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08th Mar2013

Scorpions – Blackout

by Giancarlo Amitrano

La nuova decade sarà quella più prolifica per la band, nonché di maggiori contenuti tecnici e compositivi nel rilascio dei loro lavori. Ed a questa definizione contribuisce in maniera quasi determinate il disco che trattiamo oggi, unanimemente ritenuto il capolavoro assoluto della discografia del gruppo, senza dubbio di sorta. Quattro dischi d’oro ed uno di platino, oltre a cifre di vendita impressionanti, catapultano Blackout nell’olimpo di una ipotetica hit parade all-times. Registrato in condizioni particolarissime presso una villa francese, l’album scivola lungo tutta la sua durata in un crescendo di intensità, pathos ed energia allo stato puro. Subito la titletrack si presenta all’ascolto con uno scatenarsi immediato delle due asce, che a turno si alternano in una potente combinazione ritmico-solista, mentre la sezione ritmica fila dritta come un treno merci che non conosce ostacoli. Con Meine perfettamente ristabilito da un recente ai tempi intervento alle corde vocali, il cantato sgorga addirittura più nitido di prima, raggiungendo toni alti con la massima facilità di estensione. Il riff indimenticabile che pone il suggello all’eccellenza del brano è un perfetto mix di velocità virulenta e di tecnica sopraffina da parte del duo Schenker/Jabs. Con Can’t Live Without You la band si pone sulla falsariga di un ingannevole mid-tempo iniziale, in cui ambo le chitarre percorrono un apparentemente innocuo arpeggio su cui si innesta la base del brano: la sensazione tuttavia dura pochi secondi, dato che subito dopo la band al completo si imbarca su una robusta melodia di facile ascolto e tuttavia sempre impregnata da un sano hard. Anche in tale frangente, il cantato è di sicuro impatto, grazie anche alla preziosa collaborazione ai cori di Don Dokken, che addirittura era in predicato di divenire il singer titolare del gruppo, prima dell’inconveniente di Meine, peraltro brillantemente risolto.

No One Like You è ancora oggi un “must” anche in sede live: le melodie davvero pregevoli che sin dai primi accordi prendono vita conferiscono al brano un’aura magica che consente al singer un’interpretazione davvero sopra le righe per trasporto e coinvolgimento. Il lavoro chitarristico si snoda con sapienza tra stacchi ed accompagnamenti saggiamente dosati alla batteria, che qui si tiene saggiamente a disposizione dell’economia del brano. Sempre e comunque in presenza di un signor “solo” che chiude degnamente l’esecuzione. Ideale continuazione la si trova in You Give Me All I Need, dove ancora una volta la fanno da padrone le alchimie disegnate dalle sei corde, che ad una iniziale fase semiacustica fanno seguire un robusto momento di aggressività, ottimo per innestare la egualmente intensa interpretazione di Meine, che spazia dal sincopato allo screaming in pochi secondi. Di rilievo la conclusione del brano, dove il drumming forsennato insiste nello scandire le note di supporto al ritornello che pare non terminare mai, se non grazie alla dissolvenza del brano.

La seconda facciata decide di diventare più aggressiva: Now! è un pugno nello stomaco per intensità, velocità, potenza e tecnica esecutiva. Pelli che sono pestate senza ritegno, chitarre che paiono essersi incamminate sulla strada della distruzione sonora e voce che mai in passato ha raggiunto i picchi così toccanti. Il solo di metà brano, condensato in meno di tre minuti, può essere ancora oggi d’esempio alle giovani generazioni di axeman, che apprenderebbero l’arte del tapping 30 anni prima e la distorsione che i plettri consentono alle loro asce. Giungiamo al momento più “drammatico” dell’album: il pathos di cui trasuda Dynamite è riconoscibile sin dalle prime note, avvertito maggiormente nel lavoro ossessivo del pedale della grancassa, che detta i tempi all’entrata in scena dei virtuosi. La voce è qui mefistofelica, grazie ad un sapiente uso di toni più bassi che rendono più cartavetrata l’emissione delle note: il lavoro di Buchholz diviene martellante nel dettare la linea sonora da seguire, che qui appare del tutto slegata da contesti, per giungere dritta all’assolo devastante che fa capire quasi fisicamente lo sforzo compiuto per fornirlo all’ascolto. Lasciandoci con una sensazione di sfinimento finale, il brano coglie in pieno lo scopo.

Il trittico finale funge da degna cornice melodica all’album, pur mantenendo intatte le caratteristiche tecniche della band: Arizona e China White sono entrambe improntate ad un arpeggio molto ben modulato nella sua fase iniziale, cui segue un incupirsi dei suoni per quanto riguarda l’intensità ed il pathos in essi contenuti. Specialmente nel secondo dei due brani, la chitarra non si rende partecipe di fronzoli di sorta, dovendo tenere il tempo della sezione ritmica, molto rigida e precisa nel tocco. Batteria e basso fungono, nelle intenzioni del gruppo, da collegamento alla gemma finale del disco, i due brani detti preparano all’ascolto della sontuosa When The Smoke Is Going Down: sin dalle prime note, l’atmosfera incantata propostaci si concretizza nella leggerezza delle melodie, nel canto quasi di cilindrata “Dio-era”, stanti i testi onirici ed introspettivi nella loro semplicità. Cavallo di battaglia ancora oggi, la maestria del quintetto si condensa nel solo delicato di metà brano, in cui tutto sembra rallentare e cedere il passo ad un ideale dialogo con chi ascolta per non lasciarsi senza avere tutto bene a mente. Oltre 30 anni passati non scalfiscono di un’oncia il valore inestimabile di questo lavoro, pietra miliare del genere.

Autore: Scorpions Titolo Album: Blackout
Anno: 1982 Casa Discografica: Mercury
Genere musicale: Hard Rock Voto: 8
Tipo: CD Sito web: http://www.the-scorpions.com
Membri band:

Klaus Meine – voce

Rudolf Schenker – chitarra

Matthias   Jabs – chitarra

Francis Buchholz   – basso

Herman Rarebell – batteria

Tracklist:

  1. Blackout
  2. Can’t Live Without You
  3. No One Like You
  4. You Give Me All I Need
  5. Now!
  6. Dynamite
  7. Arizona
  8. China White
  9. When The Smoke Is Going Down
Category : Recensioni
Tags : Scorpions
0 Comm
01st Mar2013

