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04th Dic2020

Quiet Riot – Hollywood Cowboys

by Giancarlo Amitrano
Parafrasando una celebre frase di Scalfaro in un suo discorso di fine anno agli italiani, viene anche a noi spontaneo dire : “Non ci sto!”. In che senso, ci si chiederà: facile a rispondere, nel senso di non accettare per nulla quella che è (al momento, e probabilmente, per sempre) l’ultima fatica del glorioso combo losangelino. Se già al precedente Road Rage i nasi si erano storti in modo considerevole, con l’odierno lenght tutte le “perplessità” vengono (s)piacevolmente spazzate via. La vexata quaestio non può che ruotare ancora e sempre attorno a James Durbin, che non solo per colpa sua non riesce nell’intento di avvicinare pur lontanamente le sonorità dell’insostituibile e beneamato Dubrow, ma di suo ci mette anche il suo timbro del tutto inadatto ad una band con i “cosiddetti”, che si ritrova così a dover rincorrere timbriche e range vocali fuori luogo. E dire che la band si mette di buzzo buono, con una buona complessiva prestazione generale, che inizia con Don’t Call It Love ed una più che discreta esibizione del quartetto, su cui svetta (per modo di dire) il cantato del tutto autonomo nel rincorrere una sua linea guida, più adatta ad un gruppo glam tutto paillettes e lustrini, come pare essere in questo frangente il gruppo, che inserisce cori per vero odiosissimi che fanno venire il desiderio di skippare in fretta, nonostante l’ennesimo buon solo di Grossi.

La buonissima doppia cassa di Banali ravviva l’esecuzione di In The Blood , altrimenti irritante il giusto: meno male che il grosso del lavoro “sporco” lo fanno gli strumentisti, mentre Durbin esegue il brano con un falsettone che userà molto in questo lenght, per la felicità di chi ascolta. Che si inerpica quindi in Heartbreak City ed il drumming sempiterno di Frankie Banali, che tenta di portare luce nell’oscurità: pare, tuttavia, che anche il songwriting sia divenuto di scarso interesse per il gruppo, che si abbandona straccamente all’esecuzione di una traccia parecchio piatta, laddove il cantato di Durbin si accosta paradossalmente meglio. The Devil That You Know non si discosta da quanto sinora ascoltato, con il singer che vaga per la sua strada e per giunta coinvolgendo la band in un rincorrerlo attraverso linee sonore stavolta leggermente più aggressive ma al tempo stesso rovinate dai soliti background vocali che non si comprende chi abbia spinto per inserirli a piacimento. Change Or Die ha il “merito” di essere la traccia peggiore dell’album: dispiace stangare così, ma la realtà sonora ed uditiva ci fa quasi dubitare di stare ascoltando uno dei gruppi più famosi della scena losangelina: anche la batteria si appiattisce sulle trame imbastite dal singer, che a quanto pare si bea dei cori che paiono rafforzarne la prestazione. Grossi ci mette del suo per mandare avanti la baracca, ma il sound risulta senza mordente e svanisce per fortuna in fretta.

Roll On appare un bluesaccione (ebbene sì), sul quale il buon Durbin può non sforzare soverchiamente l’ugola delicata, magari più adatta ad esecuzioni simili, che la band forse non si sarebbe sognata alcune decadi addietro, ma tant’è, e quindi avanti su questa stregua che pare essere gradita a tutto il quartetto (o forse no…). Insanity torna a ruggire con un furioso drumming ed una ascia infuocata, che conducono velocemente le danze e lasciano ben sperare in un colpo di coda: in effetti, il ritmo è certamente più veloce e la prestazione è nel complesso discreta, salvo tornare alla nota stonata del cantato, che stavolta viene fortunatamente messo leggermente in disparte dalla preminenza della sei corde che tiene per sé la parte principale. Hellbender ha un altro buon incipit, che viene puntualmente disatteso dall’esecuzione delle parti cantate: voi direte, “ma forse ce l’hai con il cantante?” la risposta non può che essere che sì, sfortunatamente, se il risultato deve essere un’accozzaglia di note che non fa onore ad una band capace di ben altri ruggiti. Wild Horses è una cavalcata leggermente hard’n’roll, sulla quale Durbin si trova forse a suo agio e meglio incardinato nella parte; il divenire della traccia gli consente di cantare stavolta dritto per dritto senza infingimenti e soprattutto cori, naturalmente sempre nell’ambito delle coordinate di cui in premessa, con in più un buon solo di Grossi a chiudere.

Holding On passa via in fretta con un midtempo che sorprende come il momento blues di cui sopra: nonostante questo, anche in questo brano il singer riesce a fornire una discreta prestazione grazie alla struttura del brano che gli consente diverse pause tra una strofa e l’altra, consentendogli di restare sul pezzo in senso letterale arrivando senza “incidenti” alla fine del pezzo. Ci si avvicina alla fine: Last Outcast spara fendenti veloci con un drumming ancora esplosivo, un basso rutilante ed un James Durbin che per una volta si decide ad indossare i panni di un cantante hard che si rispetti, con inattesi buoni vocalizzi che l’assolo di Grossi fa finalmente risaltare nei circa tre minuti del brano, che spiana la strada alla conclusione affidata ad Arrows & Angels che vede una buona batteria in primo piano e la voce di Durbin che si barcamena ancora su di evoluzioni non del tutto soddisfacenti che confermano in pieno tutte le perplessità provate ed il dispiacere intenso nell’ascoltare un album che non doveva essere assolutamente il canto del cigno (almeno sinora) di una band gloriosa e storica.

Autore: Quiet Riot Titolo Album: Hollywood Cowboys
Anno: 2019 Casa Discografica: Frontiers Records
Genere musicale: Hard Rock Voto: 5
Tipo: CD Sito web: www.quietriot.band
Membri Band:
James Durbin – voce
Alex Grossi – chitarra
Chuck Wright – basso
Frankie Banali – batteria
Tracklist:
1. Don’t Call It Love
2. In The Blood
3. Heartbreak City
4. The Devil That You Know
5. Change Or Die
6. Roll On
7. Insanity
8. Hellbender
9. Wild Horses
10. Holding On
11. Last Outcast
12. Arrows And Angels
Category : Recensioni
Tags : Quiet Riot
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27th Nov2020

Quiet Riot – Road Rage

by Giancarlo Amitrano
In un gruppo che ha fatto, detto e visto di tutto, non poteva mancare anche il “merito” di essere talent scout! Come, infatti, giudicare altrimenti il nuovo cambio dietro al microfono nelle more avvenuto? Alla buona prestazione di Jizzy Pearl sul precedente 10 non segue il gradimento della band per una successiva conferma: ecco dunque che alla voce arriva il “bambino” prodigio James Durbin, altrimenti noto alle cronache per aver partecipato a diversi talent show americani ed alla stregua del vincitore di un qualsiasi programma di Maria De Filippi, eccolo approdare alla gloria del grande gruppo. Conseguentemente, cambia anche l’approccio corale del combo, che pur pare gradire la nuova linfa di gioventù portata dal singer, che con un cantato molto sbarazzino e patinato coinvolge la band in un tourbillon di note sparse qua e là, come appare chiaro sin dall’apertura di Can’t Get Enough che mantiene una buona intensità di fondo grazie al buon lavoro della sei corde di Grossi ed alla precisione della sezione ritmica. Getaway è un brano che riflette appieno la presenza del nuovo singer: spiace dirlo, ma le atmosfere roventi di un tempo, nemmeno molto lontano, sono ormai lontanissime; la traccia pare un esempio lampante di pseudo-glam, causa lo “sbattimento” vocale che il giovanetto tenta infondere al brano, tra l’altro colmo di cori che riecheggiano più i talent cui ha partecipato che i background vocali che la band sapeva aggiungere a tono in passato.

