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13th Lug2013

Vibravoid – Delirio Dei Sensi

by Giancarlo Amitrano

Una bella sorpresa, questa propostaci dalla band di Dusseldorf, ormai attiva da qualche anno nel panorama internazionale. Registrato in soli due giorni tramite la nostrana Go Down Records, l’album è un piacevole tuffo nel passato psichedelico tanto in voga negli anni ‘60, attraverso la sperimentazione di sonorità pienamente aggiornate ai giorni nostri. Capitanati da Christian Koch nella duplice veste di cantante e chitarrista, i nostri eroi riescono nell’impresa di offrire un sound apparentemente datato, ma al tempo stesso molto coinvolgente, grazie al sapiente lavoro di rimodulazione delle suddette sonorità con le tematiche dei brani. L’apertura di Poupeè De Cire, leggendario brano di Serge Gainsbourg portato al successo da France Gall nei tardi anni ‘60, è davvero notevole, con l’organo malinconico a trasportarci nei gloriosi anni, con la protesta giovanile esplicitata anche attraverso suoni e testi di ribellione. Egualmente incisiva Listen, Can’t You Hear, dove le armonie si mettono al servizio del brano, molto arpeggiato nella prestazione vocale, che drammatizza il giusto i testi. Aggressiva come non ci si aspetta, la canzone risulta molto coinvolgente e quasi “freak” nei cori, in simbiosi con il gioco organistico di metà brano, molto etereo. Mentre Colour Your Mind è una bella cover degli australiani Tyrnaround, dove il singer resta saggiamente posizionato idealmente sotto la linea del microfono, giungendo così la sua voce molto ovattata ed in secondo piano rispetto alla sezione ritmica, rendendo il brano tra i migliori dell’album anche grazie all’improvviso solo chitarristico, molto in tema.

The Empty Sky ha un suo incedere molto tranquillo e cosmico nei suoi passaggi, dove l’organo presentissimo fa sentire il suo lavoro pulito che mette in risalto il notevole giro di basso. Ancora una buona cover, con Magic Mirror degli Aphrodite’s Child, che riesce ad unire bene le sonorità progressive della fase strumentale con l’humus molto folleggiante dell’interpretazione vocale, tanto da non stonare in qualche composizione “medievale” dell’epoca. Con The Golden Escalator la band raggiunge il “top del trip”: il gioco di parole è opportuno per descrivere quello che nei quasi 13 minuti del brano il gruppo intende offrire; un ideale viaggio catartico verso la purificazione dello spirito, attraverso l’organo misticheggiante che più non si può e che gradualmente porta alla cognizione del proprio IO, quasi a rappresentarci (ci si perdoni l’empio paragone) il misticismo cosmico dell’immortale Re Lucertola durante i live acts dei Doors. Indubbiamente il miglior brano dell’album, al termine del cui ascolto ci si sente come trasportati in una dimensione surreale, con i rantoli finali del singer pronti ad annunciarci l’imminente Nirvana.

Tutto intriso di pulsioni cosmiche All Stars Have Gone To Sleep, dove la band si impegna a donarci il meglio della sua ispirazione, grazie al cantato molto “delirante” ed al drumming stavolta molto intenso. Le sonorità divengono quasi spiritate e gli strumenti raggiungono la loro dimensione naturale, stante il contesto lungimirante del testo ormai in preda al vero e proprio delirio dei sensi, qui finalmente raggiunto e declamatoci sin dal titolo dell’album. La psichedelia dei californiani The Human Expression viene qui degnamente rappresentata dalla cover di Optical Sounds che la band di Dusseldorf offre. Un caleidoscopio di sonorità molto trip nei passaggi, dove l’acidità delle composizioni viene messa al servizio della voce molto eterea e quasi “efebica” del singer. Grazie alla buona sezione ritmica, il brano diviene subito una ideale hit da ballare in opportuni ambienti molto soffusi. Nearby Shiras risente delle atmosfere molto orientali che la band intende dare al brano: il singer in questo frangente si adopera per poter offrire una prestazione molto “rarefatta” anche nella timbrica, dove le strofe vengono trattenute sino all’ultimo e l’atmosfera che si respira diviene via via più opprimente per l’organo molto incombente, da ideale colonna sonora di una film di Antonioni. Altro brano degni di menzione, nonché anch’esso cover: per la precisione dei Kalacakra. L’allegria non può abbandonarci, specie con il brano conclusivo: sotto con l’ennesima trasposizione di un altro brano famoso dei 60’s, precisamente La Poupeè Qui Fait Non. Il brano di Michel Polnareff diviene in questa sede altra occasione di momento pop, dai cori molto semplici ed accattivanti, che avrebbero fatto le fortune di chiunque avesse ripreso un brano del genere, molto beat su di una base molto psichedelica, senza pretese ma coinvolgente.

Il brano finale, Black And White, è una traccia live registrata durante una delle numerose calate della band sul nostro suolo ed anche in questo frangente, il terzetto non ha difficoltà a rilasciare una buona dose di energia vitale e sound spaziale abbinato alla psichedelica pura. In un contesto finale di valore assoluto e che resta impresso come marchio di fabbrica.

