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31st Lug2012

Il Silenzio Del Mare – Il Primo Giorno

by Alessandro

Di impronta marcatamente jazz e blues, è composto da brevi, ma intense storie raccontate con intensità cantautorale da Giovanni Del Giudice supportato da Daniele Galanti piano e cori, Simone Morgantini flauto e sax, Riccardo Cardazzo batteria e da Alessandro Geri contrabbasso, loro sono Il Silenzio Del Mare e questo Il Primo Giorno il loro album di debutto. Le melodie armoniose, la voce pulita l’intensità dei testi, trasportano verso atmosfere acquerellate, come catapultati in un sogno indistinto caldo e luminoso, dove la luce del sole filtra dagli alberi e una lieve fragranza di salsedine ci raggiunge da lontano silenziosa come il mare sullo sfondo. I testi sono accessibili, ma mai banali, con un po’ di malinconia quando serve, e la giusta dose di ironia, creano quell’atmosfera che solo la buona musica italiana sa creare. Ad aprire è la title track Il Primo Giorno, il piano conferisce da subito intensità al brano, e la voce di Giovanni Del Giudice impreziosisce quello che è“il primo più bel giorno ce ci sia”. A seguire di carattere più lieve e giocoso è Canzone Delle Stelle che con il suo incedere cadenzato a metà strade fra sogno e realtà ci porta a riflettere sul “sapore delle stelle”, degni di nota i fiati che trovano modo di esprimersi al meglio. Un’atmosfera più malinconica quasi di felliniana memoria è Il Silenzio Del Mare, la chitarra acustica suonata da Del Giudice, introduce un brano particolare, alleggerito dai solfeggi di Simone Morgantini. A seguire una intrigante bossa nova La Terra Vista Dalle Nuvole, ricordando il buon Mario Venuti.

Lo swing travolgente di Nuovo Realismo e i tratti british mostrano l’influenza dei numi tutelari Paolo Conte e Sergio Caputo. La struggente cover di Don Backy Sognando rende al meglio questa commovente storia di disagio mentale sempre attuale. L’inizio da vecchio film, una armonica suona solitaria accompagnata da un piano malinconico, Le Strade Nuove vira immediatamente verso sonorità più pop estremamente gradevoli. In questo elogio alla stagione che preferisco, Estate, gli strumenti in sottofondo lasciano spazio alla voce in un brano a tratti ipnotico. Le influenze si sprecano in Il Mondo Sembra Vero, riportando alla mente grandi maestri quali Pink Floyd e King Krimson fino  a spingersi verso i Radiohead molto interessante. Se ancora qualcuno non se ne fosse accorto c’è Aria Di Crisi e ce lo ricordano con questo brano ironico e autoironic, a tratti beatlesiano.

Il progetto Il Silenzio Del Mare è molto molto, lo scriverei un’altra volta anzi lo scrivo molto interessante, l’album suona bene, intriga, commuove insomma tutto quello che si può desiderare. Pescando un po dalla biografica del gruppo, non sorprendono i riconoscimenti ricevuti dalla band che grazie ad arrangiamenti, niente computer, tanta sala prove riesce a regalare un gioiellino di buona musica d’autore. Bravi!

Autore: Il Silenzio Del Mare Titolo Album: Il Primo Giorno
Anno: 2012 Casa Discografica: Red Cat Promotion
Genere musicale: Jazz, Blues, Voto: 6,5
Tipo: CD Sito web: http://www.ilsilenziodelmare.it/
Membri band:

Giovanni Del Giudice – chitarre, voci, fischi, strane armoniche

Daniele Galanti – pianoforte, cori

Riccardo Cardazzo – batteria

Alessandro Geri – contrabbasso

Simone Morgantini – flauto, sassofoni

Tracklist:

  1. Il Primo Giorno
  2. Canzone Delle Stelle
  3. Il silenzio Del Mare
  4. La Terra Vista Dalle Nuvole
  5. Nuovo Realismo
  6. Sognando (cover Don Backy)
  7. Le Strade Nuove
  8. Estate
  9. Il Mondo Sembra Vero
  10. Aria Di Crisi

 

Category : Recensioni
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30th Lug2012

Pearl Jam – Yield

by Giuseppe Celano

A due anni di distanza dalla momentanea battuta d’arresto, testimoniata da No Code (1996) che aveva fatto prendere un colpo a molti fan, i Pearl Jam si buttano a capofitto nel loro quinto album, intitolato Yield. Se il suo predecessore viveva di luci e ombre, quest’ultime proiettate sul futuro molto incerto della band tanto da ventilare l’ipotesi dello scioglimento, il nuovo lavora cambia registro e, mettendo una marcia in più, si riporta sui livelli di Ten e Vs. ma con una maturità che lo eleva per qualità e ispirazione. Non solo ritrovano la capacità di scrivere insieme i brani, riequilibrando le varie parti in un’armonia compositiva, ma si riappropriano della capacità di scolpire riff granitici, tipici del loro impetuoso rock da stadio. La conseguenza di tutto ciò è visibile anche nei testi, spesso ispirati da opere letterarie che vanno da Bukowski a Il Maestro e Margherita di Mikhail Bulkagov passando per Daniel Quinn. A differenza del passato infatti le liriche sono più aperte e positive, Eddie indaga sempre sulla psiche dell’uomo nelle sue varie forme, ma in maniera più pacata e riflessiva. L’unica cosa immutata, in questi anni di cambiamenti, rimane la scelta di collaborare con Brendan O’Brien, saldamente ancorato al timone della produzione. Con Yield il combo di Seattle non s’impone limiti di tempo, si registra alla vecchia maniera, ogni membro porta dei frammenti che diventano formato canzone. I loro detrattori potrebbero accusarli di una svolta pop con atteggiamento radio-friendly, ma la verità è che le nuove composizioni sono efficaci e vivono in un equilibrio stabile. Per quanto riguarda il titolo, la teoria più accreditata è che si riferisca al tema centrale di Ishmael, romanzo di Daniel Quinn, che suggerisce di “arrendersi e concedersi alla natura”.

