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24th Lug2019

Il nostro viaggio lungo due decenni: gli anni 80 e gli anni 90

by Andrea Musumeci
All’inizio degli anni 90, il suono di Seattle cominciò ad attirare l’attenzione dei giornalisti e degli amanti della musica alternativa: prese piede l’uso del termine grunge, tanto caro a Mark Arm, per definire quel sound sporco, ruvido, abrasivo, essenziale e diretto. Niente bella vita, alcool e donne, ma solo depressione, rabbia e odio: il manifesto di una generazione persa e disillusa. Gli anni 90 furono la rivincita dei cosiddetti “losers” ed il brano Loser di Beck divenne l’inno di quella generazione. Tanti Donnie Darko, dunque, in cerca di ribellione nei confronti dei predicatori, della società, della massa ottusa e silente, di un habitat che sentivano opprimente, nel quale avrebbero voluto trovare le risposte ai loro dubbi esistenziali. Kurt Cobain era Donnie Darko nei panni di Mersault: straniero in terra propria e riluttante a piegarsi alle convenzioni degli uomini. Già a metà degli anni 80, in anticipo rispetto al fuoco sotterraneo che stava emergendo in quel di Seattle, subentrarono temi come il tormento dell’animo umano, la perdita di identità, il nichilismo, dovuti all’incomprensione del mondo e alle pressioni di una società ostile, nonostante gli ’80 fossero caratterizzati da una predisposizione all’entusiasmo, all’edonismo, alla ricerca del piacere e della leggerezza.

Però, tutte quelle luci, tutti quei riflettori, nascondevano la paura di non farcela, di essere fuori luogo, di non essere all’altezza, in una società che stava uscendo prepotentemente dai tempi bui di fine anni 70. Purtroppo, gli Ottanta saranno soltanto una meravigliosa illusione, un’allucinazione visiva e uditiva, un universo contingente, proprio come nel mondo di Donnie Darko. Dunque, il successo dalla riuscitissima copertina del poppante in piscina fu fondamentale per la crescita della moda grunge. I Nirvana, in brevissimo tempo, divennero la band più famosa del pianeta, o giù di lì. Dopo il 1991, il grunge divenne pop, e con il termine pop si intende semplicemente popolare. E così, tutti gli altri vissero di luce riflessa, addirittura con potere retroattivo. Basti pensare allo stesso Bleach. Il sound underground di Seattle divenne una realtà importante, grazie al supporto della Sub Pop e delle radio locali, ma senza il mecenatismo delle major discografiche, probabilmente, le camicie dei boscaioli non sarebbero arrivate nemmeno a San Diego. I “grungettari” non erano accomunati da uno stesso genere, né da una stessa idea filosofica o modo di vestire. L’unico bene comune era Seattle. La cultura, la geografia, l’economia influiscono sempre e comunque sulle mode generazionali. Il grunge non indicava un genere, né un movimento. Indicava una moda. E, come diceva Gaber, quando è moda è moda, non importa la specificazione.

Nel video di Smell Like Teen Spirit, Kurt Cobain indossava una maglia a righe verde, sopra una maglia a maniche lunghe e un paio di converse distrutte: probabilmente voleva dirci che era uno di noi, era come tutti noi. Volevano essere tutti uguali e omologare la figura del musicista: siamo tutti uguali, siamo come voi, dicevano ai fan, rinnegando quindi l’edonismo delle rockstar eccentriche e viziate degli Ottanta. Alla fine, paradossalmente, finirono per diventare proprio come loro, ma senza la necessità primaria di voler apparire. E pensare che all’inizio, per i fan del metal non c’era alcuna differenza: tutti quei gruppi cosiddetti grunge venivano considerati heavy metal. Non a caso, alcune band di Seattle, alle fine degli anni 80, aprivano i concerti delle rock band famose di quel decennio: i Soundgarden sono stati gruppo spalla dei Guns N’ Roses, tanto per citare un esempio. Fatto sta che il Seattle sound rivoluzionò tutto: le band hair metal all’improvviso apparirono datate e i loro frontman ridicoli. Alla fine degli Ottanta l’heavy metal si schiantò come il Titanic: discografici e critici presero le vanghe e iniziarono a spalare fango sulle tombe e sui resti di tutte le band heavy metal di quel decennio, soprattutto quelle tutte lacca e spandex. I tempi, improvvisamente, erano cambiati.

Gli anni Novanta sono stati un bellissimo decennio per il rock, prolifico in ogni sua forma, e caratterizzati da alcuni eventi nefasti che, purtroppo, segnarono gli anni a venire: il suicidio di Kurt Cobain, il decesso del pilota di Formula 1 Ayrton Senna, a causa di un incidente durante il Gran Premio di Imola, la nascita di Justin Bieber, lo scioglimento dei Guns N’ Roses, il successo dei Linkin Park e dei Limp Bizkit, l’ascesa del black metal proveniente dalla Scandinavia, il boom commerciale di fenomeni da baraccone come Take That e Spice Girls, la musica techno, l’Italia sconfitta in finale di Coppa del Mondo ai calci rigori contro il Brasile, lo scandalo di tangentopoli e Silvio Berlusconi che scese in campo a capo della politica italiana. Non credo che i quattordicenni brufolosi e onanisti, negli anni 90, ascoltando le parole “Fuck you I won’t do what ya tell me“, pensassero veramente ai combattenti messicani dell’esercito di Zapata: forse urlavano quel testo semplicemente per ribellarsi ai compiti in classe. Del resto, lo sappiamo che gli adolescenti sono alquanto impressionabili. Negli anni 90, a mio modesto parere, i Rage Against The Machine sono stati la band più interessante e valida di quello scenario crossover rap metal, insieme a Faith No More e Red Hot Chili Peppers. Gli anni 90 vanno considerati anche dal punto di vista sociale, come decennio del declino della spiritualità e del sopravvento della cultura agnostica, per quanto si tendesse, nella maggior parte dei casi, a dichiararsi cristiani ad ogni costo.

La società stava cambiando e se ne erano accorti anche Melvin, Carol e Simon in Qualcosa è Cambiato. Nel frattempo, negli anni 90, le persone iniziarono a temere le droghe più del diavolo, poiché non erano più il male da cui fuggire, bensì la soluzione ai tormenti esistenziali. Basti pensare alla fine che hanno fatto i massimi esponenti dell’era grunge. E fu così che, come accade ciclicamente, musicisti, case discografiche, e artisti in generale, sfruttarono questo nuovo scenario a loro favore, trasformandolo in business. La depressione e le droghe divennero la reincarnazione post-moderna del diavolo, o Lucifero, chiamatelo come volete. E chi meglio di Marylin Manson riuscì a perfezionare quella nuova strategia di marketing? Nessuno meglio di lui, è la risposta pleonastica. È sufficiente pensare al successo dei suoi dischi Antichrist Superstar e Mechanical Animals. Marylin Manson e Liam Gallagher, in quel contesto, furono gli unici due a tenere ancora alto il vessillo del cliché della rockstar. Negli anni 90 lo scenario era questo: il tema predominante non era più l’edonismo dell’essere umano, bensì l’esaltazione del disagio e del conflitto interiore individuale nei confronti della società, quello che Hank Moody, davanti ad una pagina vuota, in sintesi, chiamerebbe sgomento. Si ritorna a trattare il tema della religione secondo la visione Marxista in cui la religione è l’oppio dei popoli, ed è sufficiente citare due brani come Lithium dei Nirvana e Opiate dei Tool, per dare l’idea.

