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10th Ago2019

Vanden Plas – Colour Temple

by Fabio Loffredo
I Vanden Plas sono una band tedesca, precisamente di Kaiserslautem, nata verso la fine degli anni ottanta. Nel 1991 scrissero due brani per la squadra di football della loro città dal titolo Keep On Running e Das Ist Fur Euch e tutti i membri della band hanno partecipato a vari e importanti musical come Jesus Chtrist Superstar, The Rocky Horror Show, La Piccola Bottega Degli Orrori e Evita. Fonte d’ispirazione sono state sicuramente band come Queensryche, Fates Warning e Dream Theater e sono riusciti ad imporsi subito in un periodo dove regnava il crossover e il grunge e due anni dopo l’uscita di Images And Words, quindi in un periodo difficile. Ma il loro primo album, Colour Temple del 1994 convinse subito pubblico e critica, seppur voltandosi esclusivamente verso il progressive metal. Colour Temple è un album che metteva in grande risalto le abilità tecniche e strumentali dei vari ragazzi della band e anche una preparazione nella scrittura e composizione, tutte abilità che li porteranno molto lontano, anche se fino ad oggi il nome Vanden Plas è sempre considerato, a torto, in secondo piano. Aperture sinfoniche e da orchestra, un riff stoppato di chitarra, che si trasforma poi in un riff metal anni ottanta, sono caratteristiche che aprono Father, ottimo brano dove però la parola prog è ancora molto timida; bello il ritornello con la voce ancora un po’ aspra di Andy Kuntz e avvolgente è il rallentamento più progressivo dove ad emergere è stavolta il pianoforte dei Gunter Werno, ma anche le sue tastiere. Subito dopo arriva il grintoso guitar solo di Stephan Lill e a seguire c’è Push, brano ancora più metal in cui Stephan Lill si lascia andare in un assolo di chitarra più violento e virtuoso.

La terza traccia è When The Wind Blows, più lunga dei precedenti, più di sette minuti e le influenze arrivano dai migliori Queensryche, ci sono cambi di tempo e il lavoro tastieristico di Werno è di alto livello. Andando avanti incontriamo My Crying, brano cadenzato con basso pulsante, molto belli sono gli orpelli chitarristici che rendono il brano melodico e trascinante allo stesso momento; ancora Soul Survives, il brano più lungo e più prog di Colour Temple, nove minuti dove i Vanden Plas fanno capire che di loro se ne parlerò molto. L’inizio del brano è atmosferico e arioso con un pianoforte e archi campionati che accompagnano la voce di Kuntz con fare molto sinfonico e barocco, la piccola suite cresce e diventa più articolata e ogni componente della band teutonica mette in mostra tutte le proprie potenzialità. Ci sono altri ottimi brani come Anytime, dalle splendide aperture acustiche, una ballad romantica a atmosferica e con uno spettacolare assolo di chitarra, come Judas, dove la band si riappropria di un sound più metal e veloce.

Chiudono il CD Back To Me, brano che parte con un sound vicino al metal classico, ma che nella parte centrale torna ad essere più prog grazie ad un bell’assolo di tastiere e How Many Tears, altro lungo brano di quasi otto minuti e mezzo, dove c’è tutto il futuro che verrà della band tedesca: metal, progressive, melodia, tecnica strumentale e un grande gusto musicale. La band viene accolta molto bene e continuerà a scrivere ottimi album.

Autore: Vanden Plas Titolo Album: Colour Temple
Anno: 1994 Casa Discografica: Limb Music, Dream Circle Records
Genere musicale: Progressive Metal Voto: 8
Tipo: CD Sito web: https://www.vandenplas.de
Membri band:
Andy Kuntz – voce, cori
Stephan Lill – chitarra, cori
Gunter Werno – tastiere, cori
Andreas Lill – batteria
Torsten Reichert – basso

Special guest:
Robert Kohlmeyer – cori
Miriam Bonmarchand – cori
Tracklist:
1. Father
2. Push
3. When The Wind Blows
4. My Crying
5. Soul Survives
6. Anytime
7. Judas
8. Back To Me
9. How Many Tears
Category : Recensioni
Tags : Progressive, Vanden Plas
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08th Ago2019

