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18th Ago2017

Bluesaddiruse – Via Nova

by Marco Castoldi

Bluesaddiruse - Via NovaGià nella dedica dell’album a tre icone del blues, spiriti guida dei Bluesaddiruse (Joe Cocker, B.B.King e Pino Daniele) già si capisce che si è di fronte a qualcosa d’intenso, rauco, viscerale, catramoso e autentico. Ed infatti così è Via Nova, tredici tracce di blues tanto intenso quanto i colori, gli odori, la passione e la sofferenza dei vicoli della Napoli che a tratti viene cantata dai Bluesaddiruse. L’album ha diversi sapori, un po’ blues, un po’ hard rock un po’ psichedelico e sembra raccontare costantemente una città piena di bellezze e contraddizioni senza però mai scadere negli stereotipi o nelle nostalgie. I Bluesaddiruse miscelano sound anglosassoni, vocals graffianti come nella migliore tradizione del blues carico di passione e di emozioni e lingua partenopea in un mix insolito ma che seduce e trasporta. Di tipicamente partenopeo ci sono anche l’ironia e lo scherzo pungente e dissacrante di ‘A Fronna, che sembra prendersi gioco della scena musicale napoletana attuale e di certe band o artisti partenopei contemporanei o di Social Network, traccia in bilico tra scherzo e critica feroce della dipendenza da vita virtuale.

Dai temi al sound alle grafiche Via Nova è in tutta onestà un album fatto veramente bene. La registrazione in presa diretta non è un’autocelebrazione del virtuosismo (che non manca, anzi) ma un elemento in più che dà quel tocco di cruda autenticità all’album, insieme alle grafiche surreali e criptiche come i B Movie anni settanta. Un disco insomma, che racconta storie semplici ma affascinanti e crea qualcosa di sincero e originale partendo da ingredienti classici: dialetto, hard rock e tantissima energia.

Autore: Bluesaddiruse

Titolo Album: Via Nova

Anno: 2016

Casa Discografica: Autoproduzione

Genere musicale: Rock Blues

Voto: 8

Tipo: CD

Sito web: www.facebook.com/pg/Bluesaddiruse

Membri band:

Alfredo Bluesaddiruse d’Ecclesiis – voce, armonica

Andrea Cioffi – chitarra

Gian Paolo Costantini – basso, cori

Giulio Pitoni – batteria

Tracklist:

  1. Foss’Bell’

  2. Rall’Nguoll’Again

  3. ‘A Fronna

  4. Si Te Putess’Avé

  5. ‘O Treno Do’ Sole

  6. M’Arritrov’ Sol’Je

  7. Viecchie, Mugliere, Muorte e Criature

  8. Core’e Preta

  9. Munn’ Mariuol’

  10. Social Network

  11. ‘Sta Strada

  12. MaryAngel

  13. Campa Guaglio

Category : Recensioni
Tags : Rock Blues
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09th Ago2017

Freddy And The Phantoms – Decline Of The West

by Sara Fabrizi

Freddy And The Phantoms - Decline Of The WestQuando il blues rock soffia forte dalla Danimarca. Freddy And The Phantoms da Copenaghen con un mix di swampy blues, heavy desert rock, epic rock ballads. Nati nel 2010 e con all’attivo 4 album e live tour di impatto, si sono affermati subito come una della blues rock band più amate in Danimarca e non solo. Grazie al respiro così internazionale del loro sound (sembrano americani nel midollo) e ai loro live show così intensi stanno conquistando un pubblico sempre più vasto. La loro quarta fatica, Decline Of The West, uscito per la label Mighty Music lo scorso aprile, è la summa di questa forte “danish attitude to blues”. Il titolo dell’album è piuttosto emblematico, alludendo ad una fase di declino, crisi e tramonto che sta attraversando la nostra civiltà occidentale. Ed è proprio durante la registrazione dell’album che è venuta fuori prepotentemente questa profezia in relazione soprattutto al clima di paura e terrore che sta segnando Europa e Stati Uniti portando a derive come la xenofobia che finisce col prevalere sui valori e sentimenti più umani come la solidarietà. Le 11 tracce di Decline Of The West trattano proprio queste tematiche con gli strumenti appropriatissimi del blues rock. Soprattutto il lato di sofferenza e dramma esistenziale, così caro al sostrato culturale che ha prodotto la madre di tutti i generi, è qui reso in maniera grandiosa ed intensa dando luogo ad una vera e propria odissea bluesy che si dipana lungo le 11 microstorie narrate nei brani.