Maynard, con la morte di Kurt Cobain, divenne man mano il nuovo messia della musica rock, il portavoce delle paure, dei tormenti interiori e della crisi d’identità dell’essere umano: allo stesso tempo, vittima e carnefice della sua condizione. L’equivoco dei Novanta fu che tutte le band alternative rock venivano etichettate come grunge, persino gruppi come i Blind Melon, band folk blues di ragazzi con abbigliamento anacronistico da figli dei fiori; oppure i Jane’s Addiction di Farrell e Navarro, antesignani dello sdoganamento del genere alternative rock già alla fine degli anni 80. Ero già maggiorenne quando gli Stone Temple Pilots uscirono per la prima volta in radio con Plush. Ricordo commenti del tipo “Ma cos’è? È il nuovo singolo dei Pearl Jam?”, “Ma chi sono? Un gruppo clone dei Pearl Jam?”. Personalmente non sono mai riuscito ad accostare la musicalità e l’immagine degli Stone Temple Pilots e di Weiland a ciò che rappresentò il grunge. Gli Stone Temple Pilots erano quasi anacronistici, sembravano una band hard rock degli anni ’80. Weiland è stato, invece, un frontman carismatico, un tossico del cazzo, un poeta triste e malinconico. Ma in fondo gli artisti come Weiland una volta che ti entrano dentro non escono più ed è per questo che rimangono immortali.

Per quanto mi riguarda, Interstate Love Song degli Stone Temple Pilots è stata la canzone più bella degli anni 90, e il compianto Scott Weiland è stato, a mio avviso, una delle voci più espressive ed emozionanti nel panorama rock, non solo degli anni 90. Però, se da un punto di vista culturale mi dovessero chiedere: “Qual è stato il disco più rappresentativo dei Novanta? e “Qual è stato l’evento più importante nel mondo della musica dei Novanta?” personalmente, senza dubbi, sarei portato a rispondere immediatamente Nevermind dei Nirvana alla prima domanda, ed il suicidio di Kurt Cobain alla seconda.

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05th Lug2019

Il metal è un genere legato alla gioventù

by Andrea Musumeci
Generalmente, quando si parla di genere metal, in ogni sua forma e contaminazione, è pressoché impossibile prescindere dal fattore prettamente anagrafico, soprattutto quando si parla del frontman di un gruppo, che è quasi sempre il cantante, e che per ovvie ragioni riceverà maggiori attenzioni da parte dei mass media. Secondo l’immaginario collettivo, il metal è legato alla gioventù poiché, più di ogni altro genere, rappresenta (è il caso di dire, rappresentava?) l’innata urgenza di trasmettere una serie di emozioni e vibrazioni, che sprigiona attraverso sensualità, adrenalina, energia, ribellione, fasci di nervi e soprattutto grazie alle doti fisiche dei suoi interpreti, i quali dovranno essere, per forza di cose, sempre atletici, al top della forma, per garantire performance all’altezza delle aspettative del pubblico. Lemmy Kilmister raccontava con nostalgia quel periodo storico: “Le canzoni di Ace Of Spades sono considerate dei classici. Ci divertimmo un sacco ad inciderle. Erano bei tempi; eravamo giovani e vincenti e ci credevamo davvero“. Eh già, giovani e vincenti. La rivincita dei cosiddetti “loser” arriverà, invece, soltanto un decennio più tardi.

Nel frattempo, negli anni ’80 il metal era passato da underground a mainstream, fino a raggiungere la vetta pop. Alla fine di quel decennio, il metal era diventato il genere più popolare del pianeta. Checché se ne dica. Ve lo ricordate il video di Jump dei Van Helen? Quando il giovane e sfrontato David Lee Roth faceva salti e spaccate da far impallidire Carla Fracci e Nurayev? Il significato di quel pezzo era semplice, non aveva alcun messaggio nascosto: dovevi solamente saltare, all’infinito. Si, magari negli anni ’80. Ma ve lo immaginate, oggi, il sessantaquattrenne David Lee Roth che prova a replicare quei gesti atletici di gioventù? Sarebbe inverosimile. E poi, che tipo di carica sessuale può mai trasmettere un sessantaquattrenne che fa la verticale? Probabilmente troverebbe un nutrito stuolo di fan in qualche circolo anziani, o al massimo stuzzicherebbe gli appetiti di alcuni gruppi di casalinghe in menopausa. Nonostante tutto, è innegabile che alcuni artisti, al pari del vino, siano migliorati invecchiando. O comunque, nonostante l’età da quota 100, ci appaiono come uomini dall’aspetto ancora gradevole, vedi Steven Tyler, Roger Taylor e James Hetfield. Sebbene, a volte, i confronti con il passato siano davvero impietosi.

Nonostante la veneranda età, se alcuni frontman riuscissero veramente a fare ancora certi numeri sul palco, probabilmente, per molti risulterebbero patetici, mentre per altri sarebbero dei simpatici vecchietti Cocoon ancora tonici e ginnici. A dimostrazione che il rock, o il metal fate vobis, è un genere musicale, che ci mantiene sempre giovani, come un elisir di lunga vita. Però, a prescindere dal risultato in sé, sarebbe comunque un patetico tentativo di fermare il tempo, o ancor peggio, di volersi comportare da eterni teenager, finendo così con il rendersi ridicoli. E questo perché? Per il fatto che alcuni generi, in determinati momenti storici, hanno rappresentato delle vere e proprie mode, e gli artisti di conseguenza si sono adeguati al trend del momento, finendo per auto-catalogarsi e contestualizzarsi. Ma le mode son mode, come diceva Giorgio Gaber, e, come tutti sanno, prima o poi passano. Sta di fatto, invece, che i sopravvissuti del metal sono quelli che non si sono mai omologati ed uniformati alle mode musicali, facendo in modo di mantenere intatta la propria credibilità, vedi proprio i Motörhead, che paradossalmente erano quelli che dicevano “I don’t wanna live forever”.