Finalmente, con Roll This Joint la band torna almeno per un frangente a ruggire discretamente: stavolta Durbin non eccede in “gigioneggiamenti” e va dritto al sodo, con Banali che pesta piacevolmente dietro pelli stavolta infuocate; anche Grossi si dà da fare con un buon lavoro alla sei corde che funge sia da contorno che da valido accompagnamento con un buon solo incisivo. Freak Flag scorre via come un classico brano hard’n’roll, laddove Durbin si guadagna bene la pagnotta con una prestazione solida e seria, senza indulgere ai manierismi acquisiti in precedenti esperienze, mentre ancora l’axeman fornisce un valido supporto a sei corde con una esecuzione ben azzeccata di assolo che si unisce ai cori di sottofondo. Almeno Wasted tenta risollevare le sorti dell’album con il suo ritmo incalzante e l’ossessività del refrain, con Durbin che tuttavia ricade presto nell’errore di atteggiarsi ad American Idol. Il solido lavoro di Grossi è frutto della sua preparazione tecnica, ma senza entusiasmare nel complesso, come se anche i big della band non vedessero l’ora di giungere alla fine, non solo della traccia.

Si prosegue con Still Wild ed i suoi tempi molto mid, che consentono al singer di non eccedere in tatticismi: meglio quindi badare allo stretto necessario con il cantato diretto e senza fronzoli, con una stavolta buona sezione ritmica che fornisce un solido accompagnamento, specialmente grazie al pattern creato abilmente dal buon Banali. Make A Way torna alla “lagna” degli esordi del disco: Durbin non comprende appieno che la tonalità ed il range da tenere in band come la nostra richiedono preparazione ed approccio solido ed intenso, non gorgheggi smielati come in tale frangente. Ancora un buon solo di Grossi, ed in più, l’aggiunta dell’armonica a bocca rende il brano quasi country in alcuni passaggi…e ho detto tutto! Renegades manda buoni segnali con la doppia cassa che Banali rotea da manuale e con Durbin che stavolta azzecca tutta la linea sonora, prendendola dritta per dritta senza giochetti: finalmente, verrebbe da dire, pur trattandosi di episodio sporadico che nulla aggiunge o toglie a quanto sinora maturato.

The Road appare improvvisamente come una similballad, che vede anche il singer abbassare di molto il tono e lasciarsi andare in un romanticismo sinora molto ben celato: il gruppo nel complesso lavora ancora bene, ma siamo ovviamente lontani dai fasti antichi di 3 decenni or sono. Shame e Knock Em Down chiudono l’album come fossero un unico brano, trattandosi della quasi eguale solfa; ovvero , mancanza assoluta di mordente, che anzi nella seconda traccia rasenta quasi l’insolenza a causa della prestazione scialba al microfono di un singer che non ha nulla a che fare on la band, il cui ravvedimento si spera avvenga in fretta.

Autore: Quiet Riot Titolo Album: Road Rage
Anno: 2017 Casa Discografica: Frontiers Records
Genere musicale: Hard Rock Voto: 6
Tipo: CD Sito web: www.quietriot.band
Membri Band:
James Durbin – voce
Alex Grossi – chitarra
Frankie Banali – batteria
Chuck Wright – basso
Tracklist:
1. Can’t Get Enough
2. Getaway
3. Roll This Joint
4. Freak Flag
5. Wasted
6. Still Wild
7. Make A Way
8. Renegade
9. The Road
10. Shame
11. Knock Em Down
Category : Recensioni
Tags : Quiet Riot
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20th Nov2020

Quiet Riot – 10

by Giancarlo Amitrano
È successo di tutto, ne è passata di acqua sotto i ponti. La vita ha chiesto il suo pegno: dall’ultimo lenght la band ha attraversato tutte le coordinate di una esistenza a tutto gas. In verità, sono stati maggiori i dolori che le gioie, uno fra tutti la tragica scomparsa di Dubrow, trovato drammaticamente senza vita dopo una settimana il 25 novembre del 2007. Rettamente Frankie Banali ritiene giunta la fine della band e ne decreta lo scioglimento ma dopo 2 anni, si dice anche grazie al desiderio della madre del defunto singer, il gruppo si riforma con varie line-up e ritorna in tournée anche per prepararsi all’inevitabile ritorno in studio, pur con grosse novità ed altrettanto importanti rientri. Ma c’è ancora tanto di Dubrow: la band lo ricorda in 4 tracce dal vivo di poco precedenti il tragico decesso, scelte appositamente da Banali con decisione molto ponderata, come da lui stesso affermato; le restanti 6 tracce da studio vedono al microfono la new entry Pearl, già reduce dalle atmosfere glam di Ratt e L.A. Guns e detto background viene portato dal singer pari pari nella interpretazione dell’odierno lenght, con le ovvie differenze di tecnica e stile (meglio dirlo subito!).

Andiamo, allora, alla scoperta di queste nuove tracce. Si parte con Rock In Peace e subito si nota che qualcosa di nuovo bolle in pentola: il cantato, come si diceva, indulge molto più ad atmosfere patinate con lustrini, nonostante la linea di navigazione sia sempre quella di sempre, ovvero solida e potente specie nella sezione ritmica, che vedrà avvicendarsi alle quattro corde vari turnisti, come Tony Franklin su questo brano ed è un solidissimo assolo del buon Grossi ad impreziosire il tutto, riuscendo (quasi) a non far rimpiangere la leggenda Cavazo. Bang For Your Duck (qui torna Sarzo) è un brano molto allegro con i cori di fabbrica a rimpolparne il groove, abbastanza ben tenuto dal singer che si dimostra bravo a mantenere toni alti nella esecuzione di pezzi più marcati come questo, che scorre via in fretta senza sensazionalismi di sorta e che nel contempo mantiene una certa robustezza di fondo e con lo statunitense axeman a disegnare ancora assoli molto particolari. Backside Of Water si apre con una “sonora” rullata a firma Banali, su cui presto si innesta il vocione di Pearl, certo più avvezzo a ritmi ed atmosfere molto goderecce come gli anni 80 imponevano: il risultato è comunque una discreta traccia con una svisatona del buon Grossi che corrobora appieno l’energia del brano.

