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09th Apr2021

Saxon – Forever Free

by Giancarlo Amitrano
Gli anni 90 vedono il combo britannico nuovamente stabilizzato, con in più la preziosa entrata del bassista Carter, il quale porta in dote anche una buona capacità compositiva che male non fa, anzi la presenza del nuovo membro contribuisce ad allargare le tematiche dei testi del gruppo, il quale porta avanti il percorso sempre formativo ed alla ricerca di nuove esperienze. Coprodotto dallo stesso singer, l’album sembra virare decisamente verso lo stile dei primi album dove energia e trasporto convivevano alla grande senza intaccarne la qualità. E proprio lo stesso pare accadere miracolosamente anche con le dieci tracce di questo lenght che si apre con la titletrack, un buon drumming di Glockler, uno sferzante lavoro alle asce e soprattutto con un ritornello di immediato impatto. Senza andare tanto per il sottile, il gruppo va dritto al sodo, intendendo per sodo un solido riffone centrale che tanto lardo (ri)porta in dote alla band. Hole In The Sky ha tempi molto inframezzati che si evincono subito dai diversi stacchi della batteria che giostra con facilità da battute veloci ed altre rallentate ad arte, specie nella fase iniziale in modo da consentire il rapido sviluppo della traccia: il vocione di Byff è quello graffiante dei bei tempi, con una timbrica molto energica che gli permette di declamare molto chiaramente il refrain, cui si aggiunge in fretta il duello di bravura tra la coppia Oliver/Quinn, equamente distribuito quanto a tecnica ed abilità.

Just Wanna Make Love To You viene eseguita con una sorprendente e piacevole grinta, tanto da far ulteriormente apprezzare la già storica traccia di Willie Dixon, il quale non si sarebbe certo aspettato che la medesima fosse “coverizzata” con piglio così aggressivo, laddove la sezione ritmica regge e tiene botta alla grande ai continui cambi di tempo che il brano esige e che qui vengono puntualmente e perfettamente eseguiti. Il chitarrone iniziale di Get Down And Dirty viene per caso eseguito da un certo Angus Young, qui guest star d’eccezione? Certamente no, ma l’impatto che le prime note della sei corde ha su chi ascolta è sicuramente simile a quello che si prova ascoltando un album degli “australiani”. Sta di fatto che qui ci troviamo di fronte alla coppia Oliver/Quinn ed a svisate che non ci si attende, anche se l’effetto sorpresa è esattamente lo stesso di cui sopra, solo che stavolta gli assist a sei corde sono di proprietà britannica, in un crescendo di assoli che pare non finire mai, mentre Byford ulula da par suo su di un brano ampiamente sopra la sufficienza. Si passa alla malinconia di Iron Wheels, con la quale Byff ricorda ed onora ancora una volta la memoria del genitore scomparso: parte del brano è ripresa di pari passo da Calm Before The Storm  già presente in Destiny ma il tutto non dispiace affatto, potendo novellamente apprezzare la drammatizzazione che il singer insinua nella traccia, in cui si può respirare a piene mani la gioventù difficile, il cui cantato acuisce ulteriormente il senso di tristezza che pervade il brano.

Con One Step Away si torna fortunatamente ad una velocità di crociera più consona, grazie al vocione di Byff che stavolta torna a ruggire come si deve, mentre i chitarroni che lo accompagnano non lesinano ritmica e solismi sapientemente miscelati, tanto che l’impazienza di esplodere di questi ultimi non tarda a manifestarsi con potenza aggressiva ed ampiamente ripagata dal singer. Can’t Stop Rockin’ è un altro brano diretto, senza fronzoli od orpelli: asce ben mirate, drumming percussivo e basso di alta precisione puntellano una traccia magari non memorabile, ma che lascia gradevolmente colpiti per la sua tecnica esecutiva ed il cantato ancora sugli scudi: il tutto, a precedere altri assoli della coppia di axeman, sempre pronti ad azzannare il bersaglio grosso di un pentagramma sempre infuocato. Con Nighthunter torniamo al “canonico” brano hard’n’roll anni 80, “3 minuti 3” in cui velocemente si sussegue tutto il “necessario” in una traccia che si rispetti: strofa, ritornello ed assolo sono velocemente “enunciati” in una sequenza che più classica non si può, eppure, il risultato finale è più che degno per consentire alla band di portare legna in cascina. Rocamente, il Byff che non ti aspetti: Grind ed il suo intro ce lo consegnano al top dei suoi mezzi tecnici, capace di spaziare dallo “storyteller” delle prime battute del brano al quasi screamer del prosieguo; Glockler continua nella sua buona esibizione dietro le pelli, mentre i restanti musicisti si mantengono sulla loro linea tecnico-artistica di più che degni “compagni di merende” del Leader Maximo, con le asce a spaziare e macinare note su note ed il basso di Carter a dimostrarsi ancora una volta manna dal cielo per il gruppo.

Si chiude con Cloud Nine  ed il decollo di un aereo a bordo del quale si imbarca alla grande tutto il quintetto con un brano spaccatimpani, pieno di chitarre in sottofondo, di drumming senza freni e di un Byff autentico pilota del tutto: elementare nella struttura, la traccia riesce tuttavia a sorprendere ancora per l’energia frizzante ancora nelle faretre dei Nostri, che fino alla fine offrono ritmo tirato e sparato che va a scemare in un finale colmo di crash e timpani che degnamente chiudono un altro album che sta avvicinando la band alla completa rinascita.

Autore: Saxon Titolo Album: Forever Free
Anno:1992 Casa Discografica: Virgin
Genere musicale: Heavy Metal Voto: 6,5
Tipo: CD Sito web: www.saxon747.com
Membri Band:
Byff Byford – voce
Paul Quinn – chitarra
Graham Oliver – chitarra
Tim “Nibbs” Carter – basso
Nigel Glockler – batteria
Tracklist:
1. Forever Free
2. Hole In The Sky
3. Just Wanna Make Love To You
4. Get Down And Dirty
5. Iron Wheels
6. One Step Away
7. Can’t Stop Rockin’
8. Nighthunter
9. Grind
10. Cloud Nine
Category : Recensioni
Tags : Saxon
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02nd Apr2021

Saxon – Solid Ball Of Rock

by Giancarlo Amitrano
Meno male che i nostri eroi non mancano mai di farci avere loro notizie che, puntuali ad ogni intervallo di album, si susseguono nella vicenda della band. A questo giro riscontriamo, tra le altre, grosse beghe legali con il vecchio management che obbligano il gruppo a devolvere al suddetto parte dei loro incassi, tanto da far dire allo stesso singer (nella sua bella biografia) che ad un certo punto “erano diventati anche amici degli ufficiali giudiziari (!), i quali si presentavano alla fine di ogni concerto per incassare qualcosa per la copertura del debito”: a queste “facezie” tuttavia si aggiunge in primis la bella novità relativa all’ingresso del nuovo bassista Carter, che tanta verve porterà nella band anche dal punto di vista compositivo sino a questo album, che lo vede coautore di diverse tracce (anche se ancora il singer afferma che questo fu un escamotage per non pagare altri proventi). Sta di fatto che con l’album che inaugura l’ultima decade del ventesimo secolo la band torna ad avvicinarsi “pericolosamente” al sound degli esordi, con un lenght sicuramente di maggior impatto e spessore rispetto agli immediati predecessori, nonostante la Emi li scarichi ritenendoli ormai al canto del cigno (bell’errore, se ne accorgeranno tutti…).

