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26th Feb2019

Cantanti, Musicisti e Rock Band – I 100 film più belli

by Piero Di Battista
Ok sarò scontato: cinema e musica hanno sempre avuto un forte legame. Quanti film ci ricordiamo, magari solo pensando alla colonna sonora? E quante colonne sonore hanno ricevuto i più importanti riconoscimenti? Pensiamo a Ennio Morricone nei western movie di Sergio Leone o a Beethoven in Arancia Meccanicadi Stanley Kubrick. Di esempi possiamo trovarne a centinaia. Ignazio Senatore, psichiatra, psicoterapeuta e critico cinematografico, con alle spalle numerose pubblicazioni su attori e registi, ha realizzato un libro, intitolato Cantanti, musicisti e rock band – i 100 film più belli, pubblicato tramite Arcana, il cui intento è proprio quello di raccontare quanto la musica sia stata importante per il cinema e viceversa. Il libro racchiude 100 schede di film musicali, accompagnate dalla trama, da alcuni dialoghi significativi presenti nella pellicola, e soprattutto da un dettagliato elenco dei brani che ne fanno parte.

L’autore non fa distinzione di generi; l’approccio verso l’idea è a 360°, senza alcuna distinzione, parlando di rock, di musica classica, di punk, di jazz, senza cadere nel solito snobismo che spesso accompagna questo genere di opere. Sono dunque trattati sia le monografie (tra i tanti vengono citati Elvis Presley, Sid Vicious dei Sex Pistols, Ian Curtis dei Joy Division) ma anche i “musicarelli” nostrani con Little Tony o Gianni Morandi. Il libro è indubbiamente di forte interesse, in particolare per gli amanti di queste due forme d’arte, a maggior ragione per chi le ama alla stessa maniera. Seppur all’apparenza possa sembrare troppo didascalico non vengono tralasciati aneddoti o particolari; le schede si legano in maniera omogenea l’una con l’altra creando una giusta scorrevolezza nella lettura. Non resta altro che consigliare questo libro, lasciandovi con una chiosa dell’autore: “…brani che non solo hanno segnato la storia della musica…ma hanno contribuito a cambiare gusti e costumi di una società in continua evoluzione”.

Category : Articoli
Tags : Libri
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26th Feb2019

Anti-Flag in Italia a maggio

by Marcello

Gli Anti-Flag non riescono a fermare i loro impegni live e sono pronti a tornare in Italia per esibirsi su palchi importanti, anche grazie ai riscontri dell’ultimo album della band, American Fall, uscito nel 2017. L’appuntamento è per il 14 maggio 2019 al HT Factory di Seregno (MB).

Category : Articoli
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07th Feb2019

Death In June. Nascosto tra le rune

by Cristian Danzo
I Death In June(nonostante il plurale sia alquanto improprio, trattandosi essenzialmente di una one man band ormai da svariati anni) sono quelle creature atipiche che il mondo del rock partorisce nel suo sottobosco, che acquistano lo status di cult e che vanno avanti indefesse nell’underground per decenni, supportate da uno zoccolo duro di fan storici e dalle nuove generazioni che, entrate al fianco di questi, continuano ad alimentare il mito. Douglas Pearce è il mentore ed il creatore di questo particolarissimo progetto che lo vede solitario dal 1985 in poi. Aldo Chimenti ne scrive per Tsunami in Death In June. Nascosto Tra Le Rune dando voce diretta a Pearce ma non solo. Il cappello introduttivo che vede l’analisi della carriera pre Death In June del musicista è fondamentale per capire come l’inglese poi darà vita alla sua creatura e a tutta la poetica e le tematiche che creeranno l’universo attuale del progetto. Complicatissimo per i temi affrontati, per l’iconografia con cui si presenta e con cui accompagna i suoi album, per il modo di presentarsi sul palco. E’ per questo che la voce diretta del musicista è importantissima e svolge una parte rilevante del libro.

Ma non solamente. I testi di ogni album vengono eviscerati a fondo dall’autore che narra anche le esperienze in prima persona vissute durante i live. La parte che ha creato più controversie a Pearce è proprio quella iconografica: tacciato di fascismo da più parti in tutto il mondo, il musicista in realtà usa simboli controversi partendo da altre matrici culturali rispetto a quelle che i suoi contestatori gli rinfacciano da sempre e nel libro tutto ciò viene spiegato molto bene, ripetuto più volte per ricordare al lettore i motivi di certe scelte che fanno emergere quanto la società odierna si fermi solamente ad una questione visiva, senza approfondire troppo, ciò a cui si trova di fronte dando vita a sterili polemiche ed anche a marce inutili per avere forse la coscienza pulita e trovare un posto alla ribalta della notorietà passeggera e fulminea che venne predetta in maniera sorprendente da Andy Warhol.

Un libro che va a colmare un vuoto su uno degli artisti più importanti dell’underground rock moderno, di cui in Italia c’era assoluto bisogno, secondo il nostro parere, per un solo e semplice motivo: la conoscenza e l’approfondimento serio di correnti ed artisti poco conosciuti o non calcolati dai media. Da quando è esplosa in maniera molto evidente l’editoria musicale anche da noi (basti vedere gli scaffali di qualsiasi grande libreria da 20 anni a questa parte per accorgersi di come gli stand dedicati abbiano invaso sempre più consistenti spazi) le opere cartacee sui grandi nomi sono spuntate a bizzeffe. Tsunami, oltre che andare a coprire un vasto settore che altrimenti non avrebbe voce nella nostra penisola (il metal in tutte le sue svariate correnti), ha dato alle stampe anche opere come questo libro che soddisfano i lettori con palati fini e finissimi, affrontando anche temi scottanti e dando voce ad artisti cosiddetti “di nicchia”.

Il libro ha avuto tre edizioni, le prime due in 1000 copie con CD in allegato. La terza edizione del 2012 è una ristampa in un numero limitato di 299 copie.