Back On You è ancora una “drum-track”: pesta come ai bei tempi l’ottimo Banali, mentre Pearl non disdegna di esibire un cantato finalmente intenso ed adatto al contesto in cui trovasi ad operare. Il risultato sorprende con un insieme di muscoli e tecnica, mentre la sezione ritmica (con di nuovo Franklin) tiene a dovere il tempo e con la sei corde a dipingere ancora scintillanti arabeschi. Band Down (qui Wright al basso) fa tornare prepotentemente in auge l’ascia di Grossi, mentre la voce di Pearl, in alcuni passaggi, produce qualche lacrimuccia di ricordo, immaginando di riascoltare in alcuni tratti l’indimenticabile range di Dubrow, pur con tutti i distinguo del caso. La sei corde dello yankee macina e mulina note su note con sempre una certa eleganza e senza interferire con l’economia della traccia. L’album da studio chiude con Dogbone Alley e le sue tempistiche stavolta rallentate, sulle quali si evidenziano i molti crash della batteria, con Pearl che cerca chiudere in bellezza un album altrimenti definibile a dir poco “controverso”, pur se con questo ultimo brano il gruppo resta attento a non eccedere nel sound, pur onesto e coerente.

Le 4 tracce finali vedono all’opera, probabilmente per l’ultima volta, la voce possente di Dubrow che esegue da par suo tracce storiche del gruppo, tracce che, come detto, furono scelte ed estrapolate espressamente da Banali tra quelle meno affrontate in sede live dalla band, per rendere meglio la vis e del cantante, non più sostituibile, e del gruppo, per permetterne il prosieguo.

Autore: Quiet Riot Titolo Album:10
Anno: 2014 Casa Discografica: RSM
Genere musicale: Hard Rock Voto: 6
Tipo: CD Sito web: www.quietriot.band
Membri Band:
Jizzy Pearl – voce
Kevin Dubrow – voce su tracce 7,8,9 e 10
Alex Grossi – chitarra
Frankie Banali – batteria
Rudy Sarzo – basso su tracce 2 e 3
Tony Franklin – basso su tracce 1 e 4
Chuck Wrfight – basso su tracce 5,6,7,8,9 e 10
Tracklist:
1. Rock In Peace
2. Bang For Your Buck
3. Backside Of Water
4. Back On You
5. Band Down
6. Dogbone Alley
7. Put Up Or Shut Up
8. Free
9. South Of Heaven
10. Rock ‘n’Roll Medley
Category : Recensioni
Tags : Quiet Riot
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13th Nov2020

Quiet Riot – Rehab

by Giancarlo Amitrano
I nostri eroi non si sono fatti mancare proprio nulla, durante la loro carriera artistica: sono passati dalla gavetta al successo, attraversando tragedie ed insuccessi, provando l’ebbrezza dello star system e la tristezza del (quasi) viale del tramonto. Mancava solamente l’ingratitudine e l’irriconoscenza ma anche a questo pongono facilmente rimedio. Come? Facile a rispondere perché con una decisone inspiegabile ed assolutamente inconcepibile, la band decide di fare a meno di Cavazo, chitarrista ultraventennale del gruppo che ha cercato di seguire le orme dell’indimenticabile RR e che ha condiviso con la band tutte le gioie ed i dolori dell’epoca. I motivi di tale separazione a tutt’oggi non sono mai stati chiariti, potendo quindi operare solo per supposizioni: quel che è certo è che la band non sarà più la stessa e non avrà mai più lo stesso sound posseduto con l’ipertecnico axeman. Si ricorre, dunque, a dei sessionisti per completare l’odierno album: turnisti, dicasi subito, di spessore certamente, ma che evidentemente non incarnano lo spirito originario del gruppo, ora rappresentato solo dal duo Dubrow/Banali.

Ascoltiamo, dunque, la nuova fatica della band. Free inizia con una sei corde quasi “psichedelica” nei suoi arpeggi, mentre la voce calda di Dubrow pare riecheggiare di toni ancora più caldi e rafforzati, seguiti passo passo da un Tony Franklin che con il basso sa il fatto suo; Alex Grossi, presente su questo brano, riesce a tenere bene il ritmo con uno stile ovviamente molto personale che tiene a galla bene la band, con in più un assolo niente male come presentazione. Blind Faith ha tempi inizialmente rallentati, sui quali il canto pare dare una sua particolare interpretazione che lascia sbalorditi per il repentino cambio di passo dal rilassato al discretamente intenso: molto compatto, il brano non scade di intensità ed anzi riesce ad esaltarsi abbastanza grazie ad un solo tecnico ed invasivo della nuova ascia Citron. South Of Heaven ha un più che buono arpeggio iniziale, che viene seguito dall’ispessimento del suono, molto più grezzo ed intenso: ovviamente, il merito è dell’immarcescibile singer, che con la sua timbrica fa immediatamente collegare il mood al gruppo, qui condotto dal solido lavoro del mai troppo apprezzato batterista e della sua validissima grancassa a quattro mani, anzi piedi, usata con perizia.

Black Reign rifà il verso alle band imperanti nei gloriosi anni 80, colme di potenza ed aggressione sonora: infatti, il brano non avrebbe sfigurato in una delle tante metal compilation che la patria dello Zio Tom ha sfornato per tutta la decade precedente, cui il detto brano paga ampio dazio come una “qualunque” band metallica. Con Old Habits Die Hard i tempi rallentano, come di conseguenza anche il cantato e dobbiamo dire che il giochetto riesce egualmente, con Dubrow che riesce a contenere la sua irruenza al servizio di un brano dalle sfaccettature anche melodiche in alcuni passaggi, segno che effettivamente le “cattive abitudini sono dure a morire”. Con Strange Days abbiamo la seconda partecipazione di Grossi alla chitarra ed il risultato è una traccia pesantissima, con crash e rullanti a tutto spiano a seguire fedelmente le evoluzioni vocali di un cantante del tutto ispirato anche nel cambiare registro più di una volta all’interno dello stesso brano, facendolo quindi risultare intrigante e coinvolgente anche grazie ad una buon assolo del medesimo Grossi a tutto vantaggio dell’economia della traccia.

