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26th Lug2012

Blueville – Butterfly Blues

by Matteo Iosio

Chi ha detto che il vero blues debba per forza provenire dal cuore “dirty south” degli Stati Uniti? I Blueville sono la classica eccezione che ne conferma la regola. Italianissimi e nati nel 2006 questi cinque ragazzi sono in grado di produrre dell’eccellente blues rock senza apparire banali o scontati. L’obiettivo dichiarato è quello di creare moderne dimensioni blues con contaminazioni appartenenti a numerosi altri generi musicali quali jazz, gospel e black music, e da un primo ascolto effettuato sul loro ultimo lavoro chiamato Butterfly Blues ci pare che questo target sia stato raggiunto in pieno. Subito dai primi minuti si delineano chiari i punti di forza di questo ottimo progetto, ovvero il “melting pot” sonoro che fonde ed amalgama perfettamente diversi stili musicali creando un intreccio sonoro estremamente variegato e di grande impatto. Suoni “old school” affascinanti e ben calibrati ci portano immediatamente con la mente alle radici della musica composta e suonata con l’anima; chitarre malinconiche fraseggiano ed improvvisano con grande maestria, l’organo Hammond impreziosisce la trama facendoci riscoprire sonorità a cui non eravamo più abituati ad apprezzare a causa dell’avvento di un’elettronica sempre più invadente. Seta e velluto ci accarezzano in ballate lente e struggenti, che repentinamente lasciano spazio a ritmi rock o r&b in grado di ingolosire l’ascoltatore più raffinato.

L’album è stato prodotto da Marco Tansini e la mano di questo enfant prodige si percepisce immediatamente: suoni eccellenti mixati con intelligenza e un pizzico di tocco “vintage” donano ancora più fascino all’intero progetto. Le registrazioni sono state interamente eseguite al blasonato Pacific Studio, mentre il mastering è stato affidato alle mani esperte di Gianluca Pighi al Mint Condition Studio. Ci troviamo di fronte ad un ottimo prodotto quindi, che fa della pulizia del suono e della semplicità i propri cavalli di battaglia, un album in grado di farci immergere nelle origini della musica contemporanea. Non si trova nulla di sperimentale o innovativo, solo tanta esperienza e note scritte bene come una volta. Da segnalare le ottime tracce in stile gospel che arricchiscono ancora di più il mood dell’intero disco. Se proprio si deve cercare un difetto in questa produzione lo si può trovare nella mancanza a volte di “ruvidezza” nella voce del cantante Mario Percudani, che pur cantando egregiamente a volte manca di quel tono “cigarettes & alchol” tipico del genere più genuino e veritiero.

Tirando le somme stiamo parlando di un buon album di rock blues in grado di soddisfare sia il purista che l’ascoltatore occasionale, lasciando intendere che se si possiedono le doti tecniche e qualitative azzeccate non bisogna per forza essere nati sulle rive del fiume Mississipi per produrre del buon blues.

Autore: Blueville Titolo Album: Butterfly Blues
Anno: 2011 Casa Discografica: Tanzan Music
Genere musicale: Rock Blues Voto: 7
Tipo: CD Sito web: http://www.myspace.com/bluevillemusic
Membri band:

Mario Percudani – voce, chitarre

Marco Tansini – chitarra

Paolo “Apollo” Negri – tastiere

Gianni Grecchi – basso

Angelo Roveda – batteria

Tracklist:

  1. When I Ring The Bell
  2. Love Letters In My Guitar Case
  3. Misery
  4. The Blues Is Mine
  5. Rosmary Lane
  6. Indian Road
  7. Every Year Of Your Life
  8. Little Town Man
  9. Sorry Baby
  10. Blues From The Edge Of Town
  11. Talking ‘Bout My Baby
  12. Turning Blue
  13. Low And Slow
  14. Blues Generation
  15. Butterfly Blues
Category : Recensioni
Tags : Rock
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25th Lug2012

Darkthrone – Circle The Wagons

by Alberto Vitale

Se FOAD è stata la seconda svolta dei Darkthrone, la prima fu dal death metal al black metal, la seconda li ha visti declinare totalmente verso il black’n’roll, allora Circle The Wagons è l’affinamento della band appunto in questa seconda direzione. Se FOAD aveva un approccio quasi parodistico al metal, fissandolo con citazioni alla vecchia scuola dell’heavy metal, e proponendo anche canzoni ironiche ma dalle intenzioni celebrative, vedi Canadian Metal, Circle The Wagons è l’architettura definitiva dell’andamento musicale scelto dai Darkthrone. L’atteggiamento alcolico del duo norvegese non è annacquato, la musica è sempre ruvida, gli accordi base sono sempre quei quattro che strutturano i pezzi. I riff marciscono perché ripresi e suonati fino allo stremo, mentre le voci di Nocturno Culto e Fenriz sono gelide a tratti stonate, volutamente, e impegnate a fare cose che nemmeno potrebbero. Ma loro sono i Darkthrone: “anti, “contro”, anticonformisti, assolutisti, irrispettosi, eccentrici…cosa ancora?