Un piglio quasi da concept album quindi che racchiude una varietà stilistica interessante, spaziando da rock ballad drammatiche, dove ho sentito forte l’eco di Neil Young, a pezzi tipicamente desert rock, dove è palese l’anima southern alla Lynyrd Skynyrd, a pezzi molto swamp blues, un po’ alla Creedence maniera, a pezzi più rockeggianti ed apparentemente più easy dove però l’impronta profonda e drammatica del blues non viene mai meno. La stessa title track è intrisa di queste atmosfere un po’ fumose che “insidiano” la leggerezza di un impianto tipicamente classic rock. Da segnalare il very rare special guest dell’ottava traccia, NYC 1965: trattasi del chitarrista americano Billy Cross, già session man di Bob Dylan, Link Wray, Meat Loaf. Questa preziosa collaborazione conferisce un’aura quasi di magia al già nostalgico rock’n’roll del brano. C’è un brano poi, la nona traccia, Brownstone Badlands, dove è forte l’impronta springsteeiana. E’ la tipica cavalcata rock alla “Boss maniera”: batteria portante e incalzante, molto spazio alle tastiere veloci e vivaci, chitarre energiche e positive. Un modo scanzonato di raccontare realtà non proprio facili e felici. Dicevo dell’eco di Young: c’è la settima traccia, Transition Blues, dove l’apertura è proprio Ohio per poi proseguire nei cardini delle chitarre acide del grande canadese ma lasciando spazio anche al veloce irish rock blues alla Rory Gallagher.

Il set di influenze è composito e naturalmente in tema con il genere prescelto. La loro abilità sta, a mio parere, nell’aver saputo trattare temi drammaticamente attuali con le sonorità tipiche di un insieme di generi e micro-generi che da sempre hanno a cuore il lato sociale, e non solo individuale, delle vicende umane. Inscrivendo il tutto in una importante epopea blues che, pur non potendo offrire soluzioni facili ai problemi trattati, offre comunque uno spunto di riflessione e una chiave di lettura.

Autore: Freddy And The Phantoms

Titolo Album: Decline Of The West

Anno: 2017

Casa Discografica: Mighty Music

Genere musicale: Rock, Blues Rock, Psichedelia

Voto: 8

Tipo: CD

Sito web: http://www.freddyandthephantoms.com

Membri band:

Frederik Schnoor – voce, chitarra

Rune Hansen – batteria, percussioni, voce

Morten Rahm – pedalsteel, chitarra

Mads Wilken – basso, voce

Anders Haahr – organo, voce

Tracklist:

  1. Decline Of The West

  2. Kentucky Killer

  3. City Of Crime

  4. Call Me The Creature

  5. Behind The Curtain

  6. The Last Cafè

  7. Transition Blues

  8. NYC 1965

  9. Brownstone Badlands

  10. The Wild Ones (Revisited)

  11. Mr. Pig

Category : Recensioni
Tags : Rock Blues
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05th Ago2017

Bang Bang Vegas – Party Animals

by Marcello Zinno

Bang Bang Vegas - Party AnimalsFermi tutti! Eccolo. Quel sound vintage ma moderno allo stesso tempo, quel rock classico ma che si sposa con gli ascolti del nuovo millennio, quel tiro frizzante ma che non fa della velocità la sua peculiarità, quella carica adrenalinica alla AC/DC ma meno scatenata, in grado di accogliere ascoltatori più variegati. È tutto lì, niente di stravagante o innovativo, le idee dei Bang Bang Vegas arrivano secche ma sazianti, vestite di blues rock ritmato e caldo ed è questa la percezione che avrete di queste nuove tracce, indipendentemente se amiate più l’imprinting moderno o il rock anni settanta. Un po’ i The Black Keys dei “noartri”, il blues delle prime due tracce si trasforma in hard rock deciso con Sweetest Crime, classica anthem da palchi a distesa orizzontale, ma vi sono anche passaggi che al di là delle influenze dimostrano una maturità musicale incredibile come But You’re 17, dall’impostazione hard ma diretta al circuito rock mainestream.

E poi, a corollario dell’album vi è una traccia fuori genere, I Wanna Be Rich, quasi folk, acustica che ci rimanda ai tempi in cui le rock band pescavano a mani basse da quella scena (The Rolling Stones giusto per citare un “piccolo” esempio). Cosa dovremo attenderci dal loro prossimo album? Non lo sappiamo ma intanto ce li godiamo qui con una carica incredibile e tanta saggezza compositiva.

Autore: Bang Bang Vegas

Titolo Album: Party Animals

Anno: 2017

Casa Discografica: Autoproduzione

Genere musicale: Rock Blues, Hard Rock

Voto: 7,5

Tipo: CD

Sito web: http://www.bangbangvegas.com

Membri band:

Thimas Festa – voce, chitarra

Alessio Cannistraro – batteria

Loris Gentilin – basso

Tracklist:

  1. Party Animals

  2. Lights Out! (Flash! Dance!)

  3. Single

  4. Sweetest Crime

  5. I Don’t Mind

  6. But You’re 17

  7. I Wanna Be Rich

Category : Recensioni
Tags : Rock Blues
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27th Lug2017