Category : Articoli
Tags : Libri
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01st Feb2019

The Who. A little million memories. Ricordi di una rock’n’roll band

by Raffaele Astore
Se si vuole conoscere un po’ della storia del rock, passare attraverso i lavori degli Who e da questo libro è assolutamente necessario, anche per tutto il materiale inedito in esso contenuto. Gli Who sono da sempre considerati tra le band più influenti nella storia della musica rock grazie anche al loro approccio di natura progressive ai suoni, quasi sempre aggrediti con maestrìa. Basti a ciò pensare ad opere musicali mastodontiche come lo sono state Tommy e Quadrphenia che hanno contribuito ad aprire nuove strade sulle quali si sono cimentati artisti come David Bowie con il suo The Rise And Fall Of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars, i Genesis con The Lamb Lies Down On Broadway ed ancora The Wall dei Pink Floyd o Thick As A Brick dei Jethro Tull. Ma sono stati anche gli ispiratori e la maggiore influenza per band come i Jam così come il suono, in particolare nella forma live, ha influenzato band come i Green Day ed altre ancora. La loro produzione musicale parte nel 1965 con The Who Sings My Generation e giunge al 2006 con Endless Wire ai quali si aggiungono tanti lavori solisti da parte dei vari membri che nel tempo si sono succeduti nella band di Pete Dennis Blandford “Pete” Townshend . Ma il loro maggior successo, quello che fece davvero esplodere tutta la gioventù inglese del tempo, fu quel My Generation un pezzo dove la band, rappresentando tutto il movimento mood del periodo, sfoga tutta la rabbia contro gli adulti in un modo davvero epocale fotografando così quella che era la loro attività musicale all’inizio della carriera.

Gli Who, per fortuna dei pochi che hanno avuto il modo di vedere uno dei loro concerti, hanno toccato il nostro Paese nel lontano 1967 con i concerti tenuti a Torino, Bologna, Milano e Roma, nel 1972 con il bellissimo tour di Who’s Next, e nel 2012 con il tour dedicato a Tommy, l’opera rock per eccellenza. E così ci sono stati anche scrittori che hanno voluto approfondire i vari lati di questa poliedrica band, tirando fuori dal cilindro libri come The Who. Pure And Easy. Testi Commentati di Eleonora Bagarotti pubblicato nel 2015 o The Who E Roger Daltrey In Italia del 2016, a cura di Antonio Pellegrini. Ora, a distanza di tanto tempo gli Who tornano ad essere oggetto di analisi grazie al bel volume, edito da Arcana Edizioni, pubblicato nel 2018 e scritto da Edoardo Genzolini, The Who. A little million memories. Ricordi di una rock’n’roll band che con un’analisi ed un approfondimento non usuale analizza quello che è il periodo di maggior crescita artistica della band londinese, quello compreso tra il 1967 ed il 1974, passando attraverso i vagiti della prima formazione, Hight Numbers, la morte di Keith Moon il grande batterista deceduto a Londra il 7 settembre del 1978.

Il volume, che va letto attentamente anche per capirne i risvolti storici dei movimenti londinesi che si andarono man mano sviluppando intorno al mondo degli Who, è composto da materiale inedito, scatti fotografici unici, pagine di diari privati e racconti di giornate passate in compagnia della band. Tutto ciò comunque è raccontato attraverso episodi unici di particolare interesse come la loro partecipazione al famoso concerto che aprì un’epoca, quello di Woodstock, concerto tenuto insieme ad un’altra grande band come i Led Zeppelin, e tanto altro ancora. Quello che maggiormente risalta in questo libro è il racconto della loro grande disponibilità con i fan ai quali si sono rivolti sempre con rispetto ed affetto a differenza di altre gloriose band che il rapporto con i propri fan lo vivono distaccatamente. Per chi ha amato ed ama ancora gli Who, il libro di Genzolini The Who. A little million memories. Ricordi di una rock’n’roll band è da non perdere assolutamente, ma è anche un’interessante lavoro valido anche per coloro che gli Who non li hanno mai conosciuti o ascoltati. Se si vuole conoscere un po’ della storia del rock, passare attraverso i lavori degli Who e da questo libro è assolutamente necessario, anche per tutto il materiale inedito in esso contenuto. Chi non lo fa non sa cosa si perde. Buona lettura e buon ascolto.

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28th Gen2019

Politics, la musica angloamericana nell’era di Trump e della Brexit

by Massimo Canorro
Gli appassionati di biografie musicali, magari più orientati a conoscere il cammino professionale e intimo (eccessi inclusi) dei propri beniamini, potrebbero trovarsi ben distanti da un saggio come questo. Ma con un pizzico di curiosità, accantonando per un attimo la tradizionale formula “sesso-droga-rock’n’roll” – oggi desueta – ecco che il volume Politics, la musica angloamericana nell’era di Trump e della Brexit scritto da Fernando Rennis diventa non solo una lettura interessante, ma quasi “necessaria” per capire meglio la capacità della musica di descrivere i mutamenti sociopolitici che attraversano un determinato periodo storico. Pubblicato da Arcana, Politics (266 pagine, 19,50 euro), la cui cover omaggia Banksy – una scelta questa particolarmente indicata, comunque la si pensi sullo street-artist di Bristol – affronta due eventi storici che hanno segnato, e continuano a farlo, le dinamiche sociali mondiali: l’elezione del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, candidato del Partito Repubblicano, e il referendum sulla Brexit, ovvero l’uscita del Regno Unito dalla Ue. Si tratta di due estremi che intersecano una serie di (ampie e complesse) problematiche legate alla questione razziale, al tema del gender nonché all’abuso di potere a sfondo misogino. E ancora, all’era della post-verità e alle risposte nei confronti degli attacchi terroristici internazionali.

Scrittore, musicista, conduttore radiofonico e autore per testate musicali su carta e online, Rennis cerca di analizzare il collegamento tra i fatti storici che stiamo vivendo da vicino – quasi in “loco”, considerando le opportunità offerte dalla rete – e una ricca e variegata produzione musicale che lega le due sponde dell’oceano Atlantico. Nell’introdurre Politics, il giornalista di Repubblica Ernesto Assante si domanda: “La musica è politica? Certamente sì, lo è sempre. Perché è legata a doppio filo alla nostra vita e alle nostre emozioni e, soprattutto, perché ogni volta che la ascoltiamo cambia la nostra vita, anche se solo per un paio di minuti”. Un passaggio importante del volume, è quando Rennis scrive che“a cambiare in questi anni così turbolenti non sono stati soltanto lo scenario politico e le modalità di fruizione della musica, è la musica stessa ad essere cambiata”. Niente di più vero. E in Politics l’autore approfondisce il tema di quella replica estetica e concettuale figlia di un passato “che va dalla controversa iconoclastia dei Sex Pistols alle ribellioni elettriche contro l’intervento in Vietnam di Jimi Hendrix, passando per le invettive politiche di Bob Dylan e le provocazioni anti-Thatcher degli Smiths”, riporta la quarta di copertina.