In Harms Way sorprende per la sua capacità camaleontica di trasformarsi da traccia quasi “prog” in alcuni passaggi per poi diventare brano quasi anthemico per il refrain coinvolgente ed intenso che precede il solo del “titolare” Citron alla sei corde, pur senza sensazionalismi di sorta. Beggars And Thieves è tra le tracce più lunghe dell’album e quindi, può giostrare ampiamente secondo i canoni che la band intende dare alla sua esecuzione: si parte sostenuti da una linea intensa e potente, senza fronzoli e sulla cui falsariga si snoda quasi tutto il brano, che nella fase finale sperimenta il suo concetto di brano impegnato ed impreziosito dalla linea a sei corde non indifferente. L’esecuzione di Don’t Think consente apprezzare ancora una volta l’inconfondibile timbrica del singer, che qui pare tornato a ruggire come ai bei tempi di Metal Health. Ed anche il gruppo segue sulla stessa linea il cantato aggressivo e spaccatimpani, che pur si appalesa non univoco nel suo “screaming” in alcuni passaggi, corroborati dall’assolo probabilmente più pirotecnico del disco. It Sucks To Be You è un altro brano molto duro, intenso e piacevolmente metallico: pur non del tutto consona allo stile del gruppo, la traccia è comunque piacevole anche grazie ai numerosi cori in esso presenti, che lo rendono gradevole all’ascolto in un con l’assolo di Grossi non disprezzabile.

Chiude l’album Evil Woman e qui, per la gioia di tutti, la band incontra la Leggenda: la partecipazione straordinaria di Glenn “The Voice” Hughes rende la traccia un qualcosa di “inascoltabile” per i non eletti: il range vocale dell’ “ex-tanti gruppi” fa della traccia una perla che da sola vale l’acquisto del disco, di modo che anche la lunga durata sproni il resto della band e Dubrow in primis a fornire una prestazione sopra le righe ad impreziosire un album oggi amplissimamente rivalutato.

Autore: Quiet Riot Titolo Album: Rehab
Anno: 2006 Casa Discografica: Demolition Records
Genere musicale: Hard Rock Voto: 7
Tipo: CD Sito web: www.quietriot.band
Membri Band:
Kevin Dubrow – voce
Frankie Banali – batteria
Tony Franklin – basso
Neil Citron – chitarra
Glenn Hughes – voce, basso su traccia 11
Alex Grossi – chitarra su tracce 1 e 6
Tracklist:
1. Free
2. Blind Faith
3. South Of Heaven
4. Black Reign
5. Old Habits Die Hard
6. Strange Days
7. In Harms Way
8. Beggars And Thieves
9. Don’t Think
10. It Sucks To Be You
11. Evil Woman
Category : Recensioni
Tags : Quiet Riot
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06th Nov2020

Quiet Riot – Guilty Pleasures

by Giancarlo Amitrano
E così, anche per i Nostri è giunto il momento di saltare a piè pari nel nuovo millennio. E come l’Araba Fenice risorge dalla proprie ceneri, così il combo losangelino, rafforzato dalla reunion originale con il precedente lenght, trova ulteriori energie per affrontare gli anni 2000 con rinnovato vigore e vitalità artistica. Restando fedele alla propria natura, la band non intende tradire la fetta dei duri e puri della prima ora, tornando alle sonorità degli esordi, quando all’ascia c’era l’indimenticabile RR: occhieggiando in giro e rendendosi conto che al momento vi sia quasi un “revival” dell’hard e metal vecchio stampo, il quartetto californiano decide di tornare in pista con un album che si delinea tra i migliori della sua discografia, risultando fresco e piacevole all’ascolto. Valutiamo, dunque, la nuova fatica della band ed iniziamo con il drumming potentissimo di Vicious Circle che consente a Dubrow di esibirsi come da tempo non accadeva; il singing ben “esagerato” si adatta alle tempistiche veloci della traccia, che con dei “coretti” filtrati aiuta l’evoluzione del brano verso svisate improvvise e l’ossessività del refrain, mettendo così a dura prova l’ugola del cantante, che tuttavia se la sfanga molto bene, lasciando a Cavazo un signor assolo a sei corde molto pirotecnico.

Si passa a Feel The Pain, con un drumming maggiormente moderato che tuttavia vira lestamente verso una linea decisa per seguire l’attacco infuocato del buon Dubrow: il ritmo è preciso e non monotono, con la sei corde di Cavazo che non lascia tempi morti, affilando tutto il pentagramma delle note, onde meglio prepararsi ad un solo intenso ed assolutamente “ottantiano” per intensità e partecipazione emotiva. Accidenti che somiglianza con i bei tempi di Metal Health: infatti, le tempistiche di Rock The House paiono ricordare in tutto e per tutto l’epoca dell’eponimo album, oltre che a rifare il verso alle varie cover (Slade in primis) che la band ha sempre gradito fornire; la traccia è comunque buona di per sé con un buon coro ed una struttura più che degna nell’essere portata avanti a colpi di rullanti e crash, ma anche di un solido assolo “cavaziano”. Shadow Of Love è il più elementare tra i brani sinora ascoltati: non male però la linea sonora che dopo appena un secondo parte sparatissima con background vocali e cantato molto aggressivo, senza dimenticare ovviamente l’intervento dovuto del Signor chitarrista a riempire fortemente le già di per sé valide tempistiche. I Can’t Make You Love Me è molto melodico e sognante, con Dubrow che accompagna con voce leggera le altrimenti infuocate evoluzioni dei compagni di strumento: eppure, anche sulle tonalità più abbassate il singer riesce a creare quel quid di coinvolgente che mette il timbro ad una piccola gemma dell’album, allietata da un altro pezzo di bravura dell’axeman.

Feed The Machine risente di tempi molto dimezzati, che tuttavia diradano in fretta verso linee decise di hard classico, con il singer che veste i panni dell’autentico “screamer”, e la sezione ritmica a dettare tempi solidi e validi, grazie al colpevolmente spesso sottovalutato Banali ed all’invece “rinomatissimo” Sarzo alle quattro corde, oltre al magico chitarrista. Eccoci alla titletrack, ed ecco che Dubrow per incanto si trasforma in un intrattenitore vocale, che invece di esibirsi normalmente al microfono, “racconta” strofa per strofa una traccia abbastanza articolata e comunque tecnicamente di solida caratura, abbellita da un pirotecnico solo a sei corde. Anche Blast From The Past è brano da menzionare: tecnicamente rilevante, pur senza eccedere in fronzoli, il brano si fa forte dei cori ad alta voce ripetuti, sui quali si sbizzarrisce l’uso dei crash di Banali, oltra ad una chitarra che non funge solo da sottofondo, ma anzi reitera la sua linea sonora aggressiva e stavolta piacevolmente invasiva. Let Me Be The One è l’altra traccia lenta del disco, che evidenzia la ancora buona e valida preparazione della band: meno lineare degli altri brani, il pezzo risalta comunque per il trip vocale di Dubrow, ispirato e cantastorie al tempo stesso, il singer batte forte sui tempi dimezzati ed allunga le note volutamente per rendere il brano meglio scorrevole, riuscendovi in pieno. 

