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10th Set2020

Diaframma: Retrospettiva 1984-1988

by Simone Rossetti
Siberia (1984), 3 Volte Lacrime (1986), Boxe (1988). Inizio, transizione e fine (con nuovo inizio). Si potrebbe riassumere così la trilogia dei Diaframma che va dal 1984 al 1988, tre album seminali che hanno rappresentato in qualche modo un particolare periodo storico e sociale. Avete presente i “favolosi” anni 80?? Non importa, certo, furono favolosi da un punto di vista artistico e creativo ma furono anche un allucinazione collettiva; per un breve periodo Firenze rappresentò il centro nevralgico di tutte le istanze ed urgenze espressive che attraversavano la penisola (e non solo), si aprivano nuove possibilità, era un “nuovo” che finalmente potevamo toccare e plasmare con mano, ma se si guarda attentamente (e sulla lunga distanza) erano anni ancora oggi non ben compresi, come se ad un certo punto qualcosa ci fosse sfuggita di mano, così, improvvisamente e senza un motivo. Tutto scorreva e mutava velocemente, in pochi (forse nessuno) si soffermarono a riflettere su quello che stava accadendo, in realtà stavamo seppellendo, beatamente e inconsapevolmente, il nostro futuro, questo presente. Firenze, i Diaframma nascono qui sul finire degli anni 70, dopo alcuni cambi di formazione nel 1982 arrivano alla pubblicazione del loro primo singolo (Pioggia-Illusione ottica) cui seguirà un altro singolo Circuito Chiuso e l’EP Altrove del 1983, in tutti compariva come voce del gruppo Nicola Vannini che di lì a poco sarebbe stato sostituito da Miro Sassolini.

Inizio, con Miro Sassolini alla voce, Federico Fiumani alla chitarra, Leandro Cicchi al basso e Gianni Cicchi alla batteria, i Diaframma si avviano verso la pubblicazione del loro primo album; è il 1984 quando esce per l’I.R.A. e prodotto da Ernesto De Pascale, Siberia, album di riferimento per l’intera scena nascente post-punk e new wave italiana, per un’intera generazione di adolescenti che fino ad allora poteva guardare solo oltremanica o oltreoceano. Con l’uscita di Siberia i Diaframma furono (erroneamente e talvolta in malafede) accostati ai Joy Division, certo, le somiglianze non mancavano, l’approccio era tipicamente post-punk come anche i testi (di Federico Fiumani, oltre che la musica), ma la somiglianza finiva qui, l’originalità stava nel creare qualcosa di nuovo, anche musicalmente, che nessuno fino ad allora aveva mai fatto, un post-punk con testi in italiano e un suono finalmente originale e vero. Solo a titolo informativo Siberia è stato inserito da Rolling Stone alla 7° posizione nella classifica dei migliori dischi italiani di sempre, ma di questo a noi ce ne frega il giusto. Siberia si apre con la traccia che dà il titolo all’album, un brano senza tempo, un post-punk che farà scuola, poche note di chitarra introducono l’incedere ritmico di basso e batteria, la voce di Sassolini è in simbiosi perfetta con il testo e la musica, tutto scorre sotto una coltre di neve gelida e lontana, un brano di rara bellezza; “come una morte breve nelle stanze d’albergo” canta Sassolini in Neogrigio, altra piccola gemma di questo album, c’è la bellissima Amsterdam che parte languidamente ma si apre in un crescendo liberatorio che farà scuola; c’è la malinconica Delorenzo segnata da una melodia dolce-amara, “e la noia di un giorno è la noia di sempre” recita un Sassolini perso chissà dove; bella e incombente è Memoria, forse non riuscita completamente ma di grande intensità, chiude l’album la desolante Desiderio Del Nulla, ritmica serrata e gran lavoro al basso, atmosfere gelide e distanti, un vuoto che resterà senza risposta.

Transizione, 3 Volte Lacrime, nuovo cambio di formazione, sempre Sassolini alla voce e Federico Fiumani alla chitarra ma con l’avvicendarsi di Leandro Braccini al basso e Alessandro Raimondi alla batteria. Siamo nel 1986, ultimi scampoli vitali di una scena new wave ormai assimilata e metabolizzata dal music business; qualcosa stava inevitabilmente cambiando e i Diaframma si affacciano su questo grande punto interrogativo con un nuovo album 3 Volte Lacrime pubblicato sempre dalla I.R.A. Records. Molti si aspettavano un “Siberia 2” ma così non fu e furono sempre molti a storcere il naso (ancora in malafede), in realtà è un bellissimo album che si discosta dalle sonorità tipicamente post-punk del precedente (oltre che musicalmente anche nei testi, sempre di Fiumani) ma mantiene intatta una spontaneità ed una originalità che non avevano (e non hanno) confronti. L’album si apre con la bellissima titletrack, un pezzo rock “da cantina” sontuoso ed elegante, anche il testo è di quelli non banali ma che si stampano facilmente in testa, c’è la malinconica Falso Amore resa benissimo dalla voce di Sassolini più controllata del solito o la più punk rock Libra dall’incedere incalzante e con un bel refrain; c’è la cantabile e solare Spazi Immensi con tanto di cori anni 60 e quel piccolo capolavoro naif che è Marisa Allasio, tenera e sconsolata che si apre alle note crepuscolari di un sax, Madre è un altro grande brano, velato di quella tristezza e malinconia che ci portiamo dentro da sempre, ineluttabilmente. Un album di transizione quindi? Purtroppo sì, del resto tutto evolve e va avanti, così anche per questi Diaframma e per Federico Fiumani ancora in cerca di una propria strada.

Fine (con nuovo inizio), se 3 Volte Lacrime non riscontrò quel “successo” sperato con Boxe le cose andarono anche peggio; forse i tempi stavano cambiando, forse c’era la voglia di lasciarsi dietro quei “favolosi” anni 80 non più appaganti, fatto sta che passò quasi del tutto inosservato, ma era (e resta ancora) un grande album. La formazione cambia di nuovo, questa volta con Renzo Franchi alla batteria, ma non solo, il suono si evolve, non più il suono da “scantinato” (che personalmente trovavo affascinante) di 3 Volte Lacrime ma un suono più maturo e professionale (questa volta autoprodotto dalla Diaframma Records), ad ogni modo qualcosa stava cambiando ed era un cambiamento percepibile; Boxe è un titolo non a caso, è un succedersi di round uno dopo l’altro, l’importante non sarà vincere ma restare in piedi, non importa con quante ferite ma solo ed unicamente il restare in piedi; Boxe è un album dalle diverse sfaccettature, musicalmente e compositivamente ancora legato a 3 Volte Lacrime come in Adoro Guardarti, Blu Petrolio o la dolcissima Dottoressa, ma anche con una nuova consapevolezza, una maturità compositiva che Federico Fiumani riporta in testi e musica, ad esempio nella titletrack o in Godi Amore ma anche nella violenta tenerezza di Un Temporale In Campagna e nei suoni dub di Marta. Boxe è un grande album con delle potenzialità enormi eppure si sente che qualcosa stona, come non riuscisse a trovare una sua collocazione, i brani perdono quell’approccio tipicamente rock per farsi altro, Miro Sassolini ne è ancora l’interprete ma Fiumani è già oltre e questo scarto lo si percepisce in tutta la sua complessità.