Scorpions – Animal Magnetism

by Giancarlo Amitrano

All’inizio degli anni ‘80 impera sovrana la NWOBHM con epigoni quali Saxon, Iron Maiden e via dicendo. Le sonorità più aggressive cui si improntano testi e musiche di queste band parrebbero non lasciare più molto spazio al caro sano e vecchio hard rock di una decade prima. A smentire tutto, ancora una volta, ci pensano i nostri inflessibili tedesconi: lungi dal porgere il passo e a defilarsi al cospetto dei sunnominati gruppi, il quintetto rilascia ancora una perla di genere, che nulla ha da invidiare alle produzioni più irruenti e giovanili del momento. Prova evidente, il lavoro di cui ci occupiamo: improntato a tutti i clichè che ancora avrebbero fatto scuola, il disco risente pienamente dell’impronta “classica” che la band intende rovesciare a pieno in tutte le tracce del full-lenght. A cominciare da Make It Real, il suono è freschissimo con il singer che ad un iniziale falsetto contrappone l’ugola poderosa che funge da apripista alla doppia ascia, davvero mortifera negli arpeggi e fautrice di un ottimo stacco della sezione ritmica che qui appare metronoma al massimo. Con Don’t Make No Promises ci tuffiamo a piè pari nei tempi ortodossi dell’hard più virulento. L’intro del drumming è potentissimo su cui si innesta un semplice ma efficace giro di note della sei corde che qui funge al contempo da solista e ritmica in ambedue i guitar-heroes. La separazione che a metà brano avviene tra il tappeto sonoro delle chitarre e l’accelerazione della batteria è da manuale di modo che il riff possa essere incisivo e massacrante al tempo stesso. Lo sgolarsi di Meine nell’accompagnare il brano verso la fase finale è magistrale, dosando i toni della voce sempre più verso gli acuti lancinanti ed inframmezzati fra loro.

Di qui in avanti ci troviamo di fronte ad un susseguirsi di cambi di tempo all’interno dei brani, facendo tuttavia molta attenzione nel non concedere troppo alle linee melodiche, mai prevalenti. Hold Me Tight ricalca questa falsariga, con un cambio di tempo davvero ben azzeccato nella linea sonora, grazie alla voce vellutata del singer, qui ispirato e pronto ad accollarsi il peso del brano. Twentieth Century Man vede protagonista lo Schenker Senior, evidentemente affrancato dal timore reverenziale del precedente momentaneo ritorno in formazione del fratello Michael, può finalmente destreggiarsi da par suo nel rincorrere una serie di soli ben piazzati ed intensi. Con la sezione ritmica al massimo, non è difficile per il quintetto mettere in atto tutta la tecnica al servizio dei brani, senza dimenticare le origini influenti del combo. Lady Starlight è l’immancabile ballad che il gruppo piazza a metà disco, una caratteristica immarcescibile di qui a venire; mentre Meine cala di una tonalità il cantato, anche le sei corde risultano molto più tendenti al semiacustico, tanto da creare un’atmosfera appunto quasi spaziale, in cui le visioni incantate delle liriche ben si combinano con la morbidezza che in questo frangente viene rilasciata con la consapevolezza del trattarsi di un momento “interlocutorio” del disco, in attesa di calibrare i prossimi brani al fulmicotone. Passaggi che con Falling In Love tornano ad essere incalzanti e tendenti al bersaglio grosso: con l’ispirazione di Jabs al massimo, la band viene trascinata in un gradevole mid-tempo nell’esecuzione del bridge e del refrain, su cui si innesta la voce quasi labirintica del singer, nel senso di apparire onnipresente lungo tutto l’arco del pentagramma, per un brano colpevolmente trascurato in sede live dalla band.

Only A Man si caratterizza per il gradevole coro iniziale che dà la stura al saggio dosare dei tempi di entrata da parte della band. Mossa in questa occasione dal desiderio di continuare nella linea sonora sinora intrapresa, il combo non disdegna affatto incursioni più soft di metà brano, ma resta tuttavia fedele ai canoni che sin qui li hanno resi celebri in Europa e non solo. Tanto vero, che questo lavoro troverà ben maggiore riscontro oltreoceano, certificato da dischi d’oro, platino ed altri metalli. E giungiamo senza meno al top dell’album: da 40 anni cavallo di battaglia anche on stage, The Zoo ha tutte le stimmate per guadagnarsi l’Olimpo tra tutta la discografia del gruppo. Un innovativo accordo di basso, su cui si innesta la violenza congiunta delle due asce, consente alle percussioni di Rarebell di adottare un target di battuta davvero impressionante, difficile da seguire se non provvisti di tecnica e preparazione sopraffina, di cui come detto il brano si avvantaggia specie dal vivo, dove viene allungato a dismisura per consentire al singer di inframezzare il pezzo con un bel ghirigoro di armonica distorta dal microfono. Giungendo così alla fine del pezzo attoniti dalla varietà di stili in esso adottati, che lo rendono tra i must di una loro ideale top-hit.

Con la title-track, il cui artwork ancora una volta causerà problemi di immagine alla band, si chiude idealmente la cavalcata odierna, con un brano ancora una volta ben congegnato e nei tempi e nelle esecuzioni, che sgorgano ancora limpide, pulite e tecnicamente impeccabili, considerando anche la modesta durata (rispetto a quelle oceaniche di oggi) del disco, attestata sui 40 minuti, ma vissuti interamente sul filo del rasoio, come ancora a lungo avrebbero fatto i nostri eroi di Hannover.

Autore: Scorpions Titolo Album: Animal Magnetism
Anno: 1980 Casa Discografica: Emi
Genere musicale: Hard Rock Voto: 7
Tipo: CD Sito web: http://www.the-scorpions.com
Membri band:

Klaus Meine – voce

Francis Buchholz – basso

Herman Rarebell – batteria

Rudolf   Schenker – chitarra

Matthias   Jabs – chitarra

Tracklist:

  1. Make It Real
  2. Don’t Make No Promises
  3. Hold Me Tight
  4. Twentieth Century Man
  5. Lady Starlight
  6. Falling In Love
  7. Only A Man
  8. The Zoo
  9. Animal Magnetism
Category : Recensioni
Tags : Scorpions
1 Comm
22nd Feb2013

Scorpions – Lovedrive

by Giancarlo Amitrano

Dopo il successo planetario di Tokyo Tapes, da buoni tedeschi i nostri eroi non si scompongono. Portato a casa il trionfo intercontinentale, il quintetto si rimette prontamente al lavoro per sfornare uno dei capolavori della loro intera discografia, pur in presenza di grosse nuove tra le loro fila. L’abbandono di Roth, infatti, non lascia nello sconforto la band: reclutato allora il talentuoso, ex Lady, Matthias Jabs, essa raggiunge così il “mark” classico che durerà circa un decennio. Anche l’approccio sonoro e compositivo tende a distanziarsi dal percorso precedente, in quanto più propriamente heavy nel senso classico del termine, pur mantenendo i capisaldi dell’hard rock fino ad allora seguiti dal gruppo, qui impreziosito dal ritorno, sia pur temporaneo, dello Schenker minore, in questa occasione in veste di ospite (e che ospite!) su tre tracce del lavoro. Loving You Sunday Morning si pregia di un combinato intro delle due asce, su cui il lavoro spaccatimpani della sezione ritmica consente al singer di modulare il suo timbro vocale in un batter d’occhi; il drumming di Rarebell, possente e ritmato, si unisce alle 4 corde di Buchholz in un maestoso percorso, volutamente allungato, nel rilascio delle note. Il solo di metà brano è a dir poco fulminate mentre l’ossessiva ritmica, saggiamente distribuita tra i due axeman, disegna un tappeto sonoro di rara intensità, sin verso la fine del brano.

