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19th Lug2012

Blood Red Water – Tales Of Addiction And Despair

by Marcello Zinno

Direttamente dagli inferi giungono i Blood Red Water, quartetto tutto nostrano a cui sta troppo stretta l’icona di cover band. Non a caso serve poco tempo in sala di registrazione per far sì che una mancata di brani inediti finiscano sull’EP autoprodotto dal titolo Tale Of Addiction And Despair. Parliamo di inferi perchè in realtà ciò a cui i BRW sono più dediti è la riproposizione di certo black/doom abbastanza in voga durante gli anni ’90; i ragazzi citano la scena sludge tra le loro principali influenze ma qui le ambientazioni risultano ben più filtrate da un alone nero che ricopre il tutto, almeno fin quando non è la seconda traccia Considerations/Commiserations che richiama le radici a loro attaccate: il riffing diventa più costante, i tempi acquisiscono energia ed esplodono in Avoid The Relapse nella quale lo spirito rock’n’roll prende in parte il sopravvento. Le linee vocali alternano growl a voce roca (un pò alla Lemmy stemperata dalla vena rock’n’roll che copiosamente viene elargita dalle sue corde vocali) mentre il resto è quasi tutto fatto dalla sei corde che sovrasta (come da loro marchio, non per difetto di produzione) gli altri strumenti pur prevedendo un unico chitarrista in formazione.

Modern Slave Blues ritorna alle ambientazioni funeste puntando ad un headbanging molto meno ritmato ma più costante rispetto alle precedenti tracce, mentre l’ultima The Perfect Mix suggella il riffing più macero e gretto per spedirci direttamente in un’altra dimensione fatta di sofferenza e di lacerazioni. Nel complesso le diverse costruzioni tra i vari brani fanno apprezzare una certa capacità di scrittura dei ragazzi e confermano il fatto che di idee sotto il mantello ce ne sono, basta solo confezionarle bene, magari con un album più complesso o addirittura un concept horror album. Chissà cosa ci riserveranno in futuro i Blood Red Water.

Autore: Blood Red Water Titolo Album: Tales Of Addiction And Despair
Anno: 2011 Casa Discografica: Autoproduzione
Genere musicale: Doom, Sludge, Rock’n’Roll Voto: s.v.
Tipo: EP Sito web: http://bloodredwater.bandcamp.com
Membri band:

Florica – batteria

Volt – chitarra

Lorenzo – basso

Michele – voce

Tracklist:

  1. Ungod
  2. Considerations/Commiserations
  3. Avoid The Relapse
  4. Modern Slave Blues
  5. The Perfect Mix
Category : Recensioni
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19th Lug2012

Malice – New Breed Of Godz

by Marcello Zinno

Per molti è fatto noto il solco che i Malice hanno tracciato nel panorama classic heavy metal americano. Il loro decennio d’oro (dal 1980 al 1990) ha fatto sì che la NWOBHM fondamentalmente radicata in Inghilterra espatriasse anche oltre confine e riuscisse ad assumere forme heavy molto dure ma anche dirette e pulite per accogliere legioni di fan ormai pronti a sonorità più estreme (a quell’epoca). Non è un caso che i Malice nella loro epoca migliore abbiano suonato di supporto a band altisonanti come Metallica, WASP, Slayer pur essendo comunemente riconosciuti dei cloni americani dei Judas Priest che erano giunti alle scene con quindici anni di anticipo rispetto al combo californiano. Cambi di formazione, problemi vari, difficoltà durante i tour, segnarono la fine della band che si è poi ricostituita nel 2006, seppur senza James Neal (singer storico) e da allora si fa sentire per lo più in sede live. I capitoli che il mercato discografico ha visto pubblicare con il moniker di questa band in questi 6 anni sono due, The Rare And Unreleased del 2008 e New Breed Of Godz di quest’anno, entrambi praticamente delle raccolte con dei pochi inediti al loro interno.

Qui trattiamo proprio l’ultima uscita costituita da dodici brani perfettamente equilibrati nella discografia della band. 4 sono infatti le tracce tratte dal primo lavoro risalente al 1985 dal titolo In The Beginning… del quale va richiamata qui Hell Rider che è di pieno stampo pristiano (periodo Screaming For Vengeance/Defenders Of The Faith) con delle cavalcate stoppate solo ai passaggi di confine tra strofa e ritornello ed una voce incalzante che imita vistosamente, ma osando di meno, Rob “The Metal God” Halford; i suoni risultano più moderni rispetto alle versioni originali, merito della produzione debitamente rivista per l’occasione e pronta a sfoggiare un riffing al fulmicotone. La potenza cresce con le quattro tracce riprese dal secondo lavoro targato Malice dal titolo License To Kill: qui va sicuramente segnalata Against The Empire con il suo mood thrash devastante nella quale sembra di risentire i Grave Digger, mentre Sinister Double e Chain Gang Woman sono un pò troppo canoniche per il genere e dopo più di venti anni colpiscono di meno; più cupa e turbolenta è Circle Of Fire che resiste bene alla prova del tempo.