Ma chi sono, oggi, gli eredi di questa tradizione? Si tratta di artisti che “rivestono la canzone di protesta di nuovi significati, alla luce di un futuro che è già passato e diventa retromania, e cercano punti fermi per una società liquida segnata dalla crisi finanziaria del 2008”. Nomi e generi sono ovviamente citati nel testo, ma è bene che sia il lettore a scoprirli, anche andando oltre il “semplice” ascolto di una canzone, spesso fatto di sfuggita mentre lo passa la radio o una piattaforma. “Il mondo musicale angloamericano sta alimentando quotidianamente il dibattito sulle grandi questioni sociopolitiche con brani, album e dichiarazioni”, formalizza Rennis. Ed il confronto è più aperto e attuale che mai.

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22nd Gen2019

Intervista agli Holy Shire

by Piero Di Battista
In un pub di Milano, sorseggiando una birra, abbiamo incontrato Andrew Moon, chitarrista nonché storico membro degli Holy Shire, gruppo “fantasy metal” milanese. Attraverso quest’intervista Andrew ci ha parlato della loro ultima fatica discografica, e non solo, tra aneddoti e progetti futuri.

R.G.: Qualche mese fa è uscito il vostro nuovo disco “The Legendary Sheperds Of The Forest”; ci racconti un po’ la genesi di questo album?

H.S.: Il disco non è altro che l’espressione dello stato attuale, ma di un percorso che inizia molto tempo addietro. Come nasce l’album? Nasce dall’apporto di tutta la band, tieni conto che la nostra line-up può considerarsi variabile, da 6 a 8 elementi, attualmente siamo in 7 perché il tastierista ha lasciato il gruppo a causa di motivi familiari. Una cosa che mi piace molto della nostra band è il fatto che tutti siano coinvolti nella scrittura, ed è molto bello perché rende ognuno di noi indispensabile al progetto. I brani possono nascere da un riff provato in studio, da un riff provato a casa, ma anche da una bozza di testo, ad esempio nel disco c’è un pezzo che si chiama Ludwig, che è nato dall’interesse della nostra cantante Dragon per un personaggio storico particolare che è Ludovico II di Baviera, che è stato un re particolare, un po’ pazzo; ci piaceva questo personaggio, io a casa ho lavorato su un riff che ho portato poi in sala prove e da lì è nato il brano.

R.G.: Storia e fantasy, è dunque da questi argomenti che arriva l’ispirazione?

H.S.: Esattamente, ma anche dalla letteratura e dal cinema, tutto ciò che riguarda il mondo fantasy. Ti dirò anche che per il prossimo disco stiamo valutando l’idea di un concept, difatti abbiamo messo giù una lista di “opere” candidate ad essere protagoniste del futuro album degli Holy Shire. Tornando all’influenza che la storia ha su di noi, anche Danse Macabre nasce da qui, da un riff creato da me, e come l’ispirazione per il testo mi è arrivata da un dipinto del 1300 che raffigura una danza macabra tra morti e vivi al cospetto della morte nel giorno della fine dei tempi; il messaggio che ho tratto è che nella morte si è tutti uguali, non c’è ricchezza, malattia. Ho proposto il tutto alla band ed è piaciuto.

R.G.: Quindi si può dire che vi dividete un po’ le parti anche in fase di scrittura?

H.S.: Sì, si cerca sempre di trovarci tra noi senza il prodotto finito, in modo tale che tutti possano dare il proprio contributo creativo, è anche successo di rivisitare parti che qualcuno di noi aveva creato in precedenti progetti musicali.

R.G.: È molto significativo questo, per lavorare in questa maniera ci vuole una grande coesione tra tutti i membri della band, giusto?

H.S.: Guarda, sulla scrittura dei pezzi andiamo piuttosto lisci, c’è molta collaborazione e unione di intenti tra noi, nonostante siamo molte teste pensanti. Tra noi c’è molta armonia anche perché tra alcuni c’è una collaborazione che parte da parecchio tempo prima, tra me, Dragon e The Maxx (batterista, ndr) che siamo i membri più “anziani” della band. Logico che le discussioni non mancano, però tutti quanti ci concentriamo sul focus della band. Gli Holy Shire sono come una monarchia costituzionale; tutti quanti abbiamo la parola, e spesso, per prendere alcune decisioni, andiamo a votazione. Quando però eravamo in numero pari la parola ultima spettava a The Maxx, leader e fondatore del gruppo.

R.G.: La matrice folk, e non solo quella, sembra molto più evidente rispetto al passato, e di conseguenza si fa fatica a definirlo un disco semplicemente metal, concordi?

H.S.: Guarda, quella del genere è un po’ la nostra croce; ad esempio quando leggiamo le recensioni dei nostri dischi veniamo catalogati ed etichettati su più generi o stili, volendo fare una battuta si può dire che siamo un problema per chi scrive di noi, ad esempio veniamo definiti power, symphonic eccetera. Come già detto, il nostro intento principale è quello di dare un’atmosfera fantasy al nostro sound, ma non cerchiamo e non vogliamo essere catalogati in un unico genere.

R.G.: A proposito di recensioni, che riscontri avete ottenuto sul disco?

H.S.: Ci piace molto leggere le recensioni, e siamo dell’idea che non farlo sarebbe una mancanza di rispetto verso chi ha speso del tempo per ascoltare il disco, e scriverci su. Una buona parte sono positive, ma ci sono comunque molti pareri contrastanti; magari una canzone elogiata da una webzine viene criticata negativamente da un’altra, ma questo sta nel gusto di chi scrive. Oppure magari chi è musicista si concentra di più sull’aspetto tecnico, differentemente invece dal “semplice” ascoltatore.

R.G.: Il disco è stato poi presentato lo scorso ottobre al Legend Club di Milano, com’è andata la serata?

H.S.: È andata alla grande, siamo molto legati al Legend, è un ottimo locale dove suonare soprattutto da quando hanno ristrutturato il palco e gran parte della struttura. Conosciamo molte persone che ci lavorano e per noi è sempre un piacere suonarci.

R.G.: E a proposito di live, nel disco sono presenti degli arrangiamenti parecchio articolati. Prevedete di utilizzare delle basi in ambito live?