Speed metal o heavy metal in stile NWOBHM che sia, l’apertura dell’album è affidata a Those Treasures Will Never Befall You. Voce semplice e casalinga, sforzata o iraconda che sia è tutto un riprendere il vecchio heavy metal e passarlo come una seria esaltazione del riff semplice e diretto, ma anche cavernoso e arcigno. Battono come ossessi i due e la canzone punge i nervi tatuandosi su quelle fibre. Running For Borders incede su un 4/4 moderato, ma è I Am The Graves Of The 80’s che in poco più di 3’ sigilla ogni tentativo di prendersi troppo sul serio e rimettere in corsa la band su territori classic metal, svolti con selvaggia maestria e ironica volontà di trasfigurare vecchi cliché stilistici. Tutto Circle The Wagons vive su variazioni più sensibili e meno spavalde rispetto a FOAD o forse sono solamente più macchinose. Infatti Stylized Corpse si arrocca in una sorta di heavy/doom mai sentito prima nelle partiture di Nocturno Culto (si deve forse risalire a Total Death). Circle The Wagons è un outtake degli Iron Maiden? No, sono sempre Fenriz e Nocturno Culto che giocano (nel vero senso della parola) con cose trovate in soffitta o forse nella loro collezione di album a 33 giri. Un inno dal ritornello accattivante, un’andatura coinvolgente, le voci messe in piedi con serena e gioiosa modalità. Heavy metal ripreso e suonato con l’anima nera di due black metaller. Black Mountain Totem è la canzone che ricorda maggiormente la linea stilistica dei riff di FOAD. Altro brano esemplare è Bränn Inte Slottet. Atto conclusivo dell’album, aperto da un coro in crescendo, riffoni che ricordano i Black Sabbath, in maniera accelerata, i Darkthrone stessi a velocità moderate per questa conclusione che è una strumentale.

Pubblicato nel marzo del 2010, Circle The Wagons guadagnò diversi consensi positivi, ma anche qualcuno che seppellivano questa seconda escursione dei due norvegesi nel black’n’roll. Rispetto al precedente FOAD, questo lavoro ha qualcosa in meno in immediatezza, ma non si discosta dalla linea tracciata da quel precedente album. Non mancano episodi di mestiere, ma i momenti migliori e superlativi sono altrettanto pochi. L’album diventa una conferma di quella volontà di cambiare, di esporsi su altri territori e apparire sinceri in questo atto di devozione verso l’heavy metal pur giocandoci sopra con ironia. Risultato? Un album godibile per i fan veri, meno interessante per chi invece non è un devoto assiduo del culto di Darkthrone.

Autore: Darkthrone Titolo Album: Circle The Wagons
Anno: 2010 Casa Discografica: Peaceville Records
Genere musicale: Black Metal Voto: 6
Tipo: CD Sito web: http://www.darkthrone.no
Membri band:

Nocturno Culto – voce, chitarra, basso

Fenriz – batteria, chitarra, voce

Tracklist:

  1. Those Treasures Will Never Befall You
  2. Running For Borders
  3. I Am The Graves Of The 80’s
  4. Stylized Corpse
  5. Circle The Wagons
  6. Black Mountain Totem
  7. I Am The Working Class
  8. Eyes Burst At Dawn
  9. Bränn Inte Slottet
Category : Recensioni
Tags : Black metal, Darkthrone
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25th Lug2012

Elevator To The Grateful Sky – Elevator To The Grateful Sky

by Amleto Gramegna

Iniziamo da una constatazione di imagine: già osservando la cover del cd si intuisce quali siano gli obiettivi del gruppo siciliano, una superficie lunare simile al miglior deserto dalle parti di Joshua Tree, un font che ricorda i Grateful Dead e tutto l’acid rock…il tutto virato da un filtro “caliente”. Fatta andare la prima traccia abbiamo la conferma di quanto ci aspettavamo. Uno stoner rock alla Kyuss, Fu Manchu con reminescenze dei primi, monolitici, Black Sabbath fino agli ultimi Sunn O))) per raccordarsi, appunto, ai Grateful Dead per qualche appuntamento più “psichedelico”. Per quello che riguarda le note biografiche fa sorridere pensare che i due leader del progetto, ossia Sandro e Giuseppe, provenivano, il primo dai death metallers Undead Creep e il secondo dal progetto brutal death metal Omega. Un deciso cambiamento di rotta. Sei tracce sei, chitarre pesantissime, fuzz Big Muff perennemente accessi, voce ora profonda ora urlata anche se ben distante dalla potenza di un John Garcia (periodo …And The Circus Leaves Town per capirci).