Partendo dal presupposto che ognuno è libero di comportarsi come meglio desidera, allo stesso tempo cerchiamo di fare un’analisi che sia obiettiva, scevra da condizionamenti dettati dai gusti personali e soprattutto che non sia eccessivamente spietata. Ce lo vedete il settantenne Ozzy Osbourne ancora alle prese con i morsi ai pipistrelli e a far finta di adorare il diavolo? Ce lo vedete Eddie Vedder che si arrampica e si dondola sulle impalcature, durante un concerto, a cinquantacinque anni suonati? Oggi, il frontman dei Pearl Jam, suona l’ukulele, se la prende coi potenti della Terra e beve barolo. Insomma, la versione post grunge di Guccini. Nel frattempo, i Kiss si truccano ancora e Gene Simmons continua a sputare fuoco dalla bocca, Jon Bon Jovi si è trasformato nella versione neomelodica di Bruce Springsteen, Angus Young continua a fare la trottola con la chitarra, Tom Keifer si è ridotto a suonare sulle navi da crociera (o roba simile), mentre Axl Rose, Sebastian Bach, Paul Di’Anno e Vince Neil, probabilmente, sono quelli invecchiati peggio, a tratti irriconoscibili. Certo, queste considerazioni non sono altro che la prospettiva dei fan più attempati, di quelli entrati, quantomeno, nella fascia degli anta, quelli cresciuti con il mito delle rockstar degli anni ’80, in quel decennio magico, edonista, effimero, votato all’intrattenimento. Però, per onestà intellettuale e par condicio, dovremmo considerare anche la prospettiva dei suddetti musicisti, che si ritrovano a suonare e cantare davanti ad un parterre composto soprattutto da fan più maturi, nella maggior parte dei casi impossibilitati a fare headbanging a causa della calvizie.

In generale, col tempo, anche i fan non più giovani (ovviamente non tutti) hanno modificato le loro abitudini, hanno ammorbidito il loro approccio con gli eventi live e magari preferiscono situazioni più defilate rispetto ai sottopalco selvaggi dei bei tempi. Spesso, capita di leggere commenti del tipo: “Gli Iron Maiden non sono più quelli d’una volta”, “I Metallica sono finiti con Master Of Puppets“, “I Guns N’ Roses farebbero bene a ritirarsi”,”I Kiss sono diventati una tribute band” e chi più ne ha più ne metta. Spesso, però, ci sfugge quello che è il filo conduttore, fondamentale e semplice, che tutt’oggi lega musicisti e fan, ossia la passione, quella genuina, viscerale, che va oltre ogni tipo di logica commerciale, temporale, virale e di comodo. Come si può rinnegare un tipo di musica che ci ha fatto sognare? Eh sì, perché i nostri idoli di gioventù erano fighi al posto nostro; ci hanno fatto sembrare dei tipi duri nonostante ci sentissimo degli inutili sfigati. E chissà, magari lo siamo ancora oggi.

Ma se proprio volete risultare interessanti e misteriosi, e rinnegare il vostro passato da metallari, potete sempre dichiararvi vecchi fan dei Bauahus e dei testi di Peter Murphy, dissimulando un mezzo sorriso ed un’aria un po’ snob, nel faticoso e sterile tentativo di distruggere il genere metal ed i vostri miti di gioventù.

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28th Giu2019

Gli Incroci del Rock – I grandi gruppi degli anni Settanta

by Raffaele Astore
Pubblicato lo scorso maggio per conto di Arcana Edizioni, il nuovo libro di Giuseppe Scaravilli è quasi un viaggio musicale che attraversando i territori del rock, e non solo quelli, racconta di un’epopea a cui si guarderà sempre con molto interesse. Scaravilli, ancora una volta, abbandona la sua veste di musicista per diventare ricercatore e narratore degli anni Settanta attraverso le grandi band del periodo. Un libro da acquistare, leggere e consultare sempre. Giuseppe Scaravilli amplia la sua attività di musicista dei Malibran, progressive band tricolore formatasi nell’estate del 1987 e che hanno fatto del rock progressivo una sorta di vestito elegante con il quale si presentano al pubblico, anche come scrittore. E se i Malibran con la loro musica richiamano immediatamente alla mente il classicismo e l’enfasi di una rock music senza fronzoli, che diventa ancor più spettacolare durante e loro esibizioni, Scaravilli non dedica il suo tempo solo ed esclusivamente alla musica ed alla band; infatti, la sua passione lo porta a realizzare degli ottimi scritti che sono una vera e propria fonte inesauribile di informazioni per gli amanti del genere. Dopo aver pubblicato nel 2018 Jethro Tull 1968-1978 – The Golden Years per conto di Europa Edizioni, preceduto dall’interessante Crossroads, gli incroci del Rock (Passim Editore 2017) ora Scaravilli si cimenta con un nuovo ed interessantissimo libro, Gli Incroci Del Rock – I Gruppi Degli Anni Settanta edito da Arcana Edizioni nel quale l’autore ripercorre, e nemmeno a grandi linee ma con dovizia di particolari, quella che in molti di noi considerano come il periodo più fulgido per il rock, gli anni Settanta.

E così grandi band come i Led Zeppelin, Balck Sabbath, Deep Purple, King Crimson, gli stessi Malibran, i Jethro Tull, il Banco, i V.D.G.G., la P.F.M., Area, Pink Floyd, trovano il giusto spazio in questo racconto di gruppi che, come scrive lo stesso autore nella prefazione al volume, analizza dettagliatamente ogni band unendo alla narrazione anche interessanti aneddoti poco conosciuti. A completare il tutto una serie di immagini, restaurate in prima persona dallo stesso autore che confermano poi quanto sagacemente viene raccontato nel libro. E non mancano i resoconti degli eventi che hanno caratterizzato quegli anni come i grandi festival e le contestazioni per la musica “gratis” oggi più che mai….un sogno. Altro passaggio che non va dimenticato è che Gli Incroci Del Rock – I Gruppi Degli Anni Settanta si chiude con uno sguardo approfondito sul festival di Woodstock del quale, quest’anno, abbiamo avuto modo di ammirare gli scatti fotografici originali al Medimex di Taranto.

Insomma un libro che non può mancare nelle biblioteche dei musicofili rock e che aiuta a capire meglio quello che i “famosi” anni Settanta hanno rappresentato per tanti come noi. E vero, gli anni son passati, e molti da quel periodo, ma la grande musica rock non muore…mai!