The C.Zek Band – Set You Free

by Marco Castoldi

The C.Zek Band - Set You Free finalQuando ti capita tra le mani un disco con una cover di Gimme Shelter, sai con cosa partirai e sai che sarai severo, severo ma giusto. Questo perché Gimme Shelter è “IL” brano della paranoia sull’apocalisse imminente, “IL” pezzo emblema del patto d’acciaio Stones-Scorsese (guardarsi i primi tre minuti di The Departed per essere illuminati), “IL” classico con uno tra i più bei vocals femminili di tutti i tempi, secondo solo a The Great Gig In The Sky, “LA” cover che vanta precendenti illustri grandiosi tipo, solo per citare gente a caso, Grand Funk, Meat Loaf, Hawkwind, Patti Smith, Stereophonics, Alicia Keys e Joss Stone oltre che essere “LA” mia canzone preferita degli Stones. Ebbene, senza dubbio non siamo certo di fronte a Patti Smith, ma la Gimme Shelter della C.Zek Band mi ha “smutandato”: è di un soul molto sensuale ed accattivante, con strumenti e voce dosati e controllati con una precisione incantevole in un crescendo di livello che rende omaggio, rispetto e la giusta devozione all’originale. Quindi, leviamoci di dosso ogni pregiudizio e ascoltiamo questo Set You Free che si scopre essere quel blues alla Lou Marini, un mix di funk, soul e blues alla maniera più dei Blues Brothers che dei bluesman del delta del Mississippi.

Tolto il tocco che richiama gli schemi classici (anche se con un po’ di basso funk) di It Doesn’t Work Like This, l’impressione che si ha attraversando tutto Set You Free è proprio quella del divertimento, del mix, della tecnica, della creatività e della complicità che attinge e si ispira alla band più scoppiettante di tutti i tempi, quella di Jake e Elwood ovviamente. Tutto l’album è poi costellato di virtuosismi e sperimentazioni chitarristiche e tastieristiche che sembrano quasi improvvisate (su tutte l’assolo di chitarra gustoso e lunghissimo di Boring Day e la tappezzeria di tastiere di I’m So Happy) e lascia intendere senza dare spazio ai dubbi che l’improvvisazione trasversale su tutti gli strumenti (voce inclusa) sarà una costante e la chiave di volta dei live della C.Zek Band. Set You Free trasuda classe in tutti e cinquantuno minuti di grande musica, eseguita e registrata con una precisione che solo i meglio monaci trappisti o “le meglio marmottine” della Milka usano nel confezionare i propri prodotti pregiati.

Sia che si parta dalle alchimie di ispirazione floydiana di Drink With Me sia che si parta da quelle un po’ più soul alla Aretha di I’m So Happy, siamo di fronte a un esercizio di stile da applausi a mano rovesciata, che ci auguriamo continui in altri album. Questo perché il panorama nazionale ha anche bisogno di più blues fatto come si deve, esattamente come lo fa la C.Zek Band.

Autore: The C.Zek Band

Titolo Album: Set You Free

Anno: 2017

Casa Discografica: Autoproduzione

Genere musicale: Rock Blues

Voto: 9

Tipo: CD

Sito web: http://www.christianzekband.com

Membri band:

Christian Zek Zecchin – chitarre, voce

Roberta Dalla Valle – voce

Matteo Bertaiola – rhodes, hammond

Nicola Rossin – basso

Andrea Bertassello – batteria

Enea Zecchin – percussioni

Tracklist:

  1. John Corn

  2. I’m So Happy

  3. Tell Me

  4. Kissed Love

  5. Set You Free

  6. Gimme Shelter

  7. Boring Day

  8. It Doesn’t Work Like This

  9. Drink with Me

Category : Recensioni
Tags : Rock Blues
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20th Lug2017

One Horse Band – Let’s Gallop

by Marco Castoldi

One Horse Band - Let's GallopUn cavallo seduto in mezzo a un campo che contemporaneamente suona la batteria e una scatola di biscotti Plasmon, e tutto in presa diretta su youtube. A casa mia direbbero che piace vincere facile e questa è la one man band One Horse Band. Non esistono abbastanza parole per mettere per iscritto con giustizia la figosità di One Horse. Se siete riusciti a leggere fin qui le opzioni sono 2: 1) andare diretti su youtube e goderselo, 2) affiancarci mentre tentiamo l’esercizio stilistico di dare un’idea di detta figosità. Le radici di One Horse sono chiare: già da un bel po’ Bob Log III faceva blues mascherato (con un casco da aviatore stile Top Gun) tuttavia “performare” con una testa di cavallo alla Padrino è veramente tutta un’altra storia, oltre che una scelta molto raffinata. La potenza di Let’s Gallop raggiunge i cavalli di un’auto di Formula 1: una testa di cavallo è una testa di cavallo, end of story. Se Justin Johnson offre Ace Of Spades eseguita con una pala da becchino la Venus degli Shocking Blue da eseguita da One Horse con una cigar box che questa volta è una “Biscotti Plasmon box” è qualcosa di veramente originale e libidinoso, per gli amanti come noi del buon blues. Insomma Let’s Gallop è un tornado blues di livellissimo e da gustare tutto d’un sorso. Il sound è semplice, grezzo e diretto come i primi Black Keys (ai quali si aggiungono le citazioni di cui sopra e anche un po’ del Jack White solista) e ironico alla Eagles Of Death Metal (vedi Howlin’ At Your Door pezzo più divertente in assoluto di Let’s Gallop).

