landee sono ancora a bordo ad assicurare l’ennesima buona riuscita del lenght, che si apre con i ritmi potenti di Underground e la solida prestazione vocale del rosso Hagar, ancora ampiamente lontano dalle “santità” vanhaleniane, ma già in grado di mostrarsi ruvido ed aggressivo quanto basta, mentre il fondatore sa eccome il fatto suo con la sei corde.

Segue la morbidezza sonora di Connection che consente al singer di tenere bene anche le linee più basse, mentre la ritmica e la metrica a sei corde fanno la loro super figura anche in questo contesto maggiormente rilassato, sempre all’insegna della tecnica sopraffina. The Dreamer ed il suo intro pesantissimo fanno presagire un’altra cavalcata hard metal, sia pur leggermente rallentata: con Hagar a suo agio anche su tonalità più ritmate, non pare vero a Montrose di dedicarsi da par suo agli arpeggi notabili della sua corde, mentre il “futuro Heart” Carmassi pesta bene sui rullanti degli anni 70, lasciando anche al neo arrivato Fitzgerald il suo buon momento di celebrità con una valida linea di tastiere, oltre che ad un basso abbastanza robusto. Con Starliner gli animi si infervorano, accelerando il tutto con un drumming a tutto spiano in una traccia tutta hard’n’roll, gradevole e saggiamente ritmata; si accompagnano al “pestaggio” delle pelli le atmosfere incantate del tastierista che contribuiscono al parapiglia generale di questo brano strumentale che progressivamente si infervora, se possibile, ancora di più verso l’esplosione finale di crash, timpani e distorsioni a tutto spiano.

Si procede con I Got The Fire e la notevole esposizione a quattro corde di Fitzgerald, mentre Hagar canta da perfetto crooner di metà anni 70, anticipando sonorità che avrebbe milluplicato una decade dopo con dei fratelli olandesi…ma qui siamo al cospetto del regno di Ronnie Montrose, e se permettete è la sua ascia a dettare alla grande i tempi, con tapping anticipatore delle generazioni che verranno, le quali saranno in ascolto anche senza essere ancora nate! Spaceage Sacrifice ed il suo mid tempo fanno un baffo ai migliori bluesmen di genere; il red singer a destreggiarsi tra le note con distaccata maestria, l’axeman a insegnare come si tenga la sei corde devotamente tra le mani, mentre la sezione ritmica si incammina verso le sue polverose direzioni con battute e tempi di entrata a dir poco notevoli lasciando comunque il compito di delineare gli scenari sempre e solo al mastermind, che certo non si fa pregare di assestare plettrate graziosamente indirizzate. We’re Going Home è un altro viaggetto delicatamente condotto: è lo stesso axeman a donare la voce al testo e certo non sfigura con la sua prestazione, sempre contraddistinta da una tristezza di fondo; la voce dona al brano quel groove particolare da cui la chitarra viene fuori con un solo sensazionale, delineato e tratteggiato ma robusto e tecnico ad iosa.

Si chiude con la titletrack: un giro di basso sontuoso introduce le svisate elettriche su cui si inoltrano le acrobazie sonore a tutta velocità: in un pathos travolgente e progressivo, il brano (scritto ovviamente dai due dioscuri della band) cavalca a briglia sciolta. Il refrain è ossessivamente piacevole, mentre la sei corde è strisciante ed insinuante come ai bei tempi (ancora giovani) della band: Hagar sugli scudi e Montrose degno compare (non scudiero), con una chitarra a sciorinare assoli lungo tutto il brano, che chiude degnamente un periodo d’oro che già tra poco sembrerà lontanissimo.

Autore: Montrose Titolo Album: Paper Money
Anno: 1974 Casa Discografica: Warner Bros
Genere musicale: Hard Rock Voto: 7
Tipo: CD Sito web: www.ronniemontrose.com
Membri Band:
Ronnie Montorse – chitarra
Sammy Hagar – voce
Alan Fitzgerald – basso, tastiere
Danny Carmassi – batteria
Mark Jordan – piano su traccia 2
Nick De Caro – mellotron su traccia 7
Tracklist:
1. Underground
2. Connection
3. The Dreamer
4. Starliner
5. I Got The Fire
6. Spaceage Sacrifice
7. We’re Going Home
8. Paper Money
Category : Recensioni
Tags : Hard Rock
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24th Gen2020