Lo Zoo Di Berlino – Resistenze Elettriche

by Amleto Gramegna
Lo Zoo di Berlino torna con un nuovo lavoro concepito prevalentemente per il formato vinile: il sacrosanto formato vinile, che oggi ha trovato nuova vita. 4 brani live contrapposti a 4 brani in studio, con il gruppo che, nella prima parte registrata nel corso di un tour in Emilia Romagna, in occasione del progetto Materiale Resistente 2.0, può contare sul fondamentale apporto di uno dei personaggi simbolo dell’Italia anni ’70, Patrizio Fariselli, tastierista e anima degli Area International POPular Group. Dei quattro brani incisi live, tre sono infatti proprio classici della band milanese, ed il trio, con la complicità del Maestro Patrizio, si diverte a modificarli, a giocarci per renderli più nuovi e fruibili alle nuove generazioni. L’Internazionale, L’Elefante Bianco e Arbeit Mach Frei, vecchi cavalli di battaglia di una Italia ormai lontana e irriconoscibile, vengono affrontati, decontestualizzati sotto gli occhi (e le mani) vigili di Fariselli; lo immaginiamo lì beffardo, a violentare volontariamente le sue vecchie creature, appartenute una volta ad una divinità chiamata Demetrio, traendone nervose improvvisazioni recepite e mangiate dal resto dello Zoo.

Non mancano piccoli richiami ad altri capolavori dell’International POPular Group, aspersi al vento qui e lì nei tre brani. E il gruppo si diverte, ne siamo certi. Chiude la facciata live il brano Aria, tratto dall’ultimo lavoro solista di Fariselli, 100 Ghosts.

I brani in studio vedono l’assenza del maestro, in favore di un inusuale caos. Frammenti psichedelici, rumoristi si accavallano e si scontrano tra loro, vedi De Waiting War, dove alla sezione ritmica si accompagna un intonarumori del futurista Luigi Russolo. Dal futurismo si arriva a Ganz Egal Macela Lagarde, omaggio new wave al femminismo con la partecipazione di Christiane Felscherinow (ossia Christiane F. sempre per rimanere in tema – ehm – Zoo di Berlino) con delle outtakes di alcune su vecchie registrazioni. Chiude il disco una granitica e personale versione di Bella Ciao, guidata dal basso di Diego Pettinelli. Un disco importante, ben studiato, registrato e pensato, non è da meno l’artwork, curato da Mauro Biani, fumettista e illustratore il quale con la sua opera mette il cosiddetto sigillo di qualità al lavoro.

Autore: Lo Zoo Di Berlino Titolo Album: Resistenze Elettriche
Anno: 2019 Casa Discografica: Consorzio ZdB
Genere musicale: Progressive, Rock, New Wave Voto: 8
Tipo: CD Sito web: http://www.lozoodiberlino.com
Membri band:
Massimiliano Bergo – batteria
Andrea Pettinelli – tastiera
Diego Pettinelli – basso

Special guest:
Patrizio Fariselli – tastiere
Tracklist:
1. Internationale Impro
2. Elephant Blanc Impro
3. Arbeit Impro
4. Aria
5. De Waiting War
6. Control Freak
7. Ganz Egal Marcela Lagarde
8. Bella Ciao
Category : Recensioni
Tags : Progressive
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06th Ago2019

Campo Magnetico – Quali Kiwi?

by Alberto Lerario
Li vuoi quei Kiwi?, Quali Kiwi? I Campo Magnetico rispondono al loro primo album con un’altra domanda, forse conseguenza di un flusso di pensieri lisergico musicali espressi, ça va sans dire, con un progressive rock psichedelico con qualche vitamina in più, giusto per ringiovanire il sound. Entrano in gioco infatti anche strumenti come glockenspiel e monotron per tessere trame digital noise, su cui il flauto di Gianni Carlin, vero elemento psichedelico, svolazza distorto e frenetico (anche più del buon Ian Anderson dei Jethro Tull) cucendo come un filo colorato il tessuto ritmico. A differenza del primo disco, in questo album Carlin si cimenta anche con la voce, e se da un lato il risultato non è proprio entusiasmante, dall’altro possiamo apprezzare la scrittura surreale e ostentatamente ricercata (come si può facilmente immaginare dai titoli dei brani) che conferisce un’aura sofisticata e un po’ dandy ai tre pezzi in cui è presente anche la traccia vocale.

Nelle interminabili discussioni da pub, in cui la birra rende una guerra di quartiere l’annoso confronto tra chi predilige la musica classica (rock) e chi invece è sempre alla ricerca del nuovo, Quali Kiwi? può essere considerata un’ottima terra di mezzo dove firmare un armistizio. Certo dato il tipo di proposta non piacerà a chi solitamente è abituato a rifornirsi presso i fast food musicali, ma per tutti gli altri che hanno voglia di soffermarsi a gustare il prodotto c’è sicuramente del materiale da cui trarre piacere ed ispirazione, soprattutto ricordandosi che l’album è stato ottimamente autoprodotto.