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25th Giu2019

Social net-rock: il fanatismo rock 3.0

by Andrea Musumeci
Comunicare sui social non è facile, soprattutto se si vanno a toccare argomenti che sono veri e propri campi minati. Tempo fa mi è capitato di leggere un lungo dibattito all’interno di un gruppo di musica rock su un social network. Del resto, chi, oggi giorno, non è membro di almeno un gruppo sui social, a prescindere dalle tematiche che si trovino in esso?! Nel caso specifico, l’oggetto del post incriminato era quello di un giovane utente, bannato da un altro gruppo, perché aveva scritto, forse in maniera ingenua ed involontariamente provocatoria, che per lui, Queen e Freddie Mercury, non rappresentano nulla di eccezionale. Il succo era questo. Chiaramente, nemmeno a dirlo, si è scatenata, puntuale, la bagarre, una semi-rissa digitale: da una parte gli indignati armati di caps lock in prima linea, e dall’altra i moderatori filodemocratici in trincea. Insomma, un classico intramontabile. Oltretutto, apro e chiudo parentesi, tra i tanti fan sfegatati dei Queen, quasi nessuno aveva scritto il nome di Freddie Mercury in maniera corretta: una sfilza di Freddy alquanto disarmante.

Chiarisco che il senso di quest’articolo non è assolutamente quello di ritornare sull’oggetto di quel post, ma è soltanto una mera riflessione in merito ad un aspetto della nostra cultura, che, mio avviso, è diventata demenziale e poco edificante, ma che evidentemente per molti rappresenta un motivo di sopravvivenza, serioso e frustrante. I social network sono diventati una cassa di risonanza mediatica imprescindibile: non fanno altro che amplificare ed inasprire la comunicazione moderna, tanto da far impallidire i peggiori bar di periferia, facendo riemergere antichi costumi circensi e folcloristici dell’antica Roma. Come non ricordare alcune polemiche social, feroci e sterili, scaturite di recente, relative a diverse tematiche legate al mondo del rock (e non solo), come il docu-film Bohemian Rhapsody, l’organizzazione del Firenze Rocks dopo l’annuncio di Ed Sheeran, il presunto plagio ledzeppeliniano dei Greta Van Fleet, il festival di Sanremo di Mahmood e Ultimo, il presunto sfratto di Morgan e le dichiarazioni di Manuel Agnelli tramite le quali affermava che la trap è il nuovo punk. Un tema come il rock, nel giro di pochi commenti, può degenerare in fanatismo religioso. Inoltre, dichiarare apprezzamenti verso un talentuoso artista che fa un altro genere, come ad esempio Salmo, sembra quasi una vergogna. Come se quella del rock fosse una setta nella quale gli adepti non possano adorare altri idoli all’infuori di quelli universalmente riconosciuti.

Senza entrare nei meandri del rap o di altri generi e rimanendo in famiglia, avete mai provato a scrivere in un gruppo social rock che vi piace Ligabue? Vi ritrovereste travolti da orde di haters, che non sono poi tanto diversi dagli ultras: sono piuttosto la medesima cosa, ma in contesti differenti. Intavolare certe argomentazioni sui social è sempre un rischio, possono rappresentare un boomerang, addirittura una pratica sadomaso, un po’ come scrivere che il tofu fa cagare all’interno di un gruppo social di vegani, oppure intervenire ad una radio che parla solo della Roma, e dire che Totti non è mai stato un calciatore fondamentale. Possiamo dire, tranquillamente, che, al giorno d’oggi, specialmente sui social, non si può scrivere tutto ciò che si pensa liberamente, senza preoccuparsi del conseguente giudizio altrui come condicio sine qua non e soprattutto senza l’accortezza di non urtare la fragile sensibilità dei fan, chiunque sia l’artista in questione. Eh sì, perché poi dal vivo, tutto quello che succede sui social non accadrebbe mai, visto che, da dietro un monitor e una tastiera, mancano alcuni elementi fondamentali che stanno alla base della comunicazione verbale.

Dal vivo, probabilmente, finirebbe tutto a tarallucci e vino, magari tra abbracci e risate, senza quella tensione generata dai social da persone che, nella maggior parte dei casi, nemmeno conosci, e che in quel momento si ergono a detentori di verità assolute, tuttologi, leoni da tastiera, giudici più intransigenti di Mara Maionchi ed inquisitori più feroci di Torquemada. Interagire sui social è un diritto che per molti si è trasformato in un dovere ed ormai ci sono temi che sono diventati scottanti. C’è quindi bisogno di un’autocensura preventiva? Oppure è conveniente tenere un atteggiamento diplomatico e neutrale? Probabilmente, un dosaggio equilibrato di entrambi. È oggettivo che, salvo rarissimi casi, i media, quando parlano di una rock band, si soffermino solo sulla figura del cantante, che di conseguenza, rispetto agli altri componenti della band, ha molte più opportunità di apparire interessante agli occhi del pubblico. Ma l’aspetto fondamentale, a mio avviso, è il rapporto che i fan hanno con una rock band, con i propri idoli. E così, mi riallaccio al prolisso incipit del post: l’idolatria. Come diceva Umberto Eco: “La saggezza non sta nel distruggere gli idoli, sta nel non crearne mai“. Ci vorrebbe un cammino di redenzione. I fan dei mostri sacri del rock (e non solo del rock) per quello che ho potuto constatare personalmente, non sono dotati per nulla di senso dell’umorismo, in particolar modo quando si vanno a toccare i primi dischi: c’è un rispetto quasi religioso. La musica rock ha sempre dovuto fare i conti con la logica del virtuosismo, caratteristica amplificata soprattutto negli anni 80, e l’infondatezza della teoria umana che spesso sostiene che complessità sia sinonimo di grandezza.

Credo che nessun fan del rock, mediamente intelligente, direbbe mai che Yngwie Malmsteen è un chitarrista migliore di Chuck Berry, sebbene il primo sia oggettivamente più dotato tecnicamente dell’altro. Affermare questo sarebbe come dire che un qualsiasi scrittore che usa parole difficili, per trattare argomenti complessi, sia più importante di George Orwell. Il problema di fondo è che spesso i fan credono di essere speciali per i loro idoli: la maggior parte dei fan si illude che ci sia un rapporto esclusivo con il proprio beniamino. Ma è lapalissiano che non potrà mai essere così. Questa riflessione mi fa venire in mente quei costosi pacchetti meet & greet, grazie ai quali i fan possono incontrare le loro rockstar preferite nel backstage per un lasso di tempo limitato, farsi delle foto con loro e stringergli la mano. Immaginate l’esplosione di contentezza degli artisti, che preferirebbero di gran lunga starsene per fatti loro, con mogli o fidanzate, e che invece sono costretti, da contratto, a subirsi le facce da cazzo e i sorrisi da ebeti di perfetti sconosciuti. I suddetti fan potranno, così, vantarsi con gli amici di quell’incontro con Ozzy Osbourne o Gene Simmons, tanto per fare due nomi a caso, e magari raccontare con fierezza di quanto sia stato simpatico Ozzy Osbourne e di quanto sia alla mano uno come Gene Simmons, ringraziando più per il fatto che entrambi non gli abbia sputato in faccia.