Street Fighter parte forte, molto forte: subito una batteria in primo piano a rendere il brano semplice e scorrevole come i classici pezzi degli anni 80, ai quali un po’ tutto il lenght paga tributo. Stavolta Dubrow torna ad essere un urlatore classico, mentre anche il resto del gruppo si erge a “metal-band”, seguendo i canoni del brano “3-minuti-3”, con tanto di assolo fresso di metallo. Si chiude con Fly Too High ed è una ballad ad impreziosire l’ultimo step del disco: la band decide di chiudere così il lenght, con questo pezzo che pare ripercorrere echi del passato, specie nei passaggi della acustica, che a metà brano torna ad essere tosta il giusto per offrire l’ultimo signor assolo di un disco che ci mostra i Nostri ancora validamente sul pezzo.

Autore: Quiet Riot Titolo Album: Guilty Pleasures
Anno: 2001 Casa Discografica: Bodyguard Records
Genere musicale: Hard Rock Voto: 7
Tipo: CD Sito web: www.quietriot.band
Membri Band:
Kevin Dubrow – voce
Carlos Cavazo – chitarra
Rudy Sarzo – basso
Frankie Banali – batteria
Tracklist:
1. Vicious Circle
2. Feel The Pain
3. Rock The House
4. Shadow Of Love
5. I Can’t Make You Love Me
6. Feed The Machine
7. Guilty Pleasures
8. Blast From The Past
9. Let Me Be The One
10. Street Fighter
11. Fly Too High
Category : Recensioni
Tags : Quiet Riot
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30th Ott2020

Quiet Riot – Alive And Well

by Giancarlo Amitrano
È il mark classico a traghettare la band attraverso gli ultimi anni del vecchio secolo non senza aver patito un ulteriore lutto nella già travagliata storia del gruppo, ovvero il suicidio del bassista Kenny Hillery, che aveva partecipato al pur discreto Terrified, il quale si toglie la vita nel 1996. Rimessisi in sesto con una serie di tour di “riscaldamento”, i Nostri giungono così alla realizzazione di questo lenght che sembra dare nuova ed ennesima linfa ad una già vissuta formazione, che parte con un ottimo pattern di Banali a dare la stura a Don’t Know What I Want ed alla conseguente potente e ritrovata verve vocale di Dubrow che riesce a rendere corposo anche un apparentemente facile ritornello su cui verte gran parte della traccia, che non manca del solo ad effetto di Cavazo. Angry sfila via liscia e compatta, con il cantato già istruito sul da farsi, che non è magari memorabile ma che altrettanto sicuramente mantiene un certo ritmo ed una sua struttura abbastanza varia e melodicamente organizzata, rinforzata dallo spot a sei corde potente e valido, assolutamente impeccabile e ben eseguito. Eccoci alla titletrack, che risulta subito immediata e gradevole: riconosciamo ormai il timbro dietro al microfono, che non lesina energia soprattutto nello esternare a forza il refrain che ci ritorna ben piacevolmente interpretato, grazie anche alla lunghezza mediamente più elevata dei brani che permettono di fare di più e di meglio.

The Ritual permette un sontuoso intro a Sarzo che fa letteralmente rimbombare il suo basso assieme ai crash ripetuti del validissimo Banali: rallentato il ritmo della sezione ritmica, ci pensa ancora il singer a condurre le danze con una esecuzione in perfetto stile mid tempo, che tuttavia non perde il groove iniziale che si può percepire lungo tutta la traccia, ancora impreziosita dall’ascia pregiata di Cavazo. Overworked And Underpaid è un altro brano grato ai gloriosi eighties, che vede perfino il cantato darsi una ripulita da orpelli inutili e concedere alla platea solo il caro ed onesto sound cantato a squarciagola, laddove nemmeno il timbro roco del singer può limitare la freschezza della traccia, sulla quale l’accompagnamento a sei corde si mostra deciso e valido. Slam Dunk è un brano a dir poco “festaiolo”: le liriche mostrano una band rilassata a suo piacimento come nel bel mezzo di una festa, senza che ci si debba peraltro annoiare avvitandosi su di un ingenuo motivetto e ritornello, come non è in questo caso, dove anche i cori hanno la loro importanza nel rafforzare una traccia altrimenti a dir poco “giovanile”. Too Much Information è una classica traccia hard’n’roll: provvede anzitutto Banali a donarle quel quid a base di grancassa e rullanti che improvvisamente svisa verso il pestaggio assoluto del suo kit; mentre Dubrow si ricorda di avere ancora frecce al suo arco vocale, il brano non si fossilizza sulla solita routine “strofa-ritornello-strofa”, fornendo anzi piacevoli cambi di tempo e l’ennesimo assolo da menzionare.

Con Against The Wall  la band paga il suo tributo di ringraziamento alla gloriosa decade trascorsa con una esecuzione del tutto hard, con il cantato che pare seguire alla lettera i dettami di un certo singer rossocrinito alla corte dei fratelli Van Halen (Sammy Hagar, no? ) con in più quel qualcosa di originale che certo non sfigura mai. Occorre soddisfare, anche in questo album, l’esigenza della band di omaggiare a suo modo qualche leggenda che li ha ispirati ed ecco allora stavolta una impeccabile esecuzione di Highway ToHell davanti alla quale non possiamo altro che togliere il cappello ed inchinarci: una superba esecuzione di tutto il quartetto che ci porta inevitabilmente alla commozione nel pensare chi abbia eseguito una traccia così leggendaria, ma che al tempo stesso ci fa essere felici del fatto che anche il compiantissimo Bon Scott avrebbe certamente apprezzato il tutto, rafforzando ancor di più l’amore che si possa riversare ancora oggi sulla band dell’altrettanto memorabile Randy Rhoads.

Autore: Quiet Riot Titolo Album: Alive And Well
Anno: 1999 Casa Discografica: Cleopatra
Genere musicale: Hard Rock Voto: 6
Tipo: CD Sito web: www.quietriot.band
Membri Band:
Kevin Dubrow – voce
Carlos Cavazo – chitarra
Frankie Banali – batteria
Rudy Sarzo – basso
Tracklist:
1. Don’t Know What I Want
2. Angry
3. Alive And Well
4. The Ritual
5. Overworked And Underpaid
6. Slam Dunk
7. Too Much Information
8. Against The Well
9. Highway To Hell
Category : Recensioni
Tags : Quiet Riot
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23rd Ott2020

Quiet Riot – Down To The Bone

by Giancarlo Amitrano
Ancora cambiamenti, nella band di Los Angeles: con il rientro di Wright, il combo riassume il (quasi) mark originario, ma anche vecchie abitudini che restano nel nostro quartetto. Il rientro del vecchio bassista consente alla line-up di riprendere le vestigia della antiche sonorità, che tornano ad essere più aggressive e meno commerciali, per decisione stessa del gruppo, pur reduce dalla pubblicazione dell’album tributo The Randy Rhoads Years che rivisita brani del periodo con l’indimenticato chitarrista. Il nuovo album, come detto, non getta l’occhio alle chart ed anzi “se le inimica”, tornando al sound fresso e tosto degli esordi, mancante forse di melodie ma al tempo stesso duro e puro come l’audience inflessibile del gruppo pretende. Si parte con Dig e si ha subito l’impressione di trovarsi di fronte ad un filler: spiace dirlo, ma il sound che fuoriesce dalle casse è tutt’altro che rilevante, nonostante l’assolo di Cavazo sia più che degno, ma trattasi di mosca bianca in un vicolo senza luce complessiva. Pretty Pack O’ Lies si incammina anch’essa straccamente senza suscitare entusiasmi, dovendo anche “ringraziare” la produzione affidata al singer, che evidentemente non avrebbe dovuto cimentarsi in detta impresa, rendendola anche noiosa.