Autore: Campo Magnetico Titolo Album: Quali Kiwi?
Anno: 2019 Casa Discografica: Autoproduzione
Genere musicale: Progressive Rock Voto: 6,5
Tipo: CD Sito web: https://www.facebook.com/magneticocampo
Membri band:
Gianni Carlin – voce, flauto traverso, glockenspiel e monotron
Emmanuele Burigo – chitarra
Enrico Tormen – batteria
Antonio Nabari – basso
Tracklist:
1. Per Uviani
2. La Mano Del Morto
3. Bacco Ti Estirpa La Vite
4. Quella Che Cominci Tu
5. La Luna È Meno Lunatica
6. Zucca E Diavolina
7. Sei Meno Un Quarto Alle Otto
8. Maniaci
9. Calcestrutto
Category : Recensioni
Tags : Progressive
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03rd Ago2019

Steven Wilson – Home Invasion: In Concert At The Royal Albert Hall

by Fabio Loffredo
To The None, l’ultimo album in studio di Steven Wilson, non è stato accolto molto bene da pubblico e critica, per quella svolta pop ma annunciata prima. Critiche negative che lasciano il tempo che trovano, perché To The Bone non è altro che la conferma della genialità del musicista inglese, riuscire a rendere il pop, specialmente quello inglese degli anni ottanta, fruibile ai cultori del progressive, non è impresa semplice, ma ascoltandolo con attenzione ci si accorge che racchiude perle di rara bellezza. Non poteva mancare il tour di supporto e la data in questione è del marzo 2018, l’ultima data dei tre concerti svoltasi a Londra alla Royal Albert Hall, meraviglioso teatro per il suo significato storico, ma anche per la sua importanza nel mondo del rock e delle musica. Un concerto magico e spettacolare per la sua bellezza, la sua perfezione e per la grande professionalità di tutti i componenti della band che accompagnano Steven Wilson e il risultato è Home Invasion: In Concert At The Royal Albert Hall.

Logicamente molti brani eseguiti sono estratti da To The Bone come la meravigliosa Pariah, cantata da Wilson insieme a Ninet Tayeb e altri presi da tutti gli album da solista, solo per citarne alcuni, Vermillioncore e The Raven That Refused To Sing. Spazio è stato dato anche alla reinterpretazione dei brani dei Porcupine Tree come Lazarus, The Creator Has A Mastertape, la splendida Arriving Somewhere But Not There, Sleep Together e The Sound Of Muzak, mai è stato dedicato tanto spazio nei suoi concerti da solista ai brani della band che lo ha portato al successo, segno che forse un ritorno dei Porcupine Tree potrebbe essere vero. Quale sarà il futuro? Un nuovo album da solista di Steven Wilson o il ritorno dei Porcupne Tree? Vedremo.

Autore: Steven Wilson Titolo Album: Home Invasion: In Concert At The Royal Albert Hall
Anno: 2018 Casa Discografica: Eagle Records
Genere musicale: Progressive Rock Voto: 9
Tipo: CD/DVD/BR Sito web: http://stevenwilsonhq.com
Membri band:
Steven Wilson – chitarra, voce, tastiere
Nick Beggs – basso, chapman stick, cori
Craig Blundell – batteria
Adam Holzman – tastiere
Alex Hutchings – chitarra, cori
Ninet Tayeb – voce
Tracklist:
Disc 1:
1. Truth (Intro)
2. Nowhere Now
3. Pariah
4. Home Invasion/Regret #9
5. The Creator Has A Mastertape
6. Refuge
7. People Who Eat Darkness
8. Ancestral
9. Arriving Somewhere But Not Here
Disc 2:
1. Permanating
2. Song Of I
3. Lazarus
4. Detonation
5. The Sam Asylum As Before
6. Song Of Unborn
7. Vermillioncore
8. Sleep Together
9. Even Less
10. Blank Tapes
11. The Sound Of Muzak
12. The Raven That Refuse To Sing
DVD/Blue Ray:
1. Truth (Intro)
2. Nowhere Now
3. Pariah
4. Home Invasion/Regret #9
5. The Creator Has A Mastertape
6. Refuge
7. People Who Eat Darkness
8. Ancestral
9. Arriving Somewhere But Not Here
10. Permanating
11. Song Of I
12. Lazarus
13. Detonation
14. The Sam Asylum As Before
15. Song Of Unborn
16. Vermillioncore
17. Sleep Together
18. Even Less
19. Blank Tapes
20. The Sound Of Muzak
21. The Raven That Refuse To Sing
Rehearsal Tracks
22. Routine
23. Hand Cannot Erase
24. Heartattack In A Layby
25. Interview
Category : Recensioni
Tags : Progressive
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30th Lug2019