Ci sono ottimi momenti come le stilettate selvagge di Technicolour Widow, con quel wah lisergico, la monumentale Electric Mountain, omaggio agli Electric Wizard, con quella voce effettatissima e dilatata che rimbomba nelle orecchie anche dopo la chiusura del pezzo, o ancora Ganesha, massiccia come un elefante e orientaleggiante come la divinità rappresentata. Provate ad ascoltare Cosmic Dust pensando fosse cantata da un giovane Ozzy. Sabbattiana non è vero? Confermiamo che il disco si fa ascoltare piacevolmente quindi lo promuoviamo in attesa di sentire un full leght.

Autore: Elevator To The Grateful Sky Titolo Album: Elevator To The Grateful Sky EP
Anno: 2012 Casa Discografica: Autoproduzione
Genere musicale: Stoner, Rock Psichedelico Voto: 7
Tipo EP Sito web:http://www.facebook.com/ElevatorstotheGratefulSky
Membri band:

Giulio – batteria

Giuseppe – chitarre

Giorgio – chitarre, basso

Sandro – voce

 

Tracklist:

  1. Technicolour Widow
  2. White Smoke
  3. Electric Mountain
  4. Cosmic Dust
  5. Ganesha
  6. Burned By A Million Quasars
Category : Recensioni
Tags : Stoner
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24th Lug2012

AC/DC – Stiff Upper Lip

by Gianluca Scala

E siamo arrivati al 14° album dei granitici rocker australiani in questa nostra rubrica dedicata a loro. Stiff Upper Lip non si discostò molto da Ballbreaker anche se risultò essere più tendente a sonorità blues evidenziando che la band, pur non avendo rivoluzionato il proprio stile, aveva negli ultimi anni moderato, anche solo parzialmente, i ritmi e le sonorità. La produzione fu curata da George Young, fratello maggiore di Malcom ed Angus, tornato dietro la consolle della produzione dopo diversi anni nei quali si susseguirono diversi personaggi a muovere le manopole per relegare il suono del gruppo. Musicalmente valido, questo album aveva il pregio di contenere dei riff di semplice fattura subito riconducibili al suono classico a cui i Nostri ci hanno abituato nel corso degli anni. La title track, House Of Jazz, Hold Me Back e Satellite Blues sono i titoli dei nuovi classici entrati nelle nostre case e che hanno fatto scuotere le mura dei palazzi dove abitiamo ogni qualvolta qualcuno di noi ha ascoltato questo disco allo stereo. Angus Young regala assoli come fosse sempre natale, le ritmiche e gli arrangiamenti dei fratelli Young ben sostengono i brani che si lasciano ascoltare molto piacevolmente.

Dal punto di vista commerciale probabilmente non rappresentò uno dei capitoli fondamentali della loro carriera musicale, ma è in sede live che gli AC/DC dimostrarono che pur avendo ampiamente passato i 25 anni di attività, i vecchi rocker erano ancora in grado di smuovere grandi folle e di entusiasmare più di una generazione di appassionati. Brani come Satellite Blues dicevamo sono in grado di farti ballare tutto il tempo per la stanza senza mai fermarsi, riff iniziale memorabile e incedere del brano che sfocia in uno degli assoli di chitarra di Angus Young venato di buon sano rock blues. Anche stavolta avevano fatto centro diciamolo con falsa ipocrisia, chi ama il rock’n’roll non vuole fare altro che ascoltare album genuini come questo, quella manciata di canzoni che ci fanno compagnia nel momento del bisogno ogni qualvolta che si ha la voglia di sentire della buona musica hard rock. E in questo gli AC/DC sono degli ineguagliabili maestri.

Autore: AC/DC Titolo Album: Stiff Upper Lip
Anno: 2000 Casa Discografica: EMI
Genere musicale: Hard Rock Voto: 6,5
Tipo: CD Sito web: http://www.acdc.com
Membri band:

Johnson – voce

Malcolm Young – chitarra, voce

Angus Young – chitarra

Cliff Williams – basso

Phil Rudd – batteria

Tracklist:

  1. Stiff Upper Lip
  2. Meltdown
  3. House Of Jazz
  4. Hold Me Back
  5. Safe In New York City
  6. Can’t Stand Still
  7. Can’t Stop Rock’N’Roll
  8. Satellite Blues
  9. Damned
  10. Come And Get It
  11. All Screwed Up
  12. Give It Up
Category : Recensioni
Tags : AC/DC
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23rd Lug2012