Passando alla musica, Yield si apre sulle note urgenti di Brian Of J. in cui Eddie passa dal canto muscolare al sussurro con un’eleganza invidiabile, le chitarre sferzano come vento caldo del deserto alzando una sabbia bruciante che arriva dritta negli occhi. Il piglio energico e graffiante dell’opener si stempera velocemente nella successiva Faithful, ballata in pieno stile Pearl Jam che sceglie una melodia accattivante e chitarre ben strutturate su cui Eddie fornisce un buona prova vocale. L’andamento lineare della sezione ritmica in No Way è contrappuntato dal lavorio incessante di chitarre sepolte nel missaggio che, dissociandosi dal rifferama portante, creano un effetto straniante, reso piacevole dalle linee melodiche della voce. Ma è con Give To Fly, gemella legittima di Going To California e riconosciuta da Robert Plant (durante quel tour la eseguirà proprio come Eddie) che i Nostri toccano uno degli highlight dell’intero lavoro. La melodia cristallina, le vette emozionali, la somiglianza ormai definitiva con gli Zeppelin colpiscono l’ascoltatore nel profondo, risvegliando le emozioni più nascoste.

Le buone intenzioni e i sogni sono impressi nella lista dei desideri della successiva Whishlist che, come le precedenti ballate, gioca sull’ormai consolidata coppia melodia e ugola di Vedder, vocalmente più credibile e vero rispetto al passato. L’assolo elegante e austero s’infila fra gli arpeggi delle chitarre mai invadenti per un risultato vincente. Con Do The Evolution, brano dedicato al controllo maniacale delle vite attraverso l’ossessione per la tecnologia, i Nostri sferrano un uppercut dritto sul mento, di quelli che ti mettono al tappeto. Ottimo anche il video che l’ha reso un classico delle loro esibizioni. Bisogna attendere otto brani per ritrovare un minuto di quella sperimentazione tanto cara alla band in Untitled, brano scritto da Jack Irons. Il tentativo sperimentale è raddoppiato in Push Me, Pull Me. MFC scivola via veloce con andamento dritto su binario lasciando spazio a un’altra ballata, e siamo a quota cinque, intitolata Low Light. Non si fatica a immaginarli mentre la eseguono dal vivo con quella melodia delicata, l’andamento sinuoso con le chitarre che accarezzano il cuore e gli accendini del pubblico in totale adorazione.

Yield non solo è l’album del ritorno, non che se ne fossero mai andati davvero, ma rappresentata anche il consolidamento interno della band e la cristallizzazione agli occhi della critica e del pubblico che ormai li ha eletti a vere e proprie star. Il valore emotivo e musicale di quest’album non sarà mai più eguagliato in seguito anche se il quintetto manterrà alta la bandiera di un rock poderoso e sempre socialmente impegnato. Vi aspettiamo lunedì prossimo con il nuovo capitolo di questa saga intitolata semplicemente Pearl Jam.

P.S. Per i più curiosi Push Me, Pull Me contiene un passaggio di Happy When I’m Criying, scritto da Irons e rilasciato successivamente nel 1997, e All Those Yesterdays contiene Hummus.

Autore: Peral Jam Titolo Album: Yield
Anno: 1998 Casa Discografica: Epic Records
Genere musicale: Rock Voto: 8,5
Tipo: CD Sito web: http://www.pearljam.com
Membri band:

Eddie Vedder – voce

Stone Gossard – chitarra

Mick McCready – chitarra

Jeff Ament – basso

Jack Irons – batteria, percussioni

Tracklist:

  1. Brain Of J.
  2. Faithful
  3. No Way
  4. Given To Fly
  5. Wishlist
  6. Pilate
  7. Do The Evolution
  8. Untitled (The Color Red)
  9. MFC
  10. Low Light
  11. In Hiding
  12. Push Me, Pull Me
  13. All Those Yesterdays
Category : Recensioni
Tags : Grunge, Pearl Jam
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30th Lug2012

Belly Bluster – Belly Bluster

by Rod

La contaminazione tra più generi musicali è senza dubbio la grande sfida artistica a cui guarda con interesse una parte del panorama discografico internazionale. In Italia sono diverse le formazioni che da anni portano avanti progetti di questo genere, in cui si tenta principalmente di mescolare il sound elettrico e scalpitante del rock con le affascinanti atmosfere celtiche e tradizionali. Tra le band che ben si disimpegnano in questa ricerca identitaria, vi sono i Belly Bluster, un supercombo casertano formato da ben nove elementi che con l’omonimo EP autoprodotto Belly Bluster, riesce a fondere caparbiamente generi come rock, punk, celtica e musica popolare con tematiche affascinanti afferenti la rievocazione romanzesca delle imprese di pirati e di briganti. L’utilizzo dell’italiano, dell’inglese e del napoletano (dialetto recentemente riconosciuto dall’Unesco come vera e propria lingua), rendono ancora più efficace l’idea di base di un sound multietnico e multiculturale che riesca a mettere d’accordo anche il pubblico più eterogeneo e variegato.