Boxe segnerà una fine ma contemporaneamente un nuovo inizio, potrebbe sembrare un controsenso ma non lo è; Caldo è la traccia che chiude l’album, è il primo brano nella storia dei Diaframma che vede alla voce Federico Fiumani (accompagnato al piano da Massimo Buffetti), è un bellissimo brano sia nel testo che nella musica, qualcosa che si deposita dentro l’anima e lì resterà per giorni, mesi, anni a venire, sono solo 2 minuti e 41 secondi ma c’è tutta la poetica di Fiumani, tutta la sua personalità, tutta quell’incertezza e timidezza di un primo passo doloroso ma necessario. Al termine del brano i Diaframma come li conoscevamo prima non esisteranno più, Fiumani prenderà interamente il progetto nelle sue mani e sarà l’inizio di un nuovo percorso professionale ed umano fatto anche di scelte non sempre facili ma ricco di soddisfazioni e soprattutto di rispetto verso un artista che ha fatto della propria libertà professionale non una bandiera ma una intima scelta. Noi ci fermiamo qui, scoprire il seguito (se non lo conoscete già) spetta a voi, dopo tutto questo Caldo arriverà anche Gennaio ma siamo già nel 1989.

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08th Set2020

Cose Dell’altro Suono – Avventure Musicali In Italia ’50_’90

by Raffaele Astore
Il nuovo libro di Giordano Casiraghi non è solo un viaggio tra gli avvenimenti musicali ed i personaggi che hanno segnato un’epoca, ma è un vero e proprio tuffo in un mare di conoscenza che, ci auguriamo, proseguirà con un altrettanto stupefacente nuovo lavoro del giornalista e conduttore radiofonico. La pandemia sembra ormai passata anche se, personalmente, credo che potrebbe ancora esserci un ritorno infuocato, e comunque sia è ormai appurato che molto dipende dai nostri comportamenti. Nonostante tutto se con l’epidemia in atto abbiamo riscoperto i valori dei piaceri dimenticati, il piacere dei nostri hobby preferiti, il piacere dei momenti in famiglia, adesso, anche se con le mascherine sul volto, si ricomincia a vivere un nuovo mondo. Qualcuno poi, quel nuovo mondo lo vive in maniera del tutto diversa perché, a volte, la vita, pur riservandoci grosse sorprese, continua a volerci bene e, noi, non dobbiamo mai né illuderla né illuderci perché, proprio quella vita, è comunque un bene troppo prezioso da lasciarsela sfuggire. Ma lasciamo queste riflessioni a momenti più intimi e ritorniamo ad occuparci in questo nostro spazio di quella musica che tanto ci ha accompagnato nel periodo più buio e tormentato del corona virus. Stavolta non ci occuperemo di dischi o di band ma, come già accaduto in passato, visto poi che da quando è esplosa la pandemia ci siamo molto dedicati alla lettura, parleremo e proporremo qui ai nostri lettori un libro che, guarda un po’, non solo parla di musica ma è una sorta di prosecuzione del precedente libro scritto dallo stesso autore (Anni 70, Generazione Rock).

Pubblicato il 25 giugno scorso, Cose Dell’altro Suono – Avventure Musicali In Italia ’50_’90, è un libro che coinvolge in un racconto in cui sono tanti i personaggi che vengono trattati, quei protagonisti che hanno poi segnato un’epoca e non solo; si perché quei personaggi riescono ad essere figure di spicco ancora oggi sia per la gente di una certa età come noi, ma anche per tante giovani leve che si avvicinano ad un certo rock con curiosità, quella curiosità che ha animato anche noi in tempi lontani. Certo, ad esempio, nel 52 ancora non eravamo nati (almeno io) ma leggere l’anteprima jazz della Milan College Jazz Society ci ha spinto a diverse curiosità tant’è che ad un certo punto di quel viaggio ci è venuto spontaneo poi, la sera, andare a rispolverare qualche vecchio disco di musica jazz. Poi il viaggio visivo è un altro bell’aspetto del volume ed infatti, la ricchezza fotografica che si ritrova in ogni capitolo ci ha aiutati ancor più in questo itinerario quasi “maniacale” che Casiraghi ha voluto imporci, un percorso che ci ha coinvolto e che coinvolge chi si ritrova tra le mani questo volume. E non c’è proprio bisogno di ascoltare musica mentre lo si legge perché tra le mani abbiamo un libro che “suona”, portando al lettore tutti quei suoni che vanno dagli anni 50 ai 90. Ed il rock italiano passa anche attraverso Adriano Celentano, Enzo Jannacci, ma poi arriva da oltre oceano il vero rock, vale a dire le tournée italiane del 1965 dei Beatles e quella del 1968 del grande Jimi Hendrix.

Ed il viaggio di Giordano continua ricordando Claudio Rocchi, artefice di una stagione indimenticabile, così come lo furono l’avanguardia e l’arte di John Cage fino a giungere alla voce, l’unica voce che nonostante gli anni continuiamo a risentire, quella dell’indimenticabile Demetrio Stratos al quale Casiraghi dedica un capitolo corposo del libro, scritto nato dall’aver interpellato oltre che conoscenti anche musicisti che con lui hanno percorso un pezzo di strada importante per il nostro rock in genere come gli ex Area, Tofani e Friselli oltre che lo stesso Leandro Gaetano che faceva parte della formazione iniziale. E ne parla lo stesso Dijvas che ha fatto parte degli Area prima di trasferirsi sull’altra sponda del prog, quella della Premiata Forneria Marconi. Poi passando attraverso Freak Antoni degli Skiantos si giunge al “venerato maestro” del periodo più fervido, forse, capace di sfornare album come Fetus nel 1972, album di esordio, fino a Gommalacca del 1998 non dimenticando poi La Voce Del Padrone del 1981, L’era Del Cinghiale Bianco del 1979 e così via.

 Cose Dell’altro Suono – Avventure Musicali In Italia ’50_’90 è non solo un libro che racconta avvenimenti musicali e personaggi che hanno segnato un’epoca ma è un vero e proprio viaggio che, come ci auguriamo, proseguirà con un altrettanto stupefacente nuovo lavoro del giornalista e conduttore radiofonico Giordano Casiraghi.