Montrose – Montrose

by Giancarlo Amitrano
Nelle nostre retrospettive, molto spesso, abbiamo sottolineato quanto l’esercito delle band bistrattate e misconosciute sia sempre stato numeroso; augurandoci che il loro numero non aumentasse, siamo stati, purtroppo, sempre smentiti dagli eventi, aggiungendosi ad esso nuove realtà meritevoli invece di ben altro riscontro e successo. È certamente il caso della band californiana, il cui destino si lega clamorosamente alle fortune ed alle vicissitudini di tutto il movimento metal a stelle strisce dell’intero decennio: prova ne sia, tra le altre, che il produttore (Ted Templemann), l’ingegnere del suono (Donn Landee) e persino la casa discografica (Warner Bros) saranno i mentori del poderoso debutto dei Van Halen, ma soprattutto il singer Sammy Hagar si legherà a doppio filo alla band olandese proponendosi quale unico degno continuatore dell’era post David Lee Roth. Con tutte queste stimmate da predestinato, l’album del leader maximo della band non poteva che essere a dir poco folgorante: nel rispecchiare in tutto i canoni dell’epoca, persino nella breve durata, l’album è un “anticipatore” di tutto il movimento metallico che lo zio Sam sfornerà negli anni a venire. Con le sue influenze classicissime alle spalle, Montrose si ritaglia da subito uno spazio a dir poco larghissimo grazie alla sua tecnica mirabile, alla roboante potenza dei suoi assoli ed all’apporto che gli fornisce il resto del gruppo.

Si parte con Rock The Nation ed è già spettacolo: Montrose impartisce subito la via ripidissima su cui arrampicarsi, con il singer a raccogliere la sfida con la sua voce magari ancora grezza e roca ma già sostenuta quanto a potenza; le ardite soluzioni musicali del chitarrista consentono al restante trio di pestare duro e di non mostrare cedimenti. Si prosegue con Bad Motor Scooter ed il prodigio prosegue, anche grazie al leggendario distorsore Big Muff di cui Montrose fa uso superbo per creare, prototipo imitato da tantissimi in seguito, un vero e proprio rombo di motore, invitando così anche la sezione ritmica a scatenarsi in un groove indiavolato suggellando il tutto con un assolo da favola. A chiudere idealmente questo primo trittico da brividi, ecco l’altrettanto spettacolare Space Station 5, probabilmente il miglior brano di sempre della band: definita da una iniziale luce psichedelica, la traccia si scatena subito in una colata lavica di riff superbi, basso spettacolarmente sopra le righe, drumming ossessivo ed incalzante, e cantato supremamente bilanciato tra lo screaming ed il melodico. La chiusa finale a dissimulare lo strappo del nastro di incisione è un altro capolavoro da attribuire sia alla produzione che alla band stessa.

Dopo una triade di cotanta stazza, ci si potrebbe già ritenere, nel baldo e lontano 1973, empi e satolli: si badi bene, dopo soli tre brani…eppure, il meglio, se possibile, deve ancora arrivare! I Don’t Want It è assolutamente ed egualmente innovativo, padroneggiando (il gruppo) da par suo il complesso arpeggio che coinvolge la già infuocata atmosfera stavolta classicamente rockeggiante, insinuando tra le linee un accattivante riffing ottimamente armonizzato. L’anthem di Good Rockin’Tonight è già storia: quattro e sei corde ininterrotte nel produrre e sfornare linee di note immortali, la voce del “rosso” Hagar si scapicolla per trovare sempre nuove soluzioni sonore per imprimere a chiare note il refrain che già non si dimentica. Si prosegue con un altro classico: Rock Candy è stato fonte di ispirazione per tutte le generazioni successive di band tutto glam, paillettes e lustrini vari (Motley Crue in primis): la traccia è scanzonata, scavallando allegramente dal roco blues al sano ed oltraggioso (per i tempi) hard’n’roll, seppellendo così i pregiudizi che potevano celarsi di gruppi simili. One Thing On My Mind e la sua impostazione tipicamente settantiana fanno da apripista alle avvisaglie “pomp” che altre leggende quali i Queen faranno in fretta proprie: ma il tutto non dispiace ai Nostri, i quali già sanno il da farsi e per questo e per il futuro: un futuro che meglio non potrà palesarsi che con la chiusura affidata a Make It Last, ovvero traccia di dominio quasi esclusivo del singer, che involontariamente (o meno) si ritaglia uno spazio che presto sarà insidiato da altri timbri vocali non da poco, pensiamo a Paul Rodgers o addirittura al compiantissimo Brad Delp di bostoniana memoria. Questo, per comprendere l’importanza ed il lascito immenso che il quartetto di RM si appresteranno ad elargire.