Finalmente giungiamo ai 4 inediti inclusi in questo New Breed Of Godz: la title track, anche opener dell’album, non tradisce le radici richiamando ancora una volta la band del Prete di Giuda per chitarre affilate come coltelli e parti ritmiche cadenzate; molto più cattiva Branded che incasella un doppio tempo ed una parte centrale che addirittura richiama le compisizioni più raffinate del periodo Sin After Sin/Stained Class di Halford & Co.; la ballad arriva a nome Winds Of Death (Angel Of Light) ma è meglio saltarla data la pochezza compositiva e passare direttamente a Slipping Through The Cracks che inserisce degli ingredienti nuovi nell’offerta della band, un rock/heavy più spensierato e meno impervio, piacevole anche per un orecchio abituato ad altre sonorità e con un basso in prima linea che rafforza la sezione ritmica.

Per il contributo multimediale del secondo disco incluso nella confezione troviamo oltre 40 minuti estratti da un concerto del 1987 che, seppur di repertorio, mettono in mostra una scarsissima qualità video e audio, come ogni bootleg che si rispetti; diversa la resa del Live Keep It True XIV risalente al 2011, meno genuino ma sicuramente più attuale anche se in alcuni frangenti accende i riflettori su qualche pecca di James Rivera che si riprende solo nell’ultima delle tre tracce proposte. Infine una traccia del “making of” dell’album con un’intervista a Jay Reynolds, un pò di tracce live e qualche estratto di dietro le quinte delle registrazioni dell’album. Un’occasione in sostanza offerta a tutti i giovani metaller che non conoscono i Malice di riscoprire questa band impattante seppur non molto prolifica ai tempi che furono, ma più di tutto un’occasione per la band tramite questa ulteriore raccolta di ripartire per nuovi live in giro per il mondo. Ma quando un nuovo lavoro di inediti?

Autore: Malice Titolo Album: New Breed Of Godz
Anno: 2012 Casa Discografica: SPV/Steamhammer
Genere musicale: Heavy Metal Voto: 6,5
Tipo: CD+DVD Sito web: http://www.malicemusic.com
Membri band:James Rivera – voce

Jay Reynolds – chitarra

Mick Zane – chitarra

Mark Behn – basso

Pete Holmes – batteria

Robert cardenas – basso

Tracklist:CD

  1. New Breed Of Godz (inedito)
  2. Hell Rider
  3. Against The Empire
  4. Branded (inedito)
  5. Sinister Double
  6. Circle Of Fire
  7. Stellar Masters
  8. Winds Of Death (Angel Of Light) (inedito)
  9. Air Attack
  10. Chain Gang Woman
  11. Slipping Through The Cracks (inedito)
  12. Godz Of Thunder

DVD

  1. Making Of dell’album
  2. Live del 1987
  3. 3 tracce live dal Keep It True Festival XIV, Germany 2011
Category : Recensioni
Tags : Heavy Metal
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18th Lug2012

Darkthrone – FOAD

by Alberto Vitale

La sfida dei Darkthrone, dopo una fiumana di album, era quella di reinventarsi ma rimanendo se stessi. Almeno nella propria e radicale concezione musicale e di come è proposta. Nel 2007 e dopo l’album The Cult Is Alive, Fenriz e Nocturno Culto concepiscono Fuck Off And Die (riassunto nell’acronimo FOAD). Il titolo è un aperto stato di impazienza verso chiunque segue e fa la scena black metal, un atteggiamento di insofferenza verso gli schemi, le parole spesso antipatiche ricevute, verso coloro che hanno saccheggiato idee altrui per costruirsi una propria e traditrice reputazione. Più di ogni altra cosa FOAD rappresenta la rottura definitiva verso il black metal e la volontà di andare oltre quel genere, ma riproponendo uno stile più essenziale, immediato e che pesca dalle lezioni impartite anni a dietro da band che hanno poi svezzato una scena intera: Venom (già dal titolo dell’album), Bathory, Mötorhead, Celtic Frost, ma anche il primordiale thrash metal, il punk e, soprattutto, la mitica NWOBHM, cioè il gene primario dell’heavy metal. Nocturno Culto e Fenriz si rifanno ai riff classici, anche nella struttura della canzone ed ecco che nasce (a detta di Fenriz) la New Wave Of Black Heavy Metal dei Darkthrone.