Con Another Piece Of Meat abbiamo la prima prova del talento straordinario di Michael Schenker, che qui disegna un vero e proprio solo da urlo: la velocità del brano, quasi speed in alcuni passaggi, obbliga Meine ad alzare di un’ottava il cantato, mentre lo stacco che le due asce inframezzano tra una strofa e l’altra dà la stura al momento centrale di violenza inaudita. Senza pausa, il brano si trascina con pathos ed energia attraverso 180 secondi infuocati che inneggiano al pogo scatenato dei fan nelle loro stanzette. La melodia di Always Somewhere è il marchio di fabbrica della band: intro, arpeggi e refrain che si susseguono tra essi sono il loro biglietto da visita. Tutto è volutamente rallentato, l’arte del porgere battute e tempi di entrata resta ad oggi ineguagliata, nell’esecuzione di una ballad classica come questa, ancora oggi attualissima e dal sound coinvolgente. Reggendo con maestria la tempistica delle chitarre, il duo Schenker/Jabs si conferma coppia inossidabile sin da questa prima collaborazione, la quale se da un lato perde la tecnica e l’abilità di Roth, dall’altro acquista la spontaneità e l’immediatezza dell’assolo del nuovo arrivato. Coast To Coast non può essere descritta con facilità: l’approccio sonoro è di una difficoltà tecnica assoluta, con la ritmica del qui improvvisato axeman Klaus Meine alla ritmica a supportare la furia belluina di Michael, qui ai massimi delle sue capacità tecniche; la sezione ritmica non riesce a ribellarsi dal predominio delle due asce, pur mantenendo la propria autonomia compositiva, che paradossalmente dona maggior vigore al brano, tra le vette del disco senza dubbio. Davvero “da costa a costa”, lungo la sua durata il brano ci trasporta dagli abissi dell’iniziale sound cupo alle vette della pulizia esecutiva successiva.

Can’t Get Enough è l’ingresso della band nel mondo degli alieni: Meine impazzisce letteralmente nella sua timbrica ormai incontrollata, mentre la base sonora delle due asce ci precipita nel dramma più assoluto di un incessante giro di corde che ci ossessiona. Senza sbavature, i due guitar hero “titolari” ci catapultano nell’abisso della demolizione sonora, con assoli ripetuti di breve ma intensa durata, che nel loro susseguirsi ci fanno letteralmente perdere l’orientamento, tanto da non riuscire più a star dietro allo svolgimento del brano, letteralmente fuori controllo ed alla mercè dei desideri della band. Is There Anybody There? è un salto nel passato: compaiono ancora tracce della psichedelia dei primi lavori, specie nell’esecuzione delle strofe, che qui sono in alcune sfumature quasi prog. Anche il cantato è uniforme al contesto: quasi preservandosi per il gran finale, il singer adopera poco i toni alti, per ripiegare su più fidati “range” di metà scala pentatonica. Strofa e bridge centrale rendono al massimo proprio per la particolare timbrica e sonora e musicale. Come detto, in attesa di piazzare i colpi finali, la band dosa saggiamente le forze, che tornano ad essere investite anzitutto sulla titletrack: fruendo del terzo momento di collaborazione con il minore dei germani Schenker, il brano si presenta molto articolato nella sua esecuzione, facendo in modo che nell’economia dello stesso non si inserisca nulla che non distolga l’attenzione dalle note. Il ricordo che Michael qui lascia viene attenuato dalla cattiva gestione di se stesso, successivamente esplosa nel suo definitivo allontanamento dalla band per i suoi eccessi. Tuttavia in tempo a donarci in questa sede le gemme della sua tecnica, che avrebbe continuato a dispensare in sede solista in futuro.

È tempo, comunque, di chiudere in bellezza: Holiday si candida da subito ad essere il loro titolo identificativo. Tutti gli arpeggi iniziali, le sonorità acustiche, le modulazioni vocali e quant’altro sono già storia. Anche il passaggio centrale, molto sentito e dalle profonde venature quasi metal, esula completamente dal passato, a causa dell’ideale àncora di salvataggio che il singer dona alle varie strofe, sempre tenute volutamente basse di intensità. Il diradare finale delle asce si sovrappone con dolcezza ai gorgheggi sempre più flebili di Meine, mentre le ultime velleità elettriche si stemperano nella cantilenante acustica di fine brano, che, ovviamente, fa guadagnare al gruppo un bel disco d’oro ed il successo mondiale, degnamente meritato qui e nel futuro prossimo.

Autore: Scorpions Titolo Album: Lovedrive
Anno: 1979 Casa Discografica: Emi
Genere musicale: Hard Rock Voto: 8
Tipo: CD Sito web: http://www.the-scorpions.com
Membri band:

Klaus Meine – voce

Rudolf Schenker – chitarra

Francis Buchholz – basso

Herman Rarebell – batteria

Matthias Jabs — chitarra

Michael Schenker – chitarra su tracce 2, 4 e 7

Tracklist:

  1. Loving You Sunday Morning
  2. Another Piece Of Meat
  3. Always Somewhere
  4. Coast To Coast
  5. Can’t Get Enough
  6. Is There Anybody There?
  7. Lovedrive
  8. Holiday
Category : Recensioni
Tags : Scorpions
0 Comm
15th Feb2013

Scorpions – Tokyo Tapes

by Giancarlo Amitrano

Anche per gli eroi giunge il momento di immortalare le loro performances dal vivo, profittando della loro già consolidata fama nella terra del Sol Levante, i cinque nibelunghi rilasciano il succo di alcune serate al Sun Plaza Hall della capitale nipponica. Definire hit-parade il disco è quanto meno riduttivo. Vero è che le tracce siano equamente estratte da tutti i lavori sino ad allora realizzati, compresa un’inedita All Night Long,  pur tuttavia la perfezione sonora con cui essi vengono riprodotti consegna l’album alla leggenda ed a tutte le ideali charts dei migliori live acts di sempre. Ultimo lavoro con Roth all’ascia, esso si caratterizza per la straordinaria partecipazione dell’uditorio all’esibizione del quintetto. A piene mani trasuda, sin dalla prima traccia, l’energia e la potenza che i cinque concedono alla platea, ricorrendo probabilmente alle allora imperanti sovraincisioni, il gruppo dona ancor più impatto ai brani, che sono spugnanti di energia e coinvolgimento sin dai primi solchi. Come detto, tutta la discografia viene ricompresa nell’estrazione dei brani, che in questa sede appaiono ancora più maestosi e degni del massimo onore, ivi compresa una monumentale We’ll Burn The Sky, per l’occasione composta in memoria della leggenda Hendrix dall’ex compagna Monika Dannemann, allo stato casualmente legata ad Uli Roth.