Autore: Vibravoid Titolo Album: Delirio Dei Sensi
Anno: 2013 Casa Discografica: Go Down Records
Genere musicale: Psychedelic Rock Voto: 7
Tipo: CD Sito web: http://www.myspace.com/vibravoid
Membri band:

Christian Koch – voce, chitarra

Tracklist:

  1. Poupeè De Cire
  2. Listen, Can’t You Hear
  3. Colour Your Mind
  4. The Empty Sky
  5. Magic Mirror
  6. The Golden Escalator
  7. All Stars Have Gone To Sleep
  8. Optical Sounds
  9. Nearby Shiras
  10. La Poupeè Qui Fait Non
  11. Black And White (live)
Category : Recensioni
Tags : Psichedelia
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06th Lug2013

OSI – Office Of Strategic Influence

by Marcello Zinno

Album introverso ed introspettivo quello degli OSI, il cui acronimo rappresenta anche il nome del loro debut-album, Office Of Strategic Influence. Un nome ricercato, particolare, quasi filosofico, così come vogliono essere le idee partorite da questo combo inaspettatamente ben conosciuto ai più. Una band potremo dire costituita da “mostri sacri” della scena: le colonne portanti, Kevin Moore (ex Dream Theater fino ai tempi di Awake) e Jim Matheos (Fates Warning), sorreggono altrettanti pilastri che in autonomia potrebbero reggere un castello, Mike Portnoy (anch’egli ad oggi ex-Dream Theater, ma non ai tempi dell’uscita di questo album, nonché coproduttore) e Sean Malone (bassista dei Gordian Knot). Al combo si aggiunge la partecipazione di Steven Wilson, genio che sta dietro ad una serie di album (Opeth) oltre che di progetti personali (Porcupine Tree, Steven Wilson). Ma il concept che è alla base di questo progetto parallelo di band così rinomate, si discosta notevolmente da una tecnica ricercata, o di quella che gli esperti del settore definiscono “self-indulgence” (spesso fonte di accuse quale causa di freddezza di alune composizioni prog), bensì vuole proprio mostrare un’anima riflessiva, che si torce e ritorce in se stessa e si svuota, ma senza voler stressare alcun grado di complessità. Di certo l’analisi psicoattitudinale che ci apprestiamo a realizzare ascoltando questo album è lungi dal rappresentare un passatempo o un qualcosa da fare tra le righe. Non è un album semplice: immaginate di prendere Bijork, iniettarle una siringa del prog metal del “teatro del sogno” dei tempi che fu e chiuderla per una settimana in una stanza ultra amplificata di musica elettronica. Cosa ne uscirebbe fuori? OSI.

Un miscuglio di idee, mai sparse e confuse, ma quasi sempre mistiche e poco cognitive. Si spazia dall’approccio raffinato e ricercato di Horseshoes And B-52’2, alle ondate di echi di Dirt From A Holy Place palesemente debitrice di una tradizione floydiana a cui i Dream Theater stessi non hanno mai rinunciato (si veda su tutti gli album Metropolis Pt.2 e Six Degrees Of Inner Turbolence) anche se evolutiva tramite sonorità diverse, continuando per la ballad finale, Standby (Looks Like Rain) che presenta un Kevin Moore cantante (così come negli altri pezzi) abbastanza “anonimo”. Si spazia tra generi, tra approcci, tra suoni, tra modi di vivere la musica, senza armonizzare i propri sforzi verso una rotta prefissata, ma vagando nel più buio oblio. E che ciò rappresenti un punto di forza o di debolezza del disco, lo lasciamo alla sola sentenza dell’ascoltatore…impossibile definirlo oggettivamente. Ciò che è certo è che la chiave di lettura dell’album rappresenta l’amore verso la sperimentazione, il desiderio di provare nuove rotte, molto ambient, che colpiscono a pieno le radici dei vari background musicali degli artisti, volendone forse trovare un punto in comune, o forse qualcosa di estremamente diverso. Così si unisce l’approccio prog dei già citati DT, l’amore verso le parti melodiche/orchestrali del magico Moore, il gusto per le divagazioni psichedeliche attinte dal passato dei Fates Warning e di Wilson, il tutto miscelato con una costante dose di elettronica.

L’album va digerito lentamente e soprattutto masticato nel suo complesso, nessuna parte di esso rappresenta un organo autonomo, ma ciascuna una parte minuscola di un’opera, che può piacere ai più sofisti e lasciare indifferenti i più esigenti progster (di prog ha veramente molto poco). E così vi troverete a vivere in un sogno, a sentire le emozioni come reali ma a non comprendere cosa realmente vi sta accadendo; solo dopo averci riflettuto per giorni e giorni riuscirete a trovare una via di uscita pur vivendo il rischio di dimenticare tutto appena svegli. Questa metafora descrive perfettamente cosa sono gli OSI.

Autore: OSI Titolo Album: Office Of Strategic Influence
Anno: 2003 Casa Discografica: Inside Out
Genere musicale: Progressive, Psichedelia Voto: 5,5
Tipo: CD Sito web: http://www.osiband.com
Membri band:

Sean Malone – basso

Jim Matheos – chitarra, programming

Kevin Moore – voce, tastiere, programming

Mike   Portnoy – batteria

Steven   Wilson – voce su Shutdown

Tracklist:

  1. The New Math (What We Said)
  2. OSI
  3. When You’re Ready
  4. Horseshoes And B-52’s
  5. Head
  6. Hello, Helicopter!
  7. Shutdown
  8. Dirt From A Holy Place
  9. Memory Daydreams Lapses
  10. Standby (Looks Like Rain)
  11. Set The Controls For The Heart Of The Sun (bonus track)
  12. New Mama (bonus track)
  13. The Thing That Never Was (bonus track)
Category : Recensioni
Tags : Progressive, Psichedelia
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08th Giu2013