Emanuele Bodo – Unsafe Places

by Marcello Zinno
Emanuele Bodo è un chitarrista e un appassionato di progressive (rock e metal). Unsafe Places è l’album del suo progetto, un progetto solista, strumentale, prog metal, pensato e composto da un chitarrista. Questo nella maggior parte dei casi dovrebbe bastare per far già capire l’approccio musicale seguito nell’album e Emanuele non fa eccezione. Nessuna sorpresa, le 7 tracce incluse in Unsafe Places abbracciano il prog metal moderno, mettono la chitarra al centro della scena (anche se apprezziamo ottimi arrangiamenti tastieristici); tutta l’attenzione è sui pattern prog che sono costruiti su riff granitici e su assoli, entrambi irrobustiti da una davvero ottima dose di tecnica. Nessuna linea vocale ad “addolcire” l’ascolto, tanti solos (praticamente quasi tutti alla chitarra) mentre gli altri strumenti, molto compatti e sinergici, fanno quello che va fatto in un album in stile “guitar hero”, cioè fanno per lo più da cornice. Questa è una visione puramente artistica del progetto, se dovesimo scomporre le singole parti da un punto di vista prettamente musicale dobbiamo sicuramente evidenziare la perizia tecnica, come detto per le tastiere e per le orchestrazioni, nonché la produzione che risulta davvero moderna e impattante, tanto in alcuni frangenti da dare l’impressione di sconfinare nel djent.

Noi ci vediamo molto dello stile dei Dream Theater nell’attenzione compositiva e in un certo appiglio chitarristico (evidente in particolare nell’opener e nella parte melodica di Landing To Giza), non si tratta di una somiglianza vera e propria ma di una sorta di “scuola”, di una formazione che Emanuele Bodo ha fatto ascoltandoli tantissimo e inglobandoli nel proprio stile espressivo, almeno questa è la nostra sensazione. Challenger Deep è un pezzo davvero molto ben costruito, in cui si coglie qualcosa in più rispetto ai soliti riff “schiacciaossa” e The Omen è un brano in cui al contrario il metal prende il sopravvento e un’ombra dal nome Meshuggah sembra comparire a distanza. Nel complesso Unsafe Places è un album che nel suo contesto ha davvero molto da dire, compatto, ben prodotto e decisamente tecnico. Per chi ama il genere è assolutamente consigliato, ma al di fuori di questo contesto difficilmente riuscirà ad avvicinare nuovi fan.

Autore: Emanuele Bodo Titolo Album: Unsafe Places
Anno: 2019 Casa Discografica: Ænima Recordings
Genere musicale: Prog Metal, Strumentale Voto: 7
Tipo: CD Sito web: http://www.emanuelebodo.com
Membri band:
Emanuele Bodo – chitarra
Mattia Garimanno – batteria
Davide Cristofoli – tastiera
Carlo Ferri – basso
Tracklist:
1. Black Dunes
2. House Of 9
3. Challenger Deep
4. Landing To Giza
5. 2 Strangers
6. The Omen
7. Chernobyl
Category : Recensioni
Tags : Progressive
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29th Lug2019

Underwing – Spirals

by Marcello Zinno
Arrivano dalla Norvegia e guardando le statistiche di streaming sulle note piattaforme gli Underwing sono una realtà da tenere sott’occhio. Si presentano a noi con un nuovo EP dal titolo Spirals, quattro tracce infuocate che a nostro parere si piazzano con assoluta agiatezza nel prog metal moderno di forte impatto. Pur se presentati (a ragion dovuta) come una realtà che attinge dalla cupezza dei Black Sabbath e dall’impatto vocale ispirato al grunge, a nostro parere non c’è altro genere se non il prog metal per far capire la proposta dei Nostri che già dall’opener si divincolano in pattern ritmici stoppati e asimmetrici. We Lie Awake è un brano decisamente più pesante, sembra sfiorare alcune lande djent, ma la realtà è che il prog oscuro regna sovrano anche in questi 5 minuti, con un alone “post” che rende il brano molto piacevole anche per chi ama Tool et similia. Bellissimo il chorus che dopo strofe piene di “stop and go” fa respirare il brano e rende molto più appetitosa all’orecchio la riuscita del sound, potente e crepuscolare anche Caveman, altro momento con un chorus killer (e un finale incendiario) che si attacca alla pelle e non molla, anche se si predilige il rock alle sonorità metal.