Tutti i brani recano con sé una nota caratteristica, anche quelli apparentemente più soft quali ad esempio Hound Dog e Long Tall Sally, tratti direttamente dal repertorio presleysiano e tuttavia riadattati in chiave rock and roll con la giusta maestria. Svicolando tra le tracce del disco, dobbiamo ricomprendervi tra i must l’assolo possente di Rarebell in Top Of The Bill, dove il drummer dà fondo a tutto il repertorio del buon batterista. Le due asce sono del tutto in simbiosi ed ogni brano risente dell’interazione che i due axeman riescono a dare allo strumento, mai sopra le righe e sempre preciso nella battuta. Dal suo canto, l’ugola al vetriolo di Meine si eleva di una spanna a causa della timbrica profonda ed allo stesso tempo melodica che il singer riesce a donare ad ogni singolo brano, che in questa sede viene opportunamente mixato in fase di post produzione in studio dall’impagabile Dieter Dierks, potendo notarlo, ad esempio, anche in Koyo No Tsuki, in cui un inno tradizionale giapponese viene interpretato dal singer in totale comunione di intenti con un audience adorante. Ideale spartiacque della loro carriera, questo live si pone senza meno tra i primissimi di ogni tempo, e per la qualità dei brani, e per la loro esecuzione ed anche per la perfezione che il sound raggiunge in fase di proposta.

Grida, tuttavia, vendetta la ripubblicazione dell’album nel 2001 in versione singola per contenere tutta la scaletta, omettendovi purtroppo Polar Nights, fortunatamente recuperato come b-side di Taken By Force nell’edizione rimasterizzata. Le esigenze commerciali purtroppo predominanti a volte deturpano ciò che in assenza delle moderne tecnologie riveste ancora un profilo romantico, quale il vecchio e caro LP. I Nostri, tuttavia, non se ne danno per intesi: consegnando alla storia un capolavoro assoluto quale quello oggi in esame, sono pronti alla seconda fase della loro carriera, mettendo a frutto tutte le conoscenze, i mutamenti e le innovazioni che di lì a poco ad essi si presenteranno.

Autore: Scorpions Titolo Album: Tokyo Tapes
Anno: 1978 Casa Discografica: Rca Records
Genere musicale: Hard Rock Voto: 9
Tipo: CD Sito web: http://www.the-scorpions.com
Membri band:

Klaus Meine – voce

Rudolf Schenker – chitarra

Ulrich   Roth – chitarra

Francis   Buchholz – basso

Herman Rarebell – batteria

Tracklist:

  1. All Night Long
  2. Pictured Life
  3. Backstage Queen
  4. Polar Nights
  5. In Trance
  6. We’ll Burn The Sky
  7. Suspender Love
  8. In Search Of The Peace Of Mind
  9. Fly To The Rainbow
  10. He’s A Woman, She’s A Man
  11. Speedy’s Coming
  12. Top Of The Bill
  13. Hound Dog
  14. Long Tall Sally
  15. Steamrock Fever
  16. Dark Lady
  17. Kojo No Tsuki
  18. Robot Man
Category : Recensioni
Tags : Hard Rock, Scorpions
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08th Feb2013

Scorpions – Taken By Force

by Giancarlo Amitrano

Siamo già al quinto album, ormai la band è un fiume in piena e ad ogni lavoro dona una sua precisa linea stilistica che cerca di aggiungere nuovi tasselli compositivi. Con la new entry dietro le pelli di Herman Rarebell, che sostituisce per motivi di salute Rudy Lenners, il mark classico del gruppo è quasi completato. Anche Taken By Force, nel bene e nel male, fa parlare di sé, ancora una volta l’originaria cover deve essere ammainata con una più convenzionale. La raffigurazione di un cimitero ostava ai propositi espansionistici del gruppo, riprodurre allora una più rassicurante foto di gruppo giova alla distribuzione anche oltreoceano, qui per la prima volta toccato dall’entourage della band. L’album, da parte sua, ci mette tutto per farsi apprezzare: tra i migliori dell’era-Roth, si distingue per le sonorità ipertecniche ed il cantato ormai hard classico. Steamrock Fever  si combina tra la voce di Meine quasi reggae e le due asce che all’unisono dipingono atmosfere molto rilassate nella loro estensione, grazie anche al solido drumming che sin da ora mette ben in chiaro la linea sonora da seguire. Con We’ll Burn The Sky si paga il doveroso tributo al Genio: scritta dalla sua fidanzata storica Monika Dannemann, la canzone omaggia Jimi Hendrix al suo meglio. Varietà di stili musicali, cambi di ritmo ed alternanza di sei corde tra loro rendono il pezzo tra le gemme assolute del gruppo. Memorabili versioni live ne saranno prossima testimonianza. La battuta pulita di Rarebell consente alla coppia di sei corde di ingaggiare un virtuale duello sonoro, stante anche la struttura del brano abbastanza articolata nella sua durata.

I’ve Got To Be Free si adatta perfettamente allo stile vocale di Meine: il timbro quasi AOR, caratteristico del singer, consente un’estensione vocale ben modulata che regge bene anche gli acuti prolungati, su cui si innesta un sapiente lavoro del basso di Buchholz, qui in funzione anche ritmica e assolutamente a suo agio nello scandire i tempi delle battute. Interpretando Riot Of Your Time, la band si dimostra pronta per seguire le fumose strade dell’hard classico, il clichè è qui seguito in pieno, ma senza risultare monotono o prevedibile. Le asce sono ben affilate e la sezione ritmica non perde un colpo nell’affrontare la rivolta sonora. Sono tutti consapevoli di esserci dentro sino al collo, i cinque giannizzeri; voce ruvida, sei corde perfettamente registrate e sezione ritmica precisa come un cronografo elvetico. Non ci sono tempi morti ed il brano scorre fluido con il refrain che resta ben impresso in mente. Sails Of Charon è tra le migliori composizioni di Roth: direttamente dalla sua penna, il brano è un concentrato di energia pura e di tecnica sopraffina, che viene messa al servizio del cantato, il quale dal canto sua ringrazia e porta a casa la prestazione superba che qui Meine inanella. L’autore si fa ricordare, essendo prossimo il suo addio alla band, con l’ennesimo solo che funga da insegnamento alle giovani generazioni di guitar hero di lì a venire. Nel 1977, anno di preludio all’esplosione della NWOBHM, i vecchi leoni avevano ancora tantissimo da insegnare alle orde barbariche metal che sarebbero apparse all’orizzonte. Anche un “semplice” brano come questo poteva ben essere estrapolato da tutto il contesto dell’album e portato ad esempio compositivo ed esecutivo, in barba ai disgraziati campionamenti di cui tutti i gruppi si sarebbero a breve serviti.

