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13th Ago2012

Pearl Jam – Riot Act

by Giuseppe Celano

Sette è un numero importante, soprattutto quando hai un onore da difendere e una carriera da portare avanti, ma non è sempre semplice risucire a superare questa prova. Riot Act è il settimo album dei Pearl Jam che stavolta, per la registrazione, si affidano alle sapienti mani di Adam Kasper ed esce nel 2002. Registrato in due tronconi e missato da Brendan O’Brien, il nuovo lavoro della band è un art rock particolare e ricco di accordature diverse. I nuovi pezzi sono un continuo richiamo al loro passato ma proprio per questo nascondono una serie di insidie da cui è praticamente impossibile fuggire. Sebbene si regga sulle proprie gambe emerge chiaramente un senso di conservazione misto alla polvere che lentamente si deposita fra i solchi di questo lavoro. Le liriche sono pienamente influenzate dall’attacco alle torri gemelle e parlano apertamente di dolore, perdita, disagio e paura. Molti dei brani presenti in questo lavoro sono stati scritti a più mani da Eddie e soci, ma è nel canto che il disco sembra diverso. Vedder lo affronta con meno impostazione tecnica, sembra orientarsi verso un aproccio istintivo e senza fronzoli. La musica è molto meno cerebrale e più diretta, punk se preferite. La risposta alla violenza sul territorio americano prevede una forma di ottimismo disilluso, mascherato da un invito all’azione anarchica. Eddie s’interroga sugli effetti di quel patriottismo tipico della società americana, spazzato via in pochi minuti da una furia cieca e brutale.

Riot Act è l’album in cui il leader della band sfoggia le sue opinioni politiche diventando un Bono più credibile e meno spocchioso ma nel complesso, e sulla lunga distanza, è la musica a soffrire seriamente di nuove formule vincenti. Mancano quelle grandi canzoni che hanno reso immortali i Pearl Jam. Latitano le grandi cavalcate, le ballate sofferenti e soprattutto non c’è il benchè minimo spunto per un rinnovamento necessario e dovuto dopo oltre dieci anni di carriera. I Pearl Jam insistono nel ripetersi, come degli ottimi falsari alle prese con le loro stesse opere. Musicalmente parlando tutto questo si traduce nella furba apertura di Can’t Keep, potente ed energica come ogni opener della band, e nella ballatona triste Love Boat Captain (dedicata ai morti di Roskilde). Neanche l’immancabile singolo I Am Mine, la buona Get Right e l’invettiva contro Bush (Bu$hleaguer) bastano a rialzare le sorti di un disco condannato ad un palese anonimato.

Bisogna coraggiosamente affermare che i Pearl Jam hanno perso i punti di riferimento che caratterizzarono il loro esordio, optando per facili scorciatoie. Non basta sfornare triti riff poderosi con chitarre distorte e sparare a zero sulla politica per guadagnarsi una forma di credibilità e lo status di duri e puri del rock. Insomma Rioct Act tradisce il proprio scopo, sin dal titolo, rimanendo imprigionato nel passato, lo stesso passato che la band vorrebbe teoricamente distruggere con un messaggio di cambiamento (interno) non ancora avvenuto. I Pearl Jam di oggi sono i peggiori nemici che possano incontrare sulla loro strada, la cristallizazzione di una formula funzionante, ma prevedibile come una somma algebrica, li fa sembrare come un transatlantico splendente incapace di prendere il largo perchè ancora saldamente ancorato al proprio passato.

Autore: Pearl Jam Titolo Album: Riot Act
Anno: 2002 Casa Discografica: Epic Records
Genere musicale: Rock Voto: 6
Tipo: CD Sito web: http://www.pearljam.com
Membri band:

Eddie Vedder – voce

Stone Gossard – chitarra

Mick McCready – chitarra

Jeff Ament – basso

Matt Cameron – batteria, percussioni

Tracklist:

  1. Can’t Keep
  2. Save You
  3. Love Boat Captain
  4. Cropduster
  5. Ghost
  6. I Am Mine
  7. Thumbing My Way
  8. You Are
  9. Get Right
  10. Green Disease
  11. Help Help
  12. Bushleaguer
  13. 1/2 Full
  14. Arc
  15. All Or None
Category : Recensioni
Tags : Grunge, Pearl Jam
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12th Ago2012

Die Stille – Black Holes For Dummies

by Giulia Galvani

Uscito sul finire del mese di Maggio per l’interessante label indipendente napoletana, Happy Mopy Records, che ha già dato alle stampe gli appassionati lavori di Redroomdreamers, Stella Diana e My Foolish Heart, arriva a far parlare di sè il disco d’esordio dei Die Stille. I Die Stille sono un trio, che al contrario di come potrebbe suggerire il loro nome dalle tinte germaniche, nasce e si fa le ossa tra Roma e Napoli, proponendo un sound che richiama sonorità d’oltremanica, un pop dolce e amaro, con accelerazioni di alternative rock. I Die Stille sono Diego, militante nel fervente panorama dell’underground partenopeo, dove inizia la sua esperienza musicale, Emanuela, batterista, napoletana di origine ma trapiantata a Roma per proseguire i suoi studi musicali, ed infine Eugenio, che dalle sonorità del violino è passato a quelle della chitarra elettrica. I tre hanno suonato negli anni in tantissime band, collaborando e contribuendo alla scena indie di Napoli e Roma. Hanno attualmente all’attivo dal 2006 ad oggi 2 EP autoprodotti, e le colonne sonore per il corto Oltre Ogni Vita di Giulio Poidomani, e per il documentario Levante Diaries, di Angelo Amoroso d’Aragona. Forti di queste loro esperienze, coadiuvate da un indubbio talento musicale, arrivano al disco d’esordio come Die Stille, Black Holes For Dummies, riassunto di un lavoro iniziato oramai sei anni fa.