FOAD venne anticipato in estate da un EP, nel quale figuravano due pezzi leggermente modificati presentati in anteprima; il tutto anticipava spaventosamente bene la direzione che il nuovo lavoro del duo norvegese avrebbe offerto. Se The Cult Is Alive era meno nero e più spedito e con forze altalenanti di punk, FOAD è l’essenza dell’heavy metal che entra in note nere, oscure, marce, underground, approssimative. Il risultato è un black’n’roll dai toni poco black e dall’aspetto quasi retrò, ma con sonorità underground. L’album è inciso con una qualità tutto sommato dozzinale. Le chitarre di Nocturno Culto sono catarrose e catramose, rubano la scena ad un basso che pulsa come un’ombra maligna e con la batteria di Fenriz potente, asciutta (grandiosa la cassa registrata senza eccessi e trigger di sorta, lo facessero anche gli altri!). Nocturno Culto, the voice, canta e recita in modo pazzesco, a volte parodistico, ma sarà anche Fenriz ad esibirsi in diverse canzoni. Il tutto è sigillato da una copertina disegnata in bianco e nero e con Mr. Necro, un essere in stile Eddie degli Iron Maiden, che sarà il nuovo soggetto di tutte le copertine future.

Le prime note di These Shores Are Damned sono un ruggito fragoroso e i riff hanno quell’ottantiano heavy metal che corrode, ma è Canadian Metal la vera svolta nel sound dei Darkthrone. Con uno stile che ricorda gli Onslaught, Fenriz parte cantando “Sex With Satan the loudest song. Sounds like a hammer from hell”, un capolavoro. Un heavy fulminante e robusto, con venature proto thrash metal, e Fenriz che prova a tirare su un falsetto acuto nel ritornello che è quasi una parodia o uno scherzo. La canzone è un tributo ai Voivod, Anvil, Exciter. The Church Of Real Metal è un’altra canzone decisamente parodistica: ispirata da tante band di metal underground è strutturata su un tempo lento e con un ritornello quasi in stile epic metal. Affermare che è il tipico pezzo basato su tempi lenti e medi alla Darkthrone sarebbe davvero pretenzioso. Nonostante tutto la pachidermica andatura, il riffing di puro heavy metal classico, l’assolo di Czarl (Aura Noir) dozzinale e spartano insieme, rendono il brano un atto davvero piacevole e allegro. Se The Banners Of Old ha un’atmosfera decisamente orrida, nera e malsana, FOAD, cantata da Fenriz, è un’altra bordata dalle chitarre in modalità old style, per quanto concerne i riff. Fenriz eleva la voce fin che può, la sua batteria è perfetta nell’incollarsi alle note di Nocturno Culto, il quale lega il basso in modo fedele ai colpi del compagno. Tutto funziona e anche il ritornello più semplice di questo mondo e che chiunque ha sentito, almeno una volta nella vita, in un album heavy metal: “Fuck Off And Die!”. È Splitkein Fever, isieme a The Banners Of Old, ad essere tra le canzoni più atipiche e con una distorsione della chitarra totalmente diversa dal resto. Raised On Rock è un’altra canzone fissata su schemi e volteggi delle chitarre in modalità old school e con Fenriz alla voce, come per Pervertor Of the 7 Gates, la quale ha qualcosa che riavvicina i Darkthrone di FOAD a quelli di Total Death. Wisdom Of The Dead, posta in chiusura, rinverdisce l’essenza più black metal e che ancora brucia nel fondo del cuore della band.

In FOAD vengono citate una serie di band, le quali sono legittime ispiratrici di queste canzoni, oltre che vivamente consigliate ai fan. Leggere nomi come Zemial, Manilla Road, Repulsion, Axegrinder, ma anche Bathory, Mercyful Fate e altri ancora, ha un suo fascino ma si intravede anche un filo conduttore comune che in FOAD sembra acquisire uno spessore importante. Le canzoni riescono a fare presa, alcune riescono a divertire, grazie alla goliardica ripresa di certe soluzioni e cliché tipici dell’heavy metal. La sfida dei Darkthrone è vinta: il sound è rinnovato, le caratteristiche migliori del duo non sono state perdute, la ripresa di schemi vecchi avviene attraverso un senso di divertimento e di allegria, proponendo così un lavoro non terribilmente serio, ma terribilmente convincente!