Pearl Jam – No Code

by Giuseppe Celano

È il 1996 quando i Pearl Jam danno seguito all’ottimo Vitalogy licenziando il loro nuovo lavoro. È corretto chiarirlo da subito: No Code è un album minore che segna una battuta d’arresto significativa. Al di là delle vendite alquanto scarse e delle posizioni in classifica anche le recensioni sono spesso contrastanti, se non addirittura fredde. La copertina è un collage di 156 polaroid (2×2) apparentemente scollegate fra loro. Sul titolo del disco la band fornisce varie contrastanti versioni, quella più vicina alla realtà indicherebbe il totale fallimento del nuovo lavoro per cui la band adotta una locuzione medica per indicare l’impossibilità di recuperare un paziente che ha perso la capacità di respirare o di far battere il cuore senza l’ausilio di macchinari artificiali. La band rischia lo split e i vari side-project sono lì a testimoniarlo. McCready si dedica anima e corpo ai Mad Season, Jeff Ament dà sfogo alle sue necessità psichedelico/acustiche con i Three Fish e Stone Gossard impegna le sue energie con l’etichetta Loosegroove. Infine l’ennesimo cambio di batterista (Irons per Abruzzese) indebolisce ulteriormente una stabilità interna già seriamente minata. A complicare il tutto sottraendo altre energie c’è l’invito del mentore Neil Young che li ospita come back band per la registrazione di Mirrorball.

A differenza dei suoi predecessori molto più a fuoco e diretti il quarto album (con)vive con contrasti e incertezze che si riflettono impietosamente nella struttura dei brani. Il disco appare disomogeneo e sebbene i più ottimisti possano azzardare che la band spazi in altri generi che vanno dalla sperimentazione al punk garage, la verità è che il risultato è altalenante. No Code è un disco di transizione che rimane sospeso fra il ricordo e la voglia di esprimere un concetto molto diretto con piglio punk e la smania di ritrovare i riff granitici che hanno reso grandi i Nostri. Tutto questo si può leggere facilmente nella sommessa opener Sometimes seguita dall’urgenza accademica di Hail Hail. La possibilità di sperimentare, tanto cara al combo di Seattle, emerge chiaramente nella psichedelica e quasi tribale Who You Are, bissata a sua volta da In My Tree, una specie di figlia illegittima di W.M.A.. Bisogna attendere quota cinque per sentire qualcosa di più vicino ai classici della band, è Smile che apre un sentiero verso il ritorno al passato e ammicca lascivamente al buon vecchio Neil Young. Poi arriva Off He Goes e per un attimo fugace di sei minuti tutto sembra ritornare al proprio posto. La soluzione melodica, il ritornello accattivante, la struttura del brano e la voce suadente di Eddie rimettono in gioco tutto. Allo stesso modo agisce l’urgenza a gola rossa di Habit che si stempera nella viscerale e quasi blues Red Mosquito.

I testi riflettono le contrastanti sensazioni della band e del singer che si occupa di spiritualità, moralità e auto analisi della propria condizione psicologica. L’uso di vari strumenti non propriamente canonici, la voglia di sperimentare nuove strade sono allo stesso tempo il punto di forza e la debolezza di cui poggia l’intero album. Parlavamo di transizione all’inizio, per scoprire dove i Nostri sono andati a parare non dovrete far altro che aspettare il prossimo lunedì (perché noi non andiamo in vacanza) in cui ci occuperemo del nuovo capitolo della saga Pearl Jam.

Autore: Pearl Jam Titolo Album: No Code
Anno: 1996 Casa Discografica: Epic Records
Genere musicale: Rock Voto: 6,5
Tipo: CD Sito web: http://www.pearljam.com
Membri band:

Eddie Vedder – voce

Stone Gossard – chitarra

Mick McCready – chitarra

Jeff Ament – basso

Jack Irons – batteria, percussioni

Tracklist:

  1. Sometimes
  2. Hail, Hail
  3. Who You Are
  4. In My Tree
  5. Smile
  6. Off He Goes
  7. Habit
  8. Red Mosquito
  9. Lukin
  10. Present Tense
  11. Mankind
  12. I’m Open
  13. Around The Bend
Category : Recensioni
Tags : Grunge, Pearl Jam
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23rd Lug2012

Captain Swing – Give In To Swing

by Rod

Nonostante l’uscita del loro EP Give In To Swing risalga ad appena qualche mese fa, la formazione campana dei Captain Swing tiene botta sulle scene già da qualche anno, potendo già vantare la pubblicazione di un LP ed altre significative esperienze musicali, come ad esempio la partecipazione al Neapolis Festival. Con la recente breve raccolta, la band intende proporre una sorta di superconcentrato del proprio sound che strizza l’occhio alle più influenti correnti rock di nuova generazione come l’indie e l’alternative. Apre la raccolta We Sing All Alone, brano con un ottimo beat e con un marcato appeal radiofonico. A seguire troviamo Benedict, traccia dal forte imprinting indie, costruita sull’efficace utilizzo della formula “partenza grintosa/soluzione decelerata”. Sgt. Owl appare un omaggio velato alle atmosfere 60’s e al mito dei Beatles, in specie per la presenza di alcune soluzioni melodiche a loro ispirate, all’uso seppur episodico di strumenti a fiato e per gli inconfondibili bridge marcati dalle plettrate in levare. Chiude il cerchio Stealing Your Music, composizione più leggera tra quelle proposte, in cui i significativi richiami agli echi pop non snaturano in alcun modo lo stile originale ma allo stesso tempo contaminato del promettente gruppo salernitano.