La titletrack parte come una sorta di ballad per poi diventare cattiva sul finale, brano in cui la band si destreggia (molto bene) con un altro approccio compositivo che non guarda solo al pentagramma e a come affrontarlo in maniera audace, ma fa delle melodie e delle languide sezioni delle carte vincenti che possono far scommettere circa un futuro maturo e roseo per il quintetto. Noi non vediamo l’ora di vederli rapportarli con un full-lenght ancora più complesso e ricco.

Autore: Underwing Titolo Album: Spirals
Anno: 2019 Casa Discografica: Pinecone Records
Genere musicale: Prog Metal Voto: s.v.
Tipo: EP Sito web: http://www.underwing.band
Membri band:
Enyeto Kotori
Joachim Walle Michalsen
Thomas Myhren
Jesper Murphy
Magnus Christiansen
Tracklist:
1. All Rise
2. We Lie Awake
3. Spirals
4. Caveman
Category : Recensioni
Tags : Progressive
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28th Lug2019

Quella Vecchia Locanda – Il Tempo Della Gioia

by Raffaele Astore
Ma Il Tempo Della Gioia può o no essere considerato un disco classico? Registrato nel 1974 con una formazione diversa da quella dell’esordio tranne Giorgi, Roselli, Cocco, il secondo disco di Quella Vecchia Locanda mantiene ancora la forza del classico pur orientandosi verso un progressive più concettuale con un sinfonismo da brividi già dall’avvio. Infatti, Villa Doria Pamphili, pezzo introduttivo, si avvia con un pianoforte, una chitarra acustica ed un violino che giocano nel tessere la piacevole armonia che coinvolge nell’ascolto. Certo qui l’atmosfera, con gli eleganti giri di tastiere, ha uno timbro quasi baroccheggiante con la voce di Giorgio Giorgi che si supera in interpretazione. Questo nuovo disco di Quella Vecchia Locanda rispetto al precedente è quasi una svolta, dal rock dell’esordio siamo in pieno periodo classic prog che ci consente di dire quanto la band sia effettivamente maturata. Il salto dal primo pezzo ad un barocco stile minimale ce lo dà A Forma Di… con violino e clavicembalo che ricordano appieno certe sinfonie tardo gotiche. Purtroppo, anche se il brano con l’inserimento di un coro sembra avviarsi verso una specie di suite, lo stesso raggiunge troppo presto per i nostri gusti i livelli di estasi e grandezza che ci aspettavamo. Un taglio di cui sinceramente la band avrebbe potuto farne a meno, anche se qui lo zampino della produzione sembra aver fatto la sua parte.

Il Tempo Della Gioia è sicuramente il pezzo che offre il maggiore apporto all’intero lavoro: avvio tipicamente sinfo-poetico seguito da un’elettricità ed un jazz rock contaminato che fanno da contraltare ai precedenti suoni che questo disco ci ha dato finora. Il grande lavoro al basso di Massimo Giorgi e quello di Roselli alle tastiere fanno di questo pezzo una piccola suite di teatralità musicale da cui affiora un eccellente gusto per la ricercatezza nei suoni ai quali la band ci mette molta attenzione. Anche con Un Giorno Un Amico sembra di essere introdotti nei sfavillanti suoni paganiniani e di tutto il disco questo è il momento di protagonismo assoluto dello strumento a quattro corde in quinta. Qui il tempo pentagrammatico non è mai lo stesso, come non lo erano quelli del Paganini nostrano, probabilmente primo incontrastato re del rock che verrà; tutti gli aspetti della loro musica sono proprio qui, in questo fantastico pezzo che non lesina addirittura nelle sperimentazioni di pure jazz. Con È Accaduto Una Nottel’equilibro tra rock ed un certo folk alla Jethro Tull sono evidenti così come lo sono le progressioni che questo disco offre.

C’è da dire che Il Tempo Della Gioia è la sublimazione di tutto un percorso che la band di Monteverde, in provincia di Roma, compì nei quattro anni di attività in cui fu una delle protagoniste assolute della scena progressive italiana. In sostanza, Quella Vecchia Locanda aveva un orientamento musicale incentrato su partiture complesse con tastiere e pianoforte in primo piano per un inconfondibile classicismo che contraddistinse quella che noi, oggi, non lesiniamo a definire genialità. Questo è un disco essenziale per capire come il prog italiano abbia affondato le sue radici nella musica classica ed in quella sinfonica. Ed anche se ci sono stati altri gruppi rock artefici anche del fulgido periodo anni settanta, è davvero una gioia, dopo tanto tempo, aver riascoltato Il Tempo Della Gioia per scrivere questa recensione. Ma resta ancora da dare la risposta alla domanda iniziale che non può che essere una sola: qui siamo davvero di fronte ad un classico che resterà tale nel tempo.