Al di là dei rimandi intellettuali e sperimentali, Belly Bluster è un album che grazie al suo taglio estremamente punk-rock, riesce a sprigionare una bella energia, grazie soprattutto all’estrema linearità con cui la band ha saputo fondere testi e musica, facendo proprio della semplicità uno dei punti forti di questa breve raccolta. Brani come Ammiraglio, La Ciurma, Wisky e Merendero, sono vere e proprie cannonate di adrenalina, in cui il camaleontico spirito cameratesco figlio della rievocazione piratesca e brigantesca, abbraccia ritornelli che rimangono scolpiti sin da subito nella mente, trascinati da un sound persuasivo che non riuscirebbe a tener fermo un sasso. La title track Belly Bluster è invece una composizione meno veloce, simile ad un canto di battaglia in salsa folk rock. Moicani è la traccia strumentale del disco che mette in evidenza lo spirito elettrico del gruppo, mostrando un’attitudine quasi al confine con l’heavy. Posto d’onore per Brigante, uno dei migliori brani dell’album, in cui meglio si concentra lo spirito folkloristico e contaminato del progetto Belly Bluster, grazie soprattutto all’interpretazione della brigantessa Betty Hop capace di dosare rabbia e poeticità nel passionale testo che si intelaia al pezzo.

L’arrembante energia dei Belly Bluster ed il loro autoproclamato “combat folk” ci hanno convinto. Qualunque sia il futuro di questa ciurma cazzeggiante, noi di RockGarage saremo sempre pronti a brindare alle loro imprese tenendo ben alti i calici stracolmi di ottimo folk’n’roll.

Autore: Belly Bluster Titolo Album: Belly Bluster
Anno: 2012 Casa Discografica: Autoproduzione
Genere musicale: Folk; Rock, Punk Voto: 7
Tipo: EP Sito web: http://www.bellybluster.com
Membri band:

Capitano Jay Dee (Gianluca Panucci) – voce

Luogotenente Betty Hop (Elisabetta Aprileo) – voce

Nostromo Eric Mc Beauty (Enrico Bellotta) – voce, chitarra

Polveriere Iron Jacob Read (Raffaele Giacobbone) – chitarra

Padre Pedro (Enrico Pascarella) – chitarra

Uncle Master Adamas (Giuseppe Bellotta) – violino, tin whistle

Timoniere Alexandra Jennifer (Alessandra Riello) – basso

Guardiamarina Gum Gum (Davide Di Donato) – batteria

Artigliere di Bordo Whisky Jacob (Giovanni Iacobucci) – tastiere

Tracklist:

  1. L’Ammiraglio
  2. Belly Bluster
  3. Brigante Se More
  4. La Ciurma
  5. Whisky Drunkers
  6. The Mohicans
  7. Merendero
Category : Recensioni
Tags : Folk
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29th Lug2012

Southern Drinkstruction – Drunk Till Death

by Antonluigi Pecchia

Tra le più promettenti metal band della scena di casa nostra spiccano i capitolini Southern Drinkstruction, act giunto alla seconda uscita discografica con il presente Drunk Till Death. Un pugno inflitto in pieno viso diretto solo come il buon death metal sa esserlo dal retrogusto rock’n’rollegiante e con attitudine southern. Questa opera non potrebbe essere meglio descritta, composta da tredici brani che scorrono in fretta e dalle melodie, seppur semplici, che restano impresse nella mente come stampi infuocati; ottima è la prova del chitarrista Pinuccio Ordinal, magistralmente sostenuta dalla granitica batteria di Andrea, inspessorato dalle linee di basso di Giorgio e resi feroci dalla voce di Francesco. Dando un’occhiata ai testi delle loro canzoni, ma anche solo ai titoli, di certo non sarà difficile ridere, ma abbiate fede, ascoltando la potenza della loro musica non si può non prendere sul serio questi quattro ragazzi che hanno il tiro e l’attitudine necessaria per donare grandi cose in futuro. Insomma, un fucile (come dice anche il buon Clint Eastwood citato dalla band nell’intro Drunk Till Death tratto dal celeberrimo film Per un pugno di dollari) pronto a sparare come appena questo disco viene inserito nello stereo. Ascolto altamente consigliato per gli amanti del genere.

Autore: Southern Drinkstruction Titolo Album: Drunk Till Death
Anno: 2011 Casa Discografica: Despise The Sun Records
Genere musicale: Death Metal Voto: 8
Tipo: CD Sito web: http://www.southerndrinkstruction.com
Membri band:

Francesco Basthard – voce

Pinuccio Ordinal – chitarra

Giorgio Zorro – basso

Andrea Eddie Vagenius – batteria

Tracklist:

  1. Drunk Till Death
  2. On Your Knees
  3. 6-Strings Skull
  4. Dirty Sanchez
  5. Evil Skies
  6. Nasty Jackass
  7. Redneck Zombie Distillery
  8. Motor 666
  9. Cumming In Socks
  10. Drink Whiskey, Make Justice!
  11. The Man With No Name
  12. Slide Or Die!
  13. Death Bells
Category : Recensioni
Tags : Death metal
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29th Lug2012

Tales Of Deliria – Beyond The Line

by Giancarlo Amitrano

Validi rappresentanti del nostro Paese in Europa possiamo rinvenirne in ogni genere: ci siamo e continueremo a farci valere nella scienza, nell’arte, nel cinema ed in tante altre materia di interesse. Altro discorso, quando qualche nostro epigone viene fuori alla grande, esplodendo in tutta la sua virulenza e potenza (in questo caso, sonora). È senza meno questo il caso del gruppo barese di cui oggi ci occupiamo: giunti al loro secondo full-lenght, i Tales Of Deliria ci indirizzano senza dubbio all’angolo con il loro uppercut musicale. Degni epigoni del puro e leggendario thrash degli anni ‘80, sin dalla opener track si svelano alla grande, Under This Shroud è infatti un pugno nello stomaco, contro ogni convenzione. Batteria sparata al massimo nel suo intro, con la voce di Bianzuolo letteralmente sanguinante (e siamo solo all’inizio), con il quintetto che macella e distorce note nella miglior tradizione di genere ancor meglio codificata nell’attualità. La title-track rende onore al titolo: Beyond The Line va oltre gli schemi, spaziando dal classic al thrash purissimo e senza fronzoli, con inattesi mid-tempos della sezione rtimica su cui si innestano sparate le due asce a disegnare un tappeto sonoro di rara potenza ed intensità. Lasciando da parte gli orpelli, ci troviamo di fronte all’adrenalina pura senza compromessi, in cui nella fase centrale le due sei corde si intersecano in ripetuti solos di natura quasi maideniana, nella loro fase più progressiva.