Tommy Talamanca – Na Zapad

by Marcello Zinno

Parlare di Tommy Talamanca è semplice e difficile allo stesso tempo. Semplice perchè si tratta di un musicista molto noto: portato in auge dai suoi Sadist diretti insieme all’amico Trevor, Tommy nel tempo si è distinto anche per ruoli che andavano oltre la tecnica allo strumento, passando anche alla parte della produzione e collaborando anche con giovani formazioni (come quella dei Morgana da noi recensita a questa pagina). Al tempo stesso però è molto complesso inquadrare il suo operato, stiamo pur sempre parlando di un artista che compone le parti di chitarra e di tastiera e le esegue contemporaneamente durante i brani dei Sadist per poi passare a sviluppare delle proprie idee lontane dal technical death metal della propria band madre. Così avviene per il suo primo lavoro solista, Na Zapad, che spiazza chi lo vorrebbe vedere alle prese con una sei corde robusta e delude chi si aspetta esercizi chitarristici di alta perizia tecnica. Qui il desiderio di lasciarsi andare, di dare libertà di espressione ai propri pensieri (e non limitarli al sound Sadist ormai troppo collaudato) è troppo forte per trovare paragoni. Arevelk Arevmutk già offre un’altra idea dell’arzigogolo di vie che l’artista vuole attraversare, inserendo anche degli effetti metal che nell’opener Vostok non c’erano. Ma al di là delle varie influenze che questo Na Zapad fa emergere, si intuisce la vera passione di Tommy per il progressive e per le sonorità settantiane. Non si tratta però dell’unica matrice di base dell’album: in queste dieci tracce synth, tempi dispari, ambientazioni cupe ma pur sempre artistiche si alternano nella direzione di un’opera di certo complessa e con tante cose da dire (come le parti jazzy in Wala).

Oeste è un buon esercizio chitarristico, senza usare la vena elettrica, mentre Nbb si concentra di più sulla sezione ritmica. Due elementi diversi della stessa medaglia. Completamente strumentale l’album, pur optando su diversi fronti musicali, vive di un certo ancoraggio in quella che è la ricerca di un’ambientazione particolare, di volta in volta diversa da traccia a traccia. Un lavoro di certo certosino sull’aspetto compositivo che riflette di esercizi stilistici ripetuti spesso molte volte, elemento questo molto comune in album in cui è solo un artista a ideare i singoli brani, facendo mancare il contributo del “gruppo” nel suo senso più pieno. I tantissimi effetti, i nomi impronunciabili delle tracce, le percussioni, sono tutti fattori che permettono ai fan di Talamanca di scoprire nuovi mondi e un nuovo modo di interpretare la musica per qualcuno che aveva abituato troppe persone al death metal e basta. Na Zapad risulta il viaggio che non era stato ancora compiuto dal suo artefice, un viaggio che probabilmente era nella sua mente da parecchio e che attendeva il momento giusto per essere vissuto a pieno, altrimenti non avrebbe avuto lo stesso valore.

Autore: Tommy Talamanca Titolo Album: Na Zapad
Anno: 2013 Casa Discografica: Nadir Music
Genere musicale: Progressive, Psichedelia Voto: 6,5
Tipo: CD Sito web: http://www.tommytalamanca.com
Membri band:

Tommy Talamanca – chitarra, basso, bouzouki, synth, piano,   duduk, darbuka, djembe, tabla, maracas, kora, bodhran

Emiliano Olcese – batteria

Tracklist:

  1. Vostok
  2. Arevelk Arevmutk
  3. Wala
  4. Dia Ballein
  5. Syn Ballein
  6. Oeste
  7. Nbb
  8. A O
  9. In The Mouth Of Madness
  10. Na Zapad
Category : Recensioni
Tags : Psichedelia
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02nd Mag2013

Hexvessel – Iron Marsh

by Giuseppe Celano

Gli Hexvessel non sono una band, ma un progetto di vita e una missione per il chitarrista e compositore Kvohst. Questo strambo musicista vissuto in Norvegia e Olanda, trasferitosi a Helsinki (Finlandia) per ritrovare il contatto con madre natura, dà alla luce il secondo lavoro degli Hexvessel intitolato Iron Marsh. L’album esce sempre sotto l’ala protettrice della Svartrecords, l’opener Masks Of The Universe con i suoi tredici minuti di psychedelic doom folk ancestrale raccoglie quanto avevano precedentemente detto per il precedente e ottimo No Holier Temple. La melodia della voce salmodiante, le chitarre acustiche contrapposte all’organo ieratico e i cambi d’atmosfera ricchi di pathos sono una formula magica che risuona affascinante e allo stesso tempo temibile. L’armonia vocale di Superstitious Currents richiama alla mente In The Court Of Crimson King, primo ormai mitico album della premiata ditta Fripp. La presenza di Rosie, impegnata nella cover Woman Of Salem (Yoko Ono Plastic Band), aggiunge un tocco delicato al tutto. L’andamento ritmico uniforme e lento viene trasportato via dal flusso di wah-wah liquido, per la sua musicalità accattivante, che non rispetta melodicamente l’originale ma ne perpetra il messaggio, lo potremmo definire il loro singolo.

L’immaginario evocato, fatto di fitte foreste e vegetazione lussureggiante avvicina l’ascoltatore Madre Natura il cui monito viene espresso attraverso l’uso di fiati, flauto nello specifico, suonati da Alia (Blood Ceremony) in Don’t Break The Curse che sfrutta uno spoken molto simile a Feast Of Friend dell’ultimo Jim Morrison. Chiude Woman Of Salem in versione radio edit. Un nuovo centro per gli Hexvessel.