Ma il problema è sempre a monte, ossia i fan accecati dall’adulazione, che si rifiutano di guardare i propri idoli come dei comuni mortali. L’idolatria è un grosso limite, in ogni settore della nostra esistenza. Possiamo anche guardare e giudicare i nostri idoli rock usando una buona dose di raziocinio (non è lesa maestà) ed onestà intellettuale, ma alla fine faremo i conti con tutti gli altri fan, emotivi e suscettibili. Mi è capitato di leggere e sentire commenti tipo: “I Tool fanno musica per pochi”. Non ho mai capito chi fossero questi fortunati prescelti, come se un fan dei Tool fosse automaticamente più intelligente di un fan dei Poison. E molto probabilmente è così. Ma a prescindere, qualcuno è convinto che sia automaticamente così, autocertificandosi migliore di altri, semplicemente per un gusto musicale differente. Ed in certi casi è proprio questo aspetto che divide, ossia la diversità vista come un nemico. Per fortuna, la maggior parte dei musicisti ha capito, invece, che il sincretismo musicale poteva essere un’opportunità di crescita, ed infatti così è stato.

Concludo citando un commento che ho letto sul web, in quel famigerato post, e che ho ritenuto ragionevole: “Per fortuna esiste la vita reale, se sui social non trovi condivisione, non fartene un problema, ascolta quello che ti fa emozionare”.

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17th Mag2019

Serving the Servant, ricordando Kurt Cobain

by Massimo Canorro
Quando Kurt Cobain si suicidò, il 5 aprile 1994 (ma il suo cadavere venne rinvenuto tre giorni dopo) avevo 15 anni. Dodici in meno di lui. Con Cobain se ne andò anche un pezzo di infanzia. Non solo la mia, considerando – sempre in senso stretto – che al liceo avevo più di un amico che ascoltava (e suonava) i Nirvana. “È meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente”. Venticinque anni dopo mi imbatto in rete nel libro Serving the Servant, ricordando Kurt Cobain (HarperCollins, 328 pagine, 19 euro, traduzione di Alessandra Rotilio) e leggendo la preview ciò che mi colpisce è la firma dell’autore – Danny Goldberg, oggi presidente e proprietario dell’agenzia di management artistico Gold Village Entertainment – che all’inizio del 1991, nel ruolo di manager musicale accolse nella sua scuderia i Nirvana, una nuova band acclamata dall’intera scena musicale underground di Seattle, lavorando con il gruppo fino al 1994. Anni fondamentali questi, che videro il successo planetario di Nevermind (pubblicato il 24 settembre 1991 dalla Geffen Records), disco intriso di canzoni intramontabili (da Smells Like Teen Spirit a Come As You Are, da Breed a In Bloom a Lithium) dove Cobain (voce e chitarra), Chris Novoselic (basso e voce) e David Grohl (batteria, percussioni e voce) toccarono vette irraggiungibili, diventando la rock band di maggior successo al mondo (“Attento a ciò che desideri” è il titolo del capitolo dedicato).

Ma questi sono anche gli anni dell’incontro e delle nozze di Cobain con l’estrosa e volubile Courtney Love (non male il suo percorso artistico con gli Hole), della nascita della loro figlia, Frances Bean (oggi 27enne), della lotta – di dominio pubblico – contro la dipendenza. Un combattimento giunto al capolinea, purtroppo, con il suicidio. Per tutto il tempo, Goldberg, manager e amico intimo di Cobain, si schierò al suo fianco, come si evince anche dall’introduzione di Serving the Servant (il titolo riprende quello del brano Serve the Servants, che apre il terzo disco in studio dei Nirvana, In Utero, pubblicato nel 1993): “Nonostante lo squallore dei momenti più bui della sua vita e la grottesca realtà della sua morte, ho una visione per lo più romantica del lato creativo e idealista di Kurt”. Così, attingendo ai ricordi personali dell’autore, a documenti inediti, ad interviste con familiari (inclusa Courtney Love), amici nonché compagni di Cobain (c’è anche il contributo di Novoselic), il volume vira l’attenzione del lettore sul genio, la compassione, l’ambizione e l’eredità (ancora non raccolta) di Cobain, evitando di indugiare – si legge nella presentazione – “sulla comune ossessione per l’angoscia e la depressione che apparentemente guidavano Kurt”.

Dunque un volume dove, al centro di tutto, ci sono l’artista e l’impatto che ha avuto sulla musica di ieri e di oggi. Un uomo “che considerava ogni aspetto della sua vita, pubblica: ogni performance dal vivo, ogni intervista, ogni singola fotografia. Malgrado diffidasse della fama, era in grado di servirsene in maniera molto efficace”, spiega ancora Goldberg. Certo, Cobain era e rimarrà un mito indimenticabile (“75 milioni di dischi, 27 anni di vita, idolo di due generazioni, icona di un’epoca”, riporta la quarta di copertina) – chissà oggi, nell’epoca dei social network, quale sarebbe il suo pensiero – ma Serving the Servant viaggia molto più in alto. Meglio, in profondità, attraverso l’approccio più veritiero e senza fare sconti. “Non tutti gli aspetti della sua eredità sono così teneri”, evidenzia l’autore. Aggiungendo: “Dopo la sua morte in molti mi hanno chiesto chi fosse davvero Kurt. A volte non potevo fare altro che guardarlo attraverso un vetro oscurato dietro al quale alcuni suoi aspetti rimanevano inaccessibili”.

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15th Mag2019

Asbury Park: Lotta, Redenzione, Rock and Roll – il film

by Piero Di Battista
Asbury Park. Quanti conoscono questa cittadina del New Jersey? O meglio, quanti la conoscono tra quelli che non sono fan di Bruce Springsteen? Credo in pochi, ma ad Asbury Park, nella seconda metà del secolo scorso nacque una vera e propria scena musicale. Di questo tratta il film Asbury Park: lotta, redenzione e rock and roll; una pellicola di due ore scarse di durata, girata da Tom Jones, in cui viene raccontata la genesi di questo movimento, fino ad oggi. Il film si apre con la storia di questa piccola comunità, nata alla fine del XIX secolo, per poi arrivare al dopoguerra, quando ci fu una vera e propria nascita di un movimento che creò a sua volta una fucina di talenti per il rock e per il soul. Tale movimento era anche coadiuvato dalla nascita di numerosi locali, bar e club che davano spazio ai musicisti del posto, che oltre a proporre la loro arte arrivavano a cimentarsi con in vere e proprie jam session. Fu così difatti che si conobbero Bruce Springsteen e Steve Van Zandt, conosciuto poi con il soprannome di Little Steven, storico chitarrista della E-Street Band, che ancora oggi accompagna il Boss durante i suoi show.