Towards North si reincanala nel filone “classico” del genere: lo screaming di Bianzuolo è davvero terrificante nell’introdurre una linea sonora tuttavia abbastanza melodica, per quanto rapportata al contesto che richiama la San Francisco Bay dei gloriosi ’80; un lavoro notevole di rullanti introduce alla parte centrale in cui la chitarra dipinge un assolo delicato e potente al tempo stesso, per consentire il “rientro” vocale del singer a sputare fuori le ultime note dannate. In My Dry Reliquary vede la performance del singer sdoppiarsi in una intro quasi sussurrata, per poi planare vigorosamente in uno screaming di rara potenza: la doppia chitarra sostiene a pieno regime le linee vocali che non accennano a placarsi nemmeno sul riff centrale, intendendo ancora esprimere la coerenza sonora su cui esse si sono incamminate, salvo poi virare in una quasi jam finale in cui le due asce si scontrano in un’ideale battaglia fra titani. Possiamo sbilanciarci nel definire la prossima traccia il gioiello del disco: The Anguish Fixer è una cavalcata in pieno stile heavy/thrash, nella quale i due chitarristi sfornano un assolo di rara melodia e di raffinata complessità che consente a Bianzuolo di padroneggiare la linea melodica da essi disegnata. Un brano di sicuro impatto nella fase centrale che vede contrapposti gli assoli ripetuti delle due asce agli sfoghi incontrollati del singer, ormai in pieno delirio da prestazione. Con segnalazione particolare anche per la sezione ritmica, potente e calibrata al contempo.

One Thousand Ways To Die è probilmente l’episodio più fiacco del disco…fiacco per modo di dire. Potenza ed energia sempre ben presenti, che tuttavia non suscitano le stesse sensazioni positive dei brani precedenti, anche a causa degli intervalli troppo lunghi tra il cantato e i solos, che qui appaiono per vero slegati dal contesto. Con A Snatched Love il quintetto si rimette in carreggiata, ritroviamo le linee sonore sinora percorse, con le chitarre a dettare legge, il cantato quasi ringhiato per consentire il lavoro della doppia cassa di Fornari, che ci investe piacevolmente. La linea centrale è dominata dallo sfocato ed intenso lavoro delle sei corde, che gradatamente esplodono nel refrain finale, potente e di impatto sonoro di rara intensità. Attack è una mazzata in pieno volto: la devastante potenza sonora stavolta viene messa anche al servizio dell’economia del brano, che si dipana attraverso un solido giro di basso centrale che consente ai due chitarristi di sfidarsi frontalmente in una ideale gara di assoli, assoli che vengono lasciati saggiamente a metà per poi esplodere entrambi in una cascata di note che pare provenire direttamente dalle fucine dei signori del metallo. Ethereal Warrior I e II è il dittico finale del disco, piazzato direttamente fra gli occhi di chi ascolta è la summa delle influenze del quintetto. Chiaramente debitore ai grandi del genere, Slayer in primis, il gruppo tuttavia rilascia una sua personalissima interpretazione di un clichè ormai standardizzato.

I buoni arrangiamenti, sia vocali che strumentali, consentono ai brani di mantenersi sempre su posizioni di eccellenza compositiva che viene comunque messa a disposizione dell’economia dei brani, risultando così di ottima ricezione sonora e non consentendo il disperdersi della fatica notevole del quintetto, che si congeda con un riff memorabile su cui la sezione ritmica continua a pestare all’impazzata sino all’ultimo secondo del disco. Un lavoro che, di certo, prelude ad altre successive loro performance di eguale intensità ed impatto come questa.

Autore: Tales Of Deliria Titolo Album: Beyond The Line
Anno: 2011 Casa Discografica: To React Records
Genere musicale: Thrash Metal, Melodic Death Voto: 8
Tipo: CD Sito web: http://www.talesofdeliria.com
Membri band:

Vittorio Bianzuolo – voce

Nicolò Cantatore – chitarre

Francesco Patruno – basso

Ale Fornari– batteria

Francesco Picciariello- chitarre

 

Tracklist:

  1. Under This Shroud
  2. Beyond The Line
  3. Towards North
  4. In My Dry Reliquary
  5. The Anguish Fixer
  6. One Thousand Ways To Die
  7. A Snatched Love
  8. Attack
  9. Ethereal Warrior
  10. Ethereal Warrior II
Category : Recensioni
Tags : Thrash metal
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28th Lug2012

Metallica – St. Anger

by Rod

Se per molti addetti ai lavori gli anni ’90 sono stati il momento culminante della migliore produzione heavy e rock mondiale, i Metallica annoverano questa decade come il periodo più critico della loro attività nello showbiz. Dalla svolta commerciale del Black Album sino al progetto sinfonico S&M, i Nostri assisterono inermi allo smarrimento di numerosi pezzi del loro progetto ventennale. Parimenti, le premesse di inizio nuovo secolo non si rivelarono tra le più promettenti. I sempre più numerosi dissidi interni alla band, portarono Jason Newsted ad uscire dal gruppo, ufficialmente per motivi di salute, ufficiosamente per divergenze espressive col resto della band. Alla dipartita di Newkid si aggiunsero le crisi artistiche e quelle personali dei singoli membri. Clamoroso fu l’au revoir di James Hetfield che sparì per qualche tempo per risolvere i suoi storici problemi di dipendenza dall’alcool. Senza il proprio frontman e con la casella vuota da riempire alla voce “bassista”, la band dovette inoltre somatizzare le critiche di buona parte del loro pubblico che non si riconosceva più nell’attuale versione di ciò che un tempo furono i Four Horseman. Molte altre formazioni avrebbero sicuramente accusato il colpo, promuovendo da lì a poco lo scioglimento della band. Ai Metallica invece, forti del recupero fisico e mentale di James, non rimase altra scelta che radere tutto al suolo ed incominciare una nuova fase artistica, ponendo alla base della rinascita ciò che di buono era sopravvissuto al recente caos: la consapevolezza di essere, nonostante tutto, la migliore metal band del pianeta.