Autore: Darkthrone Titolo Album: FOAD
Anno: 2007 Casa Discografica: Peaceville
Genere musicale: Black Metal Voto: 8
Tipo: CD Sito web: http://www.darkthrone.no
Membri band:

Nocturno Culto – voce, chitarre, basso

Fenriz – batteria, voce

Tracklist:

  1. These Shores Are The Damned
  2. Canadian Metal
  3. The Church Of Real Metal
  4. The Banners Of Hold
  5. FOAD
  6. Splitkein Fever
  7. Raised On Rock
  8. Pervertor Of The 7 Gates
  9. Wisdom Of The Dead
Category : Recensioni
Tags : Black metal, Darkthrone
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18th Lug2012

Soyuz – Back To The City

by Rod

I suoni rock alternativi di nuova generazione esplosi già da qualche tempo sui palchi di mezza Europa, hanno inevitabilmente contagiato le cantine e le sale prova italiane, influenzando a macchia d’olio il gusto musicale e l’espressione artistica di molte giovani band che muovono a vario titolo i primi passi nel panorama musicale nostrano. I Soyuz sono sicuramente una delle formazioni maggiormente rappresentative di questa scena. La band, attiva dal 2007, si ripresenta al pubblico dopo il disco d’esordio, con il nuovo Back To The City, seconda fatica discografica del trio vicentino. Le 12 tracce contenute in questo lavoro, rigorosamente interpretate in lingua inglese, rispecchiano appieno quel concetto metropolitano che titolo e artwork intendono esprimere: un viaggio musicale lungo i binari del vivere odierno in cui la forma canzone diventa un fotogramma emozionale in appendice al grigiore scenario quotidiano. Apre il disco Left Unsaid, brano che insieme a Perfect Day, Calling e True Show, Fake Reality!, rappresenta il lato malinconico e riflessivo del combo veneto. Brani, questi ultimi, fatti di costruzioni semplici ed efficaci, idonei a quel taglio low sound che identifica maggiormente queste tracce rispetto alle altre. Esplosività rock maggiore la si incontra in I’ll Be Back, When I Look At You, e (Here Comes) The Rain, tracce in cui il dna alternative della band mostra finalmente gli artigli, offrendo distorsioni che ben impattano lo spessore portante della sessione ritmica Sprocati/Lo Giudice.

Dead Cars And Broken Hearts è una traccia godevole ed allo stesso tempo accattivante, liberamente ispirata, a nostro giudizio, al sound che griffa da tempo lo stile dei più noti The Kooks. Blind è la ballad del disco, un’ottima prova in songwriting che, seppur contraddistinta dal tipico sound Soyuz, nel divenire ricorda alcune soluzioni vocali e strumentali tipiche del movimento brit-pop. Becoming e Back To The City, hanno invece un taglio veloce e radiofonico, ed una identità pop che ne cadenza irrimediabilmente il passo. Buone magari per un’estate o due, ma, in tutta sincerità, decisamente al di sotto del livello medio del resto dell’album. La title track è stata inoltre scelta come primo singolo dell’album con tanto di video musicale reperibile in rete: peccato, poiché questa traccia non rispecchia del tutto la vera l’identità artistica dei promettenti Soyuz oltre a non esprime appieno i valori musicali contenuti in questo interessante episodio discografico della band.

Autore: Soyuz Titolo Album: Back To The City
Anno: 2012 Casa Discografica: Black Nutria Label
Genere musicale: Rock, Alternative Voto: 6,5
Tipo: CD Sito web: http://thesoyuz.com
Membri band:

Mauro Poli – chitarra, voce

Giulio “John” Sprocati – basso

Marco Lo Giudice – batteria

Tracklist:

  1. Left Unsaid
  2. Back To The City
  3. Everything Is Clear
  4. Becoming
  5. Blind
  6. I’ll Be Back
  7. When I Look At You
  8. Dead Cars And Broken Hearts
  9. Perfect Day
  10. True Show, Fake Reality!
  11. (Here Comes) The Rain
  12. Calling
Category : Recensioni
Tags : Alternative Rock
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17th Lug2012