Ascoltandolo l’album trasuda tecnica chitarristica e stile del delta del Mississippi (anche se in questo caso azzarderei un ipotetico delta del Ticino a giudicare dai video), un po’ di ZZ Top (per la baritonale Wild Lovin’ Woman) ma tutto in chiave fresca ed attuale, tipo lo slide autarchico di Jack Broadbent, a nostro insindacabile giudizio fenomeno degno di riverenza del blues contemporaneo. Let’s Gallop ha il groove che ti trapana la testa e che ascolteresti a rotazione continua in serate da birra a fiumi e non, ed è, senza ombra di dubbio, uno dei più interessanti e divertenti esordi indie dell’anno. P.S. Mi dispiace deludere chi ha scritto il press release di Let’s Gallop che sentenzia “l’album che scegli ad occhi chiusi quando vuoi rendere la tua festa perfetta o quando vuoi portarti a letto la ragazza che insegui da anni“: l’album che sceglierei ad occhi chiusi per portare a letto la ragazza che inseguo da anni è Can’t Get Enough di Barry White. Tuttavia è insindacabile che una testa di cavallo è sempre una testa di cavallo, end of story.

Autore: One Horse Band

Titolo Album: Let’s Gallop

Anno: 2017

Casa Discografica: Autoproduzione

Genere musicale: Rock Blues

Voto: 9

Tipo: CD

Sito web: http://www.facebook.com/onehorseband/

Membri band:

One Horse – chitarra, cigar box, banjo, dobro, batteria, voce

Tracklist:

  1. Declaration of Intent

  2. Howlin’ At Your Door

  3. Uh Hu Hu Yeah!

  4. Mama I Think I’m Drunk

  5. One Horse Blues

  6. Venus

  7. Bad Love Blues

  8. Don’t Put Your Leg On My Leg

  9. Wild Lovin’ Woman

  10. Altare

Category : Recensioni
Tags : Rock Blues
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13th Lug2017

Padre Gutierrez – Addio Alle Carni

by Paolo Tocco

Padre Gutierrez - Addio Alle CarniLa voce…maledizione non si capisce la voce! Saranno i miei ascolti (eppure sono B&W) oppure sarà la mia distrazione o il caldo torrido di questi giorni che impasta l’aria…o forse sapete cosa può essere? Il ventilatore che spara contro la faccia un’ondata di vento artificiale, aria che si muove, forse porta via anche qualche frequenza utile alla voce. Battute a parte: il nuovo disco di Padre Gutierrez sì mi piace, ma la voce è spesso poco intelligibile. Non sempre, ma spesso. Che poi è un sottile filo di alluminio che si mescola ad un sound di ferro e di blues moderno, con dinamiche molto egoistiche ed esigenti e nel momento di maggiore stress, la voce si perde. Peccato perché è proprio la voce a condurre una melodia portante per niente lineare e spesso venata di colori prog su suoni assai maleducati che dall’Havana a Nashville – facendo sosta in Alabama – cercano di polverizzare il concetto di pop e di canzone d’autore all’italiana. Un poco i Nobraino si fanno sentire nel retro-retro-retro gusto di quella scelleratezza espressiva che vien fuori dall’incontro tra un cantato assai poco romantico (ne colgo solo le intenzioni per quello che arriva a me) e una struttura sonora che invece reggerebbe un muro di cemento armato. Noir e metropolitana di anni ’50 in brani come Nudo Di Venere, Bruce Springsteen in moto, fermo ad un motel oppure un raduno di musica stoner in salsa zuccherata quando suona L’ultimo Maiale Sulla Terra in cui – forse più di tutto il disco – sembra quasi “ridicola” e sicuramente caratterizzante al tempo stesso questa vocina che si poggia su un sound massiccio ma che di suo rimanda invece a Topolino dei vecchi cartoni animati.

Agro dolce. Buio luce. Vanessa direi che è il vero omaggio all’Alabama di John Lee Hooker se non fosse per queste impalcature arroganti di chitarra elettrica. Non mi sarei mai aspettato una piccola “suite” acustica come Della Mia Carne che riporta il disco nel limbo di quelli normali. Tutti tranquilli che nella chiusura si torna a mettere in chiaro ruoli e regole del gioco. Ma a suo modo in questa La Carne È Finita trovo forse il brano più disordinato del disco. Un intricato dialogo di batteria che si colora (forse…non riesco a capirlo bene) di un riverbero che riempie e disturba allo stesso tempo per la sua pasta poco adeguata (forse), intricati e poco intelligibili fill di tom, un drumming pomposo e forzato che corona e trasporta una melodia a suo modo davvero poco scontata e lineare. Insomma, bella l’idea e il mestiere di cercare altro oltre le solite strutture. Ma di base da tutto questo intricato gioco di passaggi tecnici e competitivi mi aspetto semplicità e fluidità altrimenti perdo voglia di ascoltare e mi stanco non avendo appigli di comprensione. Il progressive dei King Crimson è forse l’emblema di quello che cerco di dire…e le venature prog di questo brano sinceramente hanno belle energie negli intenti ma assai ruggine negli ingranaggi.