H.S.: Sì usiamo le basi, come facciamo da un po’ di tempo a questa parte; pur avendo il flauto traverso ci mancano i violini, i corni, insomma la parte orchestrale che per il nostro sound è di vitale importanza, e quindi usare le basi diventa per noi tassativo. Che poi, in generale, le basi stanno diventa un po’ una costante in parecchi show, per noi, come già dicevo, sono fondamentali e danno a chi viene ai nostri concerti la sensazione di poter gustare anche i minimi dettagli e particolari del nostro sound.

R.G.: Immagino che vogliate puntare anche al mercato estero, giusto?

H.S.: Sì assolutamente, l’estero è il sogno di tutti. Continuiamo a guardarci sempre attorno, magari puntando a quei Paesi dove magari il nostro genere viene più percepito rispetto a quanto accade qui in Italia, dove il metal spesso viene ancora considerato come un genere di nicchia.

R.G.: Una curiosità: in passato avete suonato nel carcere di Bollate, che esperienza è stata?

H.S.: Sì, è successo nel marzo 2011; è nata grazie al nostro ex-flautista Alessandro Baglioni, che saluto con affetto, che aveva un contatto che lavorava all’interno della struttura. Tramite questo contatto siamo venuti a conoscenza del fatto che all’interno c’era anche la possibilità di poter suonare dal vivo; ci siamo proposti e la nostra domanda è stata accettata. Abbiamo suonato in una sala molto grande davanti ad una platea di circa un centinaio di detenuti, uno di questi ha fatto anche da fonico. È stata una situazione bella, molto intima. Ricordo con piacere anche il post-concerto, dove ci siamo messi a chiacchierare con queste persone, che ci chiedevano del gruppo, ma anche di cosa ci occupavamo nel privato. Una aneddoto curioso riguarda il nostro ex-tastierista , che disse loro di lavorare in banca ed uno dei reclusi fece una battuta da standing-ovation, ovvero “dicci quale, così veniamo a trovarti!”.

R.G.: Il prossimo anno sarà il 10° anniversario per gli Holy Shire; avete in previsione qualcosa di particolare?

H.S.: In anteprima non posso dirvi nulla perché le grosse bombe ce le siamo giocate con questo disco. Le idee non ci mancano, ma buona parte sono rivolte ad un nuovo disco. Nel frattempo suoneremo molto quindi invito i nostri fan a non mancare ai nostri show!

R.G.: Grazie dell’intervista Andrea, vuoi mandare un saluto?

H.S.: Grazie a voi! Un saluto ai lettori di RockGarage dagli Holy Shire!

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08th Gen2019

Top Album 2018

by Moderatore
Anche il 2018 si è concluso ed è il momento che dal nostro osservatori fisso sulla scena musicale nazionale ed internazionale si estraggano le uscite più interessanti di quest’anno. Un 2018 particolare, per alcuni versi l’avvento del digitale sta conquistando spazio e le uscite in formato fisico sono marginalmente diminuite. Nel complesso abbiamo registrato un piccolo calo di qualità rispetto al più fruttuoso 2017 ma anche quest’anno sono state comunque tante le uscite degne di nota. Noi di RockGarage abbiamo pubblicato 734 recensioni, di cui 521 sono state nuove uscite quindi album appartenenti agli ultimi dodici mesi. Abbiamo, come di consueto, predisposto le nostre classifiche dei migliori 10 album dell’anno suddivise per redattore in modo che i più curiosi potranno scoprire molte più release (e magari conoscerci anche meglio) oltre alla novità lanciata l’anno scorso, la best artwork, ovvero il premio per la migliore copertina perché ormai le grafiche stanno diventando dei veri e propri capolavori.

Come noterete le classifiche sono molto diverse e riflettono gli ascolti di tutti. C’è però qualche uscita che si ripete più di una volta…ma non vi sveliamo la sorpresa!

Classifica di Marcello Zinno:
1. Don Broco – Technology
2. Overture – Overture
3. Be The Wolf – Empress
4. Universound – Elefunk
5. Thundermother – Thundermother
6. Misfatto – L’uomo Dalle 12 Dita
7. Küenring – Küenring
8. Art Against Agony – Shiva Appreciation Society
9. Colonnelli – Come Dio Comanda
10. Wandering Vagrant – Get Lost

Best artwork: Venom – Storm The Gates
Classifica di Trevor (Sadist):
1. Judas Priest – Firepower
2. Saxon – Thunderbolt
3. Monstrosity – The Passage of Existence
4. Hate Eternal – Upon Desolate Sands
5. Deicide – Overtures of Blasphemy
6. Obscura – Diluvium
7. Aborted – Terrorvision
8. Voivod – Wake
9. Gorod – Aethra
10. Metal Church – Damned if you Do

Best artwork: Hate Eternal – Upon Desolate Sands”
Classifica di Aldo Pedron:
1. Bettye Lavette – Things Have Changed
2. Ry Cooder – Prodigal Son
3. Jose’ James – Lean On Me
4. Jon Batiste – Hollywood Africans
5. Charles Lloyd & The Marvels Plus Lucinda Williams – Vanished Gardens
6. Beth Hart – Live At The Royal Albert Hall
7. Van Morrison – The Prophet Spreaks
8. Marianne Faithfull – Negative Capability
9. Dave Alvin & Jimmy Dale Gilmore – Downey To Lubbock
10. Alejandro Escovedo & Don Antonio – The Crossing
Classifica di Massimo Volpi:
1. Judas Priest – Firepower
2. Ghost – Prequelle
3. Clutch – Book Of Bad Decisions
4. Sigh – Heir To Despair
5. Black Label Society – Grimmest Hits
6. Haunt – Burst Into Flame
7. Amorphis – Queen Of Time
8. Immortal – Northern Chaos Gods
9. Sleep – The Sciences

10. The Inspector Cluzo – We The People Of The Soil

Best artwork: Ghost – Prequelle
Classifica di Massimo Canorro:
1. Myles Kennedy – Year Of The Tiger
2. Editors – Violence
3. Timoria – Viaggio Senza Vento – 25° Anniversario
4. Parkway Drive – Reverence
5. Jonathan Davis – Black Labyrinth
6. Slash featuring Myles Kennedy and The Conspirators – Living The Dream

7. Amon Amarth – The Pursuit Of Vikings: 25 Years In The Eye Of The Storm
8. Good Charlotte – Generation Rx
9. Phil Campbell And the Bastard Sons – The Age Of Absurdity
10. Architects – Holy Hell