Autore: Quella Vecchia Locanda Titolo Album: Il Tempo Della Gioia
Anno: 1974 Casa Discografica: RCA
Genere musicale: Progressive Rock, Rock Sinfonico Voto: 7
Tipo: LP Sito web: https://www.facebook.com/Quella-Vecchia-Locanda-111404205542540/
Membri band:
Giorgio Giorgi – voce, flauto Raimondo
Maria Cocco – chitarre, voce, clarinetto
Massimo Roselli – tastiere, voce
Claudio Filice – violino
Patrick Traina – batteria, percussioni
Massimo Giorgi – basso
Tracklist:
1. Villa Doria Pamphili
2. A Forma Di…
3. Il Tempo Della Gioia
4. Un Giorno, Un Amico
5. È Accaduto Una Notte
Category : Recensioni
Tags : Album del passato, Progressive
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27th Lug2019

Steven Wilson – Last Day In June (The Complete Game Soundtrack)

by Fabio Loffredo
Last Day In June è uno di quei lavori fantasmi, perché parliamoci chiaro, la musica digitale, la musica liquida è musica fantasma, non c’è niente di fisico da poter consultare, sia in CD che il LP, ma sono note che vengono inserite in un cellulare, nei giorni di oggi oramai si usa solo quello, il lettore mp3 è anch’esso obsoleto. Ma Last Day In June è un’uscita molto importante e bisogna dare atto a Massimo Garini che nei suoi studi Ovosonico, ha creato un video game con i personaggi che appaiono nel video di Drive Home. In un primo momento Steven Wilson non era interessato alla cosa, ma sicuramente rivedendo il tutto, cambia idea e fornisce una colonna sonora, rielaborando alcuni brani tratti dai suoi album da solista ed altri, quelli più sperimentali dal progetto Bass Communion. Some Things Cannot Be Changed è qui in versione lenta e con arpeggi di chitarra acustica e That Day By The Pier è in una versione proprio da colonna sonora, anche se poi si riconoscono melodie già sentite nei lavori del musicista inglese; There Must Be A Way è breve, poco più di un minuto e sperimentale. Si allungano le durate dei brani e The Last Day In June, che dà il titolo all’album ha una durata che oltrepassa gli otto minuti ed è uno strumentale avvolgente che ripesca sempre da melodie dei suoi quattro album, molto progressivo e pinkfloydiano, più che altro quando la chitarra di Wilson si lascia andare in un toccante e melodico assolo di chitarra.

A seguire brevi tasselli che impreziosiscono questo affascinante puzzle, Suspended In Me, Driving Home, I’m Still Here…, The Boy Who Lost His Friends e The Crib, tutti trasformati in interludi musicali per dare una vera impressione di colonna sonora, il tutto di circa un minuto o poco più, tra momenti sperimentali ed altri più progressivi e romantici. C’è poi ancora Time For A New Start, con l’intro pianistico timido e nostalgico e Sospended In You, breve ma efficace. Altri quattro brani prima della fine, Under The Shadow Of My Father, Accept, Deceive e Together, Forever Again, tutti che vengono trasformati ed adattati a musica da colonna sonora e il risultato è dei migliori. Si spera che un giorno Steven Wilson decida di dare anche una forma a questa colonna sonora che sia in CD o in LP, oppure in tutte e due i formati, perché merita.

Autore: Steven Wilson Titolo Album: Last Day In June (The Complete Game Soundtrack)
Anno: 2017 Casa Discografica: Steven Wilson Records
Genere musicale: Progressive Rock, Colonna Sonora Voto: 7,5
Tipo: Digitale Sito web: http://stevenwilsonhq.com/
Membri band:
Steven Wilson – programmazione, campionamenti, voce, tutti gli strumenti
Tracklist:
1. Some Things Cannot Be Changed
2. That Day By The Pier
3. There Must Be A Way
4. The Last Day In June
5. Suspended In Me
6. Driving Home
7. I’m Still Here…
8. The Boy Who Lost His Friends
9. The Crib
10. Time For A New Start
11. Suspended In You
12. Under The Shadow Of My Father
13. Accept
14. Deceive
15. Together, Forever Again
Category : Recensioni
Tags : Progressive
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20th Lug2019