Addio Alle Carni – per quanto odi e non concordi con l’argomento – sviluppa il tema non solo dal punto di vista alimentare ma anche da altre angolazioni come la carne del sesso, per esempio. Insomma Padre Gutierrez ha tirato fuori un bel disco, viscerale, antico nelle radici e assai ricco di spunti per le future visioni del blues. Manca il carattere, manca la scrittura forte, manca la produzione e l’arrangiamento che impreziosisce e scolpisce. Manca il quid. Adesso fa caldo…forse in inverno la voce farà tutt’altro effetto. Per ora il mio piccolo consiglio è di alzarla, almeno nei concerti. Sempre e solo…secondo me. Sia chiaro.

Autore: Padre Gutierrez

Titolo Album: Addio Alle Carni

Anno: 2017

Casa Discografica: Autoproduzione

Genere musicale: Blues, Cantautorato

Voto: 5

Tipo: CD

Sito web: https://m.facebook.com/padregutierrez/

Membri band:

Mattia Tarabini – voce

Gabriele Zambelli – batteria

Enrico Pasini – tromba

Tracklist:

  1. Il Rock

  2. Il Buco Da Riempire

  3. L’insaziabile

  4. Corpo Di Martire

  5. La Donna Dal Velluto Nero

  6. Nudo Di Venere

  7. L’ultimo Maiale Sulla Terra

  8. Vanessa

  9. Della Mia Carne

  10. La Carne È Finita

Category : Recensioni
Tags : Rock Blues
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10th Lug2017

The Doors – The Soft Parade

by Rod

The Doors - The Soft ParadeThe Soft Parade, è l’album che segna l’inizio di un percorso artistico in controtendenza rispetto ai lavori precedenti dei Doors e che richiederà per il difficile adattamento che ne seguirà, un periodo di gestazione più lungo che in passato. In quegli anni infatti, fortemente segnati dalla maestosa ed influente produzione dei Beatles, il quartetto californiano sentì la necessità di adeguarsi al mercato esplorando le strade del mainstream, provando quindi ad importare nel loro sound le sonorità più in voga nel periodo, con particolare riferimento agli arrangiamenti che in quel tempo prevedevano la presenza nei brani di fiati ed archi. E non è tutto. Con un Jim Morrison leggermente defilato, alle prese con l’inizio della sua dipendenza e sempre più concentrato sulla propria produzione letterale a dispetto dell’impegno compositivo con la band, comincia ad emergere ed a farsi sentire, in contrapposizione a quella del Re Lucertola, che mal si adeguò alla svolta stilistica di cui vi abbiamo parlato, la personalità artistica del chitarrista Robbie Krieger (già autore, tra le altre, del masterpiece Light My Fire). Di fatti, per la prima volta ed a scanso di equivoci per gli ascoltatori, la paternità dei brani dell’album non è più genericamente riferita alla band, ma ognuno viene contraddistinto dal nome del rispettivo autore (Morrison o Krieger, per l’appunto). Inoltre, in ciascuna traccia, è chiaramente riconoscibile l’impronta emergente da tale dualismo: i pezzi di Jim sono quelli maggiormente radicati allo spirito blues e con i testi poetici e visionari, mentre le composizioni di Robbie si identificano nel nuovo sound dei Doors e si presentano in una veste più pop e commerciale.

Tell All The People, per esempio, è l’ottima overture di The Soft Parade, un brano orecchiabile dalla tipica struttura sanremese (intro sinfonico – strofa melodica – chorus canticchiabile), che spalanca all’ascoltatore le nuove sonorità introdotte dalla band, risaltandone il rinnovato stile compositivo. Touch Me è sicuramente il brano più conosciuto e di maggior successo di questo disco, tanto da attestarsi sin da subito tra i classici della band, riuscendo a scalare in maniera repentina tutte del chart più prestigiose del periodo. La nuova formula scelta per gli arrangiamenti, trova in questa hit di Krieger il suo terreno più fertile, proponendo come segreto del suo successo, una perfetta alchimia tra testo, musica, interpretazione ed impronta tipicamente Doors, impreziosita da un assolo di sax tenore suonato dal jazzista nero Curtis Amy. Shaman’s Blues racchiude lo stile più puro della band, producendosi su una delle tematiche più care all’immaginario di Morrison (lo sciamanismo), cavalcando un classico giro di chitarra blues incantatore su cui si intermezza un comodo appoggio d’organo. Do It, con le sue atmosfere elettriche ed il ritmo sincopato in batteria, è una gemma grezza con un’anima tipicamente rock che la avvicina al sound dei primi Deep Purple, un pezzo che spinge la band oltre le sponde sonore prefisse nelle intenzioni, particolare che, per i veri intenditori, rende Do It il brano più underrated dell’intera raccolta.