Arruolato al basso lo storico produttore Bob Rock, il combo seppe reagire di slancio alle insidie così come accadde per la morte di Cliff Burton, chiudendosi in studio e cercando di dare vita ad un disco che provasse in primo luogo ad esorcizzare le tenebre dell’ultimo decennio e, conseguentemente, a rievocare in qualche modo le radici thrash e speed dei gloriosi anni ’80. Fu così che dopo aver ottenuto un patetico riconoscimento come l’Mtv Icon in cui fece la prima uscita ufficiale il nuovo bassista Robert “Rob” Tujillo, il 5 giugno 2003 uscì St. Anger, ottavo album studio della band californiana che poneva come sentimento guida dell’intero lavoro, quella santa rabbia che in altre occasioni, ma soprattutto in questa, era riuscita a sopravvivere alla band ed a farla risorgere dalle ceneri di scelte commerciali fallaci ed infruttuose. Nonostante l’album arriverà primo in molti paesi e guadagnerà diversi dischi d’oro segnando un decisivo triplo passo in avanti rispetto alle esperienze studio di Load e ReLoad, il nuovo St. Anger non segnerà ancora del tutto la svolta storica che la metal militia aspettava da anni, anzi, ne provocherà un’ulteriore spaccatura in termini di consensi. Le dieci tracce contenute, nonostante la buona attitudine heavy di base, risultano marcatamente viziate dal suono di rullante sordo ed insopportabile scelto nell’occasione da Ulrich, dalla completa assenza di assoli (a tal proposito l’album verrà tacciato di ispirarsi alle sonorità nu metal in voga in quel periodo) e da un’eccessiva durata delle canzoni (dai 5 agli oltre 8 minuti), tali da renderle in più passaggi ripetitive e monotone. Queste scelte in fase di composizione e di produzione, si riveleranno un accanimento terapeutico al limite della sopportazione che segneranno ben presto il passo di un disco che in men che non si dica verrà dapprima messo ai margini, per poi scomparire del tutto dalle scalette dei tour mastodontici della band.

Entrando nel merito, Frantic è la traccia di apertura, un brano tosto e martellante ispirato alla schiavitù delle dipendenze, dal ritornello dal motivo accattivante “Frantic-tick-tick-tick-tick-tick-toc” che rimane in mente sin dal primo ascolto. La title-track St.Anger è ispirata a quel sentimento di rabbia di cui si parlava poc’anzi ed il cui spirito compositivo affonda gli artigli della produzione di successo dei Metallica: nel passaggio “Fuck it all and fuckin’ no regrets, I hit the lights on these dark sets” vengono infatti fuse le frasi tratte da due grandi successi della band, Damage, Inc. incluso in Master Of Puppets e Hit The Lights contenuto in Kill’Em All. Some Kind Of Monster, terzo singolo estratto, è uno dei brani più interessanti per via di certe soluzioni alternate lente e potenti evidenziate da furiose scariche di bicordo. Nonostante ciò la forte presenza dei sopra descritti vizi di forma all’album che ne demarcano prepotentemente il passo, costringono a circa metà del brano ad uno skip obbligato anche per le orecchie più allenate. Some Kind Of Monster sarà anche il titolo del documentario che ripercorre giorno dopo giorno al fianco della band, le vicende che hanno portato alla nascita di St. Anger. Dirty Widow, è un pezzo che esprime delle potenzialità incredibili se dovessimo basarci solo sull’interpretazione di James. Purtroppo questo esercizio viene vanificato dall’infelice registrazione del rullante di Lars, sospeso a metà tra un rumore metallico ed un effetto elettronico. Invisible Kid, ricorda echi della prima produzione Slipknot, ma la cui durata (quasi nove minuti) ne sconsiglia assolutamente l’accostamento. Freccia in basso inoltre, per un testo davvero lontano dalle liriche ispirate dei tempi migliori.

Buona prova in My World che si contraddistingue per un intro veloce e graffiante che lascia spazio all’aggressività del ringhio Hetfield ed a soluzioni melodiche vincenti, il tutto contenuto in una durata ragionevole per la struttura del brano. Shoot Me Again sorprende per la compattezza compositiva, meno imbolsita dei brani precedenti, mostra una maggiore fluidità che la rende una delle tracce più vincenti contenute nell’album. Sweet Amber è un brano semplice ma abbastanza potente, non lascia il segno ma merita comunque di essere ascoltato con interesse. The Unnamed Feeling è a parere di chi scrive, il miglior brano presente in St. Anger, contiene un giro di chitarra ripetuto ed efficace. Ha potenza, consistenza, ed un ritornello che rimane facilmente impresso. Pecca, ahimè, solo per la solita ritrita eccessiva durata. Purify mostra rabbia e cattiveria che attinge a piene mani dallo stile Metallica di un tempo, ma che appare scoordinato tra chitarra e batteria, quasi stonato e disallineato. All Within My Hands nonostante i suoi quasi nove minuti, raccoglie più consensi per le idee strumentali proposte anche se refrattarie, disomogenee e poco compatte. Dà quasi l’impressione di essere un assortimento ben riuscito di più demo messe assieme ad arte per tirarne fuori un unico brano.