Autore: Captain Swing Titolo Album: Give In To Swing
Anno: 2011 Casa Discografica: Forears
Genere musicale: Rock, Alternative Rock Voto: 6
Tipo: EP Sito web: http://www.myspace.com/captainswingsa
Membri band:

Fulvio Forte – voce, chitarra

Gianmario Galano – chitarra

Peppe Foresta – chitarra, slide, cori

Salvatore Landi – basso

Riccardo Alfano – batteria

Tracklist:

  1. We Swing All Alone
  2. Benedict
  3. Sgt. Owl
  4. Stealing Your Music
Category : Recensioni
Tags : Alternative Rock
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22nd Lug2012

Thundermother – Thundermother EP

by Marcello Zinno

Non capita molto spesso ai giorni d’oggi di trovarsi dinanzi ad una rock band tutta al femminile: pensiamo alle Crucified Barbara o alle The Iron Maidens (seppur quest’ultima una cover band), si tratta pur sempre di casi rari in mezzo ad un genere capeggiato da maschietti. Eppure quando le donne si mettono in gioco spesso riescono ad esprimere al meglio quel concetto di rock, di trasgressione, di irriverenza e di rock’n’roll, che molte altre band comuni non riescono nemmeno a sfiorare. Nel dire ciò ci vengono in mente le Meldrum (nonostante avessero un batterista uomo, Gene Hoglan…e che batterista!), ormai sciolte a causa della morte di Michelle Meldrum, e sicuramente le Thundermother di cui abbiamo ascoltato l’ultimo EP. Tre traccie (un pò pochine a dire il vero) che sprigionano tutta la forza del quintetto, una band che non punta a suoni intricati o a scelte sonore estreme, tutt’altro: il genere proposto è il perfetto compromesso tra hard rock e rock’n’roll che gli AC/DC ieri e tantissimi gruppi oggi (Airbourne ai piani più alti, The Stuff a quelli meno noti, giusto per citarne alcuni) ci hanno fatto amare.

Chitarra in prima linea, tempi stoppati, grande voce solo leggermente sporca ma sempre diretta, assoli taglienti e tutto ciò che può far godere le nostre orecchie. I ritmi a nostro parere andrebbero un pò velocizzati, la stessa Rock’N’Roll Disaster potrebbe suonare egregiamente se avesse una cadenza maggiore, come fa Cheers che abbraccia maggiormente il rock’n’roll e per questo affascina. L’opener è sicuramente il migliore emblema di quanto le cinque donzelle possano offrire e di quanto si avvicini maggiormente al sound degli australiani. Noi auguriamo loro che da Stoccolma riescano a viaggiare un bel pò grazie alla musica e magari produrre qualche album al completo. Per il momento è stata fissata qualche data in Italia.

Autore: Thundermother Titolo Album: Thundermother
Anno: 2012 Casa Discografica: Autoproduzione
Genere musicale: Hard Rock, Rock’N’Roll Voto: s.v.
Tipo: EP Sito web: http://www.thundermother.com
Membri band:

Evami Ringqvist – voce

Filippa Nässil – chitarra

Giorgia “Jo” Carteri – chitarra

Rut Karin Arvidsson – basso

Rebecca Meiselbach – batteria

Tracklist:

  1. Shoot To Kill
  2. Rock’N’Roll Disaster
  3. Cheers
Category : Recensioni
Tags : Hard Rock
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22nd Lug2012

Queensryche – Operation: Mindcrime II

by Marcello Zinno

Dopo un’attesa interminabile e mille voci arriva la seconda parte di Operation: Mindcrime, il seguito di quello che possiamo definire uno degli album più belli della storia dell’heavy senza timore di essere smentiti. E subito le domande prevalicano ogni tentazione: ” È all’altezza del suo predecessore? Sono passati invano questi 18 anni che separano la prima dalla seconda parte?”. Ecco le risposte: non si tratta di un album immortale come il primo, ma è comunque unico nel suo genere, si tratta pur sempre di un album originale. Risulta simile e diverso allo stesso tempo rispetto al suo predecessore: simile per la ricerca di alcune sonorità eighteen, per l’approccio molto hard rock alle song, per la scelta dell’artwork giustamente affidata a chi aveva già curato quella del primo (Reiner Design) oltre che ad alcune similitudini soprattutto nello stacco tra una canzone e l’altra; ma differente in quanto a concetto stesso dell’opera, più epica (forse sarà l’influenza di Ronnie James Dio ad impersonare il famoso Mister X) e più “vocal-oriented” (si sente la mancanza di DeGarmo ed il tutto è lasciato nel potere delle lyrics). L’opera può essere sostanzialmente divisa in due parti, una prima composta da tracce dalla struttura tutt’altro che complessa ma che producono comunque un notevole impatto sonoro (è proprio il loro gusto che spiazza la semplicità e l’ascoltatore stesso); ed una seconda di maggiore contenuto, molto più intimista, riflessiva e dolorosa, che prende più spunto da Promise Land che non da Operation Mindcrime (quell’ “Am I” gridato in uno stacco di tempo durante Murderer? la dice lunga).