Easy Ride è uno spassoso blues di due minuti e mezzo che rievoca atmosfere da film western, quelli con saloon sporchi e puzzolenti pieni di donnacce pronte ad ogni follia con il solito fuorilegge di turno. Wild Child è l’altro brano emergente del full-lenght, dotato di un giro di chitarra accattivante impreziosito da una parte in slide, la quale, grazie al testo ed alla interpretazione cavernosa e selvaggia di Morrison, conduce l’ascoltatore all’immaginario maledetto della donna proibita vista come una “bimba selvaggia piena di grazia”, anche se, nelle intenzioni, non è dato sapersi se questo brano sia stato effettivamente composto in riferimento ad un soggetto femminile, maschile o ad un tema astratto. Runnin’ Blue è un brano eterogeneo, breve ma di grande personalità, che risente fortissimamente delle influenze di Sgt. Peppers dei Beatles, presentando nella sua scanzonata struttura, non solo sezioni di fiati, ma anche un intermezzo ripetuto tipicamente folk, il quale, seppur ancorandosi perfettamente al classico mood della band, si lega perfettamente come un elemento chimico alla radice blues ed agli arrangiamenti pop voluti in questo episodio discografico dai Nostri. Wishful Sinful, è una godibile ballad malinconica con atmosfere da “C’era una volta in America”, dove, in virtù del proprio tratto melodico, l’aspetto sinfonico risulta maggiormente marcato rispetto alle tracce precedenti.

In chiusura troviamo la title-track The Soft Parade, traducibile come “La soffice parata”, espressione coniata dallo stesso Morrison per indicare la bizzarra e varia umanità che popolava giorno e notte il Sunset Boulevard a Los Angeles e si palesa in un lungo e multiforme brano che, nelle intenzioni, intendeva chiudere l’album con un maestoso commiato rock, così come accaduto in precedenza con gli episodi di The End o When The Music It’s Over. Nei fatti però, il risultato ottenuto è quello di un miscuglio naif che unisce senza avere un filo conduttore comune, scritti, sessioni strumentali e parti di brani incompiuti, dissimili ed incompatibili tra loro, che rendono questi otto minuti e mezzo il punto più basso e noioso dell’album e, probabilmente, della loro prima discografia.

The Soft Parade è stato un disco che, seppur trainato da buoni singoli, non regalò ai Doors il successo sperato. Lo slancio con in quale furono introdotte le nuove soluzioni stilistiche, fu probabilmente troppo timido e marcato allo stesso tempo per essere facilmente somatizzato dai fan della band, abituati sino ad allora a quell’immagine ribelle ed a quel sound blues tipicamente Doors, e quindi più riconoscibile ed identificabile. In effetti la produzione del disco risulta troppo variegata, eterogenea nei suoni ed in controtendenza con il passato per essere compresa senza difficoltà dagli ascoltatori del tempo. Di contro, possiamo però affermare che grazie a questo album, la storia ci ha consegnato il prezioso valore artistico di Robbie Krieger, un autore che ha scritto pagine importanti di questa band grazie a brani che, in virtù delle immortali interpretazioni che li hanno resi celebri, vengono sovente ed erroneamente attribuiti alla figura iconica di Jim Morrison.

Autore: The Doors Titolo Album: The Soft Parade
Anno: 1969 Casa Discografica: Elektra Records
Genere musicale: Rock, Blues Voto: 8
Tipo: CD Sito web: http://www.thedoors.com
Membri band:

Jim Morrison – voce

Ray Manzarek – tastiere, synth

Robby Krieger – chitarra

John Densmore – batteria

Tracklist:

  1. Tell All the People
  2. Touch Me
  3. Shaman’s Blues
  4. Do It
  5. Easy Ride
  6. Wild Child
  7. Running Blue
  8. Wishful Sinful
  9. The Soft Parade
Category : Recensioni
Tags : Rock Blues, The Doors
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29th Mag2017

Rainbow Bridge – Dirty Sunday

by Marcello Zinno

Rainbow Bridge - Dirty SundayDall’idea di omaggiare lo stile di Jimi Hendrix nascono i Rainbow Bridge e dopo dieci anni di attività live e un album di rivisitazioni di brani, il power trio ha deciso di dare alla luce una nuova pubblicazione, stavolta però che avesse un sapore diverso. Dirty Sunday è dichiarato come una lunga jam session, senza sovraincisioni; effettivamente si tratta di un album studio registrato in presa diretta, cinque tracce prive di linee vocali che riprendono le idee di Hendrix e le ricompongono, non le attualizzano visto che anche i suoni della produzione si rifanno a 50 anni fa; suoni sporchi e grezzi, sei corde in prima linea tra tecnicismi e follie, approccio live da improvvisazione tanto che ad eccezione della infuocata Hot Wheels tutte le tracce superano i 6 minuti di durata e per finire quel giusto sapore blues e di psichedelia che serve. Qualche influenza (deep) purpleiana nella titletrack, un brano dai ritmi impazziti che sa lasciare anche momenti più lenti come nella lunghissima (forse un po’ troppo) Maharishi Suite; in generale comunque lo stile si rifà a Lui (ascoltare l’ultimo brano del CD per credere), ma è anche giusto così visto che si tratta di una band che da una decade omaggia questo artista e sarebbe ingiusto attendersi qualcosa di diverso.