I Die Stille di Black Holes For Dummies, sono un essere dalle due anime. Una ironica e dalle tinte forti, l’altra, rappresenta il lato oscuro, nascosto, che si cela in ogni essere vivente. Alcune delle canzoni contenute in questo lavoro le si ritrovava già inserite nel precedente EP omonimo, che assumono qui la dignità dovuta, inserite in un disco con la D maiuscola. L’album si apre con un piccolo capolavoro, Grey, e si chiude con l’ironica Please Leave Britney Alone, il cui titolo prende spunto dal celeberrimo video-protesta di Chris Crocker. Si scriveva appunto “le due anime dei Die Stille, disperazione ed umorismo sarcastico”. Nel mezzo, suona un mondo intero. Con approccio originale, i tre propongono un indie-pop che fortunatamente non sa di già sentito, un sound che evoca influenze beatlesiane e strizza l’occhio ai primi Police; il risultato finale riesce ad essere semplicemente innovativo. Una soffice sorpresa. Un disco che si lascia ascoltare e riascoltare senza forzature, e che ad ogni nuovo play fa trasparire qualcosa di nuovo, trasuda qualche sfumatura che precedentemente non era stata colta, concede nuove sensazioni sonore, evoca inattese emozioni, dallo spirito un po’ vintage.

Il disco echeggia fluido, e anche i piccoli interventi di studio, sui cori piuttosto che sulle seconde voci, incursioni di synth e strumenti vari, non snaturano l’immediatezza del sound live. Dolce naturalezza, ingenua spontaneità. Un indie pop ben suonato. Atmosfere oniriche e spinte più rock, rivelano una sensibilità e una attenta cura dei dettagli, concependo ballate teneramente struggenti, folgoranti, talvolta deliranti, talvolta ironiche e sarcastiche, con testi che si snodano sui piani più disparati, passando da improbabili odi alla Brtiney Spears sino a passi della bibbia. Utilizzano suoni e parole, sapientemente fusi, ma senza costruzioni o esagerazioni, tanto che il disco vibra e fa vibrare in modo genuino ed immediato. Inventano armonie e melodie che si lasciano assaporare con dolcezza, su cui colano le parole in modo naturale.

Spegni la tv. Spegni la luce. Lasciati illuminare solamente dallo schermo del tuo pc o da una lampada soffusa che produca una luce fioca. Un bicchiere di buon vino. Premi play. Segui il mood. Ascolta. Loro sono i Die Stille. 

Autore: Die Stille Titolo Album: Black Holes For Dummies
Anno: 2012 Casa Discografica: Happy Mopy Records
Genere musicale: Indie Voto: 7
Tipo: CD Sito web: http://www.diestille.it
Membri band:

Diego – basso, chitarra, voce

Eugenio – chitarra, voce

Emanuela – batteria

Tracklist:

  1. Intro
  2. Grey
  3. Empty Box
  4. Sandman
  5. Allevi
  6. Own Again
  7. Sandals
  8. Zephaniah 01
  9. Breakdown
  10. Somebody Else
  11. Please Leave Britney Alone
Category : Recensioni
Tags : Indie Rock
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11th Ago2012

Soul Revolution – People

by Giancarlo Amitrano

Non è sempre facile, anche in ambito musicale, accettare delle sfide: troppo facile restare abbarbicati alle comode e rassicuranti proposte musicali fornite agli ascoltatori. La paura di fallire spesso inibisce il gusto del nuovo e dell’esplorazione di nuove sonorità. Non rientrano in questo genere i Soul Revolution: con People, il duo italo inglese Baratelli/Scafetti accetta e convince in questo suo misurarsi nella realizzazione di un mini concept-album. Diversificato in nove tracce, il cd si dipana attraverso una ideale vicenda umana di 9 persone che ritengono di percorrere la medesima strada, accomunati dal desiderio di ritagliarsi ognuno un proprio spazio definito attraverso la musica. Oscillante tra blues, pop, folk il disco si svolge piacevolmente attraverso l’insieme dei brani che, non disgiunti tra essi, ci mostrano e definiscono i singoli personaggi, ognuno con il suo carico di patemi e difficoltà. Come il brano introduttivo, The Dreamer, in cui la voce davvero trasognata della Baratelli ci conduce attraverso mondi immaginari interamente avulsi dalla cruda realtà odierna. Oppure The Taxi Driver, dove le percussioni di Scafetti ci guidano in un viaggio “morbido” nelle periferie suburbane degradate, grazie alla sei corde delicatamente arpeggiata ed alla voce struggente della singer inglese.