Autore: Hexvessel Titolo Album: Iron Marsh
Anno: 2013 Casa Discografica: Svartrecords
Genere musicale: Psichedelia, Doom, Folk Voto: 7,5
Tipo: CD Sito web: http://www.hexvessel.com
Membri band:

Mat McNerney – voce, chitarra

Marja Konttinen – voce, percussioni

Jukka Rämänen – batteria

Simo Kuosmanen – chitarra

Niini Rossi – basso

Kimmo Helén – tastiere, tromba, violino

Tracklist:

  1. Masks Of The Universe
  2. Superstitious Currents
  3. Tunnel At The End Of The Light (Redux)
  4. Woman Of Salem (Yoko Ono Cover)
  5. Don’t Break The Curse
Category : Recensioni
Tags : Psichedelia
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26th Apr2013

Füsch! – Mont CC 9.0 First Act

by Marcello Zinno

Bello giocare con i titoli delle tracce o con quelli dell’album che spesso non vengono richiamati nemmeno da una riga di testo. Il nome che i Füsch! assegnano alla loro prima uscita discografica è tanto di impatto quanto incomprensibile: Mont CC 9.0 First Act. A noi è chiara solo l’ultima parte, essendo questo lavoro di cinque tracce un primo passaggio di una trilogia completa che vedrà nel prossimo ottobre e nell’aprile del 2014 giungere ai prologhi successivi. Il concetto di trilogia va molto di moda ultimamente, sia nel mondo cinematografico che in quello puramente musicale e ad ascoltare questo lavoro l’accostamento tra queste due forme d’arte diviene ancora più spontaneo. Non si può parlare di strofe e ritornelli con loro, meglio riferirsi ad ambientazioni o lugubrazioni che danno vita a suoni cupi e melodie intricate, un totale secondarietà alle liriche laddove sono le note che prendono il sopravvento, senza un impatto orecchiabile ma pur sempre con un contenuto emotivo. Rock acido, spuro, con degli slanci prettamente psichedelici conferiti non solo dalle voci femminili (voci o cori?!) ma anche da quel sapore settantiano che pervade l’opener Broken T-Shirt; le sonorità divengono ancora più introspettive con Cosmogenesi 9.0 e il suo incedere psych, a tratti pinkfloidiano, che acquisisce carica solo grazie ad una chitarra elettrica comunque in secondo piano.

Diversa l’ambientazione di Sbando Alle Mancerie che sembra estratta da un lavoro diverso, più solare, figlio del rock‘n’roll ma non senza qualche sostanza chimica. La conclusiva Cathering Deneuve è l’opera completa: nove minuti (un numero che piace alla band) che, pur ancorati in un rock se vogliamo un po’ garage, si complicano la vita inserendo elementi non banali come voci effettate, assoli di chitarra quasi fuori genere e una tromba inaspettata. Un lavoro interessante anche se andrebbe visto e valutato insieme ai suoi due inscindibili e futuri capitoli.

Autore: Füsch! Titolo Album: Mont CC 9.0 First Act
Anno: 2013 Casa Discografica: Jestrai
Genere musicale: Rock Psichedelico Voto: 6
Tipo: CD Sito web: http://www.facebook.com/weare.fusch
Membri band:

Mariateresa Regazzoni – voce, tastiera, synth, piano,   tromba

Mario Moleri – chitarra

Alessandro Dentico – basso

Pier Mecca – batteria, percussioni, voce, tromba

Tracklist:

  1. Broken T-Shirt
  2. Sbando Alle Mancerie
  3. Sintesi
  4. Cosmogenesi 9.0
  5. Catherine Deneuve
Category : Recensioni
Tags : Psichedelia
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10th Mar2013

Sin’ Sound – From The Underground

by Giancarlo Amitrano

A volte si rasenta il puro piacere fisico anche nel recensire un lavoro discografico. Il piacere di ascoltare nuove proposte e ben congegnate a livello compositivo rende davvero gaudenti nell’ascoltare ciò che band emergenti offrono con schiettezza e generosità. È esattamente il caso dell’italianissima proposta odierna, in cui mettere un pizzico di sano sciovinismo e di cui menare anche vanto. Reduce da esperienze pregresse, la band in questione (anzi, quasi una mini orchestra) non lesina energia, ispirazione, progettualità e voglia di stupire, ivi compresa una sezione di fiati. Anche la registrazione dell’album è fuori del comune: effettuata completamente in sede analogica e con l’ausilio di strumentazione di spessore e livello superiore, la band sforna davvero un prodotto di classe, che non mancherà di suscitare commenti positivi. Celebration Of The Apathy ci riporta alle atmosfere hardrockeggianti classiche anni ‘70 in cui il singer mantiene un tono ruvido e sporco il giusto, mentre il drumming è energico ci catapulta su polverose autostrade californiane roventi di metallo fuso. Il buon assioma proposto dalle due asce ci sorprende piacevolmente con la sua intensità nel riff e con la sezione ritmica molto precisa e dalla battuta secca. Preparing The Journey si mimetizza dietro un soul/funk inatteso, grazie alla voce abilmente camuffata del singer che idealmente si spoglia dei panni del rocker per rivestire quelli di un bluesman incallito. A testimonianza della loro poliedricità, l’accompagnamento della tromba, con un gradito solo, rende il brano piacevole e orecchiabile nella sua interezza, mentre la presenza delle sei corde viene tenuta in sordina, in semplice funzione ritmica….ma non tanto da non far sentire la sua presenza nel brano, con un riff non indifferente.