I Rainbow Bridge sono innanzitutto una live band e questo non lo diciamo perché in 10 anni hanno dato alla luce solo due album (uno di inediti) ma perché è davvero un peccato goderseli in cuffia, solo on stage si riesce a capire la bellezza di questo suono e di questo stile musicale. Quindi noi vi consigliamo di ascoltare Dirti Sunday nella cornice che più gli si confà, cioè dal vivo.

Autore: Rainbow Bridge

Titolo Album: Dirty Sunday

Anno: 2016

Casa Discografica: Autoproduzione

Genere musicale: Hard Blues, Hard Rock

Voto: 6,5

Tipo: CD

Sito web: https://therainbowbridge.bandcamp.com

Membri band:

Giuseppe Jimi Ray Piazzolla – chitarra

Fabio Chiarazzo – basso

Paolo Ormas – batteria

Tracklist:

  1. Dusty

  2. Dirty Sunday

  3. Maharishi Suite

  4. Hot Wheels

  5. Rainbow Bridge

Category : Recensioni
Tags : Hard Rock, Rock Blues
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03rd Apr2017

Spookyman – Spookyman

by Sara Fabrizi

Spookyman - SpookymanIl blues delle origini, quello nato sul Delta del Mississipi, con il suo carico di malinconia e forza di reazione è un’attrazione verso cui tutti i musicisti finiscono col gravitare. Del resto tutto nasce dal blues. E Giulio Allegretti, in arte Spookyman, deve saperlo bene. Giovane, classe 1986, romano, e proveniente da esperienze musicali variegate (garage, country, rockabilly), ad un certo punto viene risucchiato nel vortice del blues. E si reinventa one man band, suonando di tutto e di più (voce, chitarra, armonica, kazoo, stomp-box, valigia, cembalo) scrivendo pezzi malinconici ed autobiografici, eseguendoli con il piglio deciso ed altamente emozionale dei grandi che di sicuro lo hanno ispirato. Robert Johnson, Skip James, Bukka White, R. L. Burneside, John Lee Hooker solo per citarne alcuni. Tutta la grande tradizione del Delta Blues rivive in un album, il suo omonimo debut album, che suona attuale come solo la madre di tutti i generi può essere. 12 tracce intense, pulite e d’impatto. Anche nella performance live, cui ho avuto la fortuna di assistere, la sua capacità di comunicare la sua musica rimane fresca, diretta. Salvo poi “sporcarsi” di emozioni degne dell’esecuzione di un autentico bluesman.

Spookyman racconta storie, le sue storie, che poi sono quelle di ognuno. C’è una donna, che fa capolino in diversi brani (Friendly Woman, Maryann) oggetto prediletto della narrazione blues. Se il Blues è pervaso di malinconia, sarà di sicuro l’amore a causare questo struggimento. E poi c’è il richiamo a condizioni antiche di sfruttamento e sofferenza (Cotton Fields), la dignitosa incessante lotta per la loro liberazione portata avanti dai neri d’America. Tematica che poi può diventare paradigmatica di ogni condizione umana di sopruso. Non è difficile sentire propri questi pezzi, e intravedere in essi il mondo. Il pathos dei pezzi più “sofferti” viene smorzato in altri brani che sembrano più leggeri e spensierati pur mantenendo quella malinconia di fondo come un marchio di fabbrica (Distress, Remember Rain). Una menzione a parte voglio farla per Keep Movin’. Subito rapita, trasportata in scenari lontani. C’ho visto e sentito Howlin’ Wolf. Quella ritmica incalzante, che scandisce così bene suono e parole. Quell’energia propositiva alla Smokestack Lightnin’ ce l’ho sentita dentro. Non serve aggiungere altro. Ogni amante del genere capirà. Un blues classico, un vero “bluesettone”, è Bad Things. Molto roots, bella ritmica, molto convincente.

Proseguendo nell’ascolto del disco troviamo anche un pezzo decisamente blues rock, Help Me. Qui l’energia di un Rory Gallagher, di un John Fogerty. Ma anche, perché no, dei primi Black Sabbath quando Ozzy and Co. facevano generose concessioni al blues. Un brano quindi che a tratti sconfina nell’hard rock. Bella questa varietà stilistica all’interno dell’album. Un fortissimo filo conduttore fatto di Mississipi sound che ogni tanto cede ad altre suggestioni. Ci sono anche ballad folk in questo disco, come Breakfast By The Window e October Song. Quest’ultima in particolare presenta anche un richiamo alla tradizione degli stornelli romani, un’abile contaminazione che rende l’album ancora più godibile. Poi c’è un pezzo dal sound delicato, leggero ed estivo, In Dreamin’. Un brano con suggestioni soul molto fresco che mi fa pensare ad un artista recente, ma comunque inscrivibile nella scuola dei grandi interpreti blues, come Jack Johnson. Il pezzo di chiusura è una sognante ballad, dai ritmi molto rilassati e soft. In The Rain evoca una pioggia estiva, rigenerante, il miglior modo di chiudere il disco. Riprendiamo fiato, metabolizziamo e facciamo tesoro di tutto il blues che, in diverse varianti, Spookyman ci ha egregiamente elargito.