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14th Ago2020

Vale ancora la pena leggere (e scrivere) recensioni? (tra uova e frittate)

by Simone Rossetti
Articolo semiserio ma tasto dolente per ogni recensore (o critico musicale che dir si voglia), passare dalle uova alla frittata è un attimo, un battito di ciglia, una sottile linea alle volte insostenibile non solo per il recensore ma anche per chi legge. Personalmente conosco (musicalmente) solo l’inossidabile ed eterno Piero Scaruffi, esperto di musica e delle arti in genere, il quale non fa una piega sia che si tratti di stroncare un album o di lodarlo, sono le quattro uova perfettamente circolari e ben allineate pronte ad essere cotte nel classico tegamino, però ricordo bene il suo 4 a Let It Be dei Beatles, avete presente quella strana sensazione nello scoprire che la vostra ragazza vi tradisce con il fornaio sotto casa? Ecco, fu per me fonte di grande turbamento post-adolescenziale dal quale non mi ripresi più, o lo si ama o lo si odia (Scaruffi, non Let It Be). Una vera frittata fu invece la classifica stilata da Rolling Stone (500 Greatest Artists Of All Time), quella specie di almanacco pubblicato nei primi anni 2000 e che nel bene e nel male mi ha tenuto compagnia per almeno un decennio nei momenti del bisogno (in senso letterale, dei bisogni corporali), d’altronde si trattava di una classifica (con annesso commento all’album) basata sul giudizio sommario di una giuria composta da esperti, critici, musicisti, giornalisti e annessi; anche qui con mia immensa sorpresa scoprii che Let It Be occupava la posizione 392, non la 7esima o la 126esima ma proprio la 392! Il bello è che prima troviamo un po’ di tutto compreso i Radiohead (con tutto il rispetto che mi manca per i Radiohead), comunque per i successivi dieci anni la posizione 392 è stata la mia pagina più letta.

C’è da fidarsi dunque del critico musicale? Assolutamente no, l’unico ed insindacabile giudizio resta il vostro, in un altro tempo quando ancora si compravano i vinili e le recensioni erano su materiale cartace, il critico musicale serviva soprattutto (anche) per far risparmiare qualche soldo, si poteva così scegliere come spendere meglio la nostra paghetta considerando che i vinili non costavano poco, solo più tardi ho scoperto che tutto è opinabile, una eterna lotta fra estetica e ricchezza interiore. Oggi che viviamo tempi di musica “liquida-ta” sottocosto il problema della paghetta non si pone più ma resta (se non ampliato) il problema della scelta ed è proprio per questo che una recensione, una buona recensione, riscopre la necessità di esistere; quell’avvicinare il lettore (ascoltatore) a nuove conoscenze musicali al di là dei propri gusti personali, una riflessione ad uscire da quell’ascolto massificato che ormai detta tempi e generi, una possibilità in più per capire qualcosa di se stessi senza delegare ad altri il come, il dove e il quando. Certo, le uova devono essere fresche e il tuorlo non si deve sfaldare ma restare ben tondo, cosa che non accade quasi mai e comunque è tutto soggettivo; noi non ci facciamo problemi e le uova le mangiamo lo stesso ma la soggettività conta eccome.

Per quanto una recensione debba essere la più oggettiva possibile esisterà sempre un margine, anche minimo, di soggettività, e la cosa diventa ancor più desolante quando si tratta di confrontarsi con quelli che sono riconosciuti all’unanimità come dei veri e propri capolavori, le uova sono di quelle buone ma prepararle tocca al recensore ed è qui che la frittata incombe nell’ombra, perché un capolavoro è un capolavoro mentre noi non siamo altro che il tegamino. Ma cos’è una recensione? Non è altro che “un testo valutativo e interpretativo di un opera” cinematografica, letteraria, musicale ed oggi estesa a qualsiasi “stronzata” con ambizioni pseudo-artistiche; nata nel rinascimento e poi sviluppatasi e perfezionatasi nel corso dei secoli fino ai giorni nostri, passando dai manoscritti alla carta stampata e infine a formati digitali; involontariamente mi sono ritrovato a leggere la seguente domanda “ma ha ancora un senso oggi il critico musicale?”, sì, per tutti quei motivi sopra descritti purché siano dettati dalla passione, non importa se le uova diventeranno frittata ma la passione ed una certa onestà di interpretazione sono imprescindibili ed il perché è semplice: ai tempi della carta stampata era pressoché impossibile replicare ad una recensione (perlomeno in tempo reale), oggi molti siti di musica, non tutti, questo lo permettono, anche qui nel nostro piccolo (sebbene con alcune limitazioni che non mi trovano d’accordo) è possibile criticare una recensione, preferibilmente se con un discorso argomentato (ma non necessariamente), perché una cosa è certa, la verità in tasca non ce l’ha nessuno. Chi scrivendo una recensione pensa di avere in dono questa verità ha già rotto le uova nel loro cartone prima ancora di tirarle fuori e non serve tornare a comprarle, detto questo nessuno è infallibile e ci sta di sbagliare, il confronto diventa quindi necessario e fonte di crescita.

Il “non capire” un album è un altro grande limite, sia per il recensore che per l’ascoltatore, il non capire va al di là del semplice mi piace o non mi piace, è come non sapere cosa fare di quelle uova, se farle al tegamino o tirarci fuori una frittata, si resta lì a guardarle come fossero una presenza aliena arrivata dall’iperspazio, forse sarebbe meglio lasciar perdere e cucinare qualcos’altro, il problema è che non sempre è possibile, per principio, per vanità, per caparbietà, spesso per professionalità, ed è un “errore” ricorrente; concludiamo con un ultima considerazione, quella che stavo per dimenticare ma che in realtà interessa la maggior parte di voi lettori, non solo, anche di chi si accolla l’onore e l’onere di scrivere una recensione: parlo di quel numerino matematico che determinerà il voto finale, lo sappiamo, è quanto di più soggettivo ci possa essere, sappiamo anche che così non dovrebbe essere, ma se così non fosse vorrebbe dire che esisterebbe già una casistica standardizzata a cui fare riferimento (e decisa a priori da qualcun altro). Pazienza quindi, vorrà dire che non sarà un voto completamente oggettivo e che (volente o nolente) si porterà dietro un buon margine di errore, un po’ come mettere sette uova in un tegamino che può contenerne solo tre, a volte capita, l’importante è che ci sia quell’onestà professionale che dovrebbe contraddistinguere sia il cuoco che il recensore, anche se va detto, sono entrambi illogicamente umani. Noi di RockGarage lo sappiamo bene, per questo in redazione oltre alle galline alleviamo anche dei conigli, sia mai detto che restiamo senza uova.