The Homeless Couple farebbe la felicità di Candice Night: la compagna di sua maestà Blackmore sarebbe innamorata di questa ballad medievale, in cui la Baratelli riversa tutto il suo intimismo e la tristezza accumulata nell’attesa di un qualcosa che non arriverà mai. The Bride è il gioiellino dell’album: accompagnato da una clip di sicuro impatto, il brano idealmente accompagna una sposa fiduciosa all’altare dal suo innamorato, con percussioni delicate ed una acustica che funge quasi da mandolino malinconico ed intrigante allo stesso tempo. Di certo, uno dei momenti più coinvolgenti del disco con una buona prova vocale della Baratelli. The Bride’s Rich Mother è l’ideale continuazione del brano precedente: le atmosfere quasi “gotiche” del brano preludono ad una ennesima ottima prova vocale della singer, che dosando saggiamente le energie conduce il brano attraverso un suo snodarsi particolarissimo fatto di sapienti stacchi ed interruzioni melodiche che lo uniscono come detto idealmente alla conclusione di The Bride: melanconica e validamente dosata la prova del duo italo-inglese. The Illegal Immigrant viene arricchita dalla presenza di archi, che qui inducono la singer ad arrochire la sua voce, qui più rude e decisa nell’affrontare strofe e ritornelli che riportano alla memoria la superba Alicia Keys nell’estensione vocale. Ottimo brano, con intermezzo ancora più acustico nella fase centrale e di estrazione ancora più medievaleggiante nel suo incedere finale.

The Thief tiene ancora alta la tensione in chi ascolta: paradossalmente, la resa interamente acustica del disco nulla toglie alla sua dimensione coinvolgente nell’articolarsi dei brani. Molto gradevole ed orecchiabile lo stacco centrale, interamente slide ancor più che acustico, su cui la Baratelli riesce ad alternare un gradevole cantato swingato-reggae. A dimostrare la poliedricità del duo, la chitarra di Scafetti si trascina non melensa lungo tutta la durata del brano in una gaia ricerca dello svolazzo acustico, tuttavia non fine a sé stesso. The Lost Love riflette in pieno il titolo: un amore perduto che induce ad un cantato ormai deluso, pur tuttavia ancora fiducioso verso il futuro grazie alla rassicurante presenza del lavoro di Scafetti, teso ad alleviare musicalmente le pene di chi soffre, per un brano molto emotivo e coinvolgente e di non facile lettura, stanti anche i buoni arrangiamenti su esso apportati. Ognuno dei brani ha visto quale ideale protagonista uno dei 9 personaggi in esso descritti: l’ultimo della serie, Carmen, chiude idealmente questo lungo viaggio intimista e futurista con The Artist, dove la Baratelli conclude davvero alla grande la sua performance intensa grazie alle sonorità acustiche che la inducono in una serie di vocalizzi davvero piacevoli e di sicuro interesse che rendono il brano un altro ottimo scalino dell’ideale viaggio intrapreso dal duo italo-inglese, qui validamente in simbiosi compositiva ed interpretativa.

Altri futuri lavori a firma Baratelli/Scafetti ci si aspetta siano sulla stessa falsariga e lunghezza d’onda, ovvero di buona levatura tecnico-compositiva come People.

Autore: Soul Revolution Titolo Album: People
Anno: 2011 Casa Discografica: Autoproduzione
Genere musicale: Soul, Blues Voto: 7
Tipo: CD Sito web: http://www.soulrevolution.it
Membri band:

Deborah Baratelli – voce

Fabrizio Scafetti – chitarra

Silvano Primucci – basso

Alessandro Bertaccini – chitarra

Chiara Padellaro – seconda voce

Andrea Albanese – cajon

Tracklist:

  1. The Dreamer
  2. The Taxi Driver
  3. The Homeless Couple
  4. The Bride
  5. The Bride’s Rich Mother
  6. The Illegal Immigrant
  7. The Thief
  8. The Lost Love
  9. The Artist
Category : Recensioni
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10th Ago2012

Black Sabbath – Cross Purposes

by Giancarlo Amitrano

Un Sabba Nero deve necessariamente essere provvisto di tutti gli ingredienti necessari alla sua buona riuscita: deve essere continuamente irrorato da tutte le alchimie, ivi compresi i cambiamenti nel dosaggio delle “spezie”. Qui intese come nuovi membri, che poi tanto nuovi non lo sono. Fuoriuscito definitivamente Dio per i rinnovati disaccordi con il chitarrista, la band richiama il fido Martin ai microfoni, ingaggiando inoltre l’esperto Rondinelli alle pelli. Il risultato, nella travagliata carriera del gruppo, è il solido Cross Purposes: rilasciato agli inizi del 1994, l’album si caratterizza ancora una volta per la potenza sonora e le tematiche di devastante attualità. Sin dalla opener-track, il gruppo al completo si mette all’opera da par suo: una rullata incredibile di Rondinelli dà la stura alla cavalcata monumentale di Martin che, egregiamente assistito dalla sei corde, sciorina ritornello e strofa centrale in una ideale unione e comunione di intenti. Coadiuvato da un solido riff centrale, il brano si dipana con energia ed ottima sincronia negli arrangiamenti finali che lo rendono già un cult del disco. Cross Of Thorns si staglia nel complesso del disco per la voce modulata di Martin, qui davvero al top dei suoi mezzi tecnici, assecondato in pieno dal resto della band che si mantiene saggiamente di una tonalità sotto, per consentire all’estensione vocale del singer di raggiungere progressivamente il livello di eccellenza che nella fase centrale si assesta al massimo nell’esecuzione del refrain.