Best artwork: Death SS – Rock ‘N’ Roll Armageddon
Classifica di Stedi:

1. Low – Double Negative
2. Idles – Joy (as an act of resistance)
3. Shame – Songs Of Praise
4. Oneida – Romance
5. Anna Von Hausswolff – Dead Magic
6. Dead Can Dance – Dionysus
7. The Breeders – All Nerve
8. Spiritualized – And Nothing Hurt
9. Ty Segall – Freedom’s Goblin
10. Mudhoney – Digital Garbage

Best artwork: Death In June – Seence


Classifica di Raffaele Astore:
1. Tom Petty – An American Treasure
2. Joe Satriani – What Happens Next
3. David Byrne – American Utopia
4. Jonathan Wilson – Rare Birds
5. A Toys Orchestra – Lub Dub
6. Neil Young – Tonight’s The Night Live @ the Roxy
7. Melvins – Pinkus Abortion Technician
8. Suede – The Blue Hour
9. The Winstons – Pictures At An Exibition
10. Jimi Hendrix – Both Sides Of The Sky

Best artowork: Suede – The Blue Hour
Classifica di Alberto Lerario:
1. The Clan – Here To Stay
2. V8 Wankers – Full Pull Baby
3. Sem E Le Visioni Distorte – Il Paese Delle Meraviglie
4. Disease Illusion – After The Storm (that Never Comes)
5. Street Dogs – Stand For Something Or Die For Nothing
6. A Perfect Circle – Eat The Elephant
7. Pennywise – Never Gonna Die
8. The Interrupters – Fight The Good Fight
9. Bonfire – Temple Of Lies
10. Judas Priest – Firepower

Best Artwork: A Perfect Circle – Eat The Elephant
Classifica di Fabio Loffredo:
1. Queen – Bohemian Rhapsody
2. Uriah Heep – Living The Dream
3. Jason Becker – Triumphants Hearts
4. Muse – Simulation Theory
5. Nita Strauss – Controlled Chaos
6. All Traps On Earth – A Drop Of Light
7. 3.2 – The Rules Have Cahnged
8. Graham Bonnet Band – Manwhile Back In The Garage
9. Roine Stolt’s Flower Kings – Manifesto Of An Alchemy
10. Haken – Vektor

Best artwork: Jason Becker – Triumphants Hearts
Classifica di Piero Di Battista:
1. Parkway Drive – Reverence
2. Architects – Holy Hell
3. Rise Of The Northstar – The Legacy Of Shi
4. A Perfect Circle – Eat The Elephant
5. Judas Priest – Firepower
6. Myles Kennedy – Year Of The Tiger
7. Brain Distillers Corporation – Medicine Show
8. This Broken Machine – Departures
9. Alkaline Trio – Is This Thing Cursed?
10. I Ministri – Fidatevi

Best Artwork: A Perfect Circle – Eat The Elephant
Classifica di Igor Cuvertino:
1. Alter Bridge – Live At The Royal Albert Hall
2. Be The Wolf – Empress
3. Toundra – Vortex
4. Orange Goblin – The Wolf Bites Back
5. Caliban – Elements
6. Ministry -AMERIKKKANT
7. Soulfly – Ritual
8. Five Fingers Death Punch – And Justice For None
9. Behemoth – I Loved You At Your Darkest
10. Of Mice & Men – Defy

Best artwork: Therapy? – Cleave
Classifica di Ottaviano Moraca:
1. Judas Priest – Firepower
2. Corrosion Of Conformity – No Cross No Crown
3. Orphaned Land – Unsung Prophets & Dead Messiahs
4. Saxon – Thunderbolt
5. Kolyadin, Gleb – Gleb Kolyadin
6. Voodoo Circle – Raised On Rock
7. Spiral Key – An Error Of Judgement
8. Visigoth – Conqueror’s Oath
9. Audrey Horne – Blackout
10. Therion – Beloved Antichrist

Best artwork: Powerwolf – The Sacrament Of Sin
Classifica di Giuseppe Celano:
1. Sleep – The Sciences
2. Lonnie Holie – Myth
3. Uncle Acid and The Deadbeats – Wasteland
4. A Perfect Circle – Eat The Elephant
5. Goatman – Rhythms
6. Spain – Mandala Brush
7. Emma Ruth Rundle – On Dark Horses
8. The Myrrors – Borderlands
9. Jimmy LaFave – Peace Town

Best artwork: Satori Junk – The Golden Dwarf
Classifica di Alessio Capraro:
1. Arctic Monkeys – Tranquility Base Hotel & Casino
2. Jack White – Boarding House Reach
3. Judas Priest – Firepower
4. Mudhoney – LiE
5. The Smashing Pumpkins – Shiny and Oh So Bright, Vol. 1 / LP: No Past. No Future. No Sun.
6. Interpol – Marauder
7. Suicidal Tendencies – Still Cyco Punk After All These Years
8. The Wonder Years – Sister Cities
9. A Perfect Circle – Eat the Elephant
10. David Byrne – American Utopia

Best artwork: Tropical Fuck Storm – A Laughing Death in Meatspace
Category : Articoli
Tags : Top Album
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17th Dic2018

Il mondo del Rock raccontato dal Prof. Garage: Whiskey In The Jar

by Ottaviano Moraca

Prof Garage docente di storia del rockIl Prof. Garage è docente di Storia del Rock all’Università della Musica ma nelle sue lezioni non si parla solo di arpeggi e controtempi o di assoli e groove. No, il Rock ormai e ben più di un genere musicale, è anche un’attitudine mentale e, per alcuni, persino una stile di vita. Ecco perché il Prof. Garage, a bordo del suo furgoncino sgangherato, si aggira tra luoghi, eventi, aneddoti e soprattutto persone che in qualche modo hanno contribuito a creare la scena Rock come la conosciamo oggi. Salite a bordo e godetevi il viaggio!

Rockofili e Rockofagi di ieri e di oggi, dopo aver durato la fatica di assimilare l’ultima discografia di cui abbiamo parlato a questa pagina e aver assistito a tante aspre sfide, vi meritate proprio un po’ di relax. Siccome per svagarsi non c’è niente di meglio di una bella storia, sto per raccontarvene una speciale che inizia nel fantastico e verdeggiante entroterra irlandese. Proviene da lì la ballata popolare che ha dato i natali al brano di cui ci occuperemo oggi: Whiskey In The Jar.