I’m American rappresenta un baluardo, con il suo cantato scattante, oltre che l’opener, mentre One Foot In Hell ci porta un sound molto più groove e cadenzato dove è Tate al centro della scena; Hostage è un altra pseudo-ballad con un basso enorme che copre il drumming e le chitarre soffuse prima di spiegarsi in riff duri (questa volta il lavoro di produzione e di scelta del sound ha richiesto molto più tempo e si sente). Con The Hands iniziano i grossi richiami al caposaldo dell’88 (I Don’t Believe In Love per la parte iniziale per citarne uno), mentre con Speed Of Light si riprendono tempi lenti. Non molto da dire anche per Signs Say Go diretta come un tuono che costituisce il limite oltre il quale si apre il paradiso (o forse l’inferno, dipende dai punti di vista): Re-arrange You è maestra negli arrangiamenti, con delle tastiere avvolgenti su una sezione ritmica compatta, il tutto condito da riff taglienti come non mai anche se non impossibili; e di qui giunge The Case cantata dall’immenso Ronnie James Dio, è incredibile come lui riesca a conferire un sapore di magniloquenza a tutto ciò in cui è presente. Impattante, piena, epica ma mai spocchiosa; inarrivabile. La già citata Murderer?, psicopatica nel suo genere, ripresenta dei cambi di tempo che solo i Queensryche possono vestire senza disagio in un album molto meno prog dei precedenti e Circles rappresenta l’intermezzo prima di un altro volo verso il cielo.

If I Could Change It All è struggente in ogni sua parte, dolorosa e nostalgica, anch’essa molto ben arrangiata, ricca di emozioni, soprattutto quando i cori molto Suite Sister Mary dicono la loro su un assolo di floidiana memoria, ma inscindibilmente legata ad An Intentional Confrontation, una perla di splendore in cui le vette raggiunte travalicano il razionale umano e la chitarra solista incanta con la sua voce. Con A Junkie’s Blues si torna sulla terra tra l’altro rappresentando un passo indietro rispetto alle precedenti tracce, ma non un neo nel complesso dell’opera, non appena Fear City Slide spezza gli animi lenti con un ritmo allegro che piace ma non fa gridare al capolavoro. All The Promises chiude questo viaggio con una lacrima condita da tanto romanticismo (anche qui  l’introspettività di Promise Land la fa da padrone, forse con un approccio meno intricato).Tutto è delineato tranne la trama. Quella è una chicca che lascio a voi scoprire (come fa Geoff Tate con i suoi intervistatori).

Una curiosità: nella parte dedicata ai credits non è riportata la band con l’elenco dei suoi membri. Probabilmente è difficile trovare qualcuno che non li conosca.

Autore: Queensryche Titolo Album: Operation: Mindcrime II
Anno: 2006 Casa Discografica: Rhino Entertainment
Genere musicale: Heavy Metal Voto: 8,5
Tipo: CD Sito web: http://www.queensryche.com
Membri band:

Geoff Tate – voce

Michael Wilton – chitarra, voce

Mike Stone – chitarra, voce

Eddie Jackson – basso, voce

Scott Rockenfield – batteria, percussioni

Tracklist:

  1. Freiheit Ouvertüre
  2. Convict
  3. I’m American
  4. One Foot In Hell
  5. Hostage
  6. The Hands
  7. Speed Of Light
  8. Signs Say Go
  9. Re-Arrange You
  10. The Chase
  11. Murderer?
  12. Circles
  13. If I Could Change It All
  14. An Intentional Confrontation
  15. A Junkie’s Blues
  16. Fear City Slide
  17. All The Promises
Category : Recensioni
Tags : Heavy Metal, Queensrÿche
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21st Lug2012