Autore: Montrose Titolo Album: Montrose
Anno: 1973 Casa Discografica: Warner Bros
Genere musicale: Hard Rock Voto: 7
Tipo: CD Sito web: www.ronniemontrose.com
Membri Band:
Ronnie Montrose – chitarra
Sammy Hagar – voce
Bill Church – basso
Danny Carmassi – batteria
Tracklist:
1. Rock The Nation
2. Bad Motor Scooter
3. Space Station 5
4. I Don’t Want It
5. Good Rockin’ Tonight
6. Rock Candy
7. One Thing On My Mind
8. Make It Last
Category : Recensioni
Tags : Hard Rock
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03rd Gen2020

Free – Fire And Water

by Giancarlo Amitrano
Il “Big Train” che passa per ogni band che si rispetti, almeno una volta, arriva in perfetto orario anche per il quartetto britannico: dopo un iniziale dittico di più che buona fattura, si materializza innanzi ad esso il trampolino verso il successo. Con il terzo album, la band non si lascia certo scappare la possibilità di balzare direttamente verso l’olimpo musicale e dire che le premesse non sono delle migliori, incombendo (come spesso accade) già le prime avvisaglie di tensione tra le varie anime del gruppo, che purtroppo sappiamo essere destinato ad una fine prematura e drammatica. Purtuttavia, con la terza produzione, la band londinese “spacca” letteralmente ascolti e classifiche senza adoperare chissà quale marchingegno, basandosi anzi soltanto su una proposta sonora già abbastanza consolidata sulle notevoli capacità del quartetto. Ad aprire l’album è subito la titletrack, ed è subito Free-style: la voce di Rodgers, già segretamente “concupita” da un certo Ritchie Blackmore per i suoi progetti futuri, sciorina blues acido in pieno trip settantiano. La “Signora sezione ritmica” cesella da par suo le giuste atmosfere, mentre il qui ancora lucidissimo Kossoff miete vittime in quantità con il suo solo notabile ed incisivo, messo subito in (relativa) sordina dal ritorno veemente del cantato sopraffino di Rodgers.

La semiacustica che apre Oh I Wept consente al singer di amministrare sagacemente i vari momenti del brano, mai sopra le righe ed altrettanto mai noioso per la sua apparente monotonia e languidezza blueseggiante: perfino la solitamente aggressiva accoppiata Fraser/Kirke si tiene saggiamente sulle sue, preoccupandosi di non affibbiare bordate eccessivamente potenti, ma non per questo meno penetranti, nei padiglioni uditivi di chi vuole bene ascoltare, il tutto, con la “longa manus” di chi alla sei corde sa il fatto suo. Si prosegue con Remember ed il fido chitarrista che stavolta si tiene maggiormente sull’aggressivo, pur sempre tenuto a freno quel tanto che necessita alla buona riuscita di un altro brano che sa tanto di profondo Sud degli Stati Uniti, tanta è la capacità del vocalist di rievocare atmosfere altrimenti di competenza dell’altra parte dell’emisfero; eppure, tutto il sound quasi “negroide” che si ascolta proviene esattamente dalla “perfida Albione” ed è perfettamente incardinato agli inizi della settima decade del Novecento, che tanto grata sarà al gruppo nei decenni a venire. Heavy Load e la sua introduttiva e nostalgica linea di piano ci danno quasi il colpo di grazia…esattamente ciò che desideriamo ascoltare da un album con le premesse di cui sopra: la voce calda, tenue ma energica di Rodgers, il basso mortifero dell’ancora giovanissimo Fraser (18enne al momento), il drumming elegante di Kirke e soprattutto la sei corde di Kossoff che nella parte finale interviene ad impreziosire il tutto con mano ferma e delicata al tempo stesso.