All Day And All Of The Night è l’unico momento di luce dell’album: il coverizzare brani famosi rende la band nella sua luce migliore ed ecco che la trasposizione di una traccia dei Kinks fa venire fuori il lato positivo delle cose, ivi compresa la tecnica comunque indiscutibile dei Nostri. Whatever It Takes, ovvero nulla di nuovo sotto il sole: nonostante il buon drumming di Banali e le evoluzioni “svisatorie” di Cavazo, il brano non decolla a causa del taglio volutamente aggressivo dato al cantato, che ormai non pare più adattarsi alla band che nel seguente Wings Of Cloud procede nella sua ricerca affannosa di riconquistare il mercato dei duri e puri della prima ora. Ancora Dubrow e la sua voce roca a condurre le danze, con una pur buona sezione ritmica ed un ritornello non senza pregio, rafforzato da inconsueti cori. Trouble Again rallenta la corsa, soffermandosi maggiormente su ritmi e sonorità più dedite alla melodia sonora, tutta condita dai crash della batteria: si ravviva l’ascolto di quel che basta per non farci skippare sin da subito il brano. La titletrack con la sua semiacustica iniziale non decolla subito: è ancora il singer a dettare le linee guida della sei corde, che si mantiene per tutto il brano su di una linea di completo relax dalle atmosfere quasi nordiche in alcuni passaggi.

Un buon brano Voodoo Brew che con le sue tastiere cerca di portare nuova legna in cascina: il cantato è ormai facilmente identificabile, mentre il resto degli strumenti scivola via stavolta davvero senza emozionarci per nulla, sempre spiacendo il dirlo. Monday Morning Breakdown ha sonorità cupe, che vengono quasi subito affiancate dai tempi molto “mid” soprattutto nel drumming apprezzabile. Anche Dubrow si libera dai cappi del brano e parte verso atmosfere più intense che alla fine virano verso la sufficienza. Live Til It Hurts è tosto nelle intenzioni, ma moscetto assai nel complesso e dire che Cavazo fornisce come sempre il suo contributo e la sezione ritmica si riprende la scena come ai bei tempi, pur non ruggendo come qualche lustro addietro. Twisted è un brano che per esecuzione e struttura sarebbe piaciuto a band quale ad esempio quella di Vinnie Vincent: il glam si insinua strisciante tra le strofe, pur mantenendo quella durezza di fondo che i Nostri non perderanno mai del tutto (per fortuna). All Wound Up è puro hard’n’roll: sono ritmi aggressivi ed intensi, sui quali campeggia forte il vocione di Dubrow, cui danno manforte i compagni di viaggio; buona l’esecuzione che finalmente si avvicina ai vertici che alla band competono, qui unita e strategica nel componimento.

Si chiude con Hell Or High Water che “miracolosamente” torna allo scadente ritmo iniziale del disco: meglio chiudere in fretta l’album che, pur con un brano di chiusura discreto, risulta essere ancora oggi tra i meno ricordati dai fan della band.

Autore: Quiet Riot Titolo Album: Down To The Bone
Anno: 1995 Casa Discografica: Moonstone
Genere musicale: Hard Rock Voto: 5
Tipo: CD Sito web: www.quietriot.band
Membri Band:
Carlos Cavazo – chitarra
Kevin Dubrow – voce
Chuck Wright – basso
Frankie Banali – batteria
Tracklist:
1. Dig
2. Pretty Pack O’ Lies
3. All Day And All Of The Night
4. Whatever It Takes
5. Wings Of A Cloud
6. Trouble Again
7. Down To The Bone
8. Voodoo Brew
9. Monday Morning Breakdown
10. Live Til It Hurts
11. Twisted
12. All Wound Up
13. Hell Or High Water
Category : Recensioni
Tags : Quiet Riot
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16th Ott2020

Quiet Riot – Terrified

by Giancarlo Amitrano
Archiviata in fretta la brutta parentesi Shortino, la band non trova di meglio che…sciogliersi: con i diversi membri sparpagliati in vari progetti paralleli, era comunque nell’aria che il gruppo si sarebbe prima o poi riformato. Sotto la spinta principale di Cavazo e Dubrow, infatti, dopo 5 anni il combo si riforma quasi nella sua formazione originale, con l’eccezione del nuovo bassista a rilevare i colossi che lo hanno preceduto, il tutto, nel contesto di una band sì riformata ma probabilmente con lo sguardo già oltre l’album odierno. Partendo con Cold Day In Hell, si recuperano alcune sonorità dei bei tempi, con Dubrow sempre sul pezzo e con la sezione ritmica nuova a metà piacevolmente affiatata, grazie specialmente ad un grande Banali ed al suo tocco inconfondibile, sulla scia di un brano lento a metà e con la semiacustica di Cavazo che ritorna alla grande, tanto per ricordare l’importanza dell’ascia. Loaded Gun e la distorsione inziale a sei corde consentono di mettersi comodi all’ascolto di una traccia potente, con tanto di crash e timpani a tutto spiano e con il cantato di Dubrow a rendere abbastanza lancinante il mood del pezzo; il solo di Cavazo è a dir poco pirotecnico e variegato con svolazzi di pura tecnica.

Anche in questo brano non manca il doveroso omaggio della band ad una delle sue influenze principali: la versione di Itchycoo Park sarebbe piaciuta molto agli Small Faces per la sua vena sbarazzina ed allegra, con una validissima acustica a dettare bene i tempi di una traccia che qui rimembra alla grande i gloriosi anni 60. Si giunge così alla titletrack che torna ad impregnarsi di elettricità, grazie al drumming poderoso di Banali ed all’ascia infuocata del buon Cavazo: anche Dubrow, se permettete, dice ampiamente la sua esprimendosi con vena estrosa e “polemica” con una voce che rimbomba in faccia a tutti. Si può definire la maggior parte della traccia “semicalma”, esplodendo solo nelle seconde parti ad immediato rimorchio delle strofe; ci pensa un altro signor assolo a sei corde a mettere tutti d’accordo circa la validità della band ancora al momento della pubblicazione dell’odierno lenght. Rude Boy ed il bell’intro a base di acustica sono un toccasana per le orecchie, con la voce melodica e vellutata di Dubrow, che in fretta diviene bastevolmente “arrabbiato” nell’intonazione il tutto, con una sezione ritmica precisa e puntuale su di un ritmo a volte quasi mid tempo, il che non guasta per rendere varia la traccia, in un con il valido assolo, da vero axeman, di Cavazo. Anche Dirty Lover ha un avvio molto rilassato, su cui ancora una volta il cantato costruisce letteralmente la superficie grezza e dura della band che viene a galla: notabile il drumming di Banali che ancora una volta sa come e dove “mettere mano” con le sue bacchette magiche, mentre la sei corde di Cavazo si incammina decisa verso il suo assolo infuocato.