Motorfinger – Black Mirror

by Rod

In un tempo in cui l’alternative e l’uso dell’elettronica sembrano essere gli unici fenomeni capaci di calamitare su di sé i riflettori della scena rock attuale, è sempre più cosa rara imbattersi in una band sanguigna e viscerale ma capace allo stesso tempo di ispirarsi degnamente alla migliore produzione di band americane come Metallica, Alice in Chains, Mötley Crüe, Guns N’Roses e Nickelback. A tal proposito, a dire la loro arrivano i Motorfinger, band di casa nostra fuori da qualche mese con l’interessante Black Mirror. Il primo dettaglio di rilievo di questo album, è sicuramente la gran voglia di tirar fuori quella rabbia e quell’energia che solo un certo stile di rock nudo e crudo è capace di generare. Lo conferma Bastards And Saints, il pezzo che apre le danze del disco, un brano ad altissima adrenalina, dal sound persuasivo ed allo stesso tempo marcatamente r’n’r che promette sfaceli nella versione live. Dust Over Stone ha un marchio tipicamente Crüe, su cui si erge l’ottima prova di Nox Novelli al basso, intento nel mantenersi egregiamente in scia col sound satanasso del pezzo. Parimenti, anche in My Dreams evidente è il riferimento alla produzione di Nikki Sixx e soci. Il pezzo contiene nella parte centrale un arrangiamento furioso, con batteria e chitarra che alternano tempi pazzeschi che farebbero impazzire un metronomo.

Mad Crime si presenta come una ballad accattivante, dal ritornello suadente. Sarebbe stato interessante ascoltarne una versione acustica. My Soul e Lost hanno un sound assimilabile a quello dei Godsmack, diretto e potente, con pochi fronzoli e contraddistinto da parti di batteria cavalcanti marcate da potenti bicorde elettrici. Fallen Brothers è il pezzo che ci è piaciuto un po’ meno, probabilmente per la mancanza di una precisa identità che lo mantiene sospeso a metà tra il rock e il mainstream. Gran prova in Out Of Control e Here I Am, brani di chiusura di Black Mirror, in cui i Motorfinger si mostrano capaci di fondere appieno l’energia e la potenza dei Disturbed, la compattezza dei Metallica del periodo Load/ReLoad e la sagacia vocale del migliore Vince Nail a cui l’ottimo Clay riesce a tener testa con onestà e capacità.

Senza dubbio Black Mirror è una prova che convince a pieni voti. Prima però di spendere eccessivi e prematuri aggettivi d’elogio alle qualità di questa band, attendiamo i riscontri delle esibizioni live e del nuovo materiale da ascoltare. Manca ancora qualcosa, ma la strada giusta, la Route 66 del rock’n’roll, è stata a nostro giudizio intrapresa alla grande. Vi e ci auguriamo di non abbandonarla mai.

Autore: Motorfinger Titolo Album: Black Mirror
Anno: 2011 Casa Discografica: logic(il)logic Records
Genere musicale: Rock, Hard Rock Voto: 7
Tipo: CD Sito web: http://www.myspace.com/motorfingers
Membri band:

Claudio “Clay” Corrado – voce

Max Barbolini – chitarra

Andrea “Spy” Spezzani – chitarra

Mauree “Nox” Novelly – basso

Alex Gualdi – batteria, percussioni

Tracklist:

  1. Bastards And Saints
  2. Dust Over Stone
  3. In My Dreams
  4. Bad Crime
  5. My Soul
  6. Lost
  7. Fallen Brother
  8. Out Of Control
  9. Here I Am
Category : Recensioni
Tags : Rock
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20th Lug2012

Black Sabbath – Headless Cross

by Giancarlo Amitrano

Giunto al termine degli anni ’80, Tony Iommi ritiene che il gruppo necessiti di una nuova scarica di adrenalina pura, che faccia piazza pulita degli interlocutori lavori precedenti. La soluzione viene trovata rifondando la sezione ritmica: reclutato al basso Laurence Cottle e soprattutto alla batteria il prodigioso Cozy Powell, con la nuova line-up viene rilasciato nei primi mesi del 1989 Headless Cross, il risultato?! Un uppercut in pieno volto! Riappropriandosi delle sonorità tipiche dei primissimi album, il Sabba Nero si incammina a pieno regime verso 8 tracce di potenza pura, condita da melodie spettacolari, su cui si staglia forte la voce di Martin, qui davvero a livelli super. L’intro di The Gates Of Hell è puramente sulfureo, preparandoci…all’imminente peggio. La title track vale da sola il prezzo del disco: la rullata potentissima di Powell fa arrancare addirittura la sei corde di Iommi che quasi non riesce a tenere il ritmo dell’indiavolato batterista, che in questo invece viene fedelmente seguito dal cantato pulito e spedito di singer. Il refrain ritmicamente scandito e i ripetuti riff inframezzati dal potente lavoro della sezione ritmica ci catapultano subito nell’olimpo della mistica perfezione sonora: siamo appena al secondo brano e già intravediamo la luce di un’esecuzione leggendaria.