Una delle super hit della band è Mr Big e la sua versione sincopata che tante volte sarà coverizzata in futuro, ma quasi nessuna imitazione riuscirà ad avvicinare il ritmo unico ad essa impresso dalla nostra quaterna. Ancora voce superba, strumenti accordatissimi e sound servito in salsa tartara dalla stavolta infuocata ascia di Mr Kossoff, che qui dà la stura ad una tra le migliori prestazioni personali, mentre il basso incombente di Fraser percorre tutta la scala del pentagramma, per consegnare il brano all’eternità. Con Don’t Say You Love Me la band si cala completamente in quelle atmosfere che tra poco li renderanno campioni delle esibizioni live: rilassati ed a proprio agio, i quattro si concedono una ideale jam da studio in cui provare tutte le tempistiche e le battute da mettere in scena on stage; lentissimi e morbidi, tutti gli strumenti si incamminano verso un viale del tramonto (del brano) sapientemente accompagnati dalla voce roca di Rodgers. E si chiude davvero in bellezza: All Right Now e la sua melodia eterna che qui pare precedere di un decennio sonorità tanto care agli AC/DC, specie nel riff ossessivo che la chitarra imprime al brano. E come Bon Scott in seguito condurrà per mano i fratelli Young a cesellare il loro suono riconoscibilissimo, così Paul Rodgers guida i suoi verso il trionfo finale con un cantato variegato, aggressivo e delicato; stile che, come detto, in tanti cercheranno di accaparrarsi per le loro fortune. Ma, almeno per ora, la band tiene duro e procede verso orizzonti ancora nitidi e splendenti.

Autore: Free Titolo Album: Fire And Water
Anno: 1970 Casa Discografica: Island Records
Genere musicale: Hard Rock Voto: 7
Tipo: CD Sito web: http://www.freebandofficial.com
Membri Band:
Paul Rodgers – voce
Paul Kossoff – chitarra
Andy Fraser – basso
Simon Kirke – batteria
Tracklist:
1. Fire And Water
2. Oh I Wept
3. Remember
4. Heavy Load
5. Mr Big
6. Don’t Say You Love Me
7. All Right Now
Category : Recensioni
Tags : Free, Hard Rock
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30th Dic2019

Franco Giaffreda – Gli strani giorni di NOInessUNO

by Gabriele Rusty Rustichelli
Attivo dall’89, Franco Giaffreda esce con un disco autoprodotto dal titolo Gli Strani Giorni Di NOInessUNO. Un misto di rock e progressive cantato in italiano. Il disco suona compatto e la produzione è davvero ben fatta. Giaffreda oltre alla parte vocale cura egregiamente tutta la parte chitarristica del lavoro. Il disco si apre con un pugno in faccia, Corri Con I Pensieri, brano rock granitico e accattivante, con una parte vocale di tutto rispetto. In Un Vortice Di Eventi, secondo brano del disco, è uno strumentale dove le doti tecniche dei musicisti non lasciano dubbi per le loro capacità. Come al solito, quando si suona rock e si canta in italiano non sempre è facile reggere il confronto. All’interno del disco ci sono alcuni capitoli dove questa sfumatura si fa sentire ma di certo nel complesso il tutto regge molto bene. Altro aspetto non facile per l’ascoltatore medio è un disco misto cantato e strumentale. Il cantato riesce a rivolgersi e coinvolgere un pubblico di certo più vasto, lo strumentale è forse per i più amatori. Probabilmente poteva essere una scelta alternativa dividere il lavoro in due, lasciando le canzoni con testo in un capitolo e gli strumentali in un altro…ma quando un’artista deve scegliere come meglio vestire il suo lavoro non ci sono regole precise.

Ci sono brani che potrebbero tranquillamente passare in radio e farsi strada nel circuito rock italiano. Nel disco si respirano ambientazioni diverse e atmosfere che spaziano davvero tanto e questo per il sottoscritto è sempre un aspetto positivo. Nel complesso davvero un disco interessante, dove la parte strumentale è notevole, le parti cantate ben fatte ma, come detto, davvero difficile staccarsi dal suono anglosassone della lingua inglese e trovare un vero valore nel cantato in italiano. Probabilmente, se fosse cantato in inglese il tutto potrebbe essere proposto ad un mercato internazionale, ma anche qui le scelte di un artista non si posso “criticare” sotto questo aspetto. Un trio davvero interessante capitanato da Franco Giaffreda che ci accompagna in un viaggio rock/prog davvero interessante.