Duro e grezzo il sound di Psycho City, che di conseguenza “contagia” anche il cantato virilissimo di un arrabbiato Dubrow, mentre Kenny Hillery fornisce ampiamente il suo contributo con una quattro corde molto intensa che detta bene note e tempi, pur nel contesto di un brano stavolta leggermente sottotono. Rude, Crude Mood  mostra tutte le caratteristiche di un classico hard’n’roll, soltanto leggermente più ispessito nel sound a causa di un azzeccato mix tra crash e timpani della batteria che qui non lesina picchiare sodo sulle strofe molto cruente della traccia, pur abbastanza scontata. Little Angel procede verso la direzione sin qui ascoltata ovvero quella del singer che tiene saldamente in pugno le redini del disco e con la band che lo segue con una più che degna diligenza, unendo in questa occasione anche una buona cooperazione nei cori per rafforzare la traccia, che porta alla conclusiva Resurrection che parte in quarta con la svisatona dell’ascia a fare da apripista a quella che appare una vera e propria cavalcata metallica esclusivamente strumentale, nella quale tutti i musicisti mettono il proprio talento nel mostrare quello di cui ancora sono capaci. Nel caso di specie, si tratta di una traccia degnissima meritevole di attenzione sino alla fine per i suoi vari cambi di tempo, di modo da chiudere degnamente un altro valido lenght del gruppo, che ancora ha legna da vendere.

Autore: Quiet Riot Titolo Album: Terrified
Anno: 1993 Casa Discografica: Moonstone
Genere musicale: Hard Rock Voto: 6
Tipo: CD Sito web: www.quietriot.band
Membri Band:
Kevin Dubrow – voce
Carlos Cavazo – chitarra
Kenny Hillery – basso
Frankie Banali – batteria
Tracklist:
1. Cold Day In Hell
2. Loaded Gun
3. Itchycoo Park
4. Terrified
5. Rude Boy
6. Dirty Lover
7. Psycho City
8. Rude, Crude Mood
9. Little Angel
10. Resurrection
Category : Recensioni
Tags : Quiet Riot
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09th Ott2020

Quiet Riot – Quiet Riot (1988)

by Giancarlo Amitrano
Togliamoci subito il dente: i nodi sono venuti al pettine! A metà degli anni 80, il destino dei Nostri pare bello che segnato: reduce, infatti, dai comunque discreti album precedenti non privi anche di qualche pregio, la band californiana si lascia travolgere dagli eventi, per così dire. Il primo a farne le spese è nientemeno che il singer e fondatore Dubrow, che viene esautorato senza batter ciglio, rimpiazzato dall’ex Rough Cutt Paul Shortino, come anche Wright che viene rilevato dall’altro ex Rough Cutt Sean Mc Nabb. Il risultato è un autentico disastro: senza il singer originale, che pur aveva caratterizzato la prima fase del gruppo, l’album è un accozzaglia di suoni malmessi tra loro e privo assolutamente di quelle atmosfere tanto care agli aficionados della prima ora, nonostante anche l’inserimento delle tastiere dell’ex-Alcatrazz Waldo. E dire che, comunque, l’album non manca di qualche pregio, pur con tutti i distinguo del caso anzitutto circa la timbrica vocale del buon Shortino, lontano anni luce dal sound roco e graffiante del dimissionato Dubrow.

Si comincia, dunque, con le tastiere ad annunziare Stay With Me Tonight e la voce morbidissima della new entry, del tutto inadatta all’humus a noi noto: sonorità molto “mosce” con i cori che cercano di ravvivare la debolezza che già da adesso si percepisce. Callin’ The Shots si rianima leggermente, ma nulla di più: un drumming maggiormente incisivo induce Shortino a darsi una mossa, accelerando il cantato stavolta meno sincopato ma la musica, nel senso strettissimo del termine, non cambia: sono ancora presenti discreti background vocali che rafforzano la traccia, supportata anche da un centrale e discreto giro di tastiere, mentre torna a farsi sentire l’ascia di Cavazo. Run To You è la ballad servitaci improvvisamente: tastiere delicate che si accompagnano alla semi acustica di Cavazo, per consentire alla voce al miele del nuovo singer di offrire la sua interpretazione di un brano semplice nella sua struttura e senza soverchi picchi di sorta. I’m Fallin’ vede la band illudere di tornare a ruggire come ai bei tempi ma il sogno dura molto poco, con ancora il pur volenteroso cantato dell’ex Rough Cutt a tentare di mandare avanti alla meno peggio la baracca, sulla quale purtroppo si ergono forti gli echi di un passato glorioso che qui viene “maltrattato” bellamente dagli autori.

King Of The Hill è un’accozzaglia di note che non stanno in piedi e dispiace davvero dover notare che, ancora una volta Shortino non ha nulla a che spartire con i compagni di cordata di oggi. E pensare che ha abbandonato senza pensarci su una discreta carriera con i Rough Cutt per assurgere alla notorietà con la band californiana…ed occorre dire che riesce in pieno a non farcela. The Joker risolleva di un po’ l’umore di chi ascolta: i ritmi qui sono discreti e riescono a percorrere una certa dose di energia per giungere all’esecuzione di una traccia abbastanza scorrevole, pur senza picchi memorabili, non fosse altro per il buon lavoro di Banali e le buone entrate dell’ascia che qui finalmente si ritaglia il dovuto spazio. Con Lunar Obsession , Cavazo ci ricorda essere ancora una signora ascia lungo i circa due minuti di esibizione accanto alla tastiere del buon Waldo, che nella seguente Don’t Wanna Be Your Fool ben accompagna la sei corde in un brano che vede il singer esprimersi finalmente con voce chiara, scandendo per bene ogni nota anche grazie al ritmo volutamente rallentato della traccia, che consente a Shortino di trovarsi a suo agio.

Coppin’ A Feel è forse il miglior brano dell’album: basato su di un insinuante mid-tempo, scivola via con relativo gradimento, anche grazie stavolta al buon lavoro di squadra: intendiamoci, nulla di sensazionale, ma almeno il ritmo viene tenuto alto per tutta la traccia, con in più anche un buon solo di Cavazo. In A Rush si incammina vero lidi più intensi e sinora nemmeno sfiorati dal gruppo: almeno qui si cerca di dare una spinta all’intensità sinora carente con un canto stavolta più aggressivo come si conviene ad una band paladina dell’hard classico dell’epoca. Si chiude con Empty Promises che vede ancora una buona collaborazione tastiere-chitarra che detta bene i tempi di un brano che forse avrebbe dovuto essere piazzato all’inizio e non alla fine: ma almeno il lenght chiude con energia e sveltezza, con il gruppo ben in palla, pur se solo in altre sporadiche occasioni dell’album, davvero difficile da mandare giù.