La metamorfosi stilistica prosegue con la titletrack: presenze incontaminate del “dirigibile” si avvertono negli stacchi improvvisi delle percussioni e nei tempi volutamente inframezzati della sezione ritmica, che rallenta e riprende con nonchalance. Il lavoro chitarristico ci riporta a certe atmosfere hendrixiane della sua fase “trip-sperimentale”: e non appaia irriverente il paragone, nel momento stesso in cui il singer si carica sulle spalle il peso del brano per ammaliare la platea, già ben lavorata ai fianchi dall’ossessivo ritornello e dalla solista che in sottofondo macella note sempre più distorte. Anche su di un brano apparentemente “minore” quale A Bad Day la band piazza la zampata d’autore: chitarre qui distorte al massimo consentono un buon lavoro tecnico al drumming potente e metodico; la taratura degli strumenti viene leggermente ammorbidita, specie nella battuta della grancassa, che qui lavora molto di pedale e tende a mostrare anche il lato psichedelico nel passaggio centrale del brano. Easy Escape From Reality è l’ennesima trasformazione: un blues che più non si può, a base di ritmi lenti su cui il singer possa giostrare a suo piacimento, consentendo ai due guitarists di esercitare a piacere il loro sound “profondo sud”, in perfetto Skynyrd-style, con tutta la punta di originalità possibile, ivi compresa la slide che delicatamente accompagna la solista verso un infuocato solo finale, come solo Alabama e Louisiana insegnano.

I Really Like You’re Back continua ad ispessire il valore dell’album: ancora il drumming in evidenza ed ancora un ottimo gioco di corde che dà il la alle evoluzioni vocali del singer. Mentre lo sbizzarrirsi delle asce continua per suo conto, gli arrangiamenti del brano sono validi al punto da permettere al basso di condurre le danze quale faro illuminante. Roco il giusto, il singer ancora una volta tira dritto per la sua strada senza scendere a compromessi. Ottimo l’incedere di New Year’s Reason To Pray, in cui l’intro delicato delle percussioni acquista gradatamente corposità, grazie all’ottima performance del sax che dona una linea sonora davvero varia e ben condita in salsa rock-sperimentale-psichedelica. Ancora a suo agio, il combo non perde una battuta nell’esecuzione di ogni passaggio. La sorpresa del disco è giunta: Elisa, a dispetto della dolcezza del nome, ci ricorda le migliori soundtrack dei poliziotteschi anni ‘70: il ritmo incalzante del sound ed il groove coinvolgente che in seguito si sviluppa avrebbero fatto la fortuna del compiantissimo Maurizio Merli. Se occorreva ulteriore prova della validità della band, eccola servita; il singer continua ad essere ispirato, le asce sono ancora attizzate e la sezione ritmica non perde colpi, macinandoli anzi sotto la forza dei colpi di maglio che la voce dona all’atmosfera ormai incandescente del miglior brano del disco, senza dubbio e con una nota di merito sino allo screaming finale.

La voce di Zugno regna sovrana sino all’ultimo brano: Mr.Goodbye è un crescendo da film noir. Non ci aspettavamo tanta offerta in tanta ristrettezza di brani, appena 9, ma che ne valgono per i canonici 12 delle attuali pubblicazioni. Adrenalina pura e atmosfere da bistrot malfamato, per una band che ci auguriamo si mantenga su questi livelli, al momento vicini all’eccellenza. Grazie al gusto della sperimentazione che a volte paga bene come in questo caso.

Autore: Sin’ Sound Titolo Album: From The Underground
Anno: 2012 Casa Discografica: Atomic Stuff
Genere musicale: Rock Psichedelico Voto: 8
Tipo: CD Sito web: http://www.myspace.com/sinsoundexplosions
Membri band:

Francesco Zugno – voce

Marco Cavalli – chitarra

Enrico Rango – chitarra

Flavio Meleddu – basso

Roberto Micheletti – batteria

Enrico Zoni – tromba

Stefano Verzelletti – sax

Claudio Naoni – sax su traccia 7

Tracklist:

  1. Celebration Of Apathy
  2. Preparing The Journey
  3. Introduction: From The Underground
  4. A Bad Day
  5. Easy Escape From Reality
  6. I Really Like You’re Back
  7. New Year’s Reason To Pray
  8. Elisa
  9. Mr. Goodbye
Category : Recensioni
Tags : Psichedelia
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12th Set2012

Kaos IndiA – Kaos IndiA

by Marcello Zinno

L’autoproduzione è un luogo comune, uno specchietto per le allodole che un tempo si confondeva con il termine “underground”. Poi l’underground è divenuto un genere musicale e ha finito di essere underground. Intanto è arrivata la tecnologia e anche l’autoproduzione ha smesso di essere autoproduzione nel senso stretto del termine e gli album che non vedevano alle spalle grandi nomi hanno iniziato a godere della qualità (spesso sonora, meno spesso ideativa) di prodotti musicali costati centinaia di migliaia di euro. Allora cos’è un’autoproduzione confrontata ad un album mainstream? Nulla di più né nulla di meno. Ciò che conta sono le idee che sono alla base e come sono espresse. In questo primo EP dei Kaos India la domanda che ci siamo appena posti rende ancora di più il suo significato. Kaos India, due parole che si scontrano l’un l’altra: la prima dà il senso del rumore, del frastuono, la seconda invece delle ambientazioni orientali, strumentali ma soavi e ipnotiche. Ed è proprio così che si traduce in musica la proposta dei quattro musicisti, un connubio tra rock e psichedelia che non irrompe mai ma cerca sempre la costruzione ideale di un qualcosa che vada poi utilizzato poco a poco.

I Led Zeppelin gioirebbero ascoltando le parti strumentali di Moment For Breakfast, pezzo che abbraccia i Counting Crows meno irascibili e più d’atmosfera in una visione più alternative del rock ma comunque datata, vintage. The Passenger Seat è il brano più tranquillo dell’EP, con i suoi tempi dilatati e il suo gusto post-metal/post-rock non ci esalta di energia ma preferisce stupire per la sua pacatezza; differente (ancora una volta) dal brano successivo, Fading Past Song, dallo humor più rafforzato e con iniezioni più forti di chitarra elettrica che cambia completamente rotta ad un minuto dalla fine spiattellando partiture funk ben più sofisticate e fuori dai confini rispetto a quanto potevamo aspettarci. Più passano i minuti più è difficile da classificare questo omonimo lavoro fino ad arrivare all’ultima Seize The Day che parte con un lancio che fa sognare territori rock moderni per poi riprendere le trame nostalgiche della precedente Inside Me sfiorando spazi floidiani con tanto di stacchi che spezzano il fiato in un qualcosa che si reinventa ogni volta.