“Ad un certo punto di quel periodo c’erano 73 locali in 2,5 chilometri quadrati”, questa è una delle tante testimonianze presenti nel lungometraggio, ma forse quella che meglio spiega ciò che stava accadendo in quegli anni 60, anni che ricordiamo tormentati particolarmente dalle questioni razziali che spesso portarono violenze e tante vittime. Ed Asbury Park purtroppo non ne fu immune; nonostante questo nuovo movimento era riuscito a far convivere pacificamente bianchi e neri grazie alla musica, nel luglio del 1970 ci furono diverse rivolte da parte della comunità di colore; incendi, devastazioni che portarono Asbury Park ad una lenta e dolorosa agonia. “Il 75% delle attività commerciali furono distrutte dalle rivolte, senza più riprendersi”. Tra queste c’era il leggendario Upstage, storico locale dove oltre ai già citati, iniziarono a suonare Southside Johnny Lyon e David Sancious. Il film volge verso la conclusione raccontando come Asbury Park stia “tornando a vivere”, musicalmente parlando, creando tra le altre cose molte attività musicali anche per bambini, e si conclude con uno show, tenuto al Paramount Theatre, dove Bruce Springsteen, Little Steven, Southside Johnny e tanti altri musicisti che hanno contribuito alla storia di questo movimento, si sono esibiti in un teatro ovviamente sold out, accompagnati anche dalle nuove leve che citavamo poc’anzi.

Questo film ci racconta che Asbury Park non è stata solo una scena musicale, è stato anche lo specchio di quanto si è vissuto in territorio a stelle e strisce per oltre un secolo. Ci racconta di quanto l’arte possa diventare unione, ma anche quanto può diventare divisorio il tessuto sociale di un paese, di una piccola comunità, che gravemente ferita e agonizzante, ha avuto la forza di provare a rialzarsi, grazie a chi è nato ed ha vissuto a lungo quel posto, che possa diventare modello per le nuove generazioni. Il film sarà nei cinema italiani il 22-23 e 24 maggio, l’elenco delle sale è disponibile a questo link.

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14th Mag2019

Rammstein: listening esclusivo del nuovo album

by Marcello Zinno
Venerdì 17 maggio è la data che i fan dei Rammstein attendono da anni. Per la precisione, da 10 anni, tanto è il tempo trascorso dall’ultimo studio album dei tedeschi. Noi di RockGarage eravamo presenti ieri presso la sede italiana della Universal, insieme ad una ristrettissima cerchia di giornalisti e redattori (20 in totale), all’ascolto in anteprima assoluta del nuovo album che attualmente non ha ancora un titolo (sarà svelato proprio nel giorno di pubblicazione) ma ha una copertina (che potete vedere qui a fianco, sulla torta che l’etichetta discografica ha fatto preparare). Ora possiamo svelarvi come ci sono sembrate le 11 tracce di questo lavoro che tanto si è fatto attendere. Lento, futuristico e per certi versi lontano da quanto ci saremmo aspettati. Le prime due tracce erano già a noi note, Deutschland e Radio, brani che avevano confermato l’imprinting Rammstein praticamente inalterato e che avevano visto (ancora una volta) una grandissima attenzione, quasi cinematografica, rispetto ai videoclip che li hanno promosse. Brani potenti e che arrivano diretti al tipico fan della band teutonica, soprattutto l’opener, mentre Radio, come dice anche il titolo, risulta molto influenzata dalle melodie.

Purtroppo queste tracce sono delle chicche all’interno di un album che fa un uso molto avaro della chitarra (spesso in arpeggio, raramente con riffing metal), pone la voce di Till Lindemann al centro della scena, Till su cui spesso grava l’onere di dover creare le melodie al posto degli strumenti spesso assenti o addirittura talvolta accompagnato dalla batteria (?!). Ma il punto focale per comprendere questo nuovo album dei Rammstein è un altro e sta tutto nell’uso dell’elettronica, uso che è discutibile per quantità e tipologia e sottolinea la direzione che la band ha voluto imboccare: i Rammstein non sono una band metal tour court, ma qui hanno voluto a nostro parere deviare il loro songwriting per afferrare una parte di pubblico più attuale, più giovane. I vecchi fan dei Rammstein (se vecchi si possono intendere per una band sorta a metà degli anni 90…nel pieno dell’epoca grunge!) sono a loro fedeli e garantiscono loro tutti i sold out che possono sognare (a fine maggio partiranno per un tour di 30 date di cui 24 sono già sold out), quindi è lecito pensare che abbiano voluto conquistare nuovi fan. Purtroppo chi li conosce troverà un album dalla ritmica lenta, dalle trame non incisive, un album che potremo inserire nel calderone del pop metal, con brani innocui (Sex, Diamant) momenti eccessivamente vicini all’elettronica (Ausländer, Weit Weg) e in generale uno sforzo del solo Till Lindemann, mentre tutto il resto della band sembra essere svanito. Salviamo Tattoo, un pezzo che punta più sulla ritmica (forse l’unico) ma è troppo poco per sperare in brani inediti che vale la pena ascoltare ad un loro show. Speriamo quindi che proporranno i vecchi classici.

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15th Apr2019

The Dirt: il film

by Massimo Canorro
Film più colonna sonora. Una doppietta niente male per i Mötley Crüe, “la band più oltraggiosa del rock”, come è stata ribattezzata, che a stretto giro dall’uscita nelle sale cinematografiche di Bohemian Rhapsody – la pellicola diretta da Bryan Singer che ripercorre i primi tre lustri dei Queen, dalla nascita della band (siamo nel 1970) fino al Live Aid del 1985 – torna a far parlare di sé fuori dal canonico trend “album-tour-album”. E lo fa con un biopic, The Dirt (coprodotto dai Crüe, disponibile in streaming su Netflix) e con la colonna sonora che lo accompagna. Togliamoci subito il dente: The Dirt Soundtrack non è una vera e propria OST, quanto una compilation di alcuni dei successi degli ex ragazzacci dai capelli cotonati e dagli occhi truccati come i Sioux che – a quattordici brani già noti – aggiunge quattro inediti, tra cui la cover di Like AVergin di Madonna (qui utile come un tè bollente a ferragosto). Insomma, considerata la mole di “best of” già pubblicati – compreso l’ottimo Red, White & Crüe del 2005 – c’era ben poco da aggiungere. Anzi, una cosa sì. Un film. Così, tra “pazzie inaudite, dipendenze insaziabili, rock assordante, l’esplicita biografia dei Mötley Crüe prende vita”, recita la didascalia di Netflix.