Autore: Franco Giaffreda Titolo Album: Gli strani giorni di NOInessUNO
Anno: 2019 Casa Discografica: Autoproduzione
Genere musicale: Hard Rock, Progressive Rock Voto: 7
Tipo: CD Sito web: https://www.facebook.com/inoinessunodifrancogiaffreda/
Membri band:
Franco Giaffreda – chitarra, voce, flauto traverso
Walter Rivolta – batteria
Alessandro Cassani – basso
Tracklist:
1. Corri Con I Pensieri
2. In Un Vortice Di Eventi
3. Identità Confusa
4. Domande
5. Viaggiando Lontano
6. Anime Di Latta
7. Ladri Di Sogni
8. Solo
9. Dormiveglia
10. Incubo Notturno
11. Prima Del Risveglio
12. Ballata Di Nessuno
13. Alba Interiore
14. Ricominciare Ad Essere
Category : Recensioni
Tags : Hard Rock
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25th Nov2019

The Great Divide – Union Reloaded

by Gabriele Rusty Rustichelli
I The Gread Divide presentano il loro Union Reloaded, un album di 10 brani uscito per la Agoge Records. Ci troviamo alle orecchie una band che propone un alternative rock di tutto rispetto. Alcuni brani sono davvero all’altezza di una proposta internazionale come Bone, poi però ci sono altri brani che non sono nelle corde della band. Esempio, Killing Time, quinto brano del lavoro, ha degli spunti davvero interessanti ma non sviluppati nel migliore dei modi per quel che mi riguarda. Basso e batteria fanno il loro lavoro anche se nel disco la batteria non rende (non so se per questioni di mix o stile del batterista), rimane tutto nella media, i ragazzi suonano davvero bene, ma manca quello slancio per far dire “wow”. Le chitarre disegnano a volte ritmiche molto interessanti, nulla di troppo tecnico e nulla di scontato, semplicemente efficaci! Sempre citando Bone si alternano in riff ritmici e parti più “spedite” che rendono il brano davvero interessante. Il suono è davvero granitico. La voce si sposa bene con il genere ma anche qui alcune cose sono davvero belle e altre non convincono.

È strano, di solito trovo costanza nel “bello o brutto” di un disco, cioè…o è bello, o brutto oppure così così. In questo caso mi trovo davanti ad alcuni capitoli degni di nota e come detto all’altezza di un mercato internazionale. Altri momenti dove la “tensione” cala in modo considerevole. Dopo il quarto ascolto non ho compreso se è una questione di arrangiamenti, produzione o stile. Questa cosa mi porterà ad ascoltare il disco ancora più attentamente. Cosa che capita spesso è non comprendere alcune sfumature al primo impatto. I dischi che più ho amato li ho imparati a conoscere dopo 10 o 20 ascolti. Spesso quello che mi ha conquistato al primo ascolto mi ha stancato altrettanto velocemente. Per questo non mi sento di sbilanciarmi troppo in questo caso. La musica è piacevole e il songwriting è di qualità. Qualcosa non convince del tutto, ma il livello è alto.

Come al solito, spero di vedere questa band all’azione dal vivo e sono certo che potrebbe essere amore al primo ascolto.

Autore: The Great Divide Titolo Album: Union Reloaded
Anno: 2019 Casa Discografica: Agoge Records
Genere musicale: Hard Rock, Alternative Rock Voto: 6,5
Tipo: CD Sito web: http://www.facebook.com/TheGr8Divide/
Membri band:
Mauro Pala – voce
Pier Paolo Cianca – chitarra
Gabriele Sorrentino – chitarra
Alessio Ripani – basso
Vladimiro Melchiorre – batteria
Tracklist:
1. Rise
2. So Wrong
3. Love Sick Dog
4. Bone
5. Killing Time
6. Divided
7. Heroes
8. Bad Habits
9. Grinder
10. Sleeper
Category : Recensioni
Tags : Hard Rock
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10th Nov2019