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07th Ago2020

Legacy of Darkness, l’arte di Welt

by Massimo Canorro
Un nome d’arte composto da quattro lettere che lo identifica da molto tempo oltre i confini della capitale – dove ha sede il suo studio – rendendolo una figura di riferimento non solo nell’universo del tatuaggio (di cui è un vero e proprio cardine) ma anche di quello metal e del cinema horror tutto, al quale si ispira e dal quale trova linfa per i suoi lavori su pelle, tela o carta. Piaccia o no, è arduo delimitare/scindere l’uomo e l’artista/professionista Welt, romano classe 1977, poliedrico come pochi. Ad andare a dama, in questo senso, è stata Edizioni Shatter, che ha dato alle stampe un volume che – spaziando tra horror, dark art e fantasy, sviscerati attraverso tattoo, illustrazioni, dipinti e tanto altro – ripercorre oltre due decadi dell’attività di Welt. Titolo: Legacy of Darkness, l’arte di Welt (129 pagine, 21 euro). Nella nota dell’editore, in apertura di libro, si legge: “Le espressioni artistiche di Welt sono un ensemble capace di accogliere al suo interno un universo non propriamente limitato e che abbraccia il ramo tatuaggistico, pittorico, musicale e cinematografico dando vita a un’unica arte”.

Interamente a colori, ricco – meglio ancora, denso – di immagini e foto esclusive, con una lunga e approfondita intervista (curata da Nico Parente) a colui che è ritenuto il punto di riferimento della dark art nel nostro paese, Legacy of Darkness è un volume quasi “romanticamente” fuori tempo, che rievoca gli anni ottanta (non a caso quelli dell’infanzia di Welt, laddove tutto nasce) e si legge tutto d’un fiato. Un libro “leggero” – nell’accezione migliore del termine – ma approfondito, attraverso il quale la casa editrice vicentina (qui alla sua prima uscita dedicata all’universo del tatuaggio) rende il giusto tributo ad un artista che è stato in grado di tramutare in lavoro (riconosciuto e riconoscibile) la sua grande passione. Da Roma (dove ha il suo Yama Tattoo Studio, precisamente in via Urbana, 62) a Londra, Welt è stato capace – e lo è tutt’ora – di dedicarsi alla dark art in ogni sua sfaccettatura, investendo sul tattoo quale forma espressiva preminente (“i primi esperimenti, almeno come approccio a questa filosofia indelebile, avvengono in casa con un paio di amici: disegni tribali, teschi e loghi di band”, ricorda) senza disdegnare forme di promozione e sponsor, in prima persona, di live/tour di band metal dal respiro internazionale, meet&greet, collaborazioni editoriali con riviste metal e di settore.

E ancora, personali e collettive di pittura, art work destinati a produzioni musicali ed eventi dedicati…Bulimico Welt, senza ombra di dubbio. E questo suo mordere la vita, cannibalizzandola in tutto e per tutto, gli è riconosciuto dal grande seguito che ha. Nel corso degli anni, infatti, l’artista capitolino ha attirato su di sé la curiosità – e la stima – di importanti esponenti non soltanto del panorama tatuaggistico, ma anche musicale e pittorico, che vengono appunto citati nel libro. Qualche nome? Si spazia da Terry Butler, bassista degli Obituary (“Welt è completamente metal”) all’illustratore Enzo Sciotti (“è una bellissima persona che mi piacerebbe avere come figlio”), dal regista Lamberto Bava (“nelle creazioni di Welt c’è la storia che continua”) al compositore e musicista Claudio Simonetti, che a tutto tondo riconosce in Legacy of Darkness “un giusto riconoscimento all’arte di un artista del calibro di Welt”. E ancora, i contributi di Tony Dolan (Venom Inc.), Mike IX Williams (Eyehategod), Patrick Mameli (Pestilence), ma la lista è davvero lunga. Anche i “nostri” Sergio Stivaletti (effettista, regista, sceneggiatore) e Luigi Cozzi (regista, sceneggiatore, scrittore) dicono la loro su questo metalhead – tra suoi estimatori il regista John Carpenter e l’ex frontman dei Pantera, Phil Anselmo – che ama tanto i Masters quanto Dungeons & Dragons, H.R. Giger e H.P. Lovecraft.

Per appassionati e curiosi del mondo tatuaggio (e non solo) questo libro è una boccata d’aria fresca. Per tutti gli altri, invece, ci sono solo social e fiere di settore (in tutta Italia) dove non sempre cuore e professionalità vanno a braccetto. Qui, invece, sì.

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22nd Lug2020

Il Capolavoro (e l’arte di non esserlo) – Parte 2

by Simone Rossetti
Dicevamo (a questa pagina): Chi “scrive” un capolavoro, l’artista o il mercato? Sicuramente l’artista lo crea ma senza una “produzione” resterebbe un qualcosa di inascoltato, se va bene di nicchia, altrimenti destinato a restare sconosciuto quindi inesistente; da questa relazione “amore-odio” con tutti i suoi pro e contro non è possibile uscirne, oggi vengono super pubblicizzati anche “prodotti-cesso”, ma questo non ne fa dei capolavori e nemmeno dei “capolavori-cesso”, sta solo a noi saper distinguere però una riflessione nasce spontanea; un successo di massa determina un capolavoro? Sembrerebbe di sì, non sono io a dirlo ma il presente in cui viviamo, la verità però è un altra, sulla lunga distanza questi pseudo-capolavori cadranno nel dimenticatoio di una nuova quotidianità e verranno a loro volta sostituiti con dei novi presunti “capolavori”, suona triste ma è così. Non potendo (ma volendo, senza pretesa alcuna) esservi di aiuto vi lascio due titoli, che almeno spero, non possano lasciare adito a dubbi sul termine capolavoro, ma non vi darò alcuna indicazione o suggerimento ed eventuali conclusioni dovrete trarvele da soli, i brani (anzi, gli album) in questione sono A Love Supreme di John Coltrane e il Concerto d’Aranjuez di Joaquìn Rodrigo.

Un capolavoro è tale perchè trascende dallo scorrere del tempo, vero, ma prima è necessario che il tempo scorra; se si tratta di un reale capolavoro lo scopriremo forse fra qualche decennio o magari fra un paio di secoli, praticamente quando da buoni e comuni mortali avremo già oltrepassato la cognizione stessa del tempo. Non resta quindi che accontentarsi dei capolavori che il passato ci ha tramandato o nel nostro piccolo di saper riconoscere e godere di quei piccoli capolavori “minori” che viviamo tutti i giorni. Personalmente la parola capolavoro non piace, non mi piace usarla nemmeno quando sarebbe necessaria o dovuta; troppo immobile, statica, fissa ad un tempo precedente ma lontana da un presente che necessariamente viviamo; eppure il capolavoro esiste, esiste sotto diverse forme e modalità, esiste in quanto materia, essenza, tradizione, nostalgia di un qualcosa che non c’è più ma al quale continuiamo a restare indissolubilmente legati (questo è un grave errore in cui spesso cado anch’io).