Psychophobia riflette in pieno le tematiche in esso proposte: sonorità ossessive che il gruppo tiene con classe a freno, pronte a scattare in una ideale simbiosi di tempi tecnicamente ineccepibili, messi a disposizione dell’economia del brano. Il cantato resta sempre su livelli di eccellenza, anche se in alcune quartine centrali pare volersi tenere le cartucce migliori in serbo per il prosieguo del disco. Virtual Death è un buon apripista al virtuosismo: il gruppo resta compatto nell’esecuzione del brano, mentre Martin si dedica anima e corpo ad una interpretazione molto sentita e partecipe, che rende giustizia al suo bagaglio tecnico inserito in un contesto davvero al fulmicotone. Immaculate Deception si basa su di un inatteso e solido mid-tempo dell’intera strumentazione: le tastiere di Nicholls si esaltano nel dipingere il tappeto sonoro che fa da sottofondo alla voce davvero mefistofelica. Mentre l’ossessiva base ritmica Rondinelli/Butler si scatena in improvvise, brevi ma potenti jam, la sei corde saggiamente si mette al servizio del brano, per poi scatenarsi in un delicato riff che accompagna dolcemente il pezzo alla sua degna conclusione.

Dying For Love è il must dell’intero album: superbamente interpretata dall’intero quintetto, si staglia monumentale sin dalle prime note. Con una drammatica ed opprimente linea chitarristica, Martin si produce in un cantato sapientemente tenuto sotto di una ottava, mentre ancora il mai troppo apprezzato Nicholls consente con i suoi giri di tastiere lo snodarsi compatto del brano, che si caratterizza per i ripetuti “rientri” vocali che vanno ad innestarsi sulla sei corde meravigliosamente slide. Back To Eden rappresenta l’ennesima gemma: un intricato giro di basso consente a Iommi di sbizzarirsi in una serie di improvvisazioni di breve ma sicuro impatto. Martin si mantiene sulla linea sonora della continuità vocale, mentre il valido lavoro di Rondinelli consente di valorizzare ancora meglio l’intrico ritmico-solista del brano. The Hand That Rocks The Cradle ci consegna la band al suo top: superbo Nicholls nel tratteggiare ideali linee artistiche cui il gruppo si adegua con una vena quasi prog nello snodarsi del refrain e del riff centrale. Il singer resta saldo nella sua estensione vocale, potente e decisa nel proporre le note centrali che fanno da apripista alla sessione finale del brano, che qui ci appare davvero valido nella sua “medievalità” finale, che cattura e rapisce l’ascolto. L’interpretazione di Cardinal Sin sembra voler rendere omaggio agli albori del gruppo: il ritmo sincopato del brano ci riporta a fasti di tre decadi orsono, quando dietro i microfoni si esibiva il Madman per eccellenza. L’esposizione del testo resta memorabile nel canto, nella traccia sonora del tutto composita e compatta, che senza fronzoli perviene alla parte finale, di esclusiva proprietà di Iommi che da par suo completa l’intero pentagramma delle note per rendere il brano ancor più potente.

Evil Eye conclude degnamente il disco: con la partecipazione straordinaria di Eddie Van Halen alla sua stesura, il brano acquista quel quid in più di imprevedibilità. La sezione ritmica è qui al suo top: l’uso sapiente della doppia cassa, unito al robusto giro di basso, accolgono alla grande lo screaming espositivo, sovvenuto alla grande dall’ennesimo solo di bravura mostruosa di Iommi, che ad epitaffio finale rende memorabile anche l’ultimo brano. Un disco che non rappresenta il canto del cigno per il gruppo, ma anzi fungerà da carburante per le prossime emozionanti proposte della band.

Autore: Black Sabbath Titolo Album: Cross Purposes
Anno: 1994 Casa Discografica: I.R.S Records
Genere musicale: Hard Rock Voto: 8
Tipo: CD Sito web: http://www.black-sabbath.com
Membri band:

Tony Martin – voce

Tony Iommi – chitarra

Terrence “Geezer” Butler – basso

Bobby Rondinelli – batteria, percussioni

Geoff Nicholls – tastiere

Tracklist:

  1. I Witness
  2. Cross Of Thorns
  3. Psychophobia
  4. Virtual Death
  5. Immaculate Deception
  6. Dying For Love
  7. Back To Eden
  8. The Hand That Rocks The Cradle
  9. Cardinal Sin
  10. Evil Eye
Category : Recensioni
Tags : Black Sabbath
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09th Ago2012

Opeth – My Arms, Your Hearse

by Martino Pederzolli

Piove. Una pioggia battente apre il terzo studio album degli Opeth My Arms, Your Hearse, seguita da un piano suonato dallo stesso Åkerfeldt che concorre a formare Prologue. Prologo in tutti i sensi perché il disco in questione, datato agosto 1998, è il primo concept album della band svedese. Vi si narra la storia di un uomo che, morendo, diventa un fantasma ed osserva la moglie in lutto per la sua morte, struggendosi a sua volta. Insomma, una tristezza nella tristezza, niente pace nemmeno dopo la morte ma, in fondo, stiamo ascoltando gli Opeth che affrontano con destrezza e maestria la prova del concept. I testi vennero scritti prima della musica e ciò che li caratterizza maggiormente è che l’ultima parola di ogni brano è il titolo del successivo, cosa che suggella e completa la narrazione dell’intero lavoro; inoltre dichiarano, più o meno esplicitamente, un riferimento cronico. Leggendo i brani di fila ci si accorge infatti che le stagioni passano ed il disco si chiude esattamente un anno dopo, verso la fine dell’inverno, ma senza che nulla sia sostanzialmente mutato nella vita dell’una e nella “non vita” dell’altro. Tra l’altro anche i brani strumentali hanno un testo (si trova nel booklet) una scelta coraggiosa a nostro avviso ma che esprime bene il lavoro di ricerca svolto dal gruppo sui testi e sulla musica che, in questi casi, funge da “altro” testo.