Autore: Quiet Riot Titolo Album: Quiet Riot
Anno: 1988 Casa Discografica: Pasha
Genere musicale: Hard Rock Voto: 5
Tipo: CD Sito web: www.quietriot.band
Membri Band:
Paul Shortino – voce
Sean Mc Nabb – basso
Frankie Banali – batteria
Carlos Cavazo – chitarra
Jimmy Waldo – tastiere
Jimmy Johnson – basso su tracce 1 e 9
Tracklist:
1. Stay With Me Tonight
2. Callin’ The Shots
3. Run To You
4. I’m Fallin’
5. King Of The Hill
6. The Joker
7. Lunar Obsession
8. Don’t Wanna Be Your Feel
9. Coppin’ A Feel
10. In A Rush
11. Empty Promises
Category : Recensioni
Tags : Quiet Riot
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02nd Ott2020

Quiet Riot – III

by Giancarlo Amitrano
Siamo giunti al quinto album, ma questo non sembra spaventare i Nostri i quali, anzi, reduci dal mezzo flop di Condition Critical di cui abbiamo parlato qui, approfittando di una piccola pausa di riflessione, trovano il modo di tornare alla grande in pista. Con Frankie Banali ricolmo di gloria per aver appena compartecipato in prima persona nientemeno che con Ronnie James Dio alla scrittura di Stars ed al conseguente megaprogetto Hear’n’Aid, il quartetto si ritrova pressoché al completo, con l’entrata come membro effettivo dell’altrettanto virtuoso Wright al posto di Sarzo. Ne consegue un disco del tutto diverso dai precedenti, che persegue sonorità molto più cromate e laccate, in linea con i gruppi più in voga del momento: ecco quindi un uso marcato delle tastiere ed una ricerca di sound molto manierato, che rasenta l’AOR senza dispiacersene. Si inizia con Main Attraction e con subito le tastiere in evidenza, mentre partono i rullanti di Banali e la traccia va forte con una inattesa esibizione di forza del cantato. Ma il brano è molto più semplice di quanto si prospetti, con cori a volontà e ritornello ben scandito, senza tralasciare ovviamente un breve ma solido assolo del buon Cavazo.

The Wild And The Young vede ancora l’intro poderosa del drumming di Banali, mentre Dubrow si dà da fare per mantenere alta la tensione, grazie anche ai background vocali che corroborano la traccia, sulla quale ancora incombono i tasti che ci ricordano la direzione intrapresa con questo lenght, vicino ad epigoni quali Def Leppard o Europe, pur con un maggior ispessimento del suono. Il miglior brano del disco è certo la terza traccia, Twilight Hotel, che si caratterizza per un cantato molto intenso e drammatizzato, su cui stavolta torreggiano tastiere da vero rock d’autore: Banali accompagna da par suo con battute e tempi davvero notevoli, mentre ambo le strofe sono davvero ben scritte, con l’ascia di Cavazo che fa capolino di qua e di là con la consueta precisione, senza sottrarsi alla gloria di un altro buon assolo che con progressione decisa vira verso elevate vette. Down And Dirty non fa sconti: pur con tempistiche quasi mid, resta scolpito forte in chi ascolta per la sua “confusione” sonora che ingloba tutta la strumentazione, ivi compresi i cori che stavolta appaiono addirittura anche più ruvidi, con Cavazo che alla fine mette tutti d’accordo.

Rise Or Fall è brano di spessore: Dubrow canta con la dovuta “arrabbiatura”, mentre le tastiere sono ideali per completare il refrain, Banali pesta da par suo e anche il vecchio/nuovo bassista dice la sua con entrate ben misurate ma non per questo di minor impatto; sei corde ancora su tutti per il suo solo ben strutturato che ben si mantiene lungo tutto il brano. Put Up Or Shut Up trova anche una buona dose di velocità: il singer si sgola bene per condurci al ritornello, che viene rafforzato dai cori anche in occasione di passaggi molto leggeri come quelli della traccia, che si divide tra l’hard classico e rock a stelle e strisce, certo sempre gradito. Bellissima l’articolazione iniziale di Still Of The Night, con la preparazione strumentale che spiana i riflettori sul canto liricamente ispirato nell’ambito di un brano molto intenso e quasi drammatizzato in alcuni passaggi, tra i quali si nota anche un insolito Bobby Kimball ai cori il tutto, senza cedimenti di sorta ma anzi con un progressivo innalzamento dei toni verso il punto massimo di pathos, che la chitarra di Cavazo punteggia alla grande. In un minuto Bass Case esalta le doti della quattro corde di Wright che con le tastiere in sottofondo ben si gioca il suo momento di notorietà, che continua con The Pump ed il suo stavolta non celato mid-tempo: ormai Dubrow tiene saldo il timone della band che lo “ripaga” della stessa moneta sonante in termini di validità tecnica ed esecutiva, pur su tracce assolutamente non trascendentali come questa.

Con Slave To Love si torna ad una band arrabbiata il giusto: la traccia, scritta in collaborazione con Stan Bush, vede eseguire alla perfezione il compito di tutti. Sono le tastiere a dominare la scena, creando un tappeto da easy listening grazie all’azzeccata timbrica del singer ed ancora un valido assolo di Cavazo che si porta sulle spalle la band sino alla fine del pezzo. Si chiude con la “pesante” Helping Hands ed il tono davvero aggressivo del pezzo: cori ancora a supportare la voce già di per sé decisa ed intensa, è una buona sezione ritmica a condurre le ritmiche del brano, mentre le tastiere sono ancora presentissime nel supportare il lato melodico dell’intero album che all’epoca fu ritenuto deludente, ma oggi (come al solito) ampiamente rivalutato.

Autore: Quiet Riot Titolo Album: III
Anno: 1986 Casa Discografica: Pasha
Genere musicale: Hard Rock Voto: 7
Tipo: CD Sito web: www.quietriot.band
Membri Band:
Kevin Dubrow – voce
Frankie Banali – batteria
Carlos Cavazo – chitarra
Chuck Wright – basso
Bobby Kimball – cori su traccia 7
John Purdell – tastiere
Tracklist:
1. Main Attraction
2. The Wild And The Young
3. Twilight Hotel
4. Down And Dirty
5. Rise Or Fall
6. Put Up Or Shut Up
7. Still Of The Night
8. Bass Case
9. The Pump
10. Slave To Love
11. Helping Hands
Category : Recensioni
Tags : Quiet Riot
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