Gli esperti la fanno risalire addirittura al diciottesimo secolo ma a noi interessa solo da quando ha incontrato il rock, dando vita ad un brano leggendario che, in decine di incarnazioni diverse, ha attraversato praticamente tutta la storia del nostro genere preferito. Vale certamente la pena di spendere due parole per spiegare il motivo di tanto successo. Innanzi tutto il testo parla di un personaggio affascinante: un fuorilegge non poi troppo dissimile da Robin Hood che, prima di essere ingannato dalla sua compagna, rapina un militare…o un ufficiale di volta in volta appartenente a schieramenti diversi a seconda della versione. In ogni incarnazione del brano comunque a seguito del tradimento di lei alla fine i due antagonisti si incontrano, anzi scontrano, di nuovo al Nostro eroe, eventualmente avendo la meglio, viene fatto prigioniero. Quello che più conta però sono le simpatie che il personaggio scanzonato e irriverente portò alla canzone consentendole addirittura di attraversare l’oceano. I coloni statunitensi ne apprezzarono infatti il tono beffardo e derisorio fornendo terreno fertile per ulteriori rivisitazioni, naturalmente ambientate tra i loro confini.

Dal 1950 molti artisti importanti ne fecero un cavallo di battaglia ma Whiskey In The Jar ebbe grande visibilità per la prima volta negli anni sessanta grazie ai Dubliners, famosissima folk band di Dublino (non ve lo aspettavate, vero!?) molto in voga in quel periodo. Nel 1972 dalla stessa città arrivò infine la prima versione rock per mano dei Thin Lizzy. La loro tipica mistura di blues, rock psichedelico, country e folk irlandese era lontana dalla embrionale scena heavy metal a cui molti tendevano in quel periodo e diede al brano una voce nuova e diversa. In Irlanda Whiskey In The Jar, che per ironia del destino era stata pubblicata all’insaputa della band, schizzò al primo posto delle classifiche di vendita, entrando persino nella top ten inglese e rimanendo così definitivamente impressa nella storia. A renderla un classico immortale ci hanno poi pensato le tante cover che ne sono state realizzate da artisti anche di immensa caratura. Tra questi vanno citati perlomeno i Simple Minds, gli U2 e l’indimenticato Gary Moore.

Non è tutto: come abbiamo detto il seme di Whiskey In The Jar era già stato piantato anche dall’altra parte dell’oceano. A testimonianza che nemmeno lì venne mai dimenticata, arrivò nel 1998 un nuovo capitolo di questa storia firmato niente di meno che dai Metallica. Scommetto che, se non avete almeno qualche capello bianco in testa, avete conosciuto Whiskey In Tthe Jar in questa versione e magari neanche sapevate si trattasse di una cover. E’ una svista comprensibile, diciamo da penna blu, perché la cover realizzata dai Nostri è così ben confezionata da riuscire nell’arduo compito di riprendere lo spirito originale del brano fondendolo al contempo con lo stile inconfondibile della band. Un mix perfetto che infatti valse al gruppo innumerevoli consensi e anche un Grammy per la miglior interpretazione hard rock.

Da allora molti altri si sono cimentati nel reinterpretare, in generi anche molto differenti, Whiskey In The Jar. Queste cover hanno avuto diverse fortune ma tutte hanno contribuito a renderla speciale, una sorta di pietra miliare nel cammino del rock che non potevamo proprio ignorare. Certamente questa storia non termina qui, e infatti non mancheremo di seguirne gli sviluppi, ma nel frattempo a tutti voi va il mio augurio di non finire mai il vostro… whiskey! Follow the Professor!

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04th Dic2018

Hard Rock Emotions

by Giancarlo Amitrano

Hard Rock Emotions libroDi libri sulla musica ne sono stati scritti a bizzeffe. Di quelli dedicati al rock ve ne sono a iosa; quelli che hanno trattato il beneamato hard’n’heavy forse sono ancor più numerosi. Eppure, ben pochi possono vantarsi di coinvolgere il lettore in un’avventura non alla portata (delle orecchie) di tutti: occorre una scrittura fluida, che appassioni chi legga e lo tenga incollato alla sedia durante la lettura, lo renda curioso di sapere cosa lo attende alla pagina successiva. Tutto questo lo riscontriamo, signore e signori, nel volume del nostro amico e connazionale (tra tanti luminari stranieri della penna…) Silvio Ricci: in un crescendo quasi “wagneriano” ci tuffa letteralmente tra i vortici di un genere musicale come detto non nelle corde di tutti, con semplicità quasi disarmante, da narratore consumato. Non limitandosi alla fredda esposizione di nomi, date ed album, l’autore si concede anche il lusso ( e la capacità) di restare asettico e coinvolto al tempo stesso nella narrazione di fatti probabilmente già noti in linea di massima (sempre per gli addetti ai lavori) ma aggiungendovi di suo la partecipazione emotiva durante lo snodarsi del racconto, rendendo chi legge perfettamente partecipe degli eventi, senza tediarlo con noiose e sterili classifiche all-time o best-of, come spesso capita di imbattersi in letture di critici musicali sulla carta ben più titolati.

Confessa, chi scrive, di essersi emozionato e anche commosso nel ripercorrere gli eventi felici e spesso tragici dei protagonisti del libro che l’autore elenca con intensa partecipazione, stringata e forse proprio per questo ancora più coinvolgente, tale da indurre chi legga ad approfondire quanto appena appreso. Non è da tutti, lo si diceva, riuscire ad accalappiare l’attenzione al proprio scritto, specie quando trattasi di argomenti “scabrosi” come il variegato mondo a cilindrata rockeggiante; correndo il rischio di apparire pedante, chi si occupa di tal genere deve tener sempre ben a mente che la linea di demarcazione tra l’esaltazione ottusa e la stroncatura altrettanto evidente è molto sottile. Non è incorso certamente in questo equivoco il Nostro, che con perizia e partecipazione onesta, semplice e diretta, riesce a far in modo che chi legge alla fine del libro non abbia perso la memoria di ciò che ha appena catturato la sua attenzione, inducendolo probabilmente anche ad effettuare riflessioni personali su quel che ha letto e stimolandolo quindi a formarsi delle conseguenziali opinioni in merito, specie se si trattasse di giovani che per la prima volta decidano di accostarsi ad un universo (quello hard rock e dintorni) composito ed ammaliante.

