Scorpions – Blackout
La nuova decade sarà quella più prolifica per la band, nonché di maggiori contenuti tecnici e compositivi nel rilascio dei loro lavori. Ed a questa definizione contribuisce in maniera quasi determinate il disco che trattiamo oggi, unanimemente ritenuto il capolavoro assoluto della discografia del gruppo, senza dubbio di sorta. Quattro dischi d’oro ed uno di platino, oltre a cifre di vendita impressionanti, catapultano Blackout nell’olimpo di una ipotetica hit parade all-times. Registrato in condizioni particolarissime presso una villa francese, l’album scivola lungo tutta la sua durata in un crescendo di intensità, pathos ed energia allo stato puro. Subito la titletrack si presenta all’ascolto con uno scatenarsi immediato delle due asce, che a turno si alternano in una potente combinazione ritmico-solista, mentre la sezione ritmica fila dritta come un treno merci che non conosce ostacoli. Con Meine perfettamente ristabilito da un recente ai tempi intervento alle corde vocali, il cantato sgorga addirittura più nitido di prima, raggiungendo toni alti con la massima facilità di estensione. Il riff indimenticabile che pone il suggello all’eccellenza del brano è un perfetto mix di velocità virulenta e di tecnica sopraffina da parte del duo Schenker/Jabs. Con Can’t Live Without You la band si pone sulla falsariga di un ingannevole mid-tempo iniziale, in cui ambo le chitarre percorrono un apparentemente innocuo arpeggio su cui si innesta la base del brano: la sensazione tuttavia dura pochi secondi, dato che subito dopo la band al completo si imbarca su una robusta melodia di facile ascolto e tuttavia sempre impregnata da un sano hard. Anche in tale frangente, il cantato è di sicuro impatto, grazie anche alla preziosa collaborazione ai cori di Don Dokken, che addirittura era in predicato di divenire il singer titolare del gruppo, prima dell’inconveniente di Meine, peraltro brillantemente risolto.
No One Like You è ancora oggi un “must” anche in sede live: le melodie davvero pregevoli che sin dai primi accordi prendono vita conferiscono al brano un’aura magica che consente al singer un’interpretazione davvero sopra le righe per trasporto e coinvolgimento. Il lavoro chitarristico si snoda con sapienza tra stacchi ed accompagnamenti saggiamente dosati alla batteria, che qui si tiene saggiamente a disposizione dell’economia del brano. Sempre e comunque in presenza di un signor “solo” che chiude degnamente l’esecuzione. Ideale continuazione la si trova in You Give Me All I Need, dove ancora una volta la fanno da padrone le alchimie disegnate dalle sei corde, che ad una iniziale fase semiacustica fanno seguire un robusto momento di aggressività, ottimo per innestare la egualmente intensa interpretazione di Meine, che spazia dal sincopato allo screaming in pochi secondi. Di rilievo la conclusione del brano, dove il drumming forsennato insiste nello scandire le note di supporto al ritornello che pare non terminare mai, se non grazie alla dissolvenza del brano.
La seconda facciata decide di diventare più aggressiva: Now! è un pugno nello stomaco per intensità, velocità, potenza e tecnica esecutiva. Pelli che sono pestate senza ritegno, chitarre che paiono essersi incamminate sulla strada della distruzione sonora e voce che mai in passato ha raggiunto i picchi così toccanti. Il solo di metà brano, condensato in meno di tre minuti, può essere ancora oggi d’esempio alle giovani generazioni di axeman, che apprenderebbero l’arte del tapping 30 anni prima e la distorsione che i plettri consentono alle loro asce. Giungiamo al momento più “drammatico” dell’album: il pathos di cui trasuda Dynamite è riconoscibile sin dalle prime note, avvertito maggiormente nel lavoro ossessivo del pedale della grancassa, che detta i tempi all’entrata in scena dei virtuosi. La voce è qui mefistofelica, grazie ad un sapiente uso di toni più bassi che rendono più cartavetrata l’emissione delle note: il lavoro di Buchholz diviene martellante nel dettare la linea sonora da seguire, che qui appare del tutto slegata da contesti, per giungere dritta all’assolo devastante che fa capire quasi fisicamente lo sforzo compiuto per fornirlo all’ascolto. Lasciandoci con una sensazione di sfinimento finale, il brano coglie in pieno lo scopo.
Il trittico finale funge da degna cornice melodica all’album, pur mantenendo intatte le caratteristiche tecniche della band: Arizona e China White sono entrambe improntate ad un arpeggio molto ben modulato nella sua fase iniziale, cui segue un incupirsi dei suoni per quanto riguarda l’intensità ed il pathos in essi contenuti. Specialmente nel secondo dei due brani, la chitarra non si rende partecipe di fronzoli di sorta, dovendo tenere il tempo della sezione ritmica, molto rigida e precisa nel tocco. Batteria e basso fungono, nelle intenzioni del gruppo, da collegamento alla gemma finale del disco, i due brani detti preparano all’ascolto della sontuosa When The Smoke Is Going Down: sin dalle prime note, l’atmosfera incantata propostaci si concretizza nella leggerezza delle melodie, nel canto quasi di cilindrata “Dio-era”, stanti i testi onirici ed introspettivi nella loro semplicità. Cavallo di battaglia ancora oggi, la maestria del quintetto si condensa nel solo delicato di metà brano, in cui tutto sembra rallentare e cedere il passo ad un ideale dialogo con chi ascolta per non lasciarsi senza avere tutto bene a mente. Oltre 30 anni passati non scalfiscono di un’oncia il valore inestimabile di questo lavoro, pietra miliare del genere.
Autore: Scorpions | Titolo Album: Blackout |
Anno: 1982 | Casa Discografica: Mercury |
Genere musicale: Hard Rock | Voto: 8 |
Tipo: CD | Sito web: http://www.the-scorpions.com |
Membri band:
Klaus Meine – voce Rudolf Schenker – chitarra Matthias Jabs – chitarra Francis Buchholz – basso Herman Rarebell – batteria |
Tracklist:
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