Si inizia subito con la titletrack, ed un pericoloso giro di tastiere ci fa temere che l’andazzo recente prosegua: fortunatamente, le asce si infuocano in fretta assieme alla voce di Byff che torna a graffiare, mentre il basso di Carter già mulina da par suo le note di competenza che nel complesso sono un devoto omaggio a Jerry Lee Lewis ed alle sue mitiche Great Balls Of Fire, qui ben omaggiate anche da un solido background vocale ed un drumming intenso ed aggressivo nei crash e nei rullanti da parte del ritrovato Glockler. La potenza di Altar Of The Gods si rinviene principalmente nel cantato da screamer di Byff, che viene ben accompagnato da una potente sezione ritmica che non lesina anche momenti di tecnica pura, sovrapponendosi in maniera incisiva alle già accattivanti chitarre che qui sciorinano un signor assolo; brano da menzionare particolarmente, questo, a causa della “preveggenza” ( diciamo così) che la band ha nell’individuare quale potere il denaro ed il capitalismo americano in particolare, con un decennio di anticipo rispetto alle Torri Gemelle (ma questo è altro discorso…), che il gong finale di Glockler sublima nella sua epicità. Ancora tastiere drammatiche ad introdurre Requiem, laddove l’aspetto intenso e interiore della band viene prepotentemente alla luce, dedicando il brano alla musica che fu e di cui tanti amici e colleghi hanno lasciato imperituri ricordi: le strofe sono commoventi e consegnano la band al loro meglio, con Byff che stentoreamente ricorda di non dimenticare, cosa che gli assoli a cinque stelle consentono di fare senza difficoltà; coinvolgente anche nella sua semplicità la coristica che nella seconda parte del brano ci porta idealmente in viaggio attraverso l’America, da Chicago alle Mountains, tutto in nome del rock e di coloro che lo hanno portato alla gloria, nella cui memoria la band va avanti anche per onorarli, come il brano fa con Ronnie James Dio nei set attuali.

Si prosegue con Lights In The Sky, un brano deciso e senza fronzoli: la doppia cassa di Glockler fila che è un piacere, anche con una elementare struttura del brano in 4/4 puro che non manca di ammiccare anche a tematiche “aliene”, con Byff che si diletta a tracciare immagini di segni nei cieli che sfrecciano argentei, in puro stile X-Files. Pur nella sua relativa brevità, il brano coinvolge e finalmente ci restituisce il (quasi) vero quintetto, grazie anche alla mai troppo benedetta presenza del nuovo bassista che macina note su note in un crescendo di piacevole gradimento. I Just Can’t Get Enough è il più semplice dei brani sinora ascoltati nell’album: sono i cori a renderlo intrigante, coadiuvando ampiamente il singer principalmente nella ripetizione del ritornello, ampiamente incentrato su liriche ai limiti del sessismo, con tempi molto dimezzati più ammiccanti all’hard classico che all’heavy puro, forse anche grazie al lavoro di Kalle Trappe alla consolle che non ammorbidisce il sound della band, memore del lavoro svolto in precedenza con gruppi quali ad esempio i Blind Guardian, mettendo qui in evidenza un signor lavoro di Glockler che chiude la traccia con orpelli di crash finali. Baptism Of Fire è una cavalcata metal di 3 minuti e ci parla con potenza e passione del battesimo del fuoco che appunto ognuno di noi ha dovuto subire per accedere alla vita: parlandoci di migliaia di persone pronte ad ascoltarti o seguirti, Byff ci dà il benvenuto nell’incubo di non farcela, mentre le chitarre si abbattono con precisione sul pezzo e la sezione ritmica martella ossessiva su di un ritornello che nei live act ancora impazza a pieni Marshall.

Ain’t Gonna Take It rallenta notevolmente le tempistiche, con Byff che riesce a coordinare bene la ruvidezza della traccia con le tematiche sentimentali di cui il brano straripa: ovviamente anche l’esecuzione strumentale viene di conseguenza, con le asce attente a non eccedere e con Carter sempre più padrone della scena con le sue note davvero tutte ben assestate; il momento acustico di metà traccia ben si accompagna con l’elettrificazione dell’assolo che si unisce alla già ben riuscita interpretazione del brano. I’m On Fire ci sorprende ancora per il tono ridanciano e scanzonato che il singer dona al brano: contando all’inizio in tedesco, capiamo che la traccia è di puro rilassamento, con i riff di chitarra che con la loro verve ricordano una fondamentale band a nome di due fratelli olandesi (Van…?); Byff canta bene, il drumming di Glockler è tecnicamente ineccepibile ed il baso di “Nibbs” Carter è ancora ampiamente di nostro gradimento. Eccola, la ballata: Overture In B Minor sembrerebbe ingannare all’inizio per il suo inizio elettrico, che gradualmente scema in una atmosfera quasi incantata e purtuttavia intrigante grazie al vocione di Byff che qui affronta tematiche di ancor grandissima attualità quali i grandi drammi dell’umanità e di come di fronte ad essi occorra porsi. Ci pensano i signori assoli di metà brano ad impreziosire ulteriormente un pezzo su cui Byff smentisce di non saper cantare anche su melodie leggermente più leziose del solito, declamando a più riprese il refrain del brano. E con Bavarian Beaver la band paga (come clamorosamente mai fatto prima) pegno alla bravura del nuovo bassista, che qui si esibisce in circa 120 secondi di autentica bravura a 4 corde, per dimostrare ancora il suo talento fortunatamente approdato tra le fila dei 5 del Lincolnshire.

Si chiude quindi con Crash Dive ed il “coming out” di Byff, che qui dichiara apertamente il suo amore per la velocità, ripercuotendolo nella potenza del brano che si apre con un altro interludio di basso a far da apripista ad urla del singer e alle accelerate a tavoletta che il quintetto imprime al pezzo, di per sé non memorabile e tuttavia di sicuro effetto, di certo utile a chiudere come si deve quello che si può definire l’album della (non ancora completa?) rinascita dei Sassoni.

Autore: Saxon Titolo Album: Solid Ball Of Rock
Anno: 1990 Casa Discografica: Charisma
Genere musicale: Heavy Metal Voto: 6,5
Tipo: CD Sito web: www.saxon747.com
Membri Band:
Byff – voce
Paul Quinn – chitarra
Graham Oliver – chitarra
Tim “ Nibbs” Carter – basso
Nigel Glockler – batteria
Tracklist:
1. Solid Ball Of Rock
2. Altar Of The Gods
3. Requiem
4. Lights In The Sky
5. I Just Can’t Get Enough
6. Baptism Of Fire
7. Ain’t Gonna Take It
8. I’m On Fire
9. Overture in B Minor
10. Bavarian Beaver
11. Crash Dive
Category : Recensioni
Tags : Saxon
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26th Mar2021

Saxon – Destiny

by Giancarlo Amitrano
Si è capito da tempo che il momentaccio complessivo per la band fosse entrato nella sua fase cruciale, ma al tempo stesso si auspicava che almeno fosse agli sgoccioli. Quello che non si poteva prevedere è che la china fosse ancora di là da superare: prova lampante è anche l’odierno lenght, che prosegue, sia pur con qualche leggero segno di risveglio, sulla falsariga sinora perseguita, ovvero quella di un sound oramai annacquato in nome del “benedetto” battage pubblicitario che si abbatte anche sulle chiome del nostro quintetto. Vogliamo averne subito conferma, vogliamo capire sin dall’inizio dove si andrà a parare? Certamente, visto che si parte con…una bella cover di una hit di Christopher Cross (?!): il sound ed il ritmo ridanciano di Ride Like The Wind ci consegnano la band al loro “meglio” godereccio, con Byff che si diletta ad emettere gemiti e guaiti di un brano che ovviamente non rientra nelle tematiche “canoniche” del gruppo, che pur si impegna nella sua esecuzione. Ci riprendiamo, leggermente, con Where The Lightning Strikes ed il suo sound abbastanza incattivito, ma al tempo stesso rallentato dalla ritmica che la nuova sezione Johnson/Durham (non) riesce ad imprimere ad una traccia che per il resto prosegue su di una strada ben definita e non ne deroga.