Autore: Spookyman

Titolo Album: Spookyman

Anno: 2016

Casa Discografica: Autoproduzione

Genere musicale: Blues, Soul, Folk, Ballad, Gothabilly

Voto: 9

Tipo: CD

Sito web: http://www.spookyman-music.com

Membri band:

Giulio Allegretti a.ka. Spookyman – voce, chitarra, banjo, armonica, tamburello, kazoo e foot percussions

Special guests:

Antonia Harper – voce

Matteo Acclavio – baritone sax

Carmine De Michelis – piano

Guglielmo Nodari – lap steel

Tracklist:

  1. Friendly Woman
  2. Bad Things
  3. Distress
  4. Remember Rain
  5. Keep Movin’
  6. Cotton Fields
  7. Help Me
  8. Breakfast By The Window
  9. October Song
  10. In Dreamin’
  11. Maryann
  12. In The Rain
Category : Recensioni
Tags : Rock Blues
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29th Mar2017

Mitch And The Djed – Spanish Blues

by Sara Fabrizi

Mitch And The Djed - Spanish BluesIl viaggio può stimolare la creatività forgiando propensioni artistiche, in questo caso musicali. E’ quanto è accaduto al chitarrista bresciano Massimiliano Maffeis detto “Mitch”. I suoi frequenti viaggi in Spagna, alla volta di un amore tormentato, hanno ispirato Spanish Blues, album d’esordio della sua band Mitch And The Djed. 10 tracce, più una cover strumentale e due bonus track, maturate nel corso di 10 anni, dal 2005 fino alla registrazione dell’album nel 2015 e alla sua pubblicazione e messa in rotazione dalle radio nel 2016. Un percorso lungo una decade che ha saputo trasformare ogni singola emozione emersa durante i viaggi spagnoli in una canzone che va a comporre quella moderna serenata che è il disco. Percorso che ha visto qualche cambiamento nella line up originaria con il subentrare nell’estate del 2016 di Federico Maffi e Alessio Mineni rispettivamente alla chitarra elettrica e al basso. Le radici sono molto southern rock, molto blues, country e psychedelic. I generi ideali per narrare il tema del viaggio, della ricerca e del tormento che cela, in musica. Il sapore è retrò ma non troppo. Pur attingendo a un bacino di significati e sonorità ben note, e anche un po’ abusate, è un disco che non risulta mai anacronistico e stucchevole. Anzi, intravediamo una freschezza che è tipica di chi ha saputo fare lezione del passato per piegarlo a necessità espressive contingenti, personali, presenti.

La scelta delle 2 bonus track in lingua spagnola è un bel tocco di vivacità e varietà in un disco in lingua inglese, ne stempera “l’americanità” potente e prevalente. Sono tanti gli echi che vi abbiamo intravisto. Da Neil Young a Bob Dylan, da Mark Knopfler a Bruce Springsteen. Un po’ tutti i cantautori della tradizione americana rock e country rock scalpitano in questi brani. Com’è normale e giusto che sia, avendo essi tracciato la strada per chi voglia narrare le proprie storie avvalendosi del sostrato emozionale e semantico del nuovo mondo. In alcuni brani sento prepotentemente i Dire Straits, con il loro sound originato dal west coast rock e poi emancipatosi fino a diventare unico e originale. Le ballads, dolci, delicate e malinconiche, ebbene sì c’abbiamo intravisto anche il grandissimo Townes Van Zandt, si alternano a pezzi più rock, quasi hard rock. Si crea così una buona varietà stilistica all’interno dell’album, testimonianza dei diversi momenti e umori suscitati da questo viaggio d’amore e per amore.

Lodevole la capacità di Mitch di sapersi raccontare così con l’ausilio di quella musica che lo ha forgiato come artista. Il mio augurio è che la band riesca ad emanciparsi dai propri modelli, pur restando inevitabilmente e giustamente nel loro alveo, dando vita ad opere sempre più godibili e caratterizzanti il proprio sound.

Autore: Mitch And The Djed

Titolo Album: Spanish Blues

Anno: 2016

Casa Discografica: (R)esisto

Genere musicale: Rock Blues, Country

Voto: 8

Tipo: CD

Sito web: http://www.mitchandthedjed.com

Membri band:

Massimiliano Maffeis “Mitch” – voce, chitarra, banjo, armonica

Federico Maffi – chitarra, cori

Alessio Mineni – basso, cori

Stefano Bonetti – batteria

Tracklist:

  1. Moon Of My Life
  2. Song For A Friend
  3. Two Thousand Zero Two
  4. Star (She Lives So Far)
  5. Town Of The Angels
  6. Fair Of Malaga
  7. Leganes Tryp
  8. Alcohol Woman
  9. Spanish Blues
  10. Country Love
  11. Theme From La Rambla
  12. Feria De Màlaga (bonus track)
  13. Amor Espanol (bonus track)
Category : Recensioni
Tags : Rock Blues
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