April Ethereal apre il primo scorcio nella vita dei due rivelando da subito un growl più potente e più definito, incastri di chitarra di pregevole fattura ed il consueto, pazzo, songwriting degli Opeth. Alternando compositi riff distorti a suoni puliti e mai scontati, i Nostri ci accompagnano lungo l’album attraverso When (con un intro di chitarra che sorride a To Live Is To Die dei Metallica), in cui i vari movimenti fluiscono naturalmente l’uno dentro l’altro senza forzature. Madrigal è la seconda traccia strumentale che si incontra: le due chitarre come i due protagonisti, uno di fronte all’altra, creano pathos, intimità, e nel testo si legge di lui che vorrebbe carezzarle “gli occhi fin quando non si apriranno più” ma è consapevole della sua inconsistenza. Si cambia allora registro con la potentissima The Amen Corner, che annuncia l’estate con un riff infuocato per affrontare poi, a metà canzone, le ritmiche tipiche del doom con le lente avanzate e chiudendo con un lento sfumare (unico pezzo nel disco dove si nota il basso).

Demon Of The Fall porta con sé l’autunno e l’atmosfera fredda, luttuosa che si fanno subito sentire in questo brano. Ciò che segue, con molta sorpresa per chi ascolta, è una pulitissima Credence dove le influenze progressive emergono con forza visto il carattere “cosmico” di questa canzone. Chitarra allungata ed elastica e voce quasi sospirata, inquadrano il pezzo in una cornice diversa dal metal. Nulla a che vedere con la successiva Karma, la summa musicale di questo lavoro, che passa in rassegna le idee degli Opeth: dai suoni tipici di Orchid fino alle scelte più vicine all’ambiente rock di questa ultima fatica.

Si chiude con la floydiana Epilogue dove ci aspetta anche un hammond, suonato per l’occasione da Fredrik Nordström (produttore e musicista), ed i richiami a Waters e compagni sono molto più di una citazione in questa conclusione che simboleggia la fine dell’inverno e l’inizio della primavera riportando l’ascoltatore nuovamente al prologo, nell’infinito succedersi delle stagioni.

Autore: Opeth Titolo Album: My Arms, Your Hearse
Anno: 1998 Casa Discografica: Candlelight Records
Genere musicale: Prog Metal Voto: 9
Tipo: CD Sito web: http://www.opeth.com
Membri band:

Mikael Åkerfeldt – chitarra, voce

Fredrik Åkesson – chitarra

Martin Mendez – basso

Martin Axenrot – batteria

Joakim Svalberg – tastiera

Tracklist:

  1. Prologue
  2. April Ethereal
  3. When
  4. Madrigal
  5. The Amen Corner
  6. Demon Of The Fall
  7. Credence
  8. Karma
  9. Epilogue
Category : Recensioni
Tags : Opeth
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09th Ago2012

Serpenti – Serpenti

by Marcello Zinno

Ecco i due fenomeni più comuni nell’odierna evoluzione della scena rock che si incontrano in un unico prodotto discografico: formazione in duo ed elettronica a pioggia che si sostituisce a riff elettrici incandescenti. Elementi questi che sempre di più stanno caratterizzando la parte finale degli anni ’00 e i primi del nuovo decennio, non solo grazie alla riscoperta degli scenari elettro-dance tipici degli anni ’80 ma anche attraverso i nuovi strumenti tecnologici (leggasi tool) che permettono di generare moltissimi suoni senza però suonare uno strumenti vero (e questo snatura molto l’essenza del rock come noi la concepiamo). Da questa premessa nascono i Serpenti dove il verbo “nascere” è usato fuori luogo visto che il duo è già al secondo capitolo discografico, dopo il primo Sottoterra uscito per l’etichetta indipendente Godz di proprietà proprio di Luca Serpenti. Tralasciando il primo brano Tenax, uscito originariamente sull’album La Parola Ai Testimoni di Enrico Ruggeri, scritto da lui stesso e nel quale diversi altri artisti hanno partecipato, l’approccio musicale dei Serpenti è profondamente elettronico: mezz’ora di ascolto dove passaggi più pacati ed effettati (Senza Dubbio) si alternano a crepe dance ballabili (Come Il Tempo) ma sempre sfiorando una matrice rock che non appartiene fondamentalmente alla band. Tocca La Mia Bocca e Scendo Piano suonano come delle b-side dei Subsonica, ancora più effettata se possibile, distanti dai vari momenti elettro-pop dell’album come Uomo Donna o Io, Tu e Noi.

Va riconosciuta al duo Luca/Gianclaudia una capacità nel rendere musicale l’elettronica e non ballabile a tutti i costi, ma anche da ascolto semplice, disinteressato. Mancano riff decisi, la drum machine è onnipresente, le linee vocali unite a tastiere effettate creano il gioco melodico sul quale tutto si poggia per uno scenario musicale/ritmico che difficilmente irrompe oltre il comparto elettronico retrodatato: in conclusione una band per i veri appassionati dell’elettronica targata ’80 o anche per gli ascoltatori dell’alternative che cercano qualcosa di diverso. Lontano invece dalle passioni dei rocker più incalliti.