Il brano migliore è senza meno I Can’t Wait Anymore, con Byff che stavolta riprende le redini della situazione con le liriche di un brano interessante, cui non sono alieni anche sottofondi tastieristici che lo fanno anche assurgere alla gloria del videoclip, dove fa bella mostra di sé anche un bel solo a sei corde finalmente degno di memoria. Si continua con l’insinuante basso di Johnson che introduce Calm Before The Storm e con il drumming aggressivo che finalmente il (transitorio) Durham riesce ad adattare ad un brano di buon impatto, dove il duo Oliver/Quinn riesce ancora ad essere incisivo ognuno la sua parte, mentre il singer si sforza generosamente di trascinare la band fuori dalle secche, in questo non certo aiutato dalla (insensata) scelta di tastiere in additivo al refrain, tale da farlo apparire una traccia da hit parade e neanche di pregio, pur con il valore “spirituale” da attribuire al brano, dedicato dal singer alla memoria del genitore. S.O.S. ed il suo lungo intro di chitarre lasciano presagire un brano da tragedia, con toni epici e squassanti: ascoltiamo, invece, l’ennesimo pezzo abbastanza scontato nella sua generalità: intendiamoci, il suono è sempre ben espresso, ma che c’azzeccano (come direbbe qualcuno…) ancora le tastiere in sottofondo, quasi a farlo apparire come un brano dei “migliori” Europe? Sì, abbiamo un più che valido assolo dei chitarristi, ma la fiacchezza di fondo non viene smacchiata manco per niente, come si dice a Roma!

Ancora tasti ad introdurre Song For Emma , con una semislide che accompagna stavolta bene le declamazioni di Byff, di nuovo al centro della scena con la sua voce roca da navigato lupo di mare, ben accompagnato dai fidi sgherri alle asce, ora ben coordinate nel loro rispettivo lavoro e di buon sostegno all’impalcatura della traccia. Pesante abbastanza For Whom The Bell Tolls, almeno nella fase iniziale ma poi, inspiegabilmente, la batteria si piega su se stessa e risulta alla fine abbastanza scialba: il lavoro di Graham Oliver e Paul Quinn è veloce ed omogeneo, ma il resto è un rincorrersi della traccia intorno a sé che fortunatamente trova sfogo e migliorie nelle alchimie di metà pezzo ben fornite ancora dal duo di chitarristi. We Are Strong è un altro brano che, a malincuore, occorre stangare: non si possono tollerare più del dovuto le ormai imperanti tastiere che dominano stavolta tutta la traccia, sarà stata una scelta della band, una imposizione della label o altro, sta di fatto che non si può ascoltare Byff quasi “annegare” in un mare di tastiere che non demordono neanche al momento degli assoli, ma che anzi si prendono il loro spazio quasi come sesto membro dell’album (!). Jericho Siren fa a meno, per una volta, dello strumento di cui sopra e si nota subito la differenza nella riuscita ed immediatezza della traccia, che finalmente cerca ricalcare i ruggiti dei bei tempi nemmeno tanto lontani, con un ritornello neanche disprezzabile, che fa da apripista ad un assolo finalmente veloce e mortifero, che ci risolleva leggermente dall’indolenzimento uditivo.

Si chiude con Red Alert ed un buon movimento generale del quintetto: guarda caso, anche in questo caso le tastiere vengono relegate in quasi secondo piano (pur presentissime) e anche il gruppo ritrova la velocità dei bei tempi, con Byff che pare tornato energicamente a dieci anni addietro con la potenza che vogliamo ascoltare da una band come la sua. Ma ecco che il lenght è terminato, di modo che si possa sperare che i Nostri possano tornare a ruggire di nuovo ed in fretta.

Autore: Saxon Titolo Album: Destiny
Anno: 1988 Casa Discografica: Emi
Genere musicale: Heavy Metal Voto: 5
Tipo: CD Sito web: www.saxon747.com
Membri Band:
Byff Byford – voce
Graham Oliver – chitarra
Paul Quinn – chitarra
Paul Johnson – basso
Nigel Durham – batteria
Tracklist:
1. Ride Like The Wind
2. Where The Lightning Strikes
3. I Can’t Wait Anymore
4. Calm Before The Storm
5. S.O.S.
6. Song For Emma
7. For Whom The Bell Tolls
8. We Are Strong
9. Jericho Siren
10. Red Alert
Category : Recensioni
Tags : Saxon
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19th Mar2021

Saxon – Rock The Nations

by Giancarlo Amitrano
Prosegue, purtroppo, la parabola discendente dei Nostri: il cambio di etichetta, l’avvento del nuovo drummer, soprattutto il pericoloso e progressivo calo dell’ispessimento del sound, tutti fattori che contribuiscono (per così dire) all’imbocco di una china tutt’altro che commendevole. Inoltre, l’odierno album vede anche l’abbandono definitivo di un altro membro storico, ovvero dell’ottimo bassista Dawson che per motivi familiari si congeda dalla band, costringendo lo stesso Byford ad imbracciare le quattro corde e a suonare su tutte le tracce del disco, pur se sulla copertina viene accreditato il nuovo arrivato Johnson. Si diceva del disco, dunque e cosa aggiungere a quanto sinora ascoltato nei lenght precedenti? La stessa piattezza del suono che ci fa dubitare di stare ascoltando una tra le band più influenti della NWOBHM, pur se all’interno di una sempre complessivamente discreta prestazione di gruppo, che mantiene i suoi stilemi di base, ma li mette al servizio di tracce appena discrete. Esaminiamole, allora, iniziando dalla titletrack: un drumming “silente” ma molto presente fa da contraltare alla voce recitante di Byff che porta avanti un brano abbastanza buono nel complesso, ma del tutto mancante dei guizzi e dei ruggiti dei bei tempi. Una giravolta pirotecnica a sei corde di metà traccia non basta a risollevarla dalla palude stagnante in cui il quintetto oramai versa.

Ancora un intro potente di batteria ad introdurre Battle Cry, brano che va in controtendenza con i suoi tempi molto accelerati che fortunatamente consentono a Byff di emergere a pieni polmoni con la sua energia ed il suo carisma ormai consolidatissimo, mentre la coppia di asce porta bene a termine il rispettivo lavoro ritmico e solistico, come si appalesa bene nella fase centrale di buon livello tecnico ed esecutivo. Un buon attacco di chitarra introduce Waiting For The Night, che con il suo ritmo preciso e frenetico dà a Byff la possibilità di interpretare da par suo ed in modo trascinante una traccia che non cambia tempi e velocità, mantenendo comunque un buon riffing di fondo che esplode infine in un buon assolo che energizza il giusto l’altrimenti balbettante panorama. We Came Here To Rock promette e parte molto bene: chitarre al massimo ed attacco immediato che va dritto al dunque. Byff va subito al sodo per far capire (e meno male) che il quintetto dello Yorkshire si trova qui per farci esaltare con brani come questo, che fortunatamente riesce ad eccitare l’uditorio con il suo ritmo frizzante e non compassato, che vede anche le chitarre compiere ampi giri di “valzer” prima di portarsi sulle coordinate di un assolo mortifero e finalmente pirotecnico che enfatizza una tra le migliori tracce del disco. Ancora sei corde infuocate che introducono You Ain’t No Angel e la sua tempistica quasi “mid” che può notarsi specialmente nel cantato, stavolta più rallentato e magari meno aggressivo, anche se stavolta sono proprio le chitarre a menare le danze in una altalena di ritmiche ora più che sufficiente, pur con tutti i distinguo del caso e dei tempi che (al momento) furono.

Running Hot ci sorprende piacevolmente con il suo ritmo finalmente intenso e potente, grazie al drumming completo e complesso di Glockler ed al duo Quinn/Oliver che ben distribuisce fendenti in tutte le direzioni: la durata “classica” del brano consente al quintetto di poter esibire bene il proprio repertorio di energia e svisatone a tutto tondo, senza dimenticare che al basso c’è proprio il cantante. Party Til’You Puke è una simpatica traccia hard’n’roll, laddove la band si diverte quasi a far ballare chi ascolta il brano: il tutto fila maliziosamente via sotto traccia con improvvisi stacchi e cambi di passo, sui quali la voce di Byff funge da catalizzatore massimo in mezzo ad un’atmosfera effettivamente festaiola, come il titolo suggerisce. La potenza di Empty Promises ci fa apprezzare, con nostalgia, le potenzialità ancora presenti nella band che pure, forse di malavoglia, in questo brano non riesce a tirarle del tutto fuori: nonostante una buona prestazione complessiva del quintetto, specialmente dei chitarristi, il brano non riesce a venir fuori da una sensazione di incompiutezza.