Dream Company – The Wildest Season

by Raffaele Astore
Quando mi è giunto questo lavoro da recensire mi son chiesto se il nostro direttore avesse preso un abbaglio o gli frullava in quel momento qualcosa di diverso dal solito nella testa. Poi ho lasciato le mie letture preferite (e non vi dico quali!) e mi son messo all’ascolto di questa band, i Dream Company che, a discapito del nome che si son dati, sono in realtà italianissimi e, quindi, eccoci qui a parlare di questo piacevole esordio rock. I Dream Company hanno iniziato come band tributo a Bon Jovi nell’ormai lontano 2006 poi, con il tempo, la loro evoluzione stilistica li ha condotti a perfezionarsi fino a quando hanno deciso di mettere su supporto tutte le produzioni che nel frattempo avevano realizzato. Così giungono in questo fine anno, per dare alle stampe The Wildest Season. Certo, nell’album l’influenza di Bon Jovi si sente – e non potrebbe essere diversamente – ma i Dream Company sono comunque da lodare perché ce l’hanno messa tutta per uscire fuori da questa sorta di gabbia in cui sono rinchiusi. E lo dimostrano alcune tracce di The Wildest Season quali The Ghost, Land Of Freedom e Love Is Possession che raccolgono tutta la personalità di questa band nostrana che ha dalla sua una notevole esperienza live.

Certo, anche Liars, ultima traccia dell’album non è da meno, ma i Dream Company devono ancora succhiare di più il nettare della loro conoscenza musicale. The Wildest Season è un album comunque che si lascia ascoltare anche per uno come me più abituato a generi prog, e probabilmente ciò è anche dovuto al fatto che qui la musica proposta è il melodic metal, se fosse stato solo metal avrei detto che hanno davvero sbagliato destinatario per la recensione. I suoni sembrano diversi dal solito metal, da quell’hard più conosciuto, con quel tocco in più di personalità che mette in risalto l’esperienza di questa band nostrana che riceve ormai, da ogni parte, lusinghieri apprezzamenti. Ogni canzone qui racconta una storia come ad esempio in Scared To Be Loved o in Liars dove c’è sempre qualcuno arrabbiato, ma anche di quel qualcuno che ha la necessità di una sua piccola Revolution -brano di cui è stata tratta anche una clip – quella che, forse, ognuno di noi reputa utile.

Ma al di là dei messaggi che la band vuol far giungere attraverso i testi, un attento ascolto delle trame musicali ci fa capire che qui siamo alla presenza di arrangiamenti ricchi che sanno anche viaggiare bene sulle ali di una scrittura a volte delicata, a volte possente ma comunque rock. Come primo botto non c’è male.

Autore: Dream Company Titolo Album: The Wildest Season
Anno: 2019 Casa Discografica: Tanzan Music
Genere musicale: Melodic Hard Rock Voto: 7
Tipo: CD Sito web: https://www.dreamcompanyofficial.com/
Membri band:
Giulio Garghentini – voce
Enrico Modini – chitarra, tastiere
Stefano Scola – basso
Davide Colombi – batteria
Giulio Garghentini – cori
Mario Percudani – cori
Enrico Modini – cori in tracce 2, 5, 6, 8
Davide Colombi – cori in tracce 2,5
Mario Percudani – tastiere aggiuntive e archi in tracce 7, 10
Tracklist:
1. Days In Blue
2. Mine Mine Mine
3. Scared To Be Loved
4. Salvation
5. Revolution
6. River Of Love
7. The Ghost
8. Land Of Freedom
9. Love Is Possession
10. Liars
Category : Recensioni
Tags : Hard Rock
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18th Ott2019

Kingdom Come – Master Seven

by Giancarlo Amitrano
Mr Wolf non si smentisce: possessore di infinite frecce nel suo arco, non muta di una virgola il suo percorso e di conseguenza continua lungo la linea intrapresa ormai in tempi non sospetti e dopo riscontri positivi quale headliner in una fortunata tournée teutonica giunge alla stampa il sesto lenght in studio, con ancora nuovi innesti che paradossalmente non inficiano sulla qualità del prodotto. Un hard robusto che semina non poche “vittime” lungo la strada: a cominciare da Only Rainbows Know la band pesta con godimento e gradimento, in un brano tirato e con gli assoli a sei corde pronti ad innescarsi. More Restrictions e le sue intriganti tastiere quasi psichedeliche non deflettono dall’ammutolire un uditorio che ormai sa cosa aspettarsi dal Nostro: una timbrica inconfondibile, sempre Plantiana ovviamente, ma con quel tocco caratteristico non indifferente che rende magico qualsiasi traccia interpretata: in questo caso, è un mid tempo molto smaccato eppure trascinante, come la successiva Gonna Loose Her ed i suoi tempi assolutamente ben scanditi e ben ritmati. Grazie al Lupo, il brano diviene in fretta aggressivo e coinvolgente, con ancora un inatteso e piacevole refrain di tastiere, che ben si sposa con il cantato del mastermind.