Autore: Serpenti Titolo Album: Serpenti
Anno: 2012 Casa Discografica: Universal
Genere musicale: Elettronica Voto: 5,5
Tipo: CD Sito web: http://www.serpentimusic.com
Membri band:

Luca Serpenti – basso

Gianclaudia Franchini – cantante

Tracklist:

  1. Tenax
  2. Io Sono Sono Normale
  3. Senza Dubbio
  4. Tocca La Mia Bocca
  5. Uomo Donna
  6. Io, Tu E Noi
  7. Come Il Tempo
  8. Scendo Piano
Category : Recensioni
Tags : Electro Rock
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08th Ago2012

Mayhem – Deathcrush

by Alberto Vitale

Una copertina dozzinale e graficamente approssimativa. Una foto in bianco e nero e in cima ad essa un logo che assomiglia ad un pipistrello, sul quale si poggia una piccola scritta, “the true”. Il contenuto si apre con delle percussioni tribali, in realtà è un pezzo di Conrad Schnitzer dei Tangerine Dream. Poi tutto tace, il silenzio è conseguentemente squarciato da uno dei riff più voraci che il metal estremo abbia mai partorito: è l’attacco di Deathcrush. I Mayhem sono tra le divinità maggiori del movimento black metal. Norvegesi, una storia segnata dal sangue che scorre nell’omicidio del fondatore Øystein Aarseth (ovvero Euronymous) ad opera di Varg Vikernes (detto Count Grishnackh, colui che è dietro a Burzum, altra divinità del genere) e nel suicidio di Dead (una fucilata alla testa). I Mayhem nascono nel 1984, Euronymous è un chitarrista dal sound rabbioso, con accordatura in minore – la cosa farà poi scuola nell’ambiente black – e dai riff che procedono svelti e ringhianti; lo testimonia il demo del 1986, Pure Fucking Armageddon e lo conferma la prima opera appunto Deathcrush, un EP con quattro pezzi, una cover, una intro e una outro.

Silvester Anfang, l’intro succitata, precede la title track con un riff che è il frutto di un heavy metal esacerbato mentre la batteria di Manheim (anche autore dello storico logo) batte forte, quasi sembra arrancare in alcuni momenti, ma suona decisa. La musica scorre maleficamente, il sound è quello dei Venom, anche se riconoscono Sodom, Destruction e tanti altri. Tuttavia, per quanto possa derivare da qualcosa, Deathcrush è un lavoro che viaggia verso l’estremo percorso del metal, prevalentemente in ambito thrash metal e death metal. Il basso di Necrobutcher è carnivoro, denso, indiavolato e Maniac è il cantante che si esprime attraverso un urlo dai toni crudi, pazzi, invasati. Lui mette i brividi, non ci si rende mai conto fino in fondo se si tratta di canto oppure se è frutto di pazzia.

Chainsaw Gutsfuck anticipa quello che i Darkthrone faranno, negli anni a seguire, con i loro tempi medi o lenti. Witching Hour è una cover dei Venom: si può prescindere da loro senza omaggiarli di una cover? Assolutamente no essendo loro i padrini dei Mayhem. Witching Hour è l’orrore trasportato in musica, non c’è Maniac alla voce ma il primo cantante dei Mayhem, cioè Messiah (senza considerare la primissima esperienza di Euronymous dietro il microfono). Il timbro vocale è più cupo, la velocità esecutiva degli strumenti è lanciata. Quello che i Mayhem compiono in questa cover spiega perché il black metal deve tanto ai Venom. Necrolust, altra esasperazione degli schemi, altra velocità ai limiti della capacità di pensare del diavolo. I riff salgono e scendono di velocità, Manheim detta i tempi, esasperando i colpi e peccando anche di precisione. Ma che importanza ha? Prima di tirare fuori l’ultimo ruggito Deathcrush si conclude con una sorta di outro (Weird) Manheim, ovvero una nenia figlia delle ombre e suonata con un  pianoforte malfermo, la quale precede Pure Fucking Armageddon, canzone che battezza il nome di un precedente demo (dal discreto successo) della band.

I Mayhem pubblicarono Deathcrush attraverso la Posercorpse Music in vinile e audiocassetta, tutte e due i formati erano rigorosamente numerati a mano. La Deathlike Silence Production (etichetta fondata da Euronymous, proprietario anche del negozio di dischi Helvete cioè “Inferno”) curerà poi la versione in CD. I Mayhem incisero il lavoro tra febbraio e novembre del 1987 al Creative Studio di Kolbotn (città natale dei Darkthrone). La foto in copertina raffigura due mani mozzate (pare scattata in Mauritania), siccome all’epoca c’erano diverse formazioni con quel nome Euronymous pensò bene di aggiungergli quell’aggettivo (“the true”) nel logo. Curiosamente le prime stampe dal mini album vennero fuori, per errore, in rosa e non in rosso. Le vendite andarono bene e Deathcrush nel tempo andò sempre in esaurimento nelle riproposizioni in vinile. All’epoca i Mayhem, si sentiva, erano portatori di un verbo nuovo, niente affatto blasfemo e completamente estremo. Il fatto stesso di riportare sul retro un simbolo del divieto con dentro la faccia di Scott Burns (glorioso produttore di innumerevoli release della scena death della Florida) e la dicitura “no fun, no core, no mosh, no trends“, significa creare un elemento di rottura verso tutta la scena metal estrema. I Mayhem daranno il gelido soffio vitale al black metal, anche attraverso cambi di formazione, ma soprattutto con l’impulso di idee nuove, stilisticamente avvincenti e torbide. I Mayhem segneranno la storia del genere anche per fatti di cronaca nera, di gesta memorabili e leggendarie, ma queste le racconteremo a tempo debito.