Si chiude (finalmente) con Northern Lady e con addirittura slides e tastiere (?!) che accompagnano il pur sempre pregiato vocione di Byff che modula da par suo un brano molto elementare e con il refrain che al singer evidentemente piace molto enunciare, tanto per chiudere l’ennesimo album controverso con i suoi giri finali di chitarra che almeno non lo rendono del tutto trascurabile.

Autore: Saxon Titolo Album: Rock The Nations
Anno: 1986 Casa Discografica: Emi
Genere musicale: Heavy Metal Voto: 6
Tipo: CD Sito web: www.saxon747.com
Membri Band:
“Byff” Byford – voce
Paul Quinn – chitarra
Graham Oliver – chitarra
Paul Johnson – basso
Nigel Glockler – batteria
Tracklist:
1. Rock The Nations
2. Battle Cry
3. Waiting For The Night
4. We Came Here To Rock
5. You Ain’t No Angel
6. Running Hot
7. Party Til’ You Puke
8. Empty Promises
9. Northern Lady
Category : Recensioni
Tags : Saxon
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12th Mar2021

Saxon – Innocence Is No Excuse

by Giancarlo Amitrano
L’avventura dei nostri si imbatte in un altro capitolo fondamentale: arriva, infatti , anche un inaspettato cambio di etichetta, con la lungimiranza della Emi ad approfittare del calo di interesse della storica Carrere e il conseguente passaggio della band sotto il suo vessillo. Come se tutto questo fosse collegato ad un sottile disegno invisibile, anche il gruppo risente di tale transito e di questo ci si rende conto nell’album che esce sotto il nuovo marchio: se con Power & The Glory la band strizzava l’occhio alle chart, presentandosi addirittura a Sanremo, affievolendo il sound con il successivo Crusader, con il nuovo lenght il quintetto si getta anima e corpo tra le braccia dell’imperante show business che, evidentemente, ha “chiesto” ai Nostri di commercializzare ulteriormente il prodotto, non trovando porte chiuse da parte dei britannici, i quali anzi si regolano di conseguenza. Ascoltiamo, ad esempio, l’intro tastieristico (!) di Rockin’Again e la slide di sottofondo che vede Byff trasformarsi in un perfetto cantastorie rallentato, salvo poi assumere pose a lui più consone grazie al drumming velocizzato di Glockler ed ai cori che rafforzano una traccia invero abbastanza “controversa” nel suo complesso, pur ravvivata da un interessante assolo centrale.

Si velocizza il tutto con la successiva Call Of The Wild e un buon giro di chitarre, mentre il singer torna a graffiare piacevolmente: il ritmo è leggermente più incisivo, ma sono ancora una volta i background vocali a non rendere definitivamente potente un brano pieno certamente di buone intenzioni e del consueto buon solido lavoro delle asce. Con Back On The Streets si continua a procedere su di una discreta andatura, ma è il complesso e del brano e di tutto l’album a continuare a lasciare perplessi. L’energia di certo non manca, ma in primis (non  potendo avere conferme) ci pare che la batteria risulti addirittura campionata a causa del sound molto appiattito e freddo; eppure, come detto, alle spalle della band c’è ora un colosso come la Emi che dovrebbe essere sinonimo di perfezione e pulizia del suono. Devil Rides Out non aggiunge nulla di nuovo a quanto sinora ascoltato: singolarmente le prestazioni sono ineccepibili, ma è carente soprattutto l’amalgama dei primi lavori, quando il quintetto appariva come un’autentica macchina da guerra. Apprezziamo, almeno, il buonissimo lavoro di Dawson che qui è all’ultima apparizione con la band, si dice spinto all’abbandono da parte della moglie. Rock’n’Roll Gypsy pare risollevarsi leggermente dal grigiore generale con un una buona intersezione delle asce ed un refrain gradevole e facile da ricordare: Byff ancora con il suo vocione a dettare le danze, mentre i restanti quattro moschettieri eseguono (straccamente?) il loro compito, ovvero quello di portare a casa il risultato, di riffa o di raffa.

Almeno Broken Heroes ci restituisce per un attimo la band ai suoi massimi: tra i testi più drammatizzati ed antimilitaristi della loro produzione, i cinque albionici stavolta decidono di ruggire a modo loro, ovvero con un brano melodico nell’impostazione, ma potente nei passaggi centrali che forniscono l’energia dei bei tempi per rendere la traccia ancora oggi uno dei loro cavalli di battaglia dal vivo. Ancora energico l’attacco di Gonna Shout, con il duo Oliver/Quinn ad introdurre con i loro fendenti una buona linea sonora vocalmente ben condotta dal “leader maximo”: pur con le premesse di cui sopra, la traccia riesce discretamente nel suo intento, ovvero mostrare le varie anime del gruppo che si divide tra l’aggressione sonora e la melodia strisciante fra le righe, pur se con un altro buon giro di chitarre. Everybody Up e la sua energia meritarono all’epoca l’inserimento del brano all’interno del film Demoni di Lamberto Bava ed infatti possiamo apprezzare la potenza della traccia del brano che invita tutti a tenere duro ed a non perdere la barra: pezzo ideale per un film horror per la potenza delle asce ed il drumming stavolta immediato e potente di Glockler, che si merita in pieno il plauso assieme alla band per questa dimostrazione di forza. Raise Some Hell si muove bene tra le linee con Byff che tiene dritta la barra di una esecuzione diretta e potente, mentre, purtroppo, dobbiamo segnalare ancora il sound della batteria che pare non del tutto farina di chi ci dà pur dentro: ciò che salva il brano, fortunatamente, è un riffone centrale potentissimo che mette tutti (quasi) d’accordo.

Si chiude con Give It Everything You’ve Got, altra traccia non indimenticabile pur se all’interno di un contesto anche ben accelerato, ma con questi “benedetti” cori che non vogliono saperne di lasciarci: sarà stata certo una scelta del gruppo, ma non se ne sarebbe sentita la mancanza, bastando certamente il consueto lavoro del quintetto a rendere più energico un brano che chiude un album certo al di sotto degli standard consueti della band, il cui tour di supporto all’album fu all’epoca comunque colmo di successo, (prima contraddizione), oltre al fatto di vedere estratti ben 3 singoli dal medesimo disco (Back On The Streets, Rockin’Again e Rock’n’Roll Gypsy), ed eccoci alla seconda contraddizione, tanto per non meravigliarsi mai di come vadano le cose.