La lunghezza di Can’t Let Go è ottimamente impiegata: le chitarre si intersecano magicamente, i tasti disegnano ancora mulinelli incantati che preludono all’ingresso della voce melodicissima del bravo singer. In pieno “trip” quasi medievale in alcuni passaggi, il brano diviene epico nei suoi passaggi volutamente accentuati e solidamente costruiti, tra i miglior non solo di questo album. Si prosegue con Slow Down ed il ritrovato vigore hard che si estrinseca nelle chitarre potenti ed in un refrain che resta bene in mente: riandando ai primi album della band, le similitudini non sono poche per quel che riguarda le ritmiche ed i tempi molto abilmente strutturati, ai quali segue un solo potente e nervoso. Una semiballad quella eseguita con Seen Enough: i tempi sono comunque concisi e non danno respiro pur in un contesto stavolta abbastanza rilassato, con Wolf a scandire bene testi di un certo peso, rafforzato da cori inaspettati e validi, come il malinconico e ottimo solo a sei corde. Dopo la reprise strumentale di Can’t Let Go con un cantato molto triste, si passa allo scandito ritmo di Gonna Try ed ancora il tempo rallentato della traccia, che ora è tutta Kingdom Come: belle slide che lasciano il posto ad intense elettriche che donano ancora magia al brano.

Can’t Fake Affection è un altro brano di spessore, con un ispiratissimo Wolf ad ergersi a protagonista su di un ritmo quasi “a pendolo” che anche grazie alle acustiche smaccatissime dona un successivo furore artistico al pezzo, che pare una suite affatto improvvisata, per bellezza ed esecuzione. Si torna a ritmi più energici con Bad I Am, altrettanto evidentemente consoni all’ugola del singer: senza incertezze trascina la traccia attraverso i sentieri più aggressivi e consoni alla band, che con la seguente e morbida High On Love torna a districarsi tra ritmi sereni e successive trame che ricordano un sano hard’n’roll di settantiana memoria. Si chiude con l’aggressività di Get Up My Friend (senza che il platter perda di energia e sostanza) e Roses che con la sua energia piazza l’ultima zampata ad un album ancora ampiamente sopra la sufficienza.

Autore: Kingdom Come Titolo Album: Master Seven
Anno: 1997 Casa Discografica: Viceroy
Genere musicale: Hard Rock Voto: 6
Tipo: CD Sito web: http://www.kingdomcome.de
Membri band:
Lenny Wolf – voce, chitarra
Markus Deml – chitarra
Oliver Klessner – chitarra
Mark Smithr – basso
Dion Murdock – batteria
Bjorn Tiemann – tastiere
Tracklist:
1. Only Rainbows Know
2. More Restrictions
3. Gonna Loose Her
4. Can’t Let Go
5. Slow Down
6. Seen Enough
7. Can’t Let Go (Director’s Cut)
8. Gonna Try
9. Can’t Fake Affection
10. Bad I Am
11. High On Love
12. Get Up My Friend
13. Roses

Category : Recensioni
Tags : Hard Rock
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11th Ott2019