Tratta dalla scioccante autobiografia The Dirt, confessioni della band più oltraggiosa del rock scritta dagli stessi Crüe con Neil Strauss, la pellicola sceneggiata da Tom Kapinos, Rich Wilkes, Amanda Adelson e diretta da Jeff Tremaine – tra gli autori di Jackass, e quello stile visivo, piaccia o meno, emerge tutto – dichiara, fin dai titoli di testa, di essere soltanto vagamente basata su una storia reale. “Non eravamo una band. Eravamo una gang. Una gang di idioti”, è l’incipit di The Dirt: Mötley Crüe (questo il titolo completo) dalla voce narrante del vero deus ex machina di tutto: Nikki Sixx. Nel corso del film (che dura poco meno di due ore, davvero godibili) il punto di vista del narratore muta di frequente, mentre a non cambiare è l’andazzo di quest’opera divertente, dolorosa e – perché no – ironica nel raccontare le follie di cui sono stati capaci, nell’arco della loro carriera, Sixx (interpretato da Douglas Booth), Vince Neil (Daniel Webber), Tommy Lee (Machine Gun Kelly) e Mick Mars (Iwan Rheon). Nel narrare vita, morte e miracoli (ci sono anche questi, considerando che Nikki Sixx, fortunatamente, è ancora vivo), la trama di The Dirt prende il là dalla formazione della glam/hair metal band (quattro ragazzi imberbi che, nella Los Angeles degli anni ottanta, diventeranno il gruppo di punta del genere, prima di essere travolti dall’ondata grunge degli anni Novanta).

“Questa sì che era musica. Poi però è arrivato Cobain e ha rovinato tutto”, avrebbe detto diversi anni dopo Robin Ramzinski/Randy “The Ram” Robinson, alias Mickey Rourke, nel film The Wrestler di Darren Aronofsky. Per i fan del genere, infatti, gli anni ottanta sono, soprattutto, i Mötley Crüe. E The Dirt passa in rassegna (romanzandoli un po’, ma che c’è di male) tutti i più importanti eventi che hanno contraddistinto, sopra e fuori dal palco, la vita della band: dal primo concerto semivuoto sfociato in rissa al decisivo contratto firmato con la Elektra Records, dai matrimoni (falliti) agli incidenti di ogni tipo, dai fiumi di droga alle camere d’hotel devastate alle file di groupie fuori dai camerini. Sesso, droga e rock’n’roll. Una vita dove i “nostri” non hanno mai tolto il piede dall’acceleratore, pagandone in prima persona le conseguenze. Anche tragicamente. La loro giornata tipo in tour? “Sveglia alle cinque di pomeriggio, bevute, concerto, post concerto, trasferimento nella nuova città con sbarco immediato nello strip club, sballo”. Lunga vita ai Mötley Crüe.

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03rd Apr2019

Lords Of Chaos: il film

by Cristian Danzo
“Un film fatto da idioti per degli idioti”. Queste le parole di Varg Vikernes in uno dei suoi innumerevoli vlog presenti sul suo canale ufficiale Youtube a proposito di Lords Of Chaos, il lungometraggio uscito da poco negli USA e che già, dall’annuncio della sua uscita anni fa, ha scatenato polemiche ancora prima che si scrivesse una lettera della sceneggiatura. Un giudizio così definitivo e tranchant, poi, non si capisce, visto che il conte annuncia anche che lui non guarderà mai la pellicola. Ma si sa che Varg è un personaggio molto particolare (e questa parola calza addosso a lui come un totale eufemismo, visto il carattere che si ritrova e tutto quello che ha combinato nel corso degli anni). In aggiunta si conti che la scena black metal al suo completo (dai musicisti ai fan) considera il genere come strettamente elitario e per pochi adepti meritevoli, ed il fuoco delle polemiche non poteva che divampare al solo riferimento di volere realizzare qualcosa di massa da persone non interne all’ambiente. E questo atteggiamento è stato in pieno rispettato se pensate che, ai produttori del film, non è stato concesso l’utilizzo dei brani originali da parte delle tre band a cui è stato chiesto: Mayhem, Burzum e Darkthrone.

Noi analizzeremo la pellicola dal punto di vista cinematografico senza alcuna remora o preconcetto anteposto alla visione. Partiamo subito col dire che chi preventivamente non conosce i fatti su cui si basa Lords Of Chaos farà molta fatica a capire la storia narrata. Non per la tranche riguardante la seconda parte, quella che narra la sanguinaria faida tra Varg ed Euronymous, ma per i primi venti minuti. L’io narrante per tutta la durata è, appunto, Euronymous, al secolo Øystein Aarseth, leader dei Mayhem e fondatore del Black Metal per come lo conosciamo oggi. Il film parte senza nessuna spiegazione o analisi dell’infanzia del protagonista, mostrandoci l’adolescente che già prova con il primo embrione della band ed arrivando in maniera spiccia all’entrata di Dead nel combo. E qui il naso si storce ancora di più: nessun approfondimento sulla psiche o la personalità di Pelle Ohlin. Solamente un mostrare superficialmente il suo bizzarro comportamento, la sua depressione, la sua malata ossessione per la morte. Anche se il famigerato episodio dei tagli durante il concerto a Sarpsborg che rese iconica la band ovunque ed il suo suicidio sono ricostruiti in maniera veramente truculenta e con primi piani che fanno voltare lo sguardo altrove, troviamo che questa analisi superficiale di un personaggio fondamentale, insieme a tutta la parte introduttiva pre suicidio, sia veramente affrontata in maniera troppo veloce e poco approfondita.

Da qui in poi entra in scena Grishnack, e la narrazione si sposta sulla fondazione dell’Inner Circle e sui fatti che sconvolsero la placida Norvegia in quel periodo, tra omicidi e roghi di chiese (le profanazioni nei cimiteri sono appena accennate ed inglobate nelle scene dei roghi). E qui la caratterizzazione dei due protagonisti è azzeccata e liberamente interpretata dal regista Jonas Åkerlund. La scelta di costruire i personaggi verteva su due vie: o presentarli come completamente folli e privi di senso morale (cosa umanamente impossibile ed incomprensibile ma largamente condivisa nel pensiero di tantissime persone) oppure mostrarne un presunto lato umano. E diciamo presunto perché nessuno in profondità conosceva effettivamente i due. Ed è da qui che inizia la parte più filmica e romanzata, desunta dalle dichiarazioni dell’epoca di Euronymous e di Varg il quale, essendo ancora vivo, può continuare a parlare liberamente di quei fatti. Oysten è dipinto come un leader che non agisce, non fa assolutamente nulla finché non viene coinvolto in una gara di supremazia dal suo amico/nemico, che tira su le sue imprese con i soldi della famiglia e che approfitta pubblicamente degli atti altrui per farsi pubblicità ed accrescere mediaticamente la sua figura di capo del tutto, con un guadagno esclusivo in termini monetari e di notorietà. Ed è qui che, rispecchiando le dichiarazioni e dipingendolo come è stato effettivamente descritto da Vikernes, lo zoccolo di fan pro Euro si imbizzarrisce.