Ben vengano, dunque, autori come il Nostro che, con onestà intellettuale non lesina usare il bastone e la carota alla bisogna, ma senza mai allontanarsi dalle linee guida che un buon scrittore deve sempre rammentare: una completa visione disincantata delle cose per ottenere una migliore ricapitolazione del tutto. Ed è ciò che, fortunatamente, ha compiuto Silvio Ricci nell’elaborazione del suo lavoro tipografico, riuscendo a cogliere l’essenza della sua coinvolgente cavalcata musicale, che di certo resta stampata nella mente (oltre che nel cuore) di chi ha letto questo bel volume.

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03rd Dic2018

Le leggende del Rock raccontate dal Prof. Garage: Death

by Ottaviano Moraca

Prof Garage docente di storia del rockIl Professor Garage è docente di Storia del Rock all’Università della Musica e siccome il rock è nato e cresciuto negli scantinati più decrepiti e sui palchi più fumosi non troverete la sua cattedra né in un prestigioso ateneo, né in qualche rinomata facoltà e nemmeno vicino a qualche polverosa biblioteca. No, le sue lezioni si tengono sulla strada dove, in perenne viaggio sul suo furgone sgangherato, è immancabile testimone della Storia del Rock. E queste sono le sue lezioni.

E’ già diverso tempo che non ci occupiamo più di Leggende del Rock ed è finalmente giunto il momento di interrompere il digiuno. Rockofili e Rockofagi di ieri e di oggi parcheggiamo momentaneamente le nostre Sfide (a questa pagina l’ultima puntata) per rispolverare le buone abitudini con un gruppo davvero speciale: i Death. Di loro non si può parlare senza addentrarsi un po’ nella vita di quello che ne è stato il fondatore e, per oltre quindici anni, il leader nonchè il frontman: Chuck Schuldiner. Classe sessantasette questo chitarrista e cantante newyorkese è considerato addirittura il padre del death metal e tutto questo, pensate, senza aver mai preso una lezione di musica! Personaggio davvero speciale perse in giovane età un fratello a causa di un incidente d’auto e riversò nella musica tutto il suo infinito dolore. E si sente. La leggenda vuole che da adolescente fosse solito passare molte ore al giorno nel suo garage in compagnia solo della sua chitarra e dei suoi amplificatori. Ed è proprio lì che nacque la prima incarnazione di quella che diverrà una band storica. Era il 1983 e il giovane Chuck muoveva i primi passi nel mondo della musica con i suoi Mantas. Ispirandosi all’allora effervescente scena thrash della Bay Area ne rielaborò gli stilemi attraverso la propria visione del metal estremo. Sebbene in versione ancora embrionale queste idee contenevano già tutti i geni di quella musica veloce, viscerale, lancinante e ferocissima che da lì a poco verrà chiamata death metal.

L’avventura con i Mantas durò poco e terminò quando il Nostro eroe sciolse il gruppo per fondare, praticamente con la stessa formazione, i Death. Ora ci vuole una doverosa precisazione: la musica di cui ci occupiamo oggi non è per tutti. Non solo perchè si tratta di death metal, quindi di un genere di per sé estremo, ma anche perchè all’interno di questa corrente la band di Schuldiner ne incarnerà la versione più tecnica e compositivamente complessa arrivando nel tempo ad abbracciare anche strutture progressive e jazz. Insomma riuscire ad apprezzare fino in fondo l’opera dei Death è un’impresa per molti ma non per tutti, con il concreto rischio di sottovalutare la musica di una compagine importantissima nel panorama metal mondiale. Già, perchè nell’eterna diatriba su chi abbia pubblicato il primo disco Death Metal della storia, io mi schiero dalla parte dei Death. Ovviamente il nome non c’entra nulla, l’annosa questione verte intorno all’album di debutto dei mitici Possessed del 1985. Intitolato Seven Churches precedette di un paio d’anni l’esordio di Schuldiner e compagni ma, a mio avviso, ha ancora troppe componenti thrash per aggiudicarsi questo primato, sebbene possa a buon diritto essere considerato l’anello di passaggio tra i due generi. Vale la pena di notare comunque come lo stesso Chuck abbia candidamente ammesso di essersi ispirato anche alla voce dei Possessed per confezionare il proprio stile. Schuldiner tra l’altro, con infinita modestia, ha di fatto sempre rifiutato la paternità del suo genere confessando di ritenersi soltanto un musicista metal in forza ai Death. Ora vi spiego perchè tale definizione è per lo meno riduttiva: lui non solo è il fondatore del gruppo, ma è anche l’unico componente stabile di una formazione che è cambiata praticamente ogni disco per soddisfare le esigenze del suo leader. Vien da sé che la direzione musicale intrapresa dalla band fosse indubitabilmente la sua.

In verità la storia è un po’ più complessa e racconta di un tour, disertato dallo stesso Chuck per ragioni organizzative, che venne portato avanti dagli altri membri del gruppo. Ovviamente questi signori poco lungimiranti si procurarono diverse grane legali e un biglietto di sola andata verso la porta d’uscita dalla band. Poco male, da lì in avanti lo stesso Schuldiner rinunciò all’idea di un gruppo a formazione fissa facendosi carico di tutte le decisioni e le responsabilità che ne seguirono. E andò bene tanto che, dall’esordio discografico del 1987 in poi, i dischi dei Death sono continuamente migliorati in un crescendo che ha davvero pochi eguali nella storia del metal. La perizia tecnica dei musicisti coinvolti nel progetto aumentò di pari passo con la pubblicazione degli album che infatti, come già sottolineato, si spostarono progressivamente verso lidi sempre più tecnici, al punto di creare un sottogenere specifico: il technical death metal. Questo non è però l’unico sintomo dell’evoluzione stilistica di Chuck. Con il tempo, più di una decade, l’aggressività viscerale degli esordi non si è minimamente affievolita ma ha trovato compagnia in una maggior propensione alla melodia che verso la fine sfocerà addirittura in alcuni sorprendenti ed avvincenti inserti acustici di grande impatto emotivo.