Autore: Mayhem Titolo Album: Deathcrush
Anno: 1987 Casa Discografica: Deathlike Silence Production
Genere musicale: Black Metal Voto: 8
Tipo: CD Sito web: http://www.thetruemayhem.com
Membri band:

Maniac – voce

Euronymous – chitarra

Necrobutcher – basso

Manheim – batteria

Tracklist:

  1. Silvester Anfang
  2. Deathcrush
  3. Chainsaw Gutsfuck
  4. Witching Hour
  5. Necrolust
  6. (Weird) Manheim
  7. Pure Fucking Armageddon
Category : Recensioni
Tags : Black metal
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08th Ago2012

Black Ink – Reminiscence

by Marcello Zinno

Una giovane band (ma non fatta proprio da giovanissimi) dopo un anno dalla formazione affronta il primo scoglio, il primo EP. Tutte le band (o quasi) sono passate per questo infausto esame e sulla base della risposta del mercato e della critica la carriera ha preso via via una strada diversa. Noi sulla carriera dei Black Ink ci possiamo scommettere: come ogni demo che si rispetti l’audio è buono anche se non perfetto, ma ciò che conta sono le idee e le proposte e qui bisogna ammettere che i contenuti non mancano. Inutile cercare mille interpretazioni alla musica dei Black Ink: qui si parla di puro prog metal, meno orientato a tecnicismi fini a se stessi ma più rotondo, strumentale alla costruzione di una canzone completa in tutto e per tutto, non a caso i soli cinque brani inclusi in questo EP si allungano per mezz’ora di durata complessiva. Certo gli apprezzamenti cadono a pioggia sia per quanto riguarda il gioco della sezione ritmica che riesce a tessere trame davvero interessanti, sia per l’accoppiata dei due strumenti a corda che talvolta sembrano viaggiare all’unisono mentre in altri momenti si seguono per irrompere la scena con dei riff precisi e diretti.

Un prog metal quasi sempre erede di passi già compiuti da altre band: si nota qualche ingrediente in termini di ambientazione del songrwriting alla Circus Maximus o anche qualche soluzione heavy prog alla Silent Field di A New Day, ma in fondo durante l’ascolto si lascia apprezzare sia una certa originalità/spontaneità nell’offerta della band sia (ed è ciò che colpisce di più) una varietà costruttiva nell’ascolto dei singoli brani. New Day è il classico esempio con un rifferama ovvio debitore alla scuola del Teatro del Sogno (periodo da Six Degrees Of Inner Turbolence in poi) mentre la traccia che prende il nome della band risulta un vero passaggio trasversale nella ricetta del quintetto, da attimi lenti ad assoli costruiti ad arte fino a giungere a cavalcate avvolgenti.

Una parentesi a parte per la voce di Laura Lerti che pur risultando azzeccata tecnicamente e non brillando per estensione vocale risulta accattivante quanto basta per aggredire l’ascoltatore (a tratti ricorda la voce della ribelle Michelle Meldrum): nella ballad Bitter Tears il valore e le potenzialità di una voce al femminile divengono cristalline, soprattutto se accopiate ad una tastiera melanconica. Plauso ad hoc va alla conclusiva Confused, dove le influenze degli scandinavi Circus Maximus divengono più lampanti ma allo stesso tempo i Nostri si imbattono in un pezzo ben più complesso, dove la tastiera cerca di crearsi un ruolo tutto suo pur essendo inframmezzata da parti elettriche potenti e in prima linea.

Un pizzico di maturazione in più, qualche euro da parte per creare una produzione migliore e i Black Ink saranno pronti al grande salto. Noi siamo convinti che avverrà molto presto.

Autore: Black Ink Titolo Album: Reminiscence
Anno: 2012 Casa Discografica: Revalve Records
Genere musicale: Prog Metal Voto: 7
Tipo: EP Sito web: http://www.myspace.com/blackinkreminiscence
Membri band:

Laura Lerti – voce

Michele Podda – chitarra

Rocco Iacovino – tastiera

Andrea Botto – basso

Giuseppe Ierace – batteria

Tracklist:

  1. Could Soul
  2. New Day
  3. Black Ink
  4. Bitter Tears
  5. Confused
Category : Recensioni
Tags : Progressive
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07th Ago2012

L’Alba Di Nuovo – La Nuova Razza

by Rod

L’hardcore e il punk sono da sempre sinonimo di protesta e di ribellione, l’incarnazione di quel grido di accusa ed allo stesso tempo di speranza che si palesa in una miriade di rimandi, di riferimenti espliciti e di significati prettamente di natura sociopolitica. Lo sa bene l’agguerrito combo ternano de L’Alba Di Nuovo, out da qualche mese con la loro ultima fatica La Nuova Razza, un lavoro granitico e tosto che nelle undici tracce proposte, prende per la gola a colpi di distorsioni fulminanti, le devianze e le alterazioni della civiltà moderna. L’album apre e chiude con due brevissime tracce, Intro ed Outro, mentre le rimanenti nove canzoni, incarnano appieno lo spirito hardcore/punk nella sua variante melodica, accendendo i riflettori su questioni legate all’insofferenza nei confronti della vita contemporanea e a problemi sociali o individuali. Ne sono riprova, tra tutti gli altri, brani come La Tua Identità, Il Tempo o La Nuova Razza che grazie anche ad un groove potente e all’uso del growl, mostrano un sound che, se contestualizzato all’intero album, si palesa già ben rodato e perfezionato.