Oggi che tutto viene spacciato come capolavoro (bastano due lustrini, un paio di tette e un culo, in realtà anche senza lustrini) preferisco cercare altrove, fuori dal chiasso, dalle luci patinate, dagli aggettivi superlativi e dai riconoscimenti mediatici, perché una cosa è comunque certa, del capolavoro, del piccolo vero capolavoro, ne avremo sempre bisogno.

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21st Lug2020

Come As You Are: la mostra fotografica

by Massimo Canorro
“Vieni, così come sei, come eri, come voglio che tu sia”. Secondo singolo estratto da Nevermind (1991), album simbolo dei Nirvana, il brano Come As You Are dà il titolo all’omonima mostra fotografica in corso, allestita nella cornice di Palazzo Medici Riccardi, a Firenze, prorogata al 18 ottobre. “A ventisei anni dalla morte di Kurt Cobain, il mito dei Nirvana non tende a svanire e continua ad avere una forza comunicativa ed espressiva che riesce a far breccia nelle più giovani generazioni, facendo palpitare il cuore a chi ha vissuto negli anni Novanta la loro saga”, riporta il comunicato. Già, il 15 aprile 1994 se ne andò suicida il frontman – cantautore e chitarrista – della band riferimento della scena grunge, che aveva nella città di Seattle (dove Cobain morì) il suo epicentro. Definito dalla rivista Rolling Stone “il miglior artista degli anni novanta” Kurt Donald Cobain – divenuto una vera e propria icona per due generazioni di giovani – viene omaggiato oggi (e con lui l’incredibile sezione ritmica formata da Dave Grohl, attuale leader dei Foo Fighters, e Krist Novoselic) attraverso l’esposizione Peterson-Lavine. Come As You Are: Kurt Cobain and the Grunge Revolution, a cura di Ono arte contemporanea, organizzata e promossa da Oeo Firenze Art e Le Nozze di Figaro. Il visitatore ha l’opportunità di osservare oltre 80 scatti (catalogo disponibile anche a questa pagina), tra i quali alcuni inediti, per ripercorrere sia la storia della scena musicale grunge – l’ultima, tangibile rivoluzione del rock – sia quella del suo eroe maledetto Cobain, emblema della controcultura a stelle e strisce di un trentennio fa, tra la guerra fredda che volgeva al capolinea (1947-1991) e l’inganno della new economy (1990).

Accompagnata da uno splendido catalogo (96 pagine, formato 21×26 cm, 20€) edito da Oeo Firenze, la mostra è suddivisa in due sezioni: da un lato emergono, prorompenti, le immagini di Charles Peterson, classe 1964, fotografo ufficiale della Sub Pop Records, sulla nascita dei Nirvana, i live e il movimento grunge di Seattle; dall’altro le foto di Michael Lavine, nato nel 1963, noto fotografo pubblicitario, tratte da servizi posati e immagini per riviste. Professionisti di fama internazionale accomunati dalla voglia, resa poi in concreto, di mostrare come i fan dei Nirvana siano stati parte integrante dell’intera rivoluzione musicale (grunge revolution). Questo vale tanto per Peterson – capace di volgere l’obiettivo dalla parte opposta del palco e di immortalare un’intera generazione di fan che restano tutt’oggi, nell’immaginario collettivo, estensione di quella che è l’ultima rivoluzione avvenuta all’interno della cultura pop – tanto per Lavine, abile nel far immergere il visitatore, senza distinzione alcuna, nella fascinazione di quelle giornate indimenticabili. Così, mentre Peterson scatta suggestive fotografie in bianco e nero, contraddistinte dall’uso di flash potenti capaci di squarciare il buio dei club (isolando, al contempo, i soggetti in maniera iconica), Lavine porta avanti uno stile caratterizzato dall’utilizzo di colori saturi, nonché da un’illuminazione tanto dinamica quanto estrema. E ancora, da linee nette e definite e dalla accuratezza delle composizioni grafiche.

Due fotografi differenti ma uguali nel considerare fondamentali non solo i musicisti – nel dettaglio i Nirvana lo sono stati eccome – ma anche il pubblico del grunge. “Le parole non sono importanti come l’energia che viene dalla musica, soprattutto se dal vivo. La musica è energia. Una sensazione, un’atmosfera. Sentimento”, ammise Cobain. La mostra e il catalogo d’arte a corredo racchiudono il tutto.

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16th Lug2020

Il Capolavoro (e l’arte di non esserlo) – Parte 1

by Simone Rossetti
Se ci avete fatto caso oggi è più facile trovarsi davanti ad un capolavoro che pestare la “cacca” sul marciapiede che il solito imbecille non raccatta (e vi assicuro che questi ultimi non sono pochi). Cosa sia peggio non lo so ma un’idea me la sono fatta ed è da questa che partiamo. Parola stra-usata e stra-abusata, sulla bocca di un predicatore televisivo qualsiasi o sulla penna di un rivenditore di auto usate buone solo per arrivare in fondo alla strada, ma è una strada lunga e impervia quella del cosiddetto “capolavoro”, una parola che personalmente non amo, ma su questo ci ritorneremo, non sono un esperto d’arte nel senso classico (ma anche meno classico), forse posso capire qualcosa di musica, cinema o letteratura, ma solo per una questione di cultura personale, di interesse, non c’è alcuna pretesa di insegnare niente a nessuno, al massimo solo suggerire delle riflessioni. Rigorosamente in ordine sparso, senza una logica ben precisa, ad intuizione ed a seconda dell’umore del momento, se poi preferite dipendere dai soliti altri vi basterà cercare in rete o accendere la televisione per trovare il solito esperto in materia che vi svelerà cos’è l’arte, il capolavoro e come fruirne. Non entrerò quindi nel merito della pittura o scultura dove la mia ignoranza si fa oceano, mi limiterò a parlare del capolavoro nel senso più pop-olare (e discutibile) del termine; non essendoci una sola verità ne troverete di svariate, dai colori più invitanti e dalle forme più diverse, ciascuna pronta all’uso e secondo le vostre esigenze, ma l’unica verità ed oggettivamente quella più sincera, quindi più giusta, la potrete trovare solo in voi stessi e in modo del tutto “naturale”.