Come accadde per …And Justice For All, anche in questo caso i Metallica sono riusciti a depauperare in fase di produzione un patrimonio artistico dalle potenzialità immense, a causa delle influenze negative di elementi estranei alla band (l’egemonia di Bob Rock? Le mode nu metal? La prigione dorata dello showbiz?), elementi che troppe, tante volte, hanno prevalso sulle capacità decisionali di Hetfield e soci di fare della propria arte, l’espressione univoca del loro credo musicale. Nonostante tutto i Metallica riusciranno comunque a fare scuola nell’ambiente. Il triste rullante scordato di Ulrich, per esempio, verrà ripreso da Mike Portnoy nelle registrazioni dell’album dei Dream Theater Train Of Thought, uscito nello stesso anno. In definitiva St. Anger rimane comunque un album pieno zeppo di buone idee, rese inascoltabili ed improponibili dal vivo proprio per i motivi a cui più volte abbiamo accennato. Guardando il bicchiere mezzo pieno e ragionando col senno di poi, rimane apprezzabile il passo in avanti fatto dalla band e volto alla ricerca di una propria identità espressiva vincente che tenti di demarcare ancora una volta, il vero valore del marchio Metallica.

Autore: Metallica Titolo Album: St.Anger
Anno: 2003 Casa Discografica: Elektra
Genere musicale: Heavy Metal, Hard Rock Voto: 7,5
Tipo: CD Sito web: http://www.metallica.com
Membri band:

James Hetfield – voce, chitarra

Kirk Hammett – chitarra, cori

Bob Rock – basso

Lars Ulrich – batteria, percussioni

Tracklist:

  1. Frantic
  2. St. Anger
  3. Some Kind Of Monster
  4. Dirty Window
  5. Invisible Kid
  6. My World
  7. Shoot Me Again
  8. Sweet Amber
  9. The Unnamed Feeling
  10. Purify
  11. All Within My Hands
Category : Recensioni
Tags : Metallica
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28th Lug2012

Vanz – Avenge The Surfers

by Marcello Zinno

Quanta strada hanno percorso i Vanz: partiti come terzetto oggi si ritrovano a formazione completa con due chitarre ed una forma sonora per impacchettata. Dieci anni sono serviti per trovare una certa stabilità nella vita della band e qualche importante traguardo raggiunto a livello musicale; tanta gavetta e tanti sforzi in sala di registrazione per poter decollare e per poter costruire qualcosa in una direzione chiara. Un punk americano molto debitore alla scena degli ultimi due decenni: Social Distortion/Rancid meno incazzati, un sound che va ancora molto in voga e che è portato in auge da diverse formazioni più o meno famose (una per tutte quella degli Andead), anche se nei quattro ragazzi si nota un avvicendamento maggiore alla scena punk rock che tanto attecchisce sui principali mass media ed una ricerca di variazioni a tratti interessante. C’è da dire che la qualità in fase di produzione si sente tutta e talvolta (soprattutto negli stacchi e nei cambi) anche una buona dimistichezza dei propri mezzi; ciò che a nostro parere hanno bisogno di essere affinate sono le idee che necessitano di una maggiore originalità, forse osando di più rispetto a quanto può realizzare una qualsiasi altra band di punk rock sulla faccia della Terra.

Come dicevamo si presentano alcune variazioni rispetto alla matrice punk rock standard: Science Of Dreamers sembra uscito da un album delle Hole, dopo aver ascoltato per ore Green Day a palla, e regala un ritornello un pò troppo orecchiabile che lascia l’intero gioco dei tre minuti a delle strofe dal chorus inequivocabile. Con Keep Fallin le cose crollano, è non è solo un gioco di parole regalato dal titolo, visto che le chitarre elettriche fanno fatica ad allontanare l’orecchio da lidi pop che capitalizzano i solchi incisi da album come 21st Century Breakdown e ne fanno un genere per tutti.

Passaggi un pò più apprezzabili sono nella cattiva Bloody Bagus, nella simpatica e quasi ska Remembering che strizza l’occhio anche ad un rock molto retrò, nella decisa e piacente Stay Still ma soprattutto in Party Crasher in cui la ricetta Vanz viene assolutamente messa a soqquadro con sommo nostro piacere. Saltabili sono le troppo semplici The War Is Over, Through Your Eyes e Sandy, mentre a metà strada troviamo la dolcemente irruente I’m A Light e la title track che fa luce sulle doti vocali di Paolo Castriconi, anche autore delle musiche. In conclusione una band che potrebbe fare sicuramente la differenza ma che aspetta il vero passo per distanziare tutti. Quando si verificherà?

Autore: Vanz Titolo Album: Avenge The Surfers
Anno: 2012 Casa Discografica: Elevator Records
Genere musicale: Punk Rock Voto: 5,5
Tipo: CD Sito web: http://www.vanz.eu
Membri band:

Paolo Castriconi – voce, chitarra

Filippo Chiariello – chitarra

Alessandro Albertazzi – batteria

Ranieri Cecconi – basso

Tracklist:

  1. Intro – Leavin From FCO To DPS
  2. Endless Summer
  3. Science Of Dreamers
  4. Keep Fallin
  5. Bloody Bagus
  6. The War Is Over
  7. I’m A Light
  8. Remembering
  9. Stay Still
  10. Through Your Eyes
  11. Party Crasher
  12. Sandy
  13. Silver Coast
  14. Avenge The Surfers
Category : Recensioni
Tags : Punk Rock
0 Comm
27th Lug2012