Una proposta sicuramente originale, degna di una band che crede fortemente nelle proprie capacità, non da primo ascolto ma da assorbimento lento per gli amanti di tutto ciò che viene dopo e che non traspare a prima occhiata.

Autore: Kaos IndiA Titolo Album: Kaos IndiA
Anno: 2011 Casa Discografica: Autoproduzione
Genere musicale: Rock, Psichedelia Voto: 6,5
Tipo: EP Sito web: http://www.myspace.com/kaosindia
Membri band:

Mattia (Mettiuw) Camurri – voce, chitarra

Vincenzo (Wild Cè) Moreo – basso

Francesco (Fresh) Sireno – chitarra

Marco (Joe Schiaffi) Della Casa – batteria

Tracklist:

  1. Moment For Breakfast
  2. The Passenger Seat
  3. Fading Past Song
  4. Inside Me
  5. Seize The Day
Category : Recensioni
Tags : Psichedelia
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05th Lug2012

Seid – Magic Handshake

by Giancarlo Amitrano

Direttamente dai recessi dei fiordi norvegesi, ecco i nuovi vichinghi: i Seid si presentano a noi con un dosato mix di energia psichedelico-cosmica, in stile Hawkwind. Con un azzeccato lavoro di gruppo, il quintetto produce un disco di sicuro interesse. Potremmo definirlo quasi un concept-album per la complessità delle tracce e per gli attenti arrangiamenti in sede di produzione, tuttavia, nello snodarsi del disco si ha la sensazione che il messaggio che il gruppo intende lanciare resti fra le righe di un discorso interrotto. Probabilmente, la stessa complessità dei brani induce il gruppo a dedicarsi principalmente alla loro esecuzione, piuttosto che alla fluidità dei testi stessi. Eppure l’inizio di Space Pirates Return meraviglia in positivo per la potenza sonora che emana: il basso di Rocket è notevole nella sua cadenza ed anche l’insolito cantato corale rende bene in fase propositiva, mentre il lavoro di Martin è potente e nitido assieme alle svariate chitarre che operano. Arriviamo subito alla migliore traccia del disco: Decode The Glow è un concentrato di stili diversi, che con il suo mid-tempo scorre fluida ed incatena l’ascoltatore al suo snodarsi. Eresia, forse, il ritornare con la memoria a brani storici, ascoltando il brano tuttavia, i continui e repentini cambi di tempo non stonano affatto nel loro legarsi, sfidando chi ascolta a prevedere quale sia lo sviluppo del brano. Come detto è di certo la gemma dell’intero disco, grazie anche alla voce superba di Stina Stjern, che qui collabora ai cori ed al cantato principale.

The Dark Star Is Waiting è la discesa agli Inferi: la voce dell’ospite Asgeir Engan ci trascina in un abisso infinito che incute terrore, grazie alla sapiente distorsione delle chitarre ed alla claustrofobica presenza delle tastiere, che nel refrain centrale si fondono con la sezione ritmica in una “jam” davvero notevole e di forte impatto sonoro che lascia storditi piacevolmente. Ascoltando The True Merry Poppers torniamo ai gloriosi anni ‘60, agli albori del rock: suoni in piena psichedelia, con atmosfere quasi spaziali che si snodano attraverso una lunga improvvisazione strumentale, su cui emerge la voce di un altro illustre ospite, Hans Jorgen Stop, che illumina il brano con la sua interpretazione quasi da “dietro le quinte”, con una opportuna microfonatura cupa e risonante al tempo stesso con il clarinetto di Oyvin Yri. Tron è un altro bel brano: una lunga cavalcata sonora del gruppo, che si cimenta in una sfida strumentale di rara intensità, in cui il cantato di Magnus Robot si inserisce delicatamente solo dalla fase centrale, senza appesantire il percorso iniziato dal gruppo. Le tastiere “spaziali” che inframezzano il refrain centrale collocano il ritornello in una dimensione quasi eterea che pare catapultata direttamente dai primissimi Pink Floyd, sia pur con il loro tocco di sana originalità strumentale.

L’esecuzione di Fire Up! è ancora resa eccellente da Jorgen Stop: in stile più hard, stavolta, il brano si snoda attraverso una lunga costruzione barocca che non dà adito a dubbi circa la matrice del gruppo. Un sano rock’n’roll si miscela a psichedelia a fiumi ed atmosfere cosmiche che d’incanto cessano con uno stacco semplice e d’impatto. Olyok Kok Friebib rende onore al titolo impronunziabile: il coacervo delle voci di tutti i singer ospiti nel brano lo rendono quasi come un muro di suono innanzi al quale l’uditorio deve durare fatica per non restarne sopraffatto. Anche la batteria stavolta è clamorosamente squassante: rendendo il brano quasi una trascinante sinfonia, la coralità delle voci non riesce a contrastare la potenza sprigionata dalla strumentazione, qui davvero a pieno regime anche grazie alla ancor presentissima dose di cosmicità. La concezione di Birds pone l’ascoltatore di fronte al dilemma se considerarlo un “ibrido” di generi oppure un episodio a sé stante: a noi piace propendere per la seconda ipotesi. I samples ed i sintetizzatori di Hemmelig Tempo rendono il brano una gemma che deve restare tuttavia avulsa dal contesto generale del disco: conservando il livello di qualità, il refrain centrale ed il ritornello delicatamente proposto appaiono come una cavalcata quasi “epica” nel suo svolgimento, accompagnati dai bird-samples che rendono il brano davvero particolare, brano che si chiude con un insolito orologio a cucù di allegra estrazione.