Devil & Daughter non lascia feriti sul campo: l’introduzione di Nicholls, il riff già piazzato di Iommi, il cantato demoniaco di Martin e la perfezione delle percusioni non ammettono repliche. Il brano si snoda davvero “speed”, la sei corde lascia basiti per la sua ricerca del massimo nella scala delle note che a cascata si susseguono senza interruzione. Grandioso lo snodo centrale, in cui alla martellante presenza del quintetto si unisce ancora la stridula voce di Martin che in piena epopea metal anni ‘80 si iscrive alla grande nel novero degli screamer. Un non mai abbastanza apprezzato Nicholls introduce alla grande When Death Calls: la voce trasognata che inizialmente ci illude indulgere ad una ballad, presto ci riporta alla durissima realtà sonora di testi durissimi a dismisura portati da un sublime gioco di rullanti e piatti appena accennati, ma presentissimi nell’economia del brano, altra gemma del disco. Ancora rilevantissima la prestazione di Martin, che si consacra alla grande proprio ad opera di questo disco ed in particolare di questo brano, che d’incanto verso il finale si trasforma in una memorabile jam strumentale su cui si erge il titanico singer, quasi drammaticamente piegato in due dalla fatica ma ancora saldo dietro il microfono, mentre Iommi ci danna e strazia l’anima con la sua “deformità” mancina che macina e stritola note, dopo aver ceduto l’onore del riff centrale al super ospite a sorpresa Brian May.

Kill In The Spirit World: quale altra magia riescono a costruire i nostri eroi. Coadiuvati dal solido lavoro di Powell, questo brano si distingue nettamente dagli altri reggendosi su ritmi quasi mid, che lo rendono in alcuni passaggi addirittura quasi progressivo. Molto posato, stavolta, Iommi non si sovrappone alle linee melodiche che qui predominano salvo poi, nella parte centrale, abbandonarsi del tutto all’ispirazione ed all’improvvisazione di Nicholls che con le sue tastiere lo conduce al rilascio di un terremoto di note nell’assolo finale, davvero spettacolare, che ci riporta dritti al 1970. In Call Of The Wild possiamo apprezzare, per l’ennesima volta, il talento purissimo sprigionato da questi autentici fuoriclasse: un Martin toccato dalla grazia raggiunge picchi quasi inarrivabili di cilindrata vocale, mentre Iommi con la sei corde volutamente rallentata e drammaticamente incombente non ci lascia respirare, stante lo snodarsi senza soluzione di continuità del brano tra melodia, potenza e rilassamento finale, su cui ancora dispensare davvero le note selvagge di cui il brano è permeato. Dobbiamo necessariamente unire in unico dittico gli ultimi brani del disco: Black Moon e Nightwing che pur distinti e separati, costituiscono assieme un ‘opera d’arte . Il primo dei due brani si rivela un esercizio di stile per i cinque musicisti che, singolarmente, elargiscono a piene note la loro maestria, che va a confluire nel brano conclusivo, dove il lento e progressivo incedere degli strumenti va a completare quanto dal precedente brano iniziato. Difatti, con un lavoro superbo di tastiere e chitarra slide al punto giusto, viene messo in risalto persino un grande assolo di basso di Cottle, qui sì protagonista assoluto.

Se in Black Moon, il lavoro di Powell è sommamente sopra le righe, tuttavia al pieno servizio dell’economia del brano, in Nightwing il cantato di Martin è egregio nella sua potenza e nella timbrica di spessore, sapientemente condotta dalla sei corde che a più non posso dispensa solo di rara potenza ed intensità e che degnitosissimamente concludono il disco ed il brano che non vuol saperne di congedarsi dall’ascoltatore, concedendo al suo interno un ideale “bis” finale in cui ancora una volta tra acustica e tastiere sembra essere catapultati ancora in una seconda chiamata di un live concert, durante il quale il gruppo si accomiata alla grande dall’uditorio. Ed è ciò che accade esattamente qui: la tensione sonora cessa solo ed esclusivamente al minuto 40 e 31 secondi, quando il gruppo ancora in sottofondo continua la sua ideale cavalcata, che riprenderà a breve con altre performance magistrali.

Autore: Black Sabbath Titolo Album: Headless Cross
Anno: 1989 Casa Discografica: I.R.S. Records
Genere musicale: Heavy Metal Voto: 9
Tipo: CD Sito web: http://www.black-sabbath.com
Membri band:

Tony Martin – voce

Tony Iommi – chitarra

Laurence Cottle – basso

Cozy Powell – batteria

Geoff Nicholls – tastiere

Tracklist:

  1. The Gates Of Hell
  2. Headless Cross
  3. Devil & Daughter
  4. When Death Calls
  5. Kill In The Spirit World
  6. Call Of The Wild
  7. Black Moon
  8. Nightwing
Category : Recensioni
Tags : Black metal
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