Black Sabbath – Tyr

by Giancarlo Amitrano

Sono trascorsi “appena “ 20 anni: un tempo relativamente breve, se riferito alla carriera musicale. Ma già enorme, per un gruppo che ha attraversato due decadi fra cadute, resurrezioni e momenti interlocutori. Il Sabba Nero, lungi dal suo canto del cigno, affronta a muso duro l’ultimo decennio del ventesimo secolo: reclutato il validissimo Neil Murray alla 4 corde, confermatissimi Powell, Martin ed il fido Nicholls, ecco rilasciato il potente Tyr. Un concept album ideato da una band ai suoi antipodi? Possibilissimo per il baffuto leader. Sebbene solo il trittico centrale se ne occupi a pieno, l’intero album è permeato di atmosfere nordiche, con sonorità accentuate e tematiche quasi empiree. L’opener Anno Mundi è intrisa di melodia coristica su cui si staglia la stentorea voce di Martin: basato su di un solido accordo di chitarra, il brano si snoda con melodia e potenza saggiamente dosate anche nell’intermezzo centrale, in cui oltre alla sei corde a far da padrona, si distingue la sezione ritmica superbamente ispirata. The Law Maker è uno dei piloni del disco: metal, hard, trash tutti insieme appassionatamente. Martin ci conduce per mano con voce titanica, Powell è davvero il martello degli dei, Iommi rilascia una cascata di note per un arcobaleno sonoro da sogno e da urlo. Il mid-tempo centrale consente ad Iommi di scatenarsi in tre distinti e separati mini-riff, di potenza indicibile sparata al massimo attraverso ideali Marshall, che lasciano alfine senza respiro. Ed ancora, verso il finale, il quintetto rilascia negli ultimi trenta secondi una jam di spaventosa potenza.

La ballad pressoché immancabile ci viene servita su di un piatto d’argento: Jerusalem potrebbe essere definito un brano quasi “biblico”, in aperta contrapposizione ai temi vichinghi trattati. Da par suo, tuttavia, il brano risponde ai canoni del brano di “intermezzo”, mantenendo tuttavia il giusto tempo di energia specie nelle linee sonore centrali, in cui la sei e la quattro corde riescono a tratteggiare un’alternanza sonora davvero d’effetto. Memorabile il solo centrale che, cronometrato in esatti 18 secondi, sprigiona potenza, classe, energia e sentimento al tempo stesso, il tutto, per un altro grande brano. Il momento debole del disco lo rinveniamo, purtroppo, nella fase centrale del disco: The Sabbath Stones, per quanto ben modulato ed anche orecchiabile fa calare di colpo la tensione anche a causa degli arrangiamenti non di alto valore. La voce di Martin è stranamente sotto le righe ed anche il resto del gruppo si limita ad eseguire lo scialbo compitino, come si fosse trovato lì per caso. Degna di menzione solo la fase centrale del brano, in cui le linee melodiche prevalgono.

Ed eccoci al trittico di cui avevamo accennato: piena mitologia vichinga in The Battle Of Tyr, dove un superbo Nicholls disegna appieno il futuro scontro tra titani. Preannunziato dalla slide di Iommi e dai tasti d’avorio, Odin’s Court rievoca la mitologia del dio supremo nella tradizione nordica. Martin è di nuovo grande nel renderci l’atmosfera di tensione che prelude alla battaglia finale in cui il quintetto è pronto a scendere in campo e a restarci con le sonorità ottimamente tenute sotto controllo per consentire al cantante di ergersi novellamente al ruolo di “screamer”. La resa dei conti, Walhalla, ci spinge a forza nell’arena con la potenza musicale del quintetto. Il ritornello scandito a pieni polmoni costruisce il tappeto sonoro su cui il gruppo si scatena; monumentale ed indimenticabile Powell nelle sue rullate che preludono l’assolo davvero mortifero di Iommi. Breve, ma tagliente, l’assolo si snoda velocissimo per consentire il “rientro” vocale di Martin sulle note appena lasciate in sospeso. E ancora, il finale è tutto della sei corde assecondata dalla perfetta sezione ritmica. Dopo la battaglia, il riposo del guerriero: Feels Good To Me induce ad essere misericordiosi con il nemico sconfitto…ma non troppo. Il quintetto si erge protagonista al completo nell’offrirci il loro spaccato più intimo: la iniziale melodia sognante cede presto il passo alla fase centrale di improvvisazione più completa, perché possa poi su di essa innestarsi il potente solo di Iommi, pur dosato nella sua delicatezza. Il tutto “nonostante” Martin che, quasi estraniandosi dal contesto, continua ad emettere vocalizzi di rara potenza anche in un ambito più rilassato come quello del brano in questione, che si conclude con la voce infinita di Martin, quasi a superare il termine del pezzo, con la sua potenza vocale, apprezzata ancor più nel video che all’epoca lo accompagnava.

Il disco si conclude con una cavalcata “classica” del gruppo, Heaven In Black, si dipana come una lunga jam che permette ad ogni singolo componente di esibirsi con il suo tocco magico: il refrain resta ben stampato in mente, con Powell davvero indemoniato che conduce il gruppo attraverso due distinti stacchi di batteria, che portano alla distorsione massima della chitarra nel primo e ad un terremoto sonoro finale con il secondo, per chiudere degnamente l’ennesimo ottimo lavoro del gruppo. Lavoro che di qui a breve ci sorprenderà ancora inaspettatamente.

Autore: Black Sabbath Titolo Album: Tyr
Anno: 1990 Casa Discografica: I.R.S. Records
Genere musicale: Heavy Metal Voto: 8
Tipo: CD Sito web: http://www.black-sabbath.com
Membri band:

Tony Martin – voce

Tony Iommi – chitarra

Neil Murray – basso

Cozy Powell – batteria

Geoff Nicholls – tastiere

Tracklist:

  1. Anno Mundi
  2. The Law Maker
  3. Jerusalem
  4. The Sabbath Stones
  5. The Battle Of Tyr
  6. Odin’s Court
  7. Valhalla
  8. Feels Good To  Me
  9. Heaven In Black
Category : Recensioni
Tags : Black Sabbath
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27th Lug2012