Autore: Saxon Titolo Album: Innocence Is No Excuse
Anno: 1985 Casa Discografica: Emi
Genere musicale: Heavy Metal Voto: 6
Tipo: CD Sito web: www.saxon747.com
Membri Band:
Peter “ Byff” Byford – voce
Paul Quinn – chitarra
Graham Oliver – chitarra
Steve Dawson – basso
Nigel Glockler – batteria
Tracklist:
1. Rockin’Again
2. Call Of The Wild
3. Back On The Streets
4. Devil Rides Out
5. Rock’n’ Roll Gypsy
6. Broken Heroes
7. Gonna Shout
8. Everybody Up
9. Raise Some Hell
10. Give It Everything You’ve Got
Category : Recensioni
Tags : Saxon
0 Comm
05th Mar2021

Saxon – Crusader

by Giancarlo Amitrano
È stata una quaterna da urlo, quella che ha preceduto il quinto lavoro dei britannici: 4 album che hanno fatto, ed ancora fanno, la storia del vero metallo. Codificandolo nell’acciaio, il quintetto dello Yorkshire scolpisce con il fuoco il suo nome nell’olimpo dell’heavy duro e puro. E sono proprio queste premesse da sballo che, paradossalmente, mal si ritorcono contro il gruppo all’uscita del quinto lenght: difatti, la platea intera dei fan e della critica si scaglia contro la band per accusarla e di essersi venduta al mercato discografico e, soprattutto, di essersi notevolmente “affievolita” nella sua potenza esecutiva e compositiva. Ed è a malincuore che non si può che essere d’accordo con la generalità delle critiche: ci si trova infatti di fronte ad un album che, pur avendo venduto un paio di milioni di copie, ci restituisce una band che pare avere smarrito le giuste coordinate; eppure, il supporto della casa discografica è ancora forte per la giusta cassa di risonanza da fornire ai cinque che in questa occasione non centrano il bersaglio grosso. The Crusader Prelude  lasciava presagire, con il tumultuoso rombare di un campo di battaglia, chissà quali sfracelli musicali da parte della band, che con la titletrack successiva si lancia in una cavalcata a metà tra chitarre accennate quasi a slide e la voce di Byff che stavolta si addentra tra i meandri “storici” di un brano che si adatterebbe meglio ad atmosfere tanto care ai Manowar: il drumming di Glockler è discreto, ma senza stacchi imperiosi che accompagnino il brano verso i crescendo tanto amati dal combo britannico che dona sì il consueto buon solo della coppia di asce, ma senza esaltare.

A Little Bit Of What You Fancy è un brano molto “scentrato” nella sua dinamica: il drumming imperioso non fornisce il giusto assist al suo snodarsi, che anzi viene ulteriormente appiattito da un coro ricorrente che lascia sbigottiti di come stavolta la semplicità dei brani sia tanto “gradita” alla band, che si avvia con naturalezza verso la conclusione di una traccia abbastanza “sgradita”, nonostante un buon lavoro delle chitarre. Sailing To America torna a percorrere sentieri a noi più consoni, con Byff che stavolta con piglio deciso affronta il brano con energia e compartecipazione: il ritornello è intrigante, pur se i controcanti non ci fanno buonissima figura: il duo Oliver/Quinn procede bene con le sue ritmiche ben dettate che consentono una buona esecuzione vocale che precede il buon assolo a sei corde. Con Set Me Free ascoltiamo un’altra traccia veloce, sicura e spedita verso il bersaglio grosso: il refrain è anche stavolta abbastanza scontato, con la variante pregevole di un buon intreccio delle asce, mentre Byford allunga bene le note della sua performance, sempre valida dal suo punto di vista in un brano comunque ancora non esaltante. Mentre ci chiediamo se effettivamente i musi lunghi dei fan di allora avessero ragione, ci giungono i piacevoli echi di Just Let Me Rock, nei quali la band dimostra di trovarsi a suo agio anche in brani dai tempi molto “mid”, come il detto in questione: le chitarre sono molto slide e il cantato si adegua di conseguenza per offrire una interpretazione abbastanza buona, senza dimenticare il consueto solido lavoro dei chitarristi.

Bad Boys parte ed arriva in conseguenza: il vocione di Byff introduce le gradevoli note di una traccia che è veloce senza incantare, con bridge e ritornello abbastanza melensi di per sé ma che conservano un qualcosa di gradevole che può ravvisarsi nella buona sezione ritmica e nelle asce sempre in accordo che si sovrappongono al momento giusto. Con Do It All For You la band torna alle atmosfere epiche di cui all’inizio: la sei corde semiacustica fornisce un buon tappeto iniziale di note su cui il singer abbassa nuovamente i toni per eseguire una traccia molto rallentata che fornisce sì un buon giudizio sulle capacità tecniche del gruppo, ma che anche lo riconsegna in una veste non del tutto a lui consona, dato che l’irruenza dei bei tempi pare essersi ora smarrita. È un drumming abbastanza aggressivo ad introdurre Rock City, altro brano di “facile” ascolto: eppure stiamo ascoltando proprio i Saxon, che paiono quasi “rinnegare” se stessi con l’interpretazione di tracce come questa: troppi background vocali, mentre al buon Glockler, in verità, continuiamo a preferire il suo predecessore, il Pete Gill dal tocco ben diverso e molto più potente, mentre i due chitarristi almeno cercano tenere in piedi il tutto con il loro onesto arpeggio.

Si chiude con Run For Your Lives e il canto di Byford che almeno in conclusione torna a graffiare come ai bei tempi, coadiuvato stavolta finalmente da tutta la band, che sforna bene i suoi stacchi di batteria e le svisate di coppia delle asce, in un con il sempre poco apprezzato Dawson e il suo basso generoso di note, mentre il conclusivo “alè oh oh” che la band emette in sottofondo ci fa essere contenti che l’album sia giunto al termine, attendendo in fretta nuove zampate al livello della band, qui davvero sottotono.

Autore: Saxon Titolo Album: Crusader
Anno: 1984 Casa Discografica: Carrere
Genere musicale: Heavy Metal Voto: 6
Tipo: CD Sito web: www.saxon747.com
Membri Band:
Peter “Byff” Byford –  voce
Graham Oliver – chitarra
Paul Quinn – chitarra
Steve Dawson – basso
Nigel Glockler – batteria
Tracklist:
1. The Crusader Prelude
2. Crusader
3. A Little Bit Of What You Fancy
4. Sailing To America
5. Set Me Free
6. Just Let Me Rock
7. Bad Boys
8. Do It All For You
9. Rock City
10. Run For Your Lives
Category : Recensioni
Tags : Saxon
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26th Feb2021

Saxon – Power & The Glory

by Giancarlo Amitrano
Non si finisce mai di stupirsi. Ogni sforzo volto a migliorare le proprie prestazioni, nella vita come nel lavoro, deve fare sempre i conti con il giudizio altrui (fortunatamente , non sempre…): nel caso dei Saxon, nonostante una sinora fin qui mirabile quaterna di album sfornati e premiatissimi dall’uditorio e dal battage pubblicitario, la (occorre dirlo) poco lungimirante visione della pur validissima casa discografica, invece di tirare il freno a mano e concedere al gruppo una pausa di riposo per consentirgli di ripartire alla grande, decide di continuare a spremere la gallina dalle uova d’oro ed imporre quasi subito un successore al già massimo Denim And Leather. Il risultato che spesso si ottiene in questi casi è quello di incorrere in un clamoroso flop di vendite e di gradimento: eppure (ecco la meraviglia di cui in premessa), non solo vien fuori un altro lenght di assoluto spessore, ma addirittura ad oggi risulta essere l’album più venduto della carriera del gruppo. L’unico pegno da pagare a quanto sopra (si fa per dire) risulta essere il dolorosissimo cambio alla batteria che vede subentrare Nigel Glockler (ex Toyah) al posto della macchina da guerra Pete Gill. Ed è proprio questo cambio, le cui ragioni restano ancor oggi avvolte nel mistero, a far storcere il naso ai fan della prima ora, che accusano la band di aver introdotto alle pelli un drummer che prima aveva suonato punk (!) paventando un clamoroso voltafaccia alle fortune del gruppo. Ma la band risponde da par suo con due mosse altrettanto valide: di una ne parleremo a breve, mentre l’altra consiste nell’assumere quale produttore nientemeno che Jeff Glixman, già sugli scudi con Kansas e Magnum oltre che reduce freschissimo dalla collaborazione con Gary Moore per la realizzazione del gioiello Corridors Of Power.