Kingdom Come – Twilight Cruiser

by Giancarlo Amitrano
Proseguendo nella sua coerente linea musicale, Mr. Wolf pubblica a metà anni 90 un album che ancora risente degli influssi ormai stranoti, senza disdegnare le altrettanto famose influenze proprie che sono frutto di una “mestieranza” ormai consolidata. Ancora con una band del tutto nuova e priva di nomi di spicco, il Nostro riesce comunque ad offrire un platter più che degno, magari non da incensare ma sicuramente di apprezzamento. 12 tracce che scorrono via stavolta abbastanza facilmente, magari più del solito e senza picchi di sorta: stavolta non ci sono hit telluriche o spacca classifiche, ma solo brani onestamente interpretati e condotti con mano ferma e, come detto, coerente e lineare. Always On The Run e la sua slide iniziale ci restituiscono l’essenza primigenia della band, quella molto di cuore e con il cantato drammatizzato del mastermind, ben supportato dal resto della band, specie da una batteria tutta crash e timpani ben assestati. Law Of Emotions si incammina sui canoni classici dell’hard ottantiano, con una voce che stavolta ringhia letteralmente dal microfono, pur con una certa gentilezza, se possibile accentuata nella fase centrale per dare la stura al solo interessante a sei corde. La titletrack gode di un intro di tastiere decisamente “cinematografico” a presentare quasi lo scenario complesso del brano che si rivela una via di mezzo tra la ballad ed un semistrumentale che almeno all’inizio ci dona una band nel pieno delle capacita’ tecniche; la voce corre di conseguenza, ad interpretare il miglior brano dell’album, che con la seguente Janine raggiunge il top del lirismo, con acustica di sottofondo di tutto rispetto ed il singer eloquente nel proporre testi di assoluto valore, senza perdere in energia, stavolta mixata ad una buona tecnica di sottofondo.

Hope Is On Fire è bella tosta: Wolf dimostra di saper anche urlare quando necessita, mentre i compagni di merende divengono in questa occasione freschi seguaci di band metal all’estremo, sia nella ritmica sia nell’esecuzione di un solo centrale davvero fresso di metallo. Thank You All ed ancora le liriche ingannatrici del cantato: pare trovarsi ancora di fronte ad una ballad, mentre i toni divengono in fretta aggressivi ed intensi, singer compreso; sempre nell’ambito di brani abbastanza semplici, non è da disprezzare tuttavia la bravura della band nel cambiare in fretta le tempistiche. Rather Be On My Own è, nella sua relativa brevità, una traccia ancora interessante per le slide azzeccate ed i giri di tastiere che dipingono un brano triste ed intenso, tipico del Sig. Wolf, che con il brano Cant’ Put Out And Not Take Back piazza un quasi mid tempo di sicura riuscita, non il classico brano rallentato, ma anche una dimostrazione di cambi di marcia all’interno di una stessa traccia, qui eseguita con maestria e tecnica ancora sorprendente, specie nella chitarra infuocatissima. Cold Ground è traccia adattissima all’ugola del tedescone: cantastorie ormai consolidato, si destreggia più che bene tra le note di un brano sognante e dalle cadenze ormai note eppure sempre sorprendenti, grazie alla perizia di interpreti pur misconosciuti.

I Don’t Care piace per l’eclettismo delle battute a sei corde, che ben si inframezzano con un drumming nervoso e tuttavia puntuale, adatto alla tonalità impressa dal canto alla traccia, per il resto (purtroppo) trascurabile. Con Gonna Change restiamo su coordinate note, basate su mid e rullanti ben assestati, ormai verso la conclusione, il cantato non muta di una virgola, con pregi e difetti del caso: non ci si attende nulla di nuovo da quanto puntualmente poi si avvera nel corso del brano, pur segnalato qui per un signor solo centrale di tutto l’apparato a sei corde, stavolta addirittura un terzetto. Si chiude con il lentissimo Should Have Known che, proprio a causa della sua marcia rallentata, stavolta non si fa proprio rimpiangere: ed è un peccato perché anche stavolta Wolf e Co. sono ancora protagonisti di una buona esecuzione, all’interno di un album non proprio stratosferico ma onesto, per quello che possa valere l’onestà ai fini di una valutazione obiettiva.

Autore: Kingdom Come Titolo Album: Twilight Cruiser
Anno: 1995 Casa Discografica: Viceroy Records
Genere musicale: Hard Rock Voto: 6
Tipo: CD Sito web: http://www.kingdomcome.de
Membri Band:
Lenny Wolf – voce, chitarra
Markus Deml – chitarra
Oliver Kiessner – chitarra
Mirko Schaffer – basso
Kai Fricke – batteria
Bernd Fintzen – tastiere
Tracklist:
1. Always On The Run
2. Law Of Emotions
3. Twilight Cruiser
4. Janine 5. Hope Is On Fire
6. Thank You All
7. Rather Be On My Own
8. Can’t Put Out And Not Take Back
9. Cold Ground
10. I Don’t Care
11. Gonna Change
12. Should Have Known
Category : Recensioni
Tags : Hard Rock
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