In L’Uomo Creò Dio e Virus le tematiche di fondo si spostano di poco, focalizzandosi su ambiti ben precisi, molto vicini alla condizione umana, come la critica religiosa e la denuncia della questione ambientale. Al di là di una certa maturazione che deve necessariamente arrivare soprattutto nella stesura delle liriche che spesso in alcuni passaggi non sembrano fluidamente in scia con il resto del contesto del brano, La Nuova Razza segna un punto a favore di una giovane band capace di dimostrare, nonostante tutto, il proprio appeal al sound hardcore e quindi la propria precisa identità artistica.

Autore: L’Alba Di Nuovo Titolo Album: La Nuova Razza
Anno: 2012 Casa Discografica: GBSound
Genere musicale: Hardcore Voto: 6
Tipo: CD Sito web: http://www.lalbadinuovo.com
Membri band:

Daniele – voce

Corrado – chitarra

David – chitarra

Zino – basso

Matteo – batteria

Tracklist:

  1. Intro
  2. La Tua Identità
  3. Il Tempo
  4. Citazioni
  5. La Nuova Razza
  6. Decisioni
  7. E L’Uomo Creò Dio
  8. Il Mattino
  9. Radio
  10. Virus
  11. Outro
Category : Recensioni
Tags : Hardcore
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06th Ago2012

Pearl Jam – Binaural

by Giuseppe Celano

Il sesto disco dei Pearl Jam, all’indomani del successo mondiale di Yield, è caratterizzato da seri problemi di riabilitazione da droghe per il chitarrista Mike MaCready e con il blocco dello scrittore per Eddie che, per la prima volta nella sua carriera, si trova impegnato a fronteggiare la sindrome del foglio bianco. Nel frattempo qualcos’altro è cambiato, Brendan O’Brien è stato rimpiazzato, almeno in parte, da Tchad Blake, famoso per l’utilizzo del doppio microfono per un effetto 3D. E non solo, anche la struttura fondamentale della sezione ritmica cambia con l’ingresso di Matt Cameron al posto di Jack Irons. Come per l’album precedente, anche queste sessioni sono il frutto di un lavoro individuale che poi confluisce in studio pronto per essere missato. Binaural risulta un album meno rock e decisamente orientato verso sperimentazioni dal piglio punk. I Pearl Jam cercano brani più complessi e meno facili da assimilare costringendo i loro ascoltatori ad un approccio più difficoltoso che richiede molta concentrazione. E con l’arrivo di Cameron anche la sezione ritmica assume un’altra forma, più stratificata e stabile. Il disco si avvita su cambi di tempo, atmosfere riflessive, virate postpunk, code psichedeliche e ballate quasi al limite del folk. Il nuovo lavoro è più rilassato, libero insomma dalla morsa del grunge, i brani sono eterogenei, il suono secco sembra urlare a chiare note la voglia di distaccarsi da un genere che loro malgrado li ha fagocitati.

Nessun antagonismo con i Nirvana, basta gare per il podio e pochi ammiccamenti al pubblico i cinque cavalieri di Seattle scelgono di suonare ciò che amano attraverso uno stile ormai consolidato. Nessun brano sembra un vero e proprio singolo, il senso di omogeneità prevale su tutto, Binaural è un album più pacato ma non domo. La guardia è sempre alta, come maestri di arti marziali, riflessivi e letali come l’attacco di un cobra reale. Se nel precedente lavoro avevamo citato Neil Young come maggiore influenza oggi possiamo dire che Vedder e soci guardano con più attenzione al suono che ha reso grandi gli The Who. È Breakerfall con i suoi due minuti a violare il silenzio affettandolo chirugicamente nota dopo nota. God’s Dice e Grievance sono il piglio punk di cui sopra che, mischiato all’indomabile gene dell’hard rock, danno vita a un connubbio vincente e incendiario, modello MC5 tanto per capirsi. I testi spaziano dall’onnipresente disagio di Eddie alla critica sociale contro eventi come la strage della Colombine High School. Non mancano i momenti di romanticismo, e i primi segnali d’innamoramento per l’ukulele in Soon Forget.

Binaural è un album basico, forse scontenterà molti fan di vecchia data abituati a riff granitici e brani spaccaossa, ma sarebbe un errore considerarlo un album figlio di dei minori.

Autore: Pearl Jam Titolo Album: Binaural
Anno: 2000 Casa Discografica: Epic Records
Genere musicale: Rock Voto: 7,5
Tipo: CD Sito web: http://www.pearljam.com
Membri band:

Eddie Vedder – voce

Stone Gossard – chitarra

Mick McCready – chitarra

Jeff Ament – basso

Matt Cameron – batteria, percussioni

Tracklist:

  1. Breakerfall
  2. God’s Dice
  3. Evacuation
  4. Light Years
  5. Nothing As It Seems
  6. Thin Air
  7. Insignificance
  8. Of The Girl
  9. Grievance
  10. Rival
  11. Sleight Of Hand
  12. Soon Forget
  13. Parting Ways
Category : Recensioni
Tags : Grunge, Pearl Jam
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