Ed ecco allora che anche i testi risentono di tutto questo, con una maggiore intimizzazione dei brani ed un occhio più attento alle vicende che il gruppo sente di vivere in prima persona, come la titletrack, che si occupa nientemeno che della guerra delle Falklands, in prima linea vissuta dalla Gran Bretagna: il brano è veloce, aggressivo ed intenso grazie alla maggiore pulizia sonora delle chitarre che fanno posto al comunque buon lavoro del neo batterista, mentre il cantato di Byff è energico come al solito, con tanto di “declamazione” centrale del testo, giusto per fornire l’alibi al valido solo finale della consolidata coppia Oliver/Quinn. Redline è il brano preferito dal singer, come da lui stesso dichiarato nelle note di copertina: sembra ascoltare un assaggio di ZZTOP (!) che sopra un riff apparentemente semplice si gettano a capofitto come dei arrabbiati biker che si catapultano appunto verso la sottile linea rossa di un traguardo costituito da assoli brevi ma intensissimi ben scanditi dal drumming incisivo e chiarissimo. Warrior  si avvicina pesantemente alle sonorità di Wheels Of Steel, includendo la fierezza delle origini nordiche del gruppo britannico che qui riversa la sua energia proprio da guerriero: sono nuovamente i circa tre minuti di durata a dare la misura della dimensione raggiunta dal gruppo, che riesce a condensare e contenere la propria energia in questo lasso di tempo senza mancare ai suoi comandamenti originari fatti di super riff che scandiscono la voce stentorea di Byford, autentico dominatore della scena.

Nightmare è il singolo assoluto dell’album: talmente singolo e singolare nella sua struttura, molto mid e rallentata, da giungere addirittura a Sanremo (!) nello stesso anno 1983 (ecco la seconda mossa di cui sopra); sarà stato magari eseguito in playback per non demolire a furia di watt gli studi dell’Ariston, ma la prestazione del quintetto spacca anche sul piccolo schermo, non potendo certo spaventarsi di fronte a poche centinaia di persone a teatro rispetto alle decine di migliaia che solitamente fronteggiano dal vivo: un’abilissima mossa, quindi, che rende ancor più accorsata la posizione dei nostri eroi. Un altro anthem si palesa da lontano: This Town Rocks pare scritto apposta per dominare le platee on stage con il suo ritmo vertiginoso e spericolato, su cui fanno da padrone il basso indiavolato di Dawson ed anche i primi “conati” di vorticosa grancassa di Glockler, che presto vengono raggiunti dagli ennesimi pirotecnici assoli delle asce. Watching The Sky è una bella traccia immediata, sulla quale si possono ascoltare vari e ripetuti stacchi di Glockler, mentre Byff torna ad essere lo screamer di turno, non senza qualche “indulgenza” al narrativo: trattasi inoltre di brano molto riflessivo, con il quale la band invita a considerare che quello umano non è il solo genere esistente nell’universo; per fortuna, ci pensano i soli della coppia Quinn/Oliver a farci tornare ad argomenti più “pratici”, oltre che ad un solido metallo.

L’esecuzione di Midas Touch è intrigante per il buon lavoro slide delle chitarre, mentre il mai troppo apprezzato Dawson disegna un solidissimo tappeto sonoro con il suo basso preciso e puntuale, che consente a Byff di enunciare a suo piacimento le note di un brano rapido, su cui aleggiano echi di un solido bagaglio tecnico, evidenziato dagli assoli spassionati e lucidissimi che le due asce sfornano in un crescendo di esaltazione tecnica. Si chiude con il crescendo di The Eagle Has Landed ed il paio di minuti iniziali che tratteggiano l’avvicinarsi di un qualcosa di maestoso che sta per approdare a bersaglio: ed è il vocione di Byff l’oggetto in questione avvistato, che qui veste i panni di un autentico “storyteller” nel tracciare le righe esatte di un brano quasi progressivo in alcuni passaggi;. Ed anche l’assolo viene di conseguenza, molto intenso e drammatizzato con un sapiente “bending” che allunga sapientemente le note a preparare la fase finale condotta dal drumming inferocito di Glockler che chiude un album ancora oggi memorabile.

Autore: Saxon Titolo Album: Power & The Glory
Anno: 1983 Casa Discografica: Carrere
Genere musicale: Heavy Metal Voto: 7
Tipo: CD Sito web: www.saxon747.com
Membri Band:
“Byff” Byford –  voce
Paul Quinn – chitarra
Graham Oliver – chitarra
Steve Dawson – basso
Nigel Glockler – batteria
Tracklist:
1. Power & The Glory
2. Redline
3. Warrior
4. Nightmare
5. This Town Rocks
6. Watching The Sky
7. Midas Touch
8. The Eagle Has Landed
Category : Recensioni
Tags : Heavy Metal, Saxon
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19th Feb2021

Saxon – Denim And Leather

by Giancarlo Amitrano
Credete che il sacro fuoco dei Nostri si sia esaurito con la micidiale trilogia iniziale? Disingannatevi, poichè la vis interna del quintetto britannico è lungi dall’essersi minimamente esaurita, anzi non è nemmeno lontanamente intaccata da pericolosi e perversi venti di appannamento. Al quarto capitolo della sua epopea, la band dello Yorkshire è ancora nel pienissimo della propria maturità artistica e compositiva, sfoderando non a caso quello che ancora oggi è saldamente tra i suoi lenght più venduti e di successo. Le nove tracce sono ancora varie e colme di energie, con il singer fortemente sul pezzo e a dettare tempi perfettamente scanditi dal restante quartetto: si inizia dunque con il riffone eterno che introduce Princess Of The Night e una ennesima super performance di Byff che accompagna millimetricamente la enorme portata sonora del brano, che vede oltretutto una energica prestazione alle percussioni dell’ottimo Gill, che abbonda di pedali e grancassa. Mentre le due asce non smettono di martellare note, la traccia si snoda potente ed insinuante verso un memorabile assolo a sei corde che potenzia ulteriormente il già incandescente sound.

Never Surrender  ed il suo ritmo apparentemente semplice non trae in inganno: il ritornello è molto gradevole all’ascolto e di conseguenza anche tutto il brano viene via con facilità senza che vi siano momenti di stanca, causa anche il sostenuto mood che il cantato riesce a donare con una energica e decisa declamazione vocale, che viene supportata alla grande dal duo Oliver/Quinn con un assolo ottimamente diviso e strutturato. Out Of Control inizia con una “sgommata” di grancassa che tiene botta all’insinuante slide che accompagna l’altrettanto efficace elettrica a corredo del vocione di Byford, qui molto puntuto nell’enunciazione del testo che ben si presta all’allungamento delle note saggiamente impiegato dall’ormai espertissimo singer britannico Rough And Ready parte con un intrigante fischiettio del vocalist, che si mette in fretta alla ricerca della giusta estensione vocale, facilmente trovata nel corso del brano, il quale si presta già di per sé ad assecondare le evoluzioni sia del cantante che specialmente della doppia chitarra che non si sottrae al solido lavoro ritmico ed ovviamente di elettricità incombente come non mai al momento giusto della traccia tanto per renderla ancora più incandescente e fressa di metallo. Con Play It Loud la band sperimenta anche la compatibilità tra tempi dimezzati e ritmi solitamente intensi: il mezzo è offerto dal gran lavoro di Gill che con il suo drumming detta bene tempi e battute alle ritmiche aggressive del brano, che riesce a ritagliarsi un suo spazio ben definito anche grazie al complesso ma valido intreccio che le due chitarre riescono a produrre, unitamente al consueto assolo granitico e mozzafiato tale da far ruotare teste e capelli fluenti.