Dall’altra parte, invece, la mente dei Burzum viene presentata come un adolescente goffo ed insicuro che a tutti i costi vuole essere accettato dal mentore totale del black metal. E qui, la frangia devota a lui si arrabbierà, non vedendo rispecchiata per niente la personalità aggressiva e senza compromessi del lupo solitario di Bergen. Soprattutto perché il regista fa notare queste cose con dei dettagli, come il fatto che Vikernes sia vegetariano e non bevesse alcool mentre tutti gli altri lo fanno. Molti degli attacchi al lungometraggio che circolano su internet derivano proprio da questi dettagli che non rispecchierebbero la realtà storica degli eventi. A questo però vogliamo aggiungere una considerazione molto importante: se si cerca in assoluto la visione della verità, in una storia che di verità ne ha poche palesi e moltissime nascoste (pensate a quante volte le versioni di Vikernes sono cambiate nel corso degli anni, a parte quelle su cui rimane fermamente convinto, che sono poi quelle dove lo svelarsi comporterebbe un suo immediato ritorno in carcere), non la troverà certo in questo contesto. Per quello, esistono i documentari e non è detto che comunque troverà la verità assoluta anche lì, visto che moltissime cose, almeno per chi scrive, rimarranno sepolte per sempre e non verranno mai a galla. Qui si tratta di un film ed i film hanno bisogno, per reggersi su solide basi, di drammatizzazioni, adattamenti di sceneggiatura e libere interpretazioni, condivisibili o meno, da parte del regista.

Ed è qui che andiamo ad analizzare il punto più delicato che ha scatenato un putiferio incredibile: la presunta fidanzata di Euronymous. Mai esistita nella realtà, nel film viene inserita per moltissimi “ad minchiam”, mentre per noi ha un senso preciso ed è quello di personificare la coscienza del chitarrista dei Mayhem. Nella scena finale è praticamente palese. E’ lei a tagliargli i capelli, è lei che lo convince a perseguire il suo sogno e la sua visione musicale, distaccandosi da tutti i fatti criminosi per concentrarsi solamente sul disco di imminente uscita. Quando Øystein apre la porta a Varg prima di essere ucciso è con i capelli corti, in camicia e con i pantaloni della tuta che ascolta i Tangerine Dream, in una sorta di parziale cesura con il passato, anticipata dal contratto dove lascia i Burzum liberi da ogni legame con lui e la sua casa discografica. Non solo. E’ anche grazie a lei che ripensa alla sua amicizia con Dead e lo si vede piangere mentre ripensa a lui, nonostante abbia scattato delle foto al suo cadavere ancora caldo ed abbia preso dei pezzi di cranio, distribuiti poi alle persone ritenute meritevoli. Questa la scelta stilistica percorsa: prendere o lasciare.

Per concludere, uno dei difetti più grandi del film sta nella poca presenza di musica per tutta la sua durata: si contano solo una Stand Up And Shout del mitico Ronnie James Dio nella scena del party animalesco nella villa dei Mayhem ed una Freezing Moon dal vivo decurtata nella sua durata. Consigliamo la visione di Lords Of Chaos senza paraocchi, con la consapevolezza che non si tratta di un racconto che rispecchia la verità al 100% ma una versione delle tante verità, bugie e dichiarazioni circolate (e che continuano a circolare) di questo capitolo della storia del metal.

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15th Mar2019

Suicide, Dream Baby Dream

by Cristian Danzo
Sconvolgere, rivoluzione. Quante volte questi termini, negli ultimi 25 anni, sono stati usati ed abusati nel mondo musicale per spingere un mercato fiaccato da molteplici eventi e varianti. Nella maggior parte dei casi, queste definizioni erano (e sono) emerite stronzate pronunciate da un marketing furbo per acchiappare gonzi che hanno un background musicale più piatto della Terra come la intendono i terrapiattisti. Per i Suicide, invece, il verbo sconvolgere è non solo azzeccato, ma può essere considerato o trademark o sinonimo del duo. Il contesto storico in cui Alan Vega e Martin Rev dettero vita alla loro proposta musicale era la New York negli anni 60-70, uno dei posti peggiori in cui vivere nel mondo occidentale. Dimenticate la città attuale e cercate alcune foto del Lower East Side di quegli anni per capire di cosa si stia parlando. E fare breccia in certe pellacce dure di quel posto, abituate al peggio del peggio, in tempi in cui dominavano prima il jazz, seguito poi dall’esplosione dalla disco music e successivamente dalla nascente ondata punk che tutto travolse nel mitico CBGB, non era esattamente facile.

Eppure quei due, con un Vega che sul palco combinava di tutto e teneva la scena da solo, mentre il fido Rev tesseva trame incontrollabili sul suo organo distorto ed una drum machine da quattro soldi impassibile dietro i suoi occhiali da sole giganti, riuscirono ad essere amati da pochi e odiati da tutti. Persino da quei punk che dicevano che la musica commerciale andava combattuta, da quelli che sopportavano le ondate sonore di Velvet Underground e degli Stooges, che quando i Suicide facevano da opening act scagliavano di tutto sul palco, scatenando ancora di più le provocazioni di Alan Vega che aizzava la folla senza scappare (l’episodio dell’ascia scagliata sul palco durante la data europea all’Apollo di Glasgow di supporto ai Clash dovrebbe essere uno dei momenti nella top ten della storia del rock’n’roll). E sempre quei due, senza guadagnare un soldo, trovando pochissime date per esibirsi, hanno avuto una influenza epocale su moltissimi artisti. Non c’è nulla da obiettare su questo e sono fatti che ormai la storia ha confermato ampiamente. Ed è anche qui che il verbo “sconvolgere” trova ancora la sua simbiosi perfetta con i Suicide: musica rivoluzionaria, poche vendite, eppure una influenza enorme su chi verrà dopo di loro. Citati (e coverizzati) da Bruce Springsteen, The Cars, Billy Idol, Sigue Sigue Sputnik. Voluti fortemente come opener dagli stessi Clash, tanto per fare capire quanto siano monumentali questi due personaggi.

Le voci raccolte in questo magnifico libro dal giornalista inglese Kris Needs e pubblicato da Goodfellas in Italia (finalmente, osiamo dire!) narrano e raccontano questa epica storia, di cui la nostra amata musica vede rarissime pagine. Il tutto è ottimamente contestualizzato nei tempi in cui questo affascinante percorso artistico si è svolto, approfondito in maniera maniacale e assolutamente minuziosa, facendo completamente immergere il lettore nel tempo che fu, avendo il pregio di coinvolgerlo completamente, tanto da far sembrare di essere lì sul posto. In più, le digressioni che vengono fatte su altri innumerevoli artisti citati, offrono spunti di ascolto da sfruttare appieno. Leggetelo, leggetelo, leggetelo. Assolutamente fondamentale.

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Tags : Libri
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