Purtroppo i gioielli della corona di casa Death sono soltanto sette. Vale dunque la pena di menzionarli tutti. Uno per l’altro hanno tutti contribuito a creare ed evolvere la scena estrema del metal mondiale e sono ampiamente in grado di lasciare qualcosa nell’animo di tutti quelli che faranno lo sforzo di capirli. Si inizia con Scream Bloody Gore del 1987 che, pur piantando la prima pietra miliare di un nuovo genere, presentava ancora l’immancabile ingenuità della giovinezza sotto forma di una produzione confusionaria e di testi ancora un po’ acerbi. Con il successivo Leprosy del 1988 arrivò la piena maturità espressiva e gli aspetti perfettibili si ridussero sensibilmente tanto che il prodotto finito venne giudicato dalla stampa e dai fan già di ottimo livello avviando di fatto il gruppo sulla strada della gloria. Seguì a breve distanza Spiritual Healing del 1990 in cui le tematiche si sposteranno verso la lotta alle ingiustizie e la denuncia delle storture nella società moderna, argomenti che da lì in avanti saranno un impegno costante della band. L’anno seguente, con una line up completamente rimodernata, arrivò l’album di maggior successo dei Death. Si intitola Human e portò in dote una marcata evoluzione stilistica, una maggiore complessità tecnica e testi più intimisti.

L’inesauribile creatività di Chuck non accennava comunque a diminuire e così in poco più di un lustro vide successivamente la luce Individual Thought Patterns nel 1993 che, figlio di un forte desiderio di sperimentazione, includeva anche il primo singolo della band ad entrare in rotazione su MTV. Seguirono il controverso Symbolic nel 1995, ricco di influenze anche esterne al mondo metal e l’ispiratissimo The Sound Of Perseverance nel 1998 in cui la lunghezza media delle composizioni si allungò notevolmente e che rimane a tutti gli effetti l’apice evolutivo del death metal di Schuldiner. Per tutti questi album l’accoglienza di critica e pubblico fu eccellente tanto che quasi ogni disco venne di volta in volta acclamato come il migliore che la band avesse mai rilasciato. Ovviamente le vendite andarono di conseguenza, sebbene si debba tener conto che i numeri prodotti da album come questi non possono essere nemmeno lontanamente paragonati a quelli di cui sono capaci generi più orecchiabili.

Proprio per questo la vita di un chitarrista/cantante death metal, per quanto geniale, non è quasi mai costellata di agi e ricchezze e sul finire del 2001 Chuck Schuldiner purtroppo si spense a causa di un tumore al cervello. Ridotto sul lastrico dalle costosissime cure, che dovettero essere in parte sponsorizzate anche da fan e colleghi, venne infine sconfitto dalla malattia lasciando un vuoto incolmabile nel cuore stesso del metal. Dal canto nostro non gli tributeremmo un adeguato omaggio se mancassimo di analizzare i motivi di tanta costernazione. Dal punto di vista musicale dovrebbe essere ormai chiaro che la sua idea visionaria e pioneristica della musica estrema aveva contribuito ad indirizzare una buona fetta delle band allora in circolazione, ma ci corre comunque l’obbligo di spendere almeno due parole sull’uomo dietro al musicista. Chuck Schuldiner, a dispetto dell’aggressività che esprimeva sui palchi e sui suoi dischi, fu un ragazzo sensibile e molto lontano dagli stereotipi del metallaro moderno. Certo, capelli lunghi, anfibi e chiodo non gli facevano difetto ma il sincero impegno sociale dei suoi testi, in contrapposizione alle tematiche gore/splatter di tanti colleghi, mostrarono al mondo del metal estremo che si potevano veicolare messaggi di spessore senza per questo annacquare la propria proposta. Di più: diede prova di come il metal estremo potesse anche fare del bene e avere una funzione ben al di là dell’espressione di brutale cattiveria.

Un altro aspetto difficilmente immaginabile era il suo amore per la vita: scelse il nome Death in ricordo del fratello deceduto perchè voleva che persino da quell’evento tragico nascesse qualcosa di buono e prese ampiamente le distanze dalle droghe pesanti, da tutti i movimenti dark/doom e satanisti, nonchè da qualsiasi atteggiamento autolesionista o anche solo vagamente inneggiante alla morte. Insomma questo ritratto ci restituisce l’immagine di un uomo positivo, lontano dal rocker tormentato e oscuro che ci si potrebbe aspettare. Un artista che sapeva ciò che voleva dalla propria musica e a cui interessava più il suo metal che il denaro o la fama. Insomma fu uno “vero”, sebbene a modo suo, anzi a maggior ragione per questo, perchè seppe lasciare un segno indelebile per originalità e personalità in un mondo tipicamente immune da qualsiasi influenza meno che trasgressiva. Passò in punta dei piedi e con gentilezza, ma con il volume dell’amplificatore al massimo, e per questo seppe farsi ben volere in un ambiente se non ostile nemmeno particolarmente accogliente. Il profondissimo impegno per migliorarsi costantemente e la forza delle idee impresse senza seguire le orme di nessuno furono la sua grandezza e il suo esempio e gli valsero l’ammirazione di fan e colleghi che infatti ancora lo piangono.

A titolo informativo vi segnalo che esiste anche un progetto parallelo, per vari motivi rimasto chiuso in un cassetto per molto tempo, che Chuck Schuldiner infine seguì nei suoi ultimi anni di vita. L’amore per il metal classico, mai rinnegato, lo portò a sperimentare la musica dei Death con un cantato più vicino all’heavy metal. Nacquero sotto queste premesse i Control Denied. Questa band pubblicò un solo album intitolato The Fragile Art of Existence, del 1999, a cui seguì anni più tardi una specie di raccolta postuma di materiale inedito, intitolato Zero Tolerance, che tra l’altro fu vergognosamente soggetto di una bieca disputa legale tra la famiglia di Chuck e la sua casa discografica. Musicalmente il tecnicismo che caratterizzò i Death si può ravvisare anche nei Control Denied, con cambi di tempo e intrecci ritmici intricatissimi, stavolta sorretti da un cantato melodico per un effetto finale davvero molto diverso, a testimonianza di un estro creativo non solo vasto ma anche molto versatile. Ad ogni modo anche i Control Denied, in cui hanno militato quasi gli stessi componenti dell’ultima incarnazione dei Death, rientrano a pieno titolo nell’eredità di un artista davvero illuminato.

Il mio consiglio per ogni amante del rock (ancorché estremo) è dunque quello di impiegare nell’ascolto il tempo necessario ad apprezzare la discografia dei Death e dei Control Denied tenendo a mente che si tratta di esempi unici nel panorama metal, non solo musicalmente, ma anche per quello che rappresentano. Ciao e grazie ancora Chuck. Follow the Professor!

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