Space Rock Dogma è l’unico brano in cui il gruppo torna ad agire da solo: l’originalità della composizione non ne risente, mettendo in evidenza l’arrangiamento ancora valido del cantato. L’interpretazione del quintetto mantiene ancora livelli di qualità, rendendo il brano quasi “facile” nel suo ritornello centrale, su cui dominano senza dubbio le tastiere che indugiano su partiture di classicismo davvero inatteso in questo contesto. Siamo giunti alla title-track: con la sola partecipazione di Martin Skei al sax, Magic Handshake si rivela un caleidoscopio di generi; tutta la strumentazione è impazzita, nello scatenarsi quasi in un singolo assolo all’interno del brano, come a ricordare che comunque il bagaglio tecnico del quintetto non è certo trascurabile. Il tutto, nello svolgersi dei relativamente pochi minuti del brano: che scorre via con disappunto per il vederlo finire in fretta. Sister Sinsemilia chiude degnamente il disco: una lenta introduzione sonora fa da preludio alla seguente intensa drammatizzazione del brano. Le tastiere sono davvero notevoli nel disegnare un’atmosfera di dannazione dell’umana specie, su cui grava il cantato davvero nostalgico che funge da esecutore testamentario delle ultime volontà del gruppo che sono quelle di comunicarci che anche in generi apparentemente ostici all’ascolto come quello di loro competenza, esistono entità musicali come i Seid che saldamente ne tengono alto il vessillo.

Autore: Seid Titolo Album: Magic Handshake
Anno: 2012 Casa Discografica: Black Widow Records
Genere musicale: Psychedelic Rock Voto: 7
Tipo: CD Sito web: http://www.myspace.com/seidrock
Membri band:

Jurgen Kosmos – voce, chitarra, organo

Burt Rocket – chitarra, tastiere, basso

Organ Morgan – tastiere

Viktor Martin – batteria, voce

Janis Lazzaroni – chitarra, percussioni

Tracklist:

  1. Space Pirates Return
  2. Decode The Glow
  3. The Dark Star Is Waiting
  4. The True Merry Poppers
  5. Tron
  6. Fire It Up!
  7. Olyok Kok Friebib
  8. Birds
  9. Space Rock Dogma
  10. Magic Handshake
  11. Sister Sinsemilia
Category : Recensioni
Tags : Psichedelia
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31st Mar2012

The Mars Volta – Octahedron

by Marcello Zinno

Non è possibile. Questa è la frase che con lo stesso stupore di una sciagura imprevista fuoriesce inaspettatamente dalle mie labbra dopo il primo ascolto di uno qualsiasi dei lavori dei The Mars Volta. Ciò accade ormai a cadenze sempre più ravvicinate visto che dai loro esordi di album targati Cedric e Omar ne stanno giungendo copiosamente e questo Octahedron non fa altro che rimpinzare il fascino del duetto. Parliamo solo di loro due perché in realtà sono loro i soli artefici di tutto questo (con quel piccolo zampino di John Frusciante come da loro tradizione), lasciando a tutti gli altri (eccellenti) musicisti il compito di accompagnarli in sede live. Si sono reinventati per l’ennesima volta, hanno cercato di spingere più in là sia la mente che le emozioni e anche qui sono riusciti nel loro intento: stupire, affascinare, lasciare interdetti. Dopo quella jam session chiamata Amputechture e il prog architettonico e mistico di The Bedlam In Goliath era il momento di partorire un album molto più intimista ed introspettivo. Era il momento di Octahedron, un album che guardando alle spalle di questi artisti potrebbe risultare un insieme di ballad ma a ben vedere non è che l’ulteriore apprendimento musicale capace di sfociare in uno sperimentalismo assolutamente sopra le righe.

Il rischio di non comprendere queste otto tracce è notevole: le parti musicali risultano molto più semplificate rispetto al trademark della band ed i testi stessi risultano meno arzigogolati e più diretti (addirittura i titoli delle canzoni sono leggibili, mai accaduto prima), ma le note suadenti di Omar ed i mille volti di Cedric frantumano ogni singolo dubbio. C’è da attendere ben cinque tracce prima di spolverare il groove a cui i TMV ci hanno da sempre abituati e che stavolta prende il nome di Cotopaxi, mentre Disperate Graves e Luciforms rappresenta il varco tra quello che erano (easy jazz/prog alternativo) e quello che sono oggi (?!). Tutto il resto è una visione onirica dal sapore psichedelico che non cerca di basare il proprio fascino né sulla musica né sulle parole ma sul concetto più generico di arte, ai quali i Nostri sicuramente si avvicinano più di ogni altra band attuale. Il passaggio più toccante si chiama Copernicus in cui le note profuse dalla sei corde di Omar si chiudono in un dolore anoressico, mostrando in alcuni momenti una difficoltà (voluta) nell’esprimersi in altri invece la sottoposizione ad una dieta ferrea che ne dimezza l’entità; durante questo lungo calvario Cedric si diletta in mille interpretazioni diverse offrendo all’armonia che vaga nella sua mente il miglior significato d’esistere e riuscendo musicalmente a sovrastare la melodia della musica che lo accompagna.

Il resto è tutto da godere, ma con calma e dedizione. E se non riuscite a trovare qualcosa che davvero vi piaccia dei The Mars Volta non preoccupatevi, la loro musica non è (e non vuole essere) per tutti.