Your Ligths si pone come rampa di lancio agli ultimi brani del disco, con i suoi cambi di tempo e di battuta, il pezzo si candida ad esempio di tecnica avanzata. Rarebell è già marchio di fabbrica. L’uso sapiente di rullanti e piatti dona al brano l’intensità che invece il classico abuso di crash avrebbe esso negato proprio a causa della particolare struttura del brano, molto “catchy” nei suoi passaggi arditi e nel bridge centrale di rara intensità, senza evitare di menzionare il cantato quasi epic nel declamare le strofe. Giungiamo lieti al top: He’s A Woman, She’s A Man precorre di una spanna ciò che album come Ace Of Spades avrebbero proposto più avanti. La band, in preda al delirio musicale, spara a pieno voltaggio una sarabanda di note tutte collegate tra esse dal refrain accattivante e su cui si innesta la roca interpretazione di Meine. Le percussioni divengono molto accelerate a causa dell’insistente e quasi ossessivo giro di chitarra, molto orecchiabile e tuttavia stranamente di durezza inusitata. Ovviamente, anche il solo centrale è magistrale e rende appieno la potenza del combo, qui quasi all’apice dei suoi mezzi tecnici ed espressivi. Anche di questa traccia ci attendono memorabili versioni on stage a breve, che se possibile rasentano la perfezione esecutiva.

L’ultimo capitolo è rappresentato da Born To TouchYour Feelings: in barba al titolo, ancora un’espressione di tecnica e potenza esibita in modo quasi imbarazzante. Sound fresco ed attualissimo ancora oggi, grazie ad una linea sonora molto aggressiva e che strizza l’occhio anche al mercato americano al tempo stesso. La produzione impeccabile di Dieter Dierks affina anche i momenti più aspri del brano per consegnarlo quasi “laccato” in alcuni momenti, per consentirne il passaggio radiofonico, che mostra di gradire e ne decreta l’immediato successo anche nel nuovo continente dove a breve il morso degli aracnoidi causerà legioni di nuovi adepti al sound ormai epico del gruppo.

Autore: Scorpions Titolo Album: Taken By Force
Anno: 1977 Casa Discografica: Rca Records
Genere musicale: Hard Rock Voto: 7
Tipo: CD Sito web: http://www.the-scorpions.com
Membri band:

Klaus Meine – voce

Rudolf   Schenker – chitarra

Ulrich   Roth – chitarra

Francis   Buchholz – basso

Herman Rarebell – batteria

Tracklist:

  1. Steamrock Fever
  2. We’ll Burn The Sky
  3. I’ve Got To Be Free
  4. Riot Of Your Time
  5. Sails Of Charon
  6. Your Light
  7. He’s A Woman, She’s A Man
  8. Born To TouchYour Feelings
Category : Recensioni
Tags : Scorpions
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01st Feb2013

Scorpions – Virgin Killer

by Giancarlo Amitrano

È un’esplosione anche oltreoceano ad investire il combo teutonico con la pubblicazione del nuovo album: anche per motivi extramusicali, il disco scatena polemiche infinite. Ad iniziare dalla cover originale dell’album giudicata oscena per la presenza di un’adolescente in tenuta adamitica, deve essere sostituita di corsa con una più convenzionale e rassicurante. Dal punto di vista artistico, l’album sfonda finalmente anche nel vecchio continente, oltre che nell’ormai amico Sol Levante, rivelandosi come un “best of”, pur come full-lenght. Grazie al taglio ormai quasi heavy che specie il lavoro di Roth dona al disco, questo scala tutte le chart internazionali grazie al suono ben più aggressivo rispetto ai precedenti lavoro, oltre che alla produzione impeccabile ad opera di Dieter Dierks. Anche i brani sono più diretti ed immediati, consentendo alla band di esplicitare in questa sessione tematiche molto serie ed aggressive quali la stessa title-track conferma. Pictured Life si rivela brano tosto, ostico nella comprensione a causa del lavoro superbo che Meine svolge nel cantato e nei mid-tempos che le due asce svolgono quale ideale supporto tecnico. La sezione ritmica si conferma di metronoma precisione e con le sue battute ad orologeria trae linfa vitale dagli assoli notevoli dei due axeman. In breve tempo, il brano diviene uno dei “must” in sede live, dove la sua linea sonora viene stravolta nella sua interpretazione, che raggiunge quasi picchi reggae (?!) dove fa bella mostra la voce slide del singer, a suo agio sui toni più bassi.

Con Catch Your Train le sonorità ritornano ad essere più aggressive, con Meine che dispensa tutto il campionario vocale con la massima naturalezza. anche il resto del gruppo adotta una timbrica più ruvida con gli strumenti accordati al massimo senza soluzione di continuità. Le distorsioni delle sei corde sono evidenti, mentre basso e drumming divengono quasi ossessivi nella ricerca della giusta direzione tecnica da adottare; uno dei brani più duri del disco, che qui appare orientarsi verso una direzione esclusivamente metallica, ma non fine a sé stessa. In Your Park vede la band al completo servizio del singer: raro esempio di connubio musicale, in cui ognuno dei componenti riesce a ritagliarsi il suo momento di celebrità, sempre nel contesto del brano che qui si dipana attraverso un complicato intreccio di assoli e svolazzi tecnici. Su Backstage Queen il gruppo sfoggia una lezione di umiltà, pur nel pieno dei suoi mezzi tecnici, non disdegna tuttavia di rendere il brano accessibile a tutti, senza eccedere negli assoli. La voce sgorga pulita e tecnicamente impeccabile, grazie alla maestria di Meine nel proporci scale alternate spazianti dai toni acuti a quelli sotto dosati con sapienza. Anche questo brano di qui a poco si consegna all’empireo delle hit da proporre dal vivo.

Giungiamo alla title-track: la perfezione che il combo raggiunge nell’esecuzione del brano è di rara intensità, grazie al taglio qui dato da Roth. Riff “maligni” donano al brano una connotazione molto dura, che consente al pezzo di dipanarsi in maniera molto lineare e senza sbavature: ancora una volta, la leadership delle asce e del singer viene confermata dalle acrobazie virtuose che qui possiamo ben udire. Del resto, tutti i brani del lato B (all’epoca vigente per gli LP) sono di pertinenza Roth, il quale si differenzia dai pezzi scritti con gli altri componenti del gruppo. Ben più aggressiva la linea sonora e la timbrica che conseguentemente viene affidata al singer, il quale non si tira indietro per offrire ancora una prestazione impeccabile. Hell Cat è un momento interlocutorio del disco, 3 minuti di esercizio di stile da parte della band, che non toglie e non mette all’economia totale dell’album, qui in una parentesi abbreviata di tecnica. Con Crying Days ci si rimette in moto: la padronanza che la band ha dei singoli brani si manifesta con virulenza in questa occasione grazie alla poderosa sezione ritmica che Buchholz/Lenners offrono a supporto del lavoro asfissiante della doppia ascia. Davvero la band ci mette del suo per offrire un brano che guarda al di là del momento contingente: senza fronzoli, il quintetto accetta di dosare bene all’interno del brano la cadenza delle battute. Anche Meine si rivela all’altezza del compito con le sue uscite vocali di sicuro impatto, stante la sua caratteristica inpostazione quasi nasale della sua voce.

