Il nostro viaggio lungo due decenni: gli anni 80 e gli anni 90

Però, tutte quelle luci, tutti quei riflettori, nascondevano la paura di non farcela, di essere fuori luogo, di non essere all’altezza, in una società che stava uscendo prepotentemente dai tempi bui di fine anni 70. Purtroppo, gli Ottanta saranno soltanto una meravigliosa illusione, un’allucinazione visiva e uditiva, un universo contingente, proprio come nel mondo di Donnie Darko. Dunque, il successo dalla riuscitissima copertina del poppante in piscina fu fondamentale per la crescita della moda grunge. I Nirvana, in brevissimo tempo, divennero la band più famosa del pianeta, o giù di lì. Dopo il 1991, il grunge divenne pop, e con il termine pop si intende semplicemente popolare. E così, tutti gli altri vissero di luce riflessa, addirittura con potere retroattivo. Basti pensare allo stesso Bleach. Il sound underground di Seattle divenne una realtà importante, grazie al supporto della Sub Pop e delle radio locali, ma senza il mecenatismo delle major discografiche, probabilmente, le camicie dei boscaioli non sarebbero arrivate nemmeno a San Diego. I “grungettari” non erano accomunati da uno stesso genere, né da una stessa idea filosofica o modo di vestire. L’unico bene comune era Seattle. La cultura, la geografia, l’economia influiscono sempre e comunque sulle mode generazionali. Il grunge non indicava un genere, né un movimento. Indicava una moda. E, come diceva Gaber, quando è moda è moda, non importa la specificazione.
Nel video di Smell Like Teen Spirit, Kurt Cobain indossava una maglia a righe verde, sopra una maglia a maniche lunghe e un paio di converse distrutte: probabilmente voleva dirci che era uno di noi, era come tutti noi. Volevano essere tutti uguali e omologare la figura del musicista: siamo tutti uguali, siamo come voi, dicevano ai fan, rinnegando quindi l’edonismo delle rockstar eccentriche e viziate degli Ottanta. Alla fine, paradossalmente, finirono per diventare proprio come loro, ma senza la necessità primaria di voler apparire. E pensare che all’inizio, per i fan del metal non c’era alcuna differenza: tutti quei gruppi cosiddetti grunge venivano considerati heavy metal. Non a caso, alcune band di Seattle, alle fine degli anni 80, aprivano i concerti delle rock band famose di quel decennio: i Soundgarden sono stati gruppo spalla dei Guns N’ Roses, tanto per citare un esempio. Fatto sta che il Seattle sound rivoluzionò tutto: le band hair metal all’improvviso apparirono datate e i loro frontman ridicoli. Alla fine degli Ottanta l’heavy metal si schiantò come il Titanic: discografici e critici presero le vanghe e iniziarono a spalare fango sulle tombe e sui resti di tutte le band heavy metal di quel decennio, soprattutto quelle tutte lacca e spandex. I tempi, improvvisamente, erano cambiati.
Gli anni Novanta sono stati un bellissimo decennio per il rock, prolifico in ogni sua forma, e caratterizzati da alcuni eventi nefasti che, purtroppo, segnarono gli anni a venire: il suicidio di Kurt Cobain, il decesso del pilota di Formula 1 Ayrton Senna, a causa di un incidente durante il Gran Premio di Imola, la nascita di Justin Bieber, lo scioglimento dei Guns N’ Roses, il successo dei Linkin Park e dei Limp Bizkit, l’ascesa del black metal proveniente dalla Scandinavia, il boom commerciale di fenomeni da baraccone come Take That e Spice Girls, la musica techno, l’Italia sconfitta in finale di Coppa del Mondo ai calci rigori contro il Brasile, lo scandalo di tangentopoli e Silvio Berlusconi che scese in campo a capo della politica italiana. Non credo che i quattordicenni brufolosi e onanisti, negli anni 90, ascoltando le parole “Fuck you I won’t do what ya tell me“, pensassero veramente ai combattenti messicani dell’esercito di Zapata: forse urlavano quel testo semplicemente per ribellarsi ai compiti in classe. Del resto, lo sappiamo che gli adolescenti sono alquanto impressionabili. Negli anni 90, a mio modesto parere, i Rage Against The Machine sono stati la band più interessante e valida di quello scenario crossover rap metal, insieme a Faith No More e Red Hot Chili Peppers. Gli anni 90 vanno considerati anche dal punto di vista sociale, come decennio del declino della spiritualità e del sopravvento della cultura agnostica, per quanto si tendesse, nella maggior parte dei casi, a dichiararsi cristiani ad ogni costo.