Si giunge così ad uno dei brani ancora oggi di maggior successo del gruppo: la potenza, l’aggressione sonora e la decisione di And The Bands Played On sono un marchio di fabbrica incrollabile e di potenza quasi “commovente”, tanta è la dedizione che la band ci mette, facendosi “esaltare” da tanto di tifo da stadio opportunamente inserito a metà del brano, pur non di lunga durata ma sempreverde e memorabile per chi voglia e debba pogare, all’aperto ed al chiuso. Midnight Rider potrebbe apparire brano molto meno coinvolgente degli altri, ma anche questo si rivela un errore: solo il lavoro delle chitarre vale la traccia, riuscendo a districarsi con velocità encomiabile tra introduzione leggermente ammorbidita e successiva prestazione vocale urticante che fa da sfondo al gradevolissimo refrain, urlato a squarciagola dal Nostro, il quale non si spaventa doverlo enunciare più e più volte all’interno della traccia, che scorre via piacevole tra le solite atmosfere infuocate create ad arte dal quintetto. Potente ed aggressiva, Fire In The Sky consente a Byff di prendersi anche delle giuste pause tra una strofa e l’altra, potendo contare sul solido e fido lavoro delle asce e di una sezione ritmica ottimamente sorretta da un Gill in forma smagliante, pur se all’ultima sua apparizione con la band; nel frattempo, ci godiamo i crash ed i rullanti mirabilmente distribuiti con bacchette ispiratissime ed assecondate dalle quattro corde di un mai troppo apprezzato Dawson.

Si chiudono le danze con la titletrack, che ci rimbomba nelle orecchie con una melodia incrollabile, potenziata dal basso martellante e dalle smazzate della batteria. Il ritornello è dopo quattro decenni esatti ancora freschissimo ed attuale, mentre prosegue il lavoro delle asce che si intersecano nel loro rispettivo lavoro, di sottofondo e di solismi ben assestati; la parte centrale della traccia è dedicata appieno ad un uragano a dodici corde (sei a cranio per Oliver e Quinn…) che alla fine ci lasciano beatamente storditi ed ancora grati alla band della Contea di York.

Autore: Saxon Titolo Album: Denim And Leather
Anno: 1981 Casa Discografica: Carrere
Genere musicale: Heavy Metal Voto: 7
Tipo: CD Sito web: www.saxon747.com
Membri Band:
Byff – voce
Graham Oliver – chitarra
Paul Quinn – chitarra
Steve Dawson – basso
Pete Gill – batteria
Tracklist:
1. Princess Of The Night
2. Never Surrender
3. Out Of Control
4. Rough And Ready
5. Play It Loud
6. And The Bands Played On
7. Midnight Rider
8. Fire In The Sky
9. Denim And Leather
Category : Recensioni
Tags : Heavy Metal, Saxon
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12th Feb2021

Saxon – Strong Arm Of The Law

by Giancarlo Amitrano
È al terzo album che i Saxon raggiungono la gloria assoluta: se con i primi due lavori la band aveva già lasciato intravvedere le enormi potenzialità in suo possesso, in attesa di esplodere completamente, con la sua terza fatica il quintetto valica le porte dell’olimpo e della leggenda. Rilasciato a pochi mesi di distanza dal già enorme Wheels Of Steel, l’odierno lenght tocca la perfezione sonora ed artistica, cogliendo vette certamente mapi più in futuro raggiunte: al massimo della sua forma fisica e tecnica, la band sforna 8 tracce al fulmicotone che non lasciano prigionieri sul campo e mettono a dura prova amplificatori di marca preclara che tutti ben conosciamo. La compattezza della band è granitica, ogni parte musicale è perfetta e suonata con precisione svizzera e potenza teutonica, mentre il cantato di Byff è fresso, metallico e squillante. Si parte con effetti che simulano una tempesta tropicale, un Heavy Metal Thunder con lampi e tuoni che appunto vengono ben presto “corroborati” da una micidiale coppia di asce, le quali delineano un drumming aggressivo e micidiale cui è difficile stare dietro. Il singer sa il fatto suo e non lesina acuti e note ampiamente trattenute ed allungate che consentono una chiara enunciazione del ritornello, risuonante come proprio il tuono metallico del titolo, per un inizio che già promette sfracelli.

Figurarsi, quindi, se possa “spaventare” il successivo attacco a sei corde di To Hell And Back Again che si incammina verso una potentissima cavalcata metal che mette a dura prova le corde vocali del Nostro, il quale, tuttavia, non se ne dà per inteso e sfoggia tutto il repertorio classico di uno screamer che si rispetti. Iil quartetto alle sue spalle non è da meno, offrendo un’ampia panoramica di potenti assoli ed altrettanto azzeccate melodie sempre a sei corde, con la sezione ritmica che sforna battute a centinaia facendo ritrovare l’ascoltatore in un uragano sonoro che il riffone centrale sublima alla perfezione con il conseguente “piacevole” sanguinamento uditivo. Al terzo solco troviamo la title track, su cui si erge un iniziale e superbo giro di basso che resta scolpito nei cuori e nella mente, mentre gli altri iniziano il loro solido “lavoro” con una traccia che riesce ad entusiasmare anche facendo largo uso di una tempistica stavolta molto rallentata, che tuttavia riesce a donare emozioni a iosa, sia per il testo che ovviamente per l’esecuzione: non compaiono tempi morti anche in momenti leggermente più “rilassati” all’interno del brano, che comunque si contraddistingue anche per un maestoso assolo centrale in cui le due chitarre si intersecano alla perfezione senza sovrapporsi e con una perfetta udibilità di ambo le asce, per un’ altra perla di questa mirabolante band.

Si abbatte su noi un’altra orda barbarica con l’ascolto di Taking Your Chances ed il suo ennesimo ritmico duo di chitarre che costruisce un vero muro del suono per introdurre il brano: le pareti paiono crollare da un momento all’altro, attendendo solo l’entrata in scena del singer che stavolta parte in quarta in una narrazione furiosa che ben si sposa con l’aggressività della traccia, muscolare e veloce quanto si vuole, ma al tempo stesso tecnica e superbamente incrociata in un vortice di note che sfociano in un maiuscolo assolo centrale che è la cornice del pezzo. Uno dei brani più violenti dell’intera discografia del gruppo è senz’altro 20,000 Feet: sin dal micidiale attacco del duo Oliver/Quinn sarà difficile tenere il passo della traccia. Impazzisce subito anche il drumming di Gill che sale pazzescamente di giri in un vorticoso ritmo di battute e crash tutti ravvicinatissimi, mentre le quattro corde di Dawson martellano in sottofondo: paradossalmente, il “meno impegnato” è proprio Byff (si fa per dire) che non deve fare altro che gridare a più non posso le potenti note del pezzo, giusto per accompagnare ancora una volta i due chitarristi in un rutilante asolo mozzafiato, che non chiude il pezzo come al solito, ma che lo proietta tra effetti vari ed aerei in sottofondo alla successiva Hungry Years. Con una partenza in surplace, il brano pare incamminarsi verso un inatteso mid tempo, che effettivamente pervade tutto il brano, ma che al tempo stesso si fonda sulla consueta linea aggressiva che non perde di intensità anche grazie al buonissimo cantato di Byff, che qui si industria a fare l’intrattenitore vocale di pregio, declamando chiaramente ogni singola nota che contribuisca alla riuscita del brano.

Sixth Form Girls inizia con una gagliarda giravolta delle chitarre che creano il consueto tappeto sonoro sul quale giostra da par suo l’indiavolato Gill che con un drumming tutt’altro che compassato tiene testa al “proprietario” del microfono che a sua volta si inerpica in un chiassoso arcobaleno di note tutte perfettamente scandite: è di certo il brano “relativamente” meno riuscito dell’album, ma non per questo non riesce a ritagliarsi il suo spazio grazie ai ripetuti brevi ma intensi assoli delle chitarre. È, dunque, con sommo piacere che introduciamo la traccia probabilmente più bella e più tecnica non solo dell’album, ma di tutta la produzione della band: Dallas 1 Pm è il tributo che il gruppo paga al ricordo di Jfk, probabilmente il più amato Presidente degli Stati Uniti d’America. Per fare questo, il quintetto mette in scena una vera e propria rappresentazione sonora di quanto accadde il famigerato 22 novembre 1963 che vide nella città texana l’assassinio di John Kennedy. La traccia è intensa e drammatica, con Byff che si “atteggia” a testimone oculare degli avvenimenti con il suo scandire intenso e partecipato degli ultimi istanti di vita del Presidente, mentre il restante quartetto impersona da par suo l’uditorio mondiale che attonito assiste: la fase centrale è memorabile, con gli spari  inseriti magistralmente ad introdurre una coppia di chitarre che qui si fa visivamente partecipe con una slide ed una elettrica ad accompagnare la reale voce dello speaker che annuncia la tragedia in diretta. Ed è questo punto che le asce decidono di reagire a modo loro sfoderando un assolo memorabile, che pare non voler avere mai fine, come se le stesse sei corde stessero partecipando il loro dolore con un uragano di note che si placa solo quando Byff decide di riprendere le fila del discorso, accompagnando (purtroppo) il brano verso la fine ricordando con la sua voce quanto accaduto, sino a quando un crash finale di Gill pone fine ad un autentico capolavoro, ancora oggi vessillo e stendardo di tutta la NWOBHM!