Efram – Il Silenzio È d’Argento

by Amleto Gramegna

Registrato e mixato all’interno di una piccola sala di registrazione in quel di Airasca (To), giunge sui nostri tavoli l’ultimo lavoro degli Efram. Mettiam subito in chiaro che ci è piaciuto…e molto. Già l’idea di un lavoro “anonimo” (passateci il termine), con tracce numerate, oggi come oggi è difficile da trovare. Se poi quelle tracce “anonime” suonano come i Mogwai che vanno al bar insieme ai Sigur Ros, beh, è tutto ancora più bello. Vogliamo parlare dell’intero lavoro come un’unica traccia, trenta minuti di flussi e riflussi, voli pindarici lunari come la bellissima traccia di apertura, vagamente cantata, ma che sfocia nella tempesta elettrica del secondo brano. E tutto l’album si mantiene su tali binari: momenti selvaggi trovano l’ideale sbocco in altri più rilassati ma sempre tesi, affilati, pulsanti. Un buon lavoro, tenendo conto che è realizzato completamente in proprio e creato senza inutiliti virtuosismi o elementi coreografici bensì dando sfogo ai propri flussi di coscienza e razionalità. Non vogliamo dire altro, se non ascoltarlo in cuffia, al buio di una stanza, lasciandosi trasportare dalle emozioni che questi ragazzi sanno dare.

Autore: Efram Titolo Album: Il Silenzio È d’Argento
Anno: 2012 Casa Discografica: Autoproduzione
Genere musicale: Post Rock Voto: 7
Tipo: CD Sito web: http://www.efram.it
Membri band:

Vincenzo Moscatello – chitarra, voce, effetti

Marco della Croce – batteria, synth

Guido Desserafino – basso

Tracklist:

  1. N.1
  2. N.2
  3. N.3
  4. N.4
  5. N.5
  6. N.6
  7. N.7
Category : Recensioni
Tags : Post-rock
2 Comm
26th Lug2012

Opeth – Orchid

by Martino Pederzolli

Nel 1990 due ragazzini svedesi (David Isberg e Mikael Åkerfeldt) decidono di formare un gruppo e, dopo varie vicissitudini, cominciano a suonare in una scuola elementare di Täby, cittadina non lontana da Stoccolma. Ecco come si è formata una delle band death metal più originali del panorama musicale ed ecco come è nato il loro primo album Orchid. Siamo nel 1995 ed il disco che gli Opeth hanno appena partorito, ed anche co-prodotto, è pronto per esplodere nel cranio degli ascoltatori e lasciare un imprinting di ciò che sarà il loro marchio di fabbrica: feroce death metal con ampi inserti melodici, linee compositive barocche e testi dark, aggressività e delicatezza messe assieme. Tutto ciò che i Nostri vogliono esprimere è chiaro e le loro intenzioni si notano fin da subito non lasciando spazio a dubbi o compromessi, come testimonia la prima traccia In Mist She Was Standing; oltre 14 minuti di “manifesto Opeth” che hanno come pilastro centrale la particolarissima chitarra di Mikael Åkerfeldt, principale mente del quartetto. Riff articolati e complessi si alternano ad aperture melodiche che rimandano al progressive di 25 anni prima ed influenzano anche i conterranei Dark Tranquillity nella scrittura del poco più giovane The Gallery.

È la volta di Under The Weeping Moon, con il suo lungo stacco centrale che, come un mantra, riesce a far perdere il conto dei minuti per poi riportarci violentemente alla realtà con un attacco di doppio pedale che accompagna un riff acido e ripetitivo e Åkerfeldt che si produce in uno screaming bestiale (“I am the watcher in the skies!”). Segue l’interludio piacevolissimo Silhouette, composto e suonato dal batterista Anders Nordin che sottolinea i tratti gotici e noir e non rinuncia a qualche rapida fuga stile Keith Emerson. Con questa traccia di piano si ritorna al formato canzone ma è solo una piccola eccezione perché si prosegue con l’imponente Forest Of October, la traccia che ha il mood più oscuro di tutto il disco, e per oltre 13 minuti ci si fa trascinare su e giù tra spazi di riflessione e rapidi cambi nei quali giunge improvvisa la voce del cantante che ci racconta, a suo modo, la vita oltre la morte, l’unità di anima e mente e la solitudine. Con The Twilight Is My Robe l’esplorazione vocale melodica di Mikael Åkerfeldt si fa più profonda permettendo di ascoltare diversi cantati puliti che ben si sposano con le lunghe parti di chitarra di questo particolare brano e che fanno da preludio a Requiem, un intermezzo di chitarra spagnola che, per un errore in fase di mixaggio, viene tagliato della sua ultima parte che è invece messa come “intro” alla traccia che conclude il primo lavoro degli Opeth, The Apostle In Triumph. In quest’ultima fatica sono da notare gli splendidi stacchi accompagnati dal violino, un’ulteriore conferma dell’influenza folk nel comporre, ed il sound che si presenta più epico ed aperto anche nei pezzi distorti rispetto alle tracce precedenti. L’album si chiude con la voce pulita del cantante che ci lascia con “…as the rain keeps falling…”.

È un disco, Orchid, che ha dentro di sé moltissime influenze (prog, jazz, folk…) ed altrettante idee che sono esposte in maniera impeccabile per un album d’esordio di quattro ventenni. A volte può sembrare confuso, ma è un lavoro da gustare con calma e che merita molti ascolti per essere davvero apprezzato; insomma un ottimo primo passo.

Autore: Opeth Titolo Album: Orchid
Anno: 1995 Casa Discografica: Candlelight Records
Genere musicale: Death Metal Voto: 8,5
Tipo: CD Sito web: http://www.opeth.com
Membri band:

Mikael Åkerfeldt – chitarra, voce

Peter Lindgren – chitarra

Johan DeFarfalla – basso

Anders Nordin – batteria, pianoforte

Tracklist:

  1. In Mist She Was Standing
  2. Under The Weeping Moon
  3. Silhouette
  4. Forest Of October
  5. The Twilight Is My Robe
  6. Requiem
  7. The Apostle In Triumph
  8. Into The Frost Of Winter (traccia bonus nella ristampa del 2000)
Category : Recensioni
Tags : Opeth
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