L’uso del termine “capolavoro” nasce in Francia, più precisamente a Parigi nel tardo Medioevo: serviva a definire in campo lavorativo-artigianale la bravura di un apprendista, una specie di esame attraverso il quale si doveva dimostrare le proprie competenze e abilità manuali creando appunto un “chef d’oeuvre”; non si trattava solo di una consuetudine popolare ma di un’abilitazione regolata e vincolata da una precisa legislazione nel Livre des métiers (libro delle libere professioni artigianali o corporazioni). Da apprendisti quindi si diventava maestri, questo valeva per pittori, scultori, incisori e miniatori, stiamo parlando comunque di un ambito prettamente lavorativo. Solo nel Rinascimento mutò il senso di “chef d’oeuvre” passando dalla sua natura artigianale a quella di carattere umanistico (arte) distaccandosi cioè dalle esigenze “economiche e politiche” delle corporazioni (rivendicazione di arte libera). Qui in Italia ci si arriverà più tardi, nel 18° secolo compare per la prima volta l’uso del termine capolavoro (o capodopera) inteso come la migliore opera di un artista, un’eccellenza; arrivati però a questo punto, non essendo un esperto in materia, devo fermarmi, credo comunque sia più che sufficiente come base di partenza per alcune riflessioni e considerazioni.

Come nasce un capolavoro; il solo genio può bastare? No, spesso si tratta del classico “colpo di fortuna”, il più delle volte l’essere geni non serve; è tutto un insieme di fattori che contribuisco e danno vita al cosiddetto capolavoro: la nostra storia, le nostre esperienze, un preciso momento della nostra vita, la nostra cultura, una diversa sensibilità e una diversa percezione del mondo e della vita, il semplice bisogno di raccontare una storia. Hotel California degli Eagles è senza dubbio un capolavoro ma se avessi chiesto un parere a mio nonno probabilmante mi avrebbe risposto di non sapere come era la terra in California ma che qui era bassa abbastanza e con questo avrebbe chiuso il discorso, immagino avrebbe detto lo stesso per un dipinto del Caravaggio, e questo senza nulla togliere a mio nonno (fatto di terra e bestie da governare); la verità è che “il capolavoro” è materia quantomai soggettiva; esisteranno pure dei canoni trascritti e standardizzati (mi piacerebbe crederci) ma resta sopratutto una questione “con se stessi”. Bisogna essere infelici per creare un capolavoro? Non c’è scritto da nessuna parte, si può scrivere un capolavoro pur essendo in totale armonia con il mondo e con il proprio “Io”; non è necessario il suicidio se non a dare fiato a chi ha interesse a specularci sopra e nella peggiore delle ipotesi vi assicuriamo che si può continuare a vivere “bene o male” anche senza averne scritte uno; sicuramente serve una sensibilità particolare, un riuscire a leggere e a decifrare le dinamiche di un mondo che a noi comuni mortali sfuggono, serve il mettersi completamente a nudo di fronte alla propria opera e a se stessi, un andare oltre o il restare immobili; il capolavoro spesso e volentieri è involontario e ancor più spesso e volentieri (e a questo punto inutile) verrà decretato dai posteri, la storia ne è piena.

Ma allora, vi e ci, staremo domandando, cosa serve per decretare un opera come capolavoro anzichè come un semplice “buon lavoro”? È una linea sottilissima e invisibile quella che separa due concetti completamente diversi, prendete ad esempio You Can’t Always Get What You Want dei Rolling Stones, quanti vi diranno che è un capolavoro? Io sì, ed è perfetta, come costruzione melodica, come armonia, come crescendo, come intensità emotiva, allo stesso tempo suona naturale, senza forzature, inutili appesantimenti e crea un interazione speciale con l’ascoltatore, un climax unico nel suo essere un pop quasi epico; mi sto ovviamente muovendo su libere sensazioni ed interpretazioni ma il restante 99,9% vi dirà che è solo un buon brano, un ottimo brano ma certo non un capolavoro. Perché?! Perchè un capolavoro “vero” deve, giustamente, riuscire ad elevarsi ad un livello più alto, deve staccarsi da una mentalità terrena per abbracciare il mondo intero, deve avere un respiro universale che travalichi religioni, credi e umani miserie, qualsiasi uomo o donna di questo mondo deve potersi riconoscere; Johnny B. Goode di Chuk Berry è riconosciuto all’unanimità come un capolavoro perchè è un brano (stilisticamente, compositivamente e tecnicamente) completamente innovativo rispetto all’epoca in cui nacque e che diventerà fonte d’ispirazione per migliaia di chitarristi a venire e non solo in ambito rock.

Come paradosso però potrei citarvi Helter Skelter dei Beatles, un brano proto-metal notevolmente avanti per il suo tempo ma che nessuno vi indicherà come capolavoro, eppure; State Trooper di Springsteen, solo chitarra e voce, nient’altro, perchè nient’altro serve, talmente semplice da risultare quasi banale, nessuno vi dirà che è un capolavoro tranne il sottoscritto. Un ultimo esempio, Bohemian Rhapsody dei Queen, era ed è ancora (per me) un piccolo capolavoro nel suo genere, c’è stato un momento dopo l’uscita del film biografico (2018) che questo brano era sulla bocca di tutti, chi aveva visto il film non cantava altro, questa storia andò avanti per un paio di mesi, poi improvvisamente, come per magia, dimenticato, solo allora è tornato ad essere, per me, quel piccolo capolavoro che era, perchè è anche una questione di “dimensione”. Per contro troverete quello che vi racconterà che un capolavoro assoluto della musica è Thriller di Michael Jackson (e ritenetevi fortunati, sono stato buono); come avrete intuito, alla fine non esistono dei canoni oggettivi di valutazione, non lo può essere il semplice riscontro di massa (vendite) come non lo possono essere le classifiche di settore (ri-vendite); ma allora chi “scrive” un capolavoro, l’artista o il mercato?

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02nd Lug2020

Ascolto, dunque sono

by Simone Rossetti
Ascolto, dunque sono. Sono cosa? non lo so, non lo sappiamo, ma spero di fare almeno intravedere una risposta al termine di questo articolo, perché ascoltare (saper ascoltare) è come respirare e già di per sé non è così scontato come sembra. Ascoltare qualcosa di distorto è come respirare con una narice sola, trattenere il fiato per poi rilasciare il respiro quando siamo al limite. Se è vero che quello che oggi è nuovo domani sarà già vecchio, non è altrettanto vero che ciò che oggi è buono domani lo sia meno o non lo sia più. Ciò che cambia non è tanto (o solo) il mezzo con il quale si ascolta ma soprattutto la sua sorgente primaria, il suono stesso o se preferite il suo formato. Per chi è adolescente oggi quello che conta è, giustamente, il presente, “ieri” non esiste, ciò che il presente gli restituisce è lo stesso per chi ha avuto il suo presente ieri, la differenza sta in una sua presunta o errata evoluzione tecnologica o comprensione di essa. Lungi da me dal voler fare (o essere) il classico “espertone” in materia, quello che mi interessa è più il lato legato alla società dei consumi, “esistenziale” ma spero non retorico.