Polar Nights ci dona davvero sensazioni glaciali: lungo tutto l’arco del brano possiamo intravedere le sfumature molto tecniche che in questo frangente la band intende dare al pezzo. Sembra durare ben oltre il consentito il lavoro delle chitarre, che sapientemente usano i distorsori a mò di contraltare alla voce stentorea del singer. Un singer che, dal canto suo, prende su sé il peso del brano per tramortirci con le sue acrobazie a volte quasi “slow” nella loro esecuzione. Sipario con Yellow Raven, che conduce la band idealmente al capolinea dell’avventura con un brano che conserva in sé il sapiente mix delle varie esperienze musicali della band. La melodia ispirata del singer con la ruvidezza di Schenker, nonché la tecnica di Roth e la solidità della sezione ritmica rendono il brano ideale canto del cigno per quest’album, che ad oltre 30 anni dalla sua pubblicazione, merita ancora e sempre un ascolto più attento del solito, tanto da augurare lunga vita alla band (che ringrazia e mette in pratica l’auspicio).

Autore: Scorpions Titolo Album: Virgin Killer
Anno: 1976 Casa Discografica: Rca Records
Genere musicale: Hard Rock Voto: 8
Tipo: CD Sito web: http://www.the-scorpions.com
Membri band:

Klaus Meine – voce

Rudolf Schenker – chitarra

Ulrich   Roth – chitarra

Francis   Buchholz – basso

Rudy Lenners – batteria

Tracklist:

  1. Pictured Life
  2. Catch Your Train
  3. In Your Park
  4. Backstage Queen
  5. Virgin Killer
  6. Hell Cat
  7. Crying Days
  8. Polar Nights
  9. Yellow Raven
Category : Recensioni
Tags : Hard Rock, Scorpions
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25th Gen2013

Scorpions – In Trance

by Giancarlo Amitrano

A metà anni ‘70 il combo teutonico si era già incamminato verso i sentieri che conducono alla gloria. I primi due lavori, pur risentendo fortemente delle influenze psichedelico-spaziali all’epoca imperanti, lasciavano trasparire incandescenti tracce della successiva evoluzione artistica che puntualmente si verifica con il terzo full-lenght, di cui ci occupiamo qui. Con la sola novità del drummer, la band svolta decisamente: un hard che più classico non si può emana i suoi potenti vagiti attraverso 10 brani già da “all-time” per il gruppo. Dark Lady e la title-track son già parte della storia del gruppo: entrambe caratterizzate da una varietà di approcci chitarristici infusi da Roth e Schenker che donano energia, tecnica e potenza sonora alle melodie ed ai ritornelli stessi, attraverso un complicato intreccio di arpeggi e slide dosati il giusto e con sapiente intervallo. Il doveroso successo di questi brani viene confermato in sede live, di cui divengono in questa decade colonne portanti dei set live della band. Life’s Like A River si dipana attraverso un gagliardo caleidoscopio di emozioni liriche cui Meine si adegua prontamente: ad un cantato pulito e dalla timbrica ben definita, fa infatti da contraltare una saggia sovrapposizione delle asce, che nel mettersi a disposizione del singer non disdegnano di inframmezzare con i loro “solos” i momenti interlocutori del brano.

Top Of The Bill è il “Dr. Jekill” dell’album, la sua trasfigurazione musicale è massima. Come in questa sede ci appare dai toni morbidi, a volte quasi delicati in alcuni passaggi, così on stage diverrà un rutilante inno alla guerra, con tanto di assolo di batteria spacca timpani. Grazie anche alla superba produzione di Dieter Dierks, il disco in generale e questo brano in particolare divengono uno dei capisaldi della discografia del gruppo, che di qui a poco rilascerà un autentico capolavoro (non in studio) che qui non menzioniamo ma che di certo tratteremo fra breve (pur essendo sicuri che gli aficionados avranno già inteso di cosa trattarsi: guai se non fosse così), essendo esso da ricomprendere immancabilmente in ogni ideale podio. Living & Dying egualmente non fa sconti, un brano di melodia ed energia allo stesso tempo. Ancora una superba prestazione di Meine che qui viene coadiuvato alla grande e dalla sezione ritmica e dalle due asce, che non mancheranno di suscitare rimpianti per la loro imminente separazione. Non ci sono tempi morti, il brano scorre veloce e la tecnica che ognuno degli strumentisti dispensa non resta fine a sé stessa, anzi consente al brano di assumere lungo la sua durata varie sfaccettature sonore e diversi approcci tecnico-compositivi.

Con Robot Man siamo nel futuro, i suoni tornano per un attimo ad essere influenzati dal precedente space-rock, salvo poi dipanarsi in un’allegoria sonora davvero senza pari. Il timbro vocale che Meine dona al brano lo rende in alcuni passaggi quasi “reggae” (?!), nel senso del rallentamento delle battute e della modulazione della strofa; il bridge centrale torna ad essere invasivo il giusto, grazie ai continui stacchi che la sezione ritmica si concede di modo che le ripartenze delle strofe siano ogni volta piè energiche e sempre diverse dalla precedenti. Tra i migliori brani dell’album, si consegna anch’esso alla gloria dei concerti che si susseguono senza tregua e che, purtroppo, tanti attriti porteranno all’interno della band. Evening Wind, creata dalla vena di Roth, risente dell’approccio prettamente chitarristico ad essa dato: la supremazia delle asce è evidente, mentre in questo caso è il singer ad accodarsi alla linea sonora da esse dettata, pur risultando comunque ideale vincitore dal punto di vista interpretativo. Senza indulgere a sentimentalismi, il brano risulta ben solido e roccioso nella fase centrale, che si sviluppa facilmente grazie alla tensione musicale che il quintetto riesce abilmente a confezionare lungo lo snodarsi del brano, che passa dal lento al pompato in un dosato mix di tempi. Con Sun In My Hand invece il gruppo si allontana, ma solo per un attimo, dal clichè sinora seguito. Senza comunque lesinare energie, la band lascia che il brano si indirizzi verso una linea sonora molto melodica e che prima di annoiare riprende subito quota con dosati stacchi dei rullanti. Lungi dall’apparire slegato, il gruppo si ricompatta nella fase finale per mettere a segno una solenne svisata con il duo di asce, seguito a ruota dalla potente sezione ritmica e con un Lenners che al momento appare inamovibile quale drummer possente ed affidabile.