Autore: The Mars Volta Titolo Album: Octahedron
Anno: 2009 Casa Discografica: Mercury Records Ltd
Genere musicale: Rock psichedelico, Crossover Voto: 7,5
Tipo: CD Sito web: http://www.themarsvolta.com
Membri band:

Omar Rodriguez Lopez – chitarra, musica, arrangiamenti

Cedric Bixler Zavala – voce

Isaiah “Ikey” Owens – tastiere

Juan Alderete – basso

Thomas Pridgen – batteria

Marcel Rodriguez-Lopez – sintetizzatori, percussioni

John Frusciante – chitarra

Mark Aanderud – pianoforte

Tracklist:

  1. Since We’ve Been Wrong
  2. Teflon
  3. Halo Of Nembutals
  4. With Twilight As My Guide
  5. Cotopaxi
  6. Desperate Graves
  7. Copernicus
  8. Luciforms
Category : Recensioni
Tags : Crossover, Psichedelia
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04th Gen2012

Hawkwind – Hawkwind

by Alberto Vitale

Gli Hawkwind sono autori di una discografia sterminata, frutto di continue idee anche se alcune non sempre riuscite. La prima pietra di questa immensa cattedrale dello space rock (come venne definita la loro musica) è dunque il primo album omonimo registrato nel 1970. Hawkwind contiene il DNA di uno stile che sintetizzava in se le sperimentazioni psichedeliche e le selvagge escursioni rock dal blues, come si apprestavano a fare negli anni a seguire Black Sabbath, Deep Purple, Uriah Heep e tanti altri. Hawkwind trova in Hurry On Sundown il suo incipit: è una canzone acustica, dai connotati californiani, desert rock e country. Non è psichedelia, non è space rock, non è rock. Attinge dal folk, dal retaggio blues e acustico di Dave Brock, ma questa canzone ariosa della fretta sul tramonto porta in sé un avvertimento “Vedi cosa porta il domani. Beh, potrebbe portare la guerra“. La guerra è al secondo brano, dove si scorgono le scale per la discesa nell’inferno sperimentale di The Reason Is?, turbinio psichedelico poi spazzato via da tre robusti accordi di chitarra da Be Yourself. Il brano vive di una parte centrale con rullate in loop di Terry Ollis seguite dal palm muting di Dave Brock, su tutto questo montano gli assoli stilistici di Huw Lloyd-Langton, le divagazioni al sax di Nick Turner e dei venti elettronici di Dikmik, che diverranno tempeste stellari nell’album seguente.

Paranoia è divisa in due parti, la prima è una breve introduzione, la seconda è imperniata sul pulsante e crescente basso di Harrison. Paranoia proviene da profondità spaziali e dall’abisso della mente, ma risente delle lezioni che brani come Careful With That Axe, Eugene o Set The Controls For The Heart Of The Sun dei Pink Floyd stanno impartendo lezioni alla scena sperimentale inglese. Influssi rievocati appunto in Paranoia e nella seguente Seeing It As You Really Are, altro trip lisergico, altra divagazione in stile jam session, con echi jazz grazie alle funamboliche cavalcate al sax di Nick Turner. Dopo l’iniziale Hurry On Sundown, Hawkwind si dimostra una lunga jam session, una imprevista divagazione articolata, un qualcosa che si potrebbe definire un trip dall’assetto sperimentale e con regole precise. Gli Hawkwind sono spontanei, ma risentono della ricerca sonora in atto nella ormai matura Swingin London, la psichedelia della West Coast e del Krautrock; di proprio hanno la prolifica abilità di Brock, le eccentriche idee di Nick Turner e la rivoluzionaria sperimentazione con synth ed elettronica varia di Dikmik.

Mirror Of Illusion è il brano conclusivo, idealmente si riallaccia a quello iniziale: c’è l’acustica, le maracas, c’è la struttura del pezzo, una piacevole linea melodica, ma è anche la testimonianza che il percorso fatto da Hurry On Sundown in poi è stato disseminato da ombre nere e argentee. Lo dimostrano, in questo pezzo, la vibrante chitarra elettrica di Huw Lloyd-Hangton e i synth di Dikmik (il suo nome sul primo album è scritto con unica parola), vero termometro delle bizzarre idee degli Hawkwind. Sono in tanti a definire i lavori seguenti come l’apice della loro summa spaziale, tuttavia è questo il nido dal quale il falco si involerà. Hawkwind è semplice nell’essenza, ma incredibilmente spigliato e ombroso nella musica, nei testi si annidano due versi che annunciano una rivoluzione: “Pensi di aver trovato le porte della percezione. Si aprono a una bugia“. L’era psichedelica sarebbe finita prima o poi, cadendo sotto il ruggito del rock, le magnificenze del progressive e della lordura del punk, ma solo alcuni sarebbero sopravvissuti. Loro di sicuro!

Autore: Hawkwind Titolo Album: Hawkwind
Anno: 1970 Casa Discografica: Liberty Records
Genere musicale: Psychedelic Rock Voto: 7
Tipo: CD Sito web: http://www.hawkwind.com
Membri band:

Dave Brock – voce, armonica, percussioni, chitarra

John A. Harrison – basso

Huw Lloyd-Hangton – chitarra

Terry Ollis – batteria

Nick turner – sassofono, voce, percussioni

Dikmik – tastiere

Tracklist:

  1. Hurry On Sundown
  2. The Reason Is?
  3. Be Yourself
  4. Paranoia (Part 1)
  5. Paranoia (Part 2)
  6. Seeing It As You Really Are
  7. Mirror Of Illusion
Category : Recensioni
Tags : Album del passato, Psichedelia
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