Steven Wilson – To The Bone

by Fabio Loffredo
Dopo aver esplorato in lungo ed in largo tutto l’universo del rock progressivo degli anni settanta e ottanta, Steven Wilson con To The Bone, il suo quinto album da solista, si avvicina al pop “intelligente” di gruppi come Ultravox, Tears For Fears, Talk Talk, ma anche Peter Gabriel e Kate Bush, gruppi e solisti che ci hanno accompagnato per tutti gli anni ottanta: un po’ per l’aver vissuto gli anni ottanta musicalmente quando il musicista inglese era più giovane, un po’ per aver rimasterizzato gli album dei Talk Talk e possiamo anche dire un po’ per avere vicino un musicista come Nick Beggs che negli anni ottanta era bassista dei Kajagoogoo. To The Bone è un ottimo brano dalle tinte molto pinkfloydiane, periodo The Dark Side Of The Moon, e ha affascinanti cori femminili e un lavoro di chitarra molto fantasioso. Nowhere Now ha parti melodiche ed altre più aggressive, è un brano che spesso ci riporta ai Porcupine Tree e ancora Pariah, brano che sa emozionare per le sue melodie malinconiche e con la splendida voce di Ninet Tayeb che duetta con Steven Wilson in un crescendo che evoca forte emozioni grazie all’apparente suono di un mellotron in lontananza.

A seguire c’è The Same Asylum As Before, dall’accento molto pop, ma quel pop creativo e mai banale, con la voce in falsetto e aperture sinfoniche e un guitar solo dall’accenno gilmouriano; segue Refuge, strano brano tra pop, progressive, world e blues e ad impreziosire il tutto, oltre alle splendide melodie e sonorità, l’armonica a bocca di Mark Feltham. Si va avanti con altri ottimi brani come Permanating, brano relativamente breve, un pop colto e raffinato, dove pop, rock, beat e Abba, Beatles, Talk Talk e Tears For Fears convivono in maniera perfetta e con Blank Tapes, brano lento ed intimista in cui affiora anche il dolce suono di un flauto. Torna il rock progressivo e gli Yes in modo particolare in People Who Eat Darkness, mentre il pop elettronico di storiche band degli anni ottanta come Ultravox, Freurs e Visage è l’influenza principale di Song Of I. Ci sono altri due brani, i nove minuti e mezzo di Detonation, dove progressive ed elettronica sono una fusione perfetta, ma non mancano incursioni nel progressive metal e nel prog dei King Crimson e Song Of Unborn, lenta ballad progressive e romantica e con un crescendo musicale da brividi.

Un album che ha fatto discutere e storcere il naso ai puristi, ma To The Bone è un ottimo album, a tratti geniale e che mette in grande risalto la versatilità di Steven Wilson.

Autore: Steven Wilson Titolo Album: To The Bone
Anno: 2017 Casa Discografica: Caroline Records
Genere musicale: Progressive Rock Voto: 8,5
Tipo: CD Sito web: http://stevenwilsonhq.com/
Membri band:
Steven Wilson – voce, chitarra, basso, mellotron M4000, arrangiamenti cori, programmazione
Ninet Tayeb – voce nei brani 3, 7 e 8, cori nei brani 1, 4 e 6
David Kollar – chitarra nei brani 9 e 10
Mark Feltham – armonica nei brani 1 e 5
Craig Blundell – batteria nei brani 3,8,9 e 11
Jeremy Stacey – batteria nei brani 1, 2, 4, 5, 6 e 10
Jasmine Walkers – voce nel brano 1
Adam Holzman – pianoforte, organo Hammond, clavinet, pianoforte wurlitzer, solina strings, Fender Rhodes, minimoog
Paul Draper – oberheim sequencer nel brano 1
Pete Eckford – percussioni nei brani 1, 2, 6 e 10, tamburello nel brano 8
Dave Kilminster – cori nei brani 1, 2, 4 e 11
Dave Stewart – arrangiamento strumenti ad arco nei brani 2, 4, 9 e 10
Robin Mullarkey – basso nei brani 4 e 10
The London Session Orchestra – strumenti ad arco nei brani 4, 9 e 10
Paul Stacey – chitarra nel brano 5
Necro Deathmort – programmazione e trattamenti vocali nel brano 5
Nick Beggs – basso nel brano 6
Sophie Hunger – voce nel brano 9
Synergy Vocals – cori nel brano 11
Tracklist:
1. To The Bone
2. Nowhere Now
3. Pariah
4. The Same Asylum As Before
5. Refuge
6. Permanating
7. Blank Tapes
8. People Who Eat Darkness
9.Song Of I
10. Detonation
11. Song Of Unborn
Category : Recensioni
Tags : Progressive
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14th Lug2019