Longing For Fire, pur avviando alla conclusione del disco, è la giusta carica di energia: grazie ancora una volta alla superba produzione di Dierks, il brano si rivela un autentico coacervo di tecnica, energia ed anche melodia al momento opportuno. Non riesce a non essere incisivo, come in alcuni passaggi parrebbe: stante la creazione ad opera di Roth, il brano risente ancora del taglio datogli dall’axeman che, hendrixiano il giusto, non resiste alla tentazione di inframezzarci il suo solo che fa tanto anni ‘70 (ed anche prima) senza però scadere nel deja-vu. Si chiude il sipario con Night Lights che, per farsi ricordare, contiene l’ennesimo solo di Roth di qualità superiore, tanto da offuscare il suo collega d’ascia Schenker. Non a caso, l’intero album deve essere annoverato il migliore tra quelli con il suddetto duo chitarristico, anche in questa sede gli assoli sono di qualità, senza sovra incisioni e che quindi si gustano appieno nei loro passaggi. Le pagine successive riserveranno ulteriori sorprese alla band, che già in questa dovette affrontare notevoli problemi di censura, per i testi e le copertine dell’album. Acqua fresca, se si pensa alle forche caudine che i nostri eroi dovranno attraversare tra poco.

Autore: Scorpions Titolo Album: In Trance
Anno: 1975 Casa Discografica: Rca Records
Genere musicale: Hard Rock Voto: 8
Tipo: CD Sito web: http://www.the-scorpions.com
Membri band:

Klaus   Meine – voce

Rudolf   Schenker – chitarra

Francis   Buchholz – basso

Rudy   Lenners – batteria

Uli Roth –   chitarra

Tracklist:

  1. Dark Lady
  2. In Trance
  3. Life’s Like A River
  4. Top Of The Bill
  5. Living & Dying
  6. Robot Man
  7. Evening Wind
  8. Sun In My Hand
  9. Longing For Fire
  10. Night Lights
Category : Recensioni
Tags : Scorpions
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18th Gen2013

Scorpions – Fly To The Rainbow

by Giancarlo Amitrano

Squadra che vince non si tocca: solitamente è così, ma non sempre la logica si sposa con la pratica. Nel caso dei nostri eroi, il quintetto teutonico rinunzia a cuor leggero, sia pure per motivi diversi da quelli strettamente tecnici, allo Schenker junior e all’intera sezione ritmica. Cooptando comunque un signor axeman come Uli Roth e l’accoppiata Rosenthal/Buchholz, la band rilascia a metà anni ‘70 un signor album che aggiunge subito un altro tassello di eccellenza. Messo alle spalle il periodo psichedelico, i brani del disco si incamminano spediti sui ruvidi sentieri hard in voga ad inizio seventies. Speedy’s Coming si fonda sulla perfetta linea vocale di Meine, che utilizzando saggiamente anche il falsetto consente al brano di snodarsi in forma quasi mid nella fase centrale, dove il lavoro della sezione ritmica diventa rovente con il rallentamento delle battute della grancassa. Unito al sapiente dosaggio delle asce, il pezzo diviene un cavallo di battaglia in sede live per tutta la decade successiva. Con They Need A Million il gruppo si consente una digressione quasi soft nell’approccio al brano: mettendo al servizio del singer la maestria tecnica del nuovo arrivato Roth, il maggiore degli Schenker si mette nella sua scia con una serie di arpeggi ravvicinati tra loro che consentono alla sezione ritmica di dosare con sapienza il suo lavoro. Una prestazione solida di Meine dona concretezza ed energia al pezzo, che su di una basilare linea melodica non ha tempi morti nemmeno nell’apparentemente morbida fase centrale. Drifting Sun non fa nemici: un brano davvero sostenuto che si articola con il classico archetipo “strofa-ritornello-assolo”, il tutto però articolato con una pregevole linea sonora. Le evoluzioni vocali dello stesso Roth sono al servizio anzitutto della coppia di asce che dal suo canto rilascia una sincronia di note ben congegnata, senza sovrapporsi in una ideale sfida di sei corde. La linfa vitale di Roth si fa sentire eccome, mentre la sezione ritmica si prende sulle spalle il tempo delle battute ritmiche delle percussioni e delle quattro corde, ben modulate nella fase centrale.

Ma è con la ballatona Fly People Fly che le sinora abbozzate doti vocali di Meine divengono stratosferiche, grazie ad un superbo lavoro della sei corde che consente al singer di mostrare appieno la sua clamorosa estensione vocale. Del tutto non fine a se stesso, il brano si innesta nell’economia dell’album quale spartiacque di quanto le prime tracce del disco lasciassero trapelare, ovvero la presenza di ulteriori e seminali tracce di rock spaziale tanto influente nel primo lavoro del gruppo. Primi embrioni di ballad strappalacrime in cui negli anni il combo si specializzerà sono invece visibili ampiamente nel brano in questione, che dà la stura al repertorio futuro, in cui si mostreranno epigoni e maestri da imitare. Il livello di eccellenza ormai raggiunto lo rinveniamo ancora in This Is My Song, dove ancora una volta apprezziamo la linfa vitale della sezione ritmica, qui sparata davvero al massimo, che consente il dipanarsi di una linea sonora d’impatto e resa al vetriolo dalla voce ruvida e graffiante di Meine, che si inerpica da par suo in un complicato ghirigoro vocale. La coppia di chitarre ancora una volta sfodera una prestazione monstre anche sulla base di un improvvisato mid-tempo che caratterizza tutto il brano. Far Away è “affare di famiglia”: composta dal transfuga Schenker junior, risente della sua bizzarria compositiva per quanto riguarda lo snodarsi del brano. Il refrain lento ed a tratti melanconico viene presto seguito dal potenziamento del lavoro delle sei corde, che lungo la durata del brano ne costituiscono il cardine attorno al quale ruota ancora una superba prova vocale del vocalist. Ed è proprio la lunghezza del brano a costituirne il segreto vincente: non potendo infatti esprimere il consueto clichè tecnico in 180 secondi, il combo dosa alla perfezione i momenti di stacco tra percussioni e cantato, prendendosi tutto il tempo per la costruzione dell’impalcatura tecnica completa, altrimenti non realizzabile in pochi minuti.

Chiudendo il lavoro con la title-track, la band poggia le basi su cui vivere di rendita per un bel po’ di tempo anche in sede live: altro cavallo di battaglia on stage, il brano può senza meno definirsi tra i migliori dell’intera discografia della band. Un cadenzato mix di arpeggi, intimismo e lirica si sovrappone ad un altrettanto valido concentrato di sano rock’n’roll ed allegoria strumentale tipicissima dei primi anni della decade di cui ci si occupa. I 10 minuti di durata del brano non lo appesantiscono assolutamente consentendone, anzi, la completa valorizzazione tecnica grazie alla sapiente prova di ogni singolo componente. Con ancora la collaborazione del minore dei germani Schenker, la tecnica più pura viene fuori a piene note, rendendo il brano il must di tutto il disco. Omerici i cambi di tempo e sontuose le alchimie vocali che si susseguono senza requie. Colpevolmente dimenticato negli anni, è questa l’occasione per rendere onore e giustizia a questo autentico gioiello, cui per fortuna ancora tanti debbono seguire.