Autore: Saxon Titolo Album: Strong Arm Of The Law
Anno: 1980 Casa Discografica: Carrere
Genere musicale: Heavy Metal Voto: 8
Tipo: CD Sito web:  www.saxon747.com
Membri Band:
Byff – voce
Graham Oliver – chitarra
Paul Quinn – chitarra
Steve Dawson – basso
Pete Gill – batteria
Tracklist:
1. Heavy Metal Thunder
2. To Hell And Back Again
3. Strong Arm Of The Law
4. Taking Your Chances
5. 20, 000 Feet
6. Hungry Years
7. Sixth Form Girls
8. Dallas 1 PM
Category : Recensioni
Tags : Album del passato, Heavy Metal, Saxon
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05th Feb2021

Saxon – Wheels Of Steel

by Giancarlo Amitrano
L’album di debutto ha suscitato unanimi consensi per la band inglese che ha già lasciato intravvedere le sue enormi potenzialità: tutti si attendono la conferma ad una maggiore maturazione tecnica e compositiva, che viene non solo acclarata ma addirittura clamorosamente enfatizzata con il secondo album, che lascia tutti di stucco e resta ancora oggi uno dei capisaldi di tutta la NWOBHM albionica. Ed è proprio il secondo lenght a tratteggiare i primi aloni di celebrità metallica sul combo britannico, che sembra già maturo per sferrare il suo potente attacco alle vette di tutte le chart: i 9 brani che compongono l’album sono potenti, veloci e ritmicamente impeccabili, autentici cavalli di battaglia ancora oggi, a quattro decenni di distanza! Si parte , dunque, con il rombo potentissimo di una due ruote che scalda a ripetizione il motore: ecco che le asce sono subito mortifere, la sezione ritmica aggressiva e le battute della stessa batteria sono clave che mulinano palate in tutte le direzioni; nondimeno, il cantato di Byff e già superbamente metallico, stridulo il giusto tanto per dare la corretta e virile immagine al tarantolato Motorcycle Man del titolo, al cui interno troviamo uno dei (tanti) super assoli al fulmicotone.

Si prosegue con Stand Up And Be Counted con una già diversa intonazione vocale del singer, che qui usa a volte il falsetto ma solo per preparare la voce ai possenti gorgheggi che specialmente nel refrain sono particolarmente intensi: la coppia Quinn/Oliver gode di ottima salute e fa a gara nello sfoggiare ritmiche pesanti ed altrettanto intriganti brevi assoli che ben si sposano con la traccia, per renderla ancor più incandescente. Ecco giungere in fretta uno dei capolavori della band: Strangers In The Night ed il suo incedere maestoso la rendono traccia sempiterna, autentico manifesto di tutto il genere: le due chitarre avanzano come carri armati, mentre la ritmata voce di Byford intona alla perfezione ogni singola strofa, che non perde un’oncia di pulizia e precisione, con la ritmica che torna precisa e puntuale ad ogni fine strofa, per rendere il tutto maestoso soprattutto negli assoli ripetuti ed intervallati appunto dal cantato, solido ed accattivante. Altro giro, altra gemma: è la titletrack a prendersi il suo quarto d’ora di celebrità, preannunciata da un solidissimo giro di chitarre che si intersecano a creare la melodia su cui il cantato opera da par suo: brano molto incline ad essere “narrato” nella sua struttura, con la sua apparente semplicità porge invece il destro alla band per sfornare una prestazione super che viene immortalata dall’ossessivo e potente ritornello, ormai oggi nella leggenda anche grazie alle innumerevoli esibizioni dal vivo con cui la traccia è stata proposta.

Analizzandola con la nostalgia del glorioso LP, la seconda facciata si apre con l’ipertecnica e velocissima Freeway Mad, che in alcuni passaggi rievoca gloriosissimi screamer d’oltreoceano, di fronte ai quali il vocione di Byff non sfigura: supportato alla grande dalla band, il cantato è veloce, potente ed aggressivo, con un drumming feroce che Gill offre alla lacerazione dei timpani pur nella sua relativa breve durata, cosa che quindi non fa altro che accrescere il potenziale enorme del brano. Ancora, a piacimento di chi ascolta, arriviamo a See The Light Shining ed alla sua inattesa ma altrettanto piacevole drammatizzazione che il cantato porta ad evidenziare; dedicata all’altrettanto leggendario “Fast” Eddie Clark, la traccia onora il chitarrista dell’amico Lemmy con una prestazione altrettanto intensa ed altamente tecnica della coppia di asce Oliver/Quinn, che qui raggiungono vette artistiche elevatissime, oltre alla super prestazione al microfono di Byff. Street Fighting Gang prosegue alla grande ciò che sinora è stato proposto: le asce fanno a gara nell’introdurre una potentissima battuta di grancassa, su cui Byff si getta come un avvoltoio della savana. Il gruppo va subito al sodo, mettendo il singer nelle condizioni di enunciare subito il ritornello in una tempesta sonora di rara potenza: un basso martellante cui è difficile stare dietro tiene a bada la “incontinenza” sonora delle chitarre, che seguono pedissequamente il cantato con una precisione rara ad ascoltarsi, con un finale rovente in cui si intersecano asce, basso, voce e batteria, tutti scatenati.

Suzie Hold On ed il basso di Dawson rendono ancora onore a tutto il gruppo, stavolta grazie ad una metronoma batteria ed alla voce di Byford, che rivela anche una inaspettata vena semi melodica nell’enunciazione delle strofe. Ma l’anima metallica ha sempre la prevalenza, che stavolta si mette al servizio della traccia, che qui risulta precisa e puntuale nella sua esecuzione, pur essendo (solo un tantino) inferiore agli altri brani in scaletta. Si chiude con Machine Gun, altro brano di discreta lunghezza che consente ai Nostri di terminare degnamente l’album con una traccia molto ben articolata, tale da consentire al suo interno evoluzioni a ripetizione soprattutto delle dodici corde divise tra Graham Oliver e Paul Quinn: l’uragano sonoro, che al centro della traccia sfonderebbe anche i migliori impianti stereo, vale da solo l’ascolto del brano, che tuttavia è nel complesso cavallone di battaglia per il vocione da middle-class di Byff, che qui si agita come uno sciamano in attesa della pioggia e che puntualmente giunge nel finale sotto forma di riffoni e tornado autenticamente riprodotto con gli effetti sonori che chiudono superbamente uno dei “disconi” degli anni 80.

Autore: Saxon Titolo Album: Wheels Of Steel
Anno: 1980 Casa Discografica: Carrere
Genere musicale: Heavy Metal Voto: 8
Tipo: CD Sito web: www.saxon747.com
Membri Band:
Byff – voce
Graham Oliver – chitarra
Paul Quinn – chitarra
Steve Dawson – basso
Pete Gill – batteria
Tracklist:
1. Motorcycle Man
2. Stand Up And Be Counted
3. 747 (Strangers In The Night)
4. Wheels Of Steel
5. Freeway Mad
6. See The Light Shining
7. Street Fighting Man
8. Suzie Hold On
9. Machine Gun
Category : Recensioni
Tags : Album del passato, Saxon
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