Renaissance – Ashes Are Burning

by Raffaele Astore
I Renaissance hanno una lunga storia che dura ormai da ben cinquant’anni a partire dalla stessa fondazione della band risalente al 1969. Insomma, un po’ come se fossero sbarcati sulla luna anche loro prima che lo facesse, sempre in musica, un certo David Bowie con il suo Major Tom. Ma non divaghiamo perché abbiamo tante cose da fare in questa splendida giornata estiva di solo sole. I Renaissance sin dai primi anni della formazione hanno evoluto il loro sound fino a trasformarlo in una splendida fusione tra folk, rock, classica ed un sinfonismo orchestrale non lascia indifferenti. A questo è necessario aggiungere la voce di Annie Aslam, notevole ma anche abbastanza singolare, che viaggia su tonalità da cinque ottave e che completano un sound compatto e piacevole all’ascolto. La storia successiva viaggia poi tra abbandoni e ricongiungimenti ma per ora dedichiamoci all’ascolto di questo bellissimo Ashes Are Burning pubblicato nel 1973 per conto dell’etichetta discografica Sovereign Records. Indicato dalla rivista Rolling Stones come uno degli album più belli di tutti i tempi, stavolta la rivista statunitense ci trova perfettamente in linea con questa opinione fino ad un certo punto perché, riteniamo che di album belli ve ne siano diversi, ma è molto probabile che molti amanti del genere progressive siano d’accordo con l’affermazione della rivista. Comunque non riusciamo ancora a capire come mai una tra le band più sottovalutate dalla stampa in particolare, abbia in realtà potuto poi sfornare uno degli album che è comunque considerato tra migliori nella storia del progressive rock.

Ashes Are Burning, resta invece per la sua particolarità, una tra le migliori incisioni nella storia di quel genere che viaggia tra folk, progressive e rock sinfonico. E poi la splendida voce di Annie Aslam è davvero all’altezza di altre grandi come lei come ad esempio l’immensa Grace Slick dei Jefferson Airplane. Can You Understand, brano di apertura di questo disco più che unico, è la perfetta sintesi di come il progressive si possa fondere con il classico; il pianoforte, la presenza dell’orchestra in prima battuta è tutta lì a dimostrare quanto, Ashes Are Burning, abbia poi influenzato anche nostre band prog del periodo. La fusione di genere qui è tutta un’esplosione di colori espressi attraverso un susseguirsi di note, un pezzo accattivante che viaggia tra atmosfere altalenanti e che mettono da subito in risalto sia la padronanza dei musicisti che la soavità della voce come quella di Annie Haslam che, quando si poggia sull’acustica della chitarra di Michael Dunford, dimostra di essere lei la vera, assoluta, padrona del campo. Con Let It Grow si scende invece nelle viscere di un pop sinfonico che trasuda energia e melodia sin dall’apertura del pezzo con il piano di John Tout che fa viaggiare Aslam su tonalità che dire uniche è poco. Certo l’atmosfera che si respira è praticamente quella degli anni settanta, ma sono anche gli anni che guardano indietro al movimento di certi figli dei fiori e che, in alcuni momenti del disco, sfiorano perfino la psichedelia. Qui è inutile incamminarsi dentro descrizioni di passaggi da un genere all’altro, è più che sufficiente mettere sul piatto il disco, farlo partire, e lasciarsi trascinare in quella che è considerata “poesia musicale”.

E se On The Frontier può essere solo un passaggio obbligato alla C.S.N.&.Y. con qualche cadenza più pop sinfonica, Carpet Of The Sun è ancora sinfonismo rock puro dove, come al solito avviene in questi passaggi dei Renaissance, il pianoforte è lo strumento principale che trascina tutti gli altri nelle cuciture di armonie e fraseggi che giocano come non mai per proporre passaggi musicali che si riascoltano volentieri dopo la prima volta. Ma è inutile districarsi in descrizioni “musicali” dei pezzi; qui c’è da aggiungere che Ashes Are Burning è il primo vero e proprio successo internazionale dei Renaissance, un successo che li proietterà per un po’ nell’olimpo degli dei del rock sinfonico; ma la parabola sarà poi destinata ad inclinarsi anche se la band ha poi prodotto altri dischi che non hanno lasciato lo stesso segno che ha lasciato Ashes Are Burning.

Autore: Renaissance Titolo Album: Ashes Are Burning
Anno: 1973 Casa Discografica: Sovereign Records
Genere musicale: Progressive Rock Sinfonico Voto: 7
Tipo: LP Sito web: https://renaissancetouring.com/band/
Membri band:
Annie Haslam – voce
Michael Dunford – chitarra
John Tout – tastiere, cori
Jon Camp – basso, cori
Terence Sullivan – batteria, percussioni, cori
Tracklist:
1. Can You Understand
2. Let It Grow
3. On The Frontier
4. Carpet Of The Sun
5. At The Harbour
6. Ashes Are Burning
Category : Recensioni
Tags : Progressive
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