Autore: Scorpions Titolo Album: Fly To The Rainbow
Anno: 1974 Casa Discografica: Rca Records
Genere musicale: Hard Rock Voto: 8
Tipo: CD Sito web: http://www.the-scorpions.com
Membri band:

Klaus Meine – voce

Rudolf Schenker – chitarra

Francis Buchholz – basso

Jurgen Rosenthal – batteria

Uli Roth – chitarra

Tracklist:

  1. Speedy’s Coming
  2. They Need A Million
  3. Drifting Sun
  4. Fly People Fly
  5. This Is My Song
  6. Far Away
  7. Fly To The Rainbow
Category : Recensioni
Tags : Hard Rock, Scorpions
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11th Gen2013

Scorpions – Lonesome Crow

by Giancarlo Amitrano

Benvenuti nel vero mondo hard (rock), dal centro della vecchia Europa, nel cuore del vecchio mondo, eccoci faccia a faccia con i componenti di una ideale triade hard/metal mitteleuropea, che all’epoca già comprendeva numi tutelari quali Deep Purple, Led Zeppelin e Black Sabbath. Provenienti dalla gloriosa Hannover, gli Scorpions rappresentano la risposta del continente alla su menzionata trimurti che obbligatoriamente divenne con essi un quadrumvirato. Con una solida base alle spalle e studi tecnici di prim’ordine, i fratelli Schenker (qui per l’unica volta insieme su di un intero album) arruolano il fenomenale Meine ai microfoni e due ottimi turnisti alla sezione ritmica per giungere al loro album di debutto, già seminale. E pur tuttavia, questo primo lavoro avrebbe fatto di tutto per non far catalogare la band tra le progenitrici dell’odierno hard rock o proto-metal. La genesi di Lonesome Crow, difatti, si orienta maggiormente verso l’allora imperante rock spaziale-psichedelico, pur mostrando già i prodromi di quella che sarebbe divenuta di lì a poco la loro maturazione tecnica ed artistica. Lo possiamo notare sin da I’m Going Mad, dove la pur già sopraffina tecnica viene inquinata da una serie di “coretti” che annacquano il contesto del brano, in cui la voce di Meine risalta comunque per la sua pulizia e la timbrica inconfondibile. It All Depends tenta di indirizzarsi verso una forma grezza di hard rock, grazie alla “premiata ditta” Schenker che in perfetta sintonia sonora sciorina una serie di arpeggi rimarchevoli e sui quali Dziony ed Heimberg colgono bene i tempi di inserimento. Tutto senza che il brano ne risenta nella sua economia totale, che anzi risulta briosa e ben cadenzata soprattutto nell’azzeccato passaggio centrale di sicuro impatto.

Salendo di tono con Leave Me, il quintetto cerca di stringere i tempi ed avviarsi subito lungo la strada che hanno ben in mente: un singer titanico, una sezione ritmica di precisione certosina ed una coppia di asce da far invidia ai migliori axeman dell’epoca, rendono il brano un autentico gioiellino. Tenendo conto della giovane età del combo e che Schenker junior non fosse ancora maggiorenne all’epoca, possiamo ben gridare al portento, per la completezza che egli riesce a raggiungere nei suoi solos già infuocati e traboccanti di tecnica allo stato brado, lungi dall’essere incanalata in standard prefigurati che non fossero quelli canonici quali “strofa-ritornello-solo” al momento dominanti. In Search Of The Piece Of Mind è il must dell’album: una girandola di cambi di tempo, di cantato e di giri di chitarra ci catapultano per davvero in un brano quasi onirico e visionario. Lo slide che il duo di asce imprime alla fase centrale è davvero in anticipo sui tempi, mentre Meine riesce a dosare con acume il tono vocale sino all’esplosione della strofa, che sgorga come una bomba ad orologeria al momento giusto. I germani chitarristi fanno a gara nell’esibirsi in una serie di interventi davvero azzeccati, che rendono il brano molto appetibile anche in sede live, dove tuttavia fu proposto per la prima volta solo 6 anni dopo durante la loro tournée nel Sol Levante (di cui resta memorabile traccia nel leggendario Tokyo Tapes del 1978), in una versione storica con Uli Roth.

Con Inheritance si continua sulla falsariga delle atmosfere psichedeliche e spaziali, sulle quali anche l’approccio compositivo della band risulta essere decisamente soft. Stante il taglio maggiormente tendente all’aspetto contenutistico, il sound viene messo in secondo piano dal punto di vista compositivo. Il buon lavoro della ditta Schenker viene messo al servizio dell’ovattata voce di Meine che non disdegna alcuni gorgheggi che sarebbero di qui a breve spariti dal suo repertorio. Action non incide come vorrebbe: in questo frangente la band appare quasi come slegata dal contesto del disco, a causa anche dello scarso arrangiamento in sede di legatura delle parti vocali. Siamo nel 1972 e tuttavia la band, almeno su questo brano, appare per un attimo ancora legata alla passata decade, dove anche le atmosfere potenzialmente roventi venivano “sedate” dai toni psichedelico-spaziali dei gruppi all’epoca in voga. La title-track chiude degnamente il loro primo lavoro: 13 minuti nei quali la band si sbizzarrisce in una lunga cavalcata inframmezzata da vari stili, che spaziano con facilità dal rock classico alle prime sfumature hard/heavy future a venire. La buona prestazione vocale di Meine si eleva di una spanna sul resto della band, che comunque svolge alla perfezione il suo compito.

Prodromico di brani successivi più concettuali, Lonesome Crow traccia le linee guida della band, che ha appena mosso i primi passi nell’empireo degli dei. Ci sono appena altri 40 anni di carriera che ci aspettano.

Autore: Scorpions Titolo Album: Lonesome Crow
Anno: 1972 Casa Discografica: Rhino Entertainment
Genere musicale: Hard Rock Voto: 7
Tipo: CD Sito web: http://www.the-scorpions.com
Membri band:

Klaus   Meine – voce

Rudolf   Schenker – chitarra

Michael Schenker – chitarra

Lothar   Heimberg – basso

Wolfgang   Dziony – batteria

Tracklist:

  1. I’m Going Mad
  2. It All Depends
  3. Leave Me
  4. In Search Of The Piece Of Mind
  5. Inheritance
  6. Action
  7. Lonesome Crow
Category : Recensioni
Tags : Hard Rock, Scorpions
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