La società stava cambiando e se ne erano accorti anche Melvin, Carol e Simon in Qualcosa è Cambiato. Nel frattempo, negli anni 90, le persone iniziarono a temere le droghe più del diavolo, poiché non erano più il male da cui fuggire, bensì la soluzione ai tormenti esistenziali. Basti pensare alla fine che hanno fatto i massimi esponenti dell’era grunge. E fu così che, come accade ciclicamente, musicisti, case discografiche, e artisti in generale, sfruttarono questo nuovo scenario a loro favore, trasformandolo in business. La depressione e le droghe divennero la reincarnazione post-moderna del diavolo, o Lucifero, chiamatelo come volete. E chi meglio di Marylin Manson riuscì a perfezionare quella nuova strategia di marketing? Nessuno meglio di lui, è la risposta pleonastica. È sufficiente pensare al successo dei suoi dischi Antichrist Superstar e Mechanical Animals. Marylin Manson e Liam Gallagher, in quel contesto, furono gli unici due a tenere ancora alto il vessillo del cliché della rockstar. Negli anni 90 lo scenario era questo: il tema predominante non era più l’edonismo dell’essere umano, bensì l’esaltazione del disagio e del conflitto interiore individuale nei confronti della società, quello che Hank Moody, davanti ad una pagina vuota, in sintesi, chiamerebbe sgomento. Si ritorna a trattare il tema della religione secondo la visione Marxista in cui la religione è l’oppio dei popoli, ed è sufficiente citare due brani come Lithium dei Nirvana e Opiate dei Tool, per dare l’idea.
Maynard, con la morte di Kurt Cobain, divenne man mano il nuovo messia della musica rock, il portavoce delle paure, dei tormenti interiori e della crisi d’identità dell’essere umano: allo stesso tempo, vittima e carnefice della sua condizione. L’equivoco dei Novanta fu che tutte le band alternative rock venivano etichettate come grunge, persino gruppi come i Blind Melon, band folk blues di ragazzi con abbigliamento anacronistico da figli dei fiori; oppure i Jane’s Addiction di Farrell e Navarro, antesignani dello sdoganamento del genere alternative rock già alla fine degli anni 80. Ero già maggiorenne quando gli Stone Temple Pilots uscirono per la prima volta in radio con Plush. Ricordo commenti del tipo “Ma cos’è? È il nuovo singolo dei Pearl Jam?”, “Ma chi sono? Un gruppo clone dei Pearl Jam?”. Personalmente non sono mai riuscito ad accostare la musicalità e l’immagine degli Stone Temple Pilots e di Weiland a ciò che rappresentò il grunge. Gli Stone Temple Pilots erano quasi anacronistici, sembravano una band hard rock degli anni ’80. Weiland è stato, invece, un frontman carismatico, un tossico del cazzo, un poeta triste e malinconico. Ma in fondo gli artisti come Weiland una volta che ti entrano dentro non escono più ed è per questo che rimangono immortali.
Per quanto mi riguarda, Interstate Love Song degli Stone Temple Pilots è stata la canzone più bella degli anni 90, e il compianto Scott Weiland è stato, a mio avviso, una delle voci più espressive ed emozionanti nel panorama rock, non solo degli anni 90. Però, se da un punto di vista culturale mi dovessero chiedere: “Qual è stato il disco più rappresentativo dei Novanta? e “Qual è stato l’evento più importante nel mondo della musica dei Novanta?” personalmente, senza dubbi, sarei portato a rispondere immediatamente Nevermind dei Nirvana alla prima domanda, ed il suicidio di Kurt Cobain alla seconda.