Gotthard – Firebirth

by Gianluca Scala

“If you wanna be anything at all, if you wanna be what you see, just put your name down; and if you wanna feel what you think is real, if you wanna pick up a steal, just put your name down!…..Starlight. I don’t even know your name……Starlight. You sure you wanna play my game?“. Signori! I Gotthard sono tornati. Non se ne erano mai andati a dire il vero e questo concetto lo ha ribadito e descritto nella maniera più naturale possibile anche Leo Leoni quando ci ha concesso un’intervista poco tempo fa parlando insieme di come sarebbero andate avanti le cose in casa Gotthard dopo la prematura scomparsa del cantane e membro storico Steve Lee (intervista completa al seguente link). Non ci hanno mai lasciato, è arrivato un nuovo cantante nella persona di Nic Maeder, dotato di una gran voce e di un grande carisma e che si è ben inserito all’interno della band. Il loro nuovo album si chiama Firebirth e già dalla fenice infuocata che compare in copertina il concetto ci appare forte e chiaro: loro sono rinati dalle ceneri dell’inferno che gli è caduto addosso dopo l’incidente che ci ha portato via uno dei cantanti più rappresentativi della scena hard rock europea. I versi che abbiamo riportato ad inizio recensione sono l’inizio ed il chorus centrale del primo brano dell’album intitolato Starlight che è per noi tutti il giusto biglietto da visita che ben introduce il nuovo percorso musicale di questa grande band che ha scritto delle pagine importanti della nostra amata musica. Nuovo si fa per dire, perchè Firebirth non si discosta molto dalla classica linea musicale della band, che risulta essere marchiato Gotthard al 100%, un disco che non tarderà ad essere apprezzato da chiunque abbia seguito album dopo album il lungo percorso musicale della band che va avanti da quasi 20 anni e sempre con ottime canzoni hard rock, che sono entrate e rimarranno per sempre nei nostri cuori.

Questo è un disco che sa mostrare anche il lato selvaggio della band, ci sono diversi brani caratterizzati da arrangiamenti molto robusti e gli assoli di chitarra sono la cosa più pregevole che le nostre/vostre orecchie abbiano il piacere di raccogliere. Ascoltate brani come Give Me A Real, Fight, S.O.S. e Right On e vi ritroverete davanti ad una muro roccioso fatto di riff granitici e potenti ben sostenuti dalla sezione ritmica curata come sempre da due grandi musicisti come Marc Lynn e Hena Habegger. Il livello delle composizioni è sempre alto, orecchiabili o potenti dove lo devono essere; un brano come Yippie Aye Yay non mancherà mai da un loro live, contraddistinto da un grande chorus molto funny nel suo incedere e che riporta alla mente grandi canzoni come Mighty Queen, Mountain Mama o Lift U Up, da sempre presenti in una loro raccolta live e che insieme alle ballad sono le cose che hanno portato i Gotthard a diventare la grande band che sono. Infatti le quattro ballad che sono presenti su Firebirth saranno la vostra più bella compagnia quando avrete voglia di essere romantici, Remember It’s Me è anche il primo brano che è stato composto insieme a Nic Maeder, semplice e diretto capace di arrivare al cuore. Tell Me è un brano bellissimo, il pianoforte e la chitarra acustica messi insieme all’inizio della canzone ti prendono per mano e ti accompagnano fino a casa quando hai finito una piacevole serata insieme ai tuoi amici di sempre, la miglior compagnia che si possa avere. Qui Nic Maeder canta in maniera impeccabile ponendo ad una donna immaginaria una serie di domande per chiedere una conferma dell’amore offerto dal proprio uomo.

Shine è un’altra piccola gemma rock, una semi ballad dal giusto appeal con una melodia che vi rimarrà in testa per tanto tempo, qui l’assolo di chitarra di Freddy Scherer è da antologia. The Story’s Over ha melodie che si riaffacciano un’altra volta nel passato della band con linee melodiche vocali tanto care al sound dei Gotthard, un’altra semi ballad eseguita con stile e con gran mestiere e che fa tornare alla mente molti brani del loro recente passato. La seguente Right On viaggia sopra dei binari hard, potente e melodica allo stesso tempo con quel chorus contagioso che dal vivo starà facendo vittime dappertutto; la band è già in tournée a promuovere il loro nuovo lavoro e noi di RockGarage abbiamo avuto modo di vedere all’ultima molto intensa edizione del Gods Of Metal festival 2012 (qui il live report). Take It All Back è un’ altra semiballad con un bel giro di chitarra che Leo Leoni ci mette sugli scudi, contenente anche un chorus molto pregevole e ben riuscito. Si ritorna a ritmi sostenuti con la penultima traccia che si intitola I Can dove la band si