Tutto iniziò sul finire dell’ 800 con l’utilizzo del grammofono “inventato” da Emile Berliner, in realtà perfezionò quello che fino ad allora era chiamato fonografo utilizzando al posto dei cilindri che leggevano la musica il più famoso disco. Ecco spiegata la scelta di partire dal grammofono, praticamente è quel mezzo o strumento che ci proietterà nell’età moderna della riproduzione musicale, quello che è ancora più importante è considerare la sorgente sonora, per il grammofono si usavano dei dischi in gommalacca più o meno della stessa grandezza dei più famosi vinili ma con la particolarità di girare a 78 giri al minuto, quindi solchi molto grandi e breve durata di ascolto per ciascun lato. Ma già intorno agli anni 40 del secolo scorso le cose stavano per cambiare. Nel 1948 venne introdotto sul mercato il più classico e famoso formato “vinile” che andò a sostituire la gommalacca permettendo di abbassare il numero dei giri da 78 a 33 1/3 (o a 45), un piccolo passo per l’uomo ma un grande passo per l’umanità (altro che il nostro satellite); questo abbassamento del numero dei giri consentiva di “incidere” il vinile con dei microsolchi aumentandone così la loro “capacità”, quindi più brani per entrambi i lati, maggior durata e migliore resa sonora (praticamente perfetta). La differenza stava anche nell’uso dell’elettronica, nel caso del grammofono assente, nel caso del vinile imprescindibile, ai fini dell’ascolto era necessario oltre al “piatto” (giradischi) un amplificatore e due diffusori per la stereofonia (il grammofono era monofonico), al di là di questo quello che era cambiato era la sorgente, si comprime “aumentando” la capacità in minor o eguale spazio.

Questo è fondamentale per comprendere la direzione degli eventi futuri e tenete anche ben presente che al momento stiamo comunque parlando di supporti di registrazione e riproduzione analogica, che non usano cioè tecnologia informatica digitale. L’avvento del CD (disco compatto in policarbonato) è alle porte (fine anni 80 la sua completa diffusione) e come tutte le cose lo è nel bene e nel male. Formato ridotto, un “vinilino” di soli 12 cm per 1 mm di spessore ma capace di contenere una quantità enorme di dati, il mezzo di ascolto non cambiava rispetto al vinile se non per l’aggiunta di un apposito lettore CD, quella che cambiava ancora una volta era la sorgente (il suono), più “compressa” quindi bisognosa di minor spazio a parità di quantità e anche oltre. Un problema che sorse dopo la sorpresa iniziale fu se ai fini di un buon ascolto (quanto più reale) il CD fosse meglio o peggio del vinile (un po’ come la diatriba tra valvole e transistor, vi sfido a coglierne le sfumature ma ci sono). Basterebbe dire che mentre il vinile esiste e sopravvive ancora oggi il CD è stato praticamente superato dalla stessa tecnologia che lo aveva creato, ma allora questo non si sapeva e le discussioni tra i sostenitori o meno del CD rispetto al vinile erano accanite, digitale contro analogico. Meglio l’uno o l’altro? Leggende metropolitane ci raccontano che il suono in formato digitale sia più freddo rispetto all’analogico per contro più caldo, riguardo invece alla “definizione” sonora sembrava scontato che il suono di un CD fosse più chiaramente definito in quanto appunto digitale, personalmente credo che alla fine siano troppi i fattori che influiscano sulla percezione sonora, il tramite di questa percezione restava il classico stereo (piatto, ampli, lettore CD, coppia diffusori, cavetteria varia e non ultimo l’ambiente esterno), troppe variabili quindi per sancire chi fosse il migliore o il peggiore, diciamo che a parità di “mezzi e condizioni” personalmente continuo a preferire il vinile, ma non è l’argomentazione che al momento ci interessa.

Il CD ebbe, appunto, vita breve, intensa ma comunque breve, il fatto è che lo sviluppo della tecnologia digitale stava viaggiando ad una velocità superiore dei suoi stessi progressi, modificando a breve usi, costumi e supporti fisici del quotidiano vivere. Da questo momento “cambia tutto”, in realtà cambia la proposta ma questo non vuol dire che essa soppianti del tutto “il vecchio”, in parte ma non del tutto. Lossless e Lossy, ricordatevi queste due parole perché al fine della sorgente sonora saranno fondamentali: Lossless, quei file musicali che seppur compressi “restano” fedeli alla qualità audio originale non compromettendola (wav e flac i più comuni), Lossy, quelli penalizzati dalla compressione (mp3, aac, wma) ma, va detto, molto più pratici. Cambiano anche le modalità di ascolto, cambia lo strumento e il modo attraverso il quale ascoltare musica, lo stereo diventa obsoleto, il CD del tutto inutile, sembrerebbe che la tecnologia digitale abbia il sopravvento su tutto il resto, in realtà non è così. Sono cambiati i supporti con il quale ascoltare musica quindi i consumi e gli usi (spese più ridotte, praticità, facilità di disponibilità) ma in realtà sia il vinile che il CD (forse questo un po’ meno) resistono ancora oggi ed i loro supporti di riproduzione anche, si tratta solo e soprattutto di scegliere “come” ascoltare perché la tecnologia digitale per quanto evoluta è e resterà una tecnologia “sottrattiva”; le compressioni di file audio comporteranno sempre una perdita di dati (a seconda del bit rate maggiore o minore) ma il “pensiero in-volutivo” è che comunque un maggior numero di dati stiano all’interno di un supporto più piccolo, per far ciò la parola d’ordine è comprimere.

Ascolto, dunque sono, ma abbiamo idea di cosa realmente stiamo ascoltando? Detto in poche parole, chiare e dirette, un cesso e la cosa peggiore è che probabilmente siamo quello che ascoltiamo, un po’ come quello che mangiamo o che ci costringono a mangiare (ma credendo erroneamente di essere noi stessi a scegliere). Non vi sto invitando a tornare ad ascoltare musica da un buon impianto stereo (che sia CD o vinile non importa), ma se vi capita prendetevi del tempo solo per voi e percepitene la differenza, sarà come mangiare delle zucchine vere al posto di un loro surrogato liofilizzato, poi, come detto all’inizio e ribadisco, non sono un tecnico né un assaggiatore di zucchine, ma se devo mangiarle che almeno siano buone! Detto questo, un buon ascolto a tutti, di qualsiasi tipo esso sia.

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28th Apr2020

Jovanotti: Non voglio cambiare pianeta

by Marcello Zinno
Ho visto i primi 7 episodi del viaggio di Jovanotti in bici per il Sud America viaggio che è divenuto una mini serie su Rai Play. Ho visto solo 7 episodi (di 16 totali) poi ho fatto fatica a continuare. Certo, non si tratta di musica (ma nemmeno l’affascinante libro di Neil Peart lo è) e nemmeno di rock…ma qualcosa mi spingeva a seguirlo. Il fascino del viaggio, una delle tematiche che ha ispirato il maggior numero di musicisti, la sfida contro se stessi perché si è da soli (la memoria faceva comparire le immagini del film Into The Wild), lo sforzo fisico (4000 km in bici con pochissime cose al seguito) e un personaggio che nel bene o nel male si è reinventato, che ispira semplicità oltre che l’essere buoni, spontanei, senza doppie facce, e inoltre non uno sportivo (nel senso di agonista) che compie qualcosa di molto sportivo (10 ore al giorno di pedalata circa)…tutte cose che affascinano.

Eppure non sono riuscito ad andare oltre il 7° episodio. All’inizio è affascinante, ti immergi nel suo viaggio, sembra che stai pedalando con lui, senti la fatica, lo spirito di adattamento. Ma poi perde lo smalto, Lorenzo è un continuo “ma come è bella sta cosa”, “la bici e il mezzo più bello per viaggiare” e lo spirito un po’ banalotto, un po’ populista che è (da sempre) in lui prende il sopravvento. Nel primo episodio mi aveva illuso, ricordando l’amico Pantani, citando Terzani…sembrava davvero un viaggio oltre che fisico, della mente…un’apertura di orizzonti non solo fisici. Poi è caduta la noia, dei luoghi si racconta poco, pochissimo contatto con le persone del posto (l’incontro con la biker settantenne è commovente), l’amico Gus (quasi muto) di viaggio che si aggiunge in corsa e a cui Lorenzo dice sorridendo “sono il tuo filosofo preferito”. E lì ho deciso di staccare la spina. Se si voleva percorrere la trama del viaggio della mente tantissime erano le tematiche che si potevano toccare, ma quello di Jovanotti è solo un viaggio in bici, diviso per tappe, fatto da un non ciclista. Niente di più.

P.S. Se percorrendo lo stesso itinerario, nel pieno del deserto, doveste trovare delle bucce di banana sappiate che erano le sue, opportunamente lanciate e lasciate lì.

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06th Apr2020

Ecco perché non daremo spazio ad iniziative #lamusicanonsiferma

by Marcello Zinno
Sicuramente la musica sta vivendo un momento difficile, ma non solo la musica. Dopo qualche giorno di titubanza dall’inizio dell’emergenza Covid-19 abbiamo deciso di prendere una posizione netta, che probabilmente sarà criticata ma non per questo abbiamo cambiato idea. Anzi vorrei parlare in prima persona, perché voglio prendermi la piena responsabilità di questa decisione, in cui non ho coinvolto gli altri redattori di RockGarage. Non daremo spazio ad iniziative #lamusicanonsiferma ed eventi simili, ma la decisione non è perché non vogliamo dare sostegno alla musica (che in questo periodo ne ha pure molto bisogno) ma per i seguenti motivi.

1. La numerosità di queste iniziative. Innanzitutto ne arrivano tantissime, ne riceviamo circa 10 al giorno. Molte arrivano da band che ci conoscono e seguono da tempo, altre da persone che non conosciamo. Questo sostegno ci fa piacere ma non potremo dare spazio a tutti e non vogliamo fare torto a nessuno, soprattutto non vogliamo far credere che diamo spazio solo agli artisti che conosciamo da tempo, secondo una logica in stile “parentopoli” che non ha MAI contraddistinto il nostro onesto lavoro.

2. La genuinità di queste iniziative. La numerosità è un problema ma non il principale, sul web abbiamo spazio infinito (a differenza delle riviste cartacee), quindi se si volesse si potrebbe “fisicamente” dare spazio a tutti. Io tendo sempre a ragionare in buona fede e pensare che queste iniziative siano spontanee e altruistiche, ma è probabile che non sia sempre così. Il desiderio di avere un po’ di visibilità, di sfruttare la situazione per avere qualche view in più, è una tentazione fin troppo forte sia per le band che per altre webzine. Siccome non abbiamo gli strumenti per riconoscere le iniziative oneste dalle altre, RockGarage non correrà il rischio di farsi promotrice di iniziative create per scopi puramente personali.

3. Il nostro ruolo. Ogni webzine ha una linea editoriale ed è conosciuta per un suo ruolo ben preciso: non siamo tutte uguali! Ci sono alcune che puntano sulle interviste video alle band, altre che pubblicano 15-20 news al giorno, altre che vivono di gossip musicale. Noi siamo conosciute per le nostre recensioni, quanto più possibile oggettive e scritte da appassionati esperti, non a caso abbiamo anche dei Redattori Speciali che vengono direttamente dal mondo della musica. Questo è il nostro ruolo, lo spazio che “ci siamo creati” dopo anni di lavoro e intendiamo continuare in questa direzione anche in questo periodo, soprattutto in questo periodo. Credo che in questo modo ognuno supporta la scena, facendo ciò che sa fare meglio.

4. L’assenza dello Stato. Questo forse è un off-topic, non riferito all’ambito puramente musicale. Ma io sono stanco di vedere interi movimenti che partono sempre dal basso per aiutare chi viene colpito da sciagure. Subito dopo un terremoto iniziano le raccolte fondi per la ricostruzione, arriva un virus e ci viene chiesto di donare soldi per la protezione civile e gli ospedali, non ci sono soldi per risanare i danni di catastrofi naturali e si mette mano nella tasca del cittadino con patrimoniali o altre tasse…ma lo Stato dov’è? C’è solo nel vietarci di uscire di casa?! Lo Stato è molto puntuale quando ci chiede il rispetto delle regole, quando dobbiamo pagare le tasse, quando dobbiamo rispettare la complessa burocrazia per ottenere un foglio di carta con una dichiarazione di cui abbiamo diritto. E dov’è quando c’è bisogno del sostegno economico degli ospedali, delle persone più colpite, di chi non sta lavorando e non ha soldi? Mi sembra un rapporto iniquo così.

Ultima considerazione. In questa situazione io credo che i più colpiti da questa crisi non siano le band (la maggioranza dei musicisti ha un altro lavoro) ma i locali e gli organizzatori di eventi. La stagione estiva è alle porte e se l’emergenza non dovesse rientrare, e i concerti riprendere, saranno loro i più colpiti economicamente. Il nostro augurio è che da questa esperienza si possa imparare qualcosa, costruire un nuovo rapporto tra band e locali/organizzatori non più basato su ripicche e negoziazioni (“quanta gente mi porti?” “50€ in più di cachet altrimenti non suoniamo”), ma su collaborazioni reciproche volte a far lo stesso interesse della musica, cioè che essa abbia luogo. Perché la musica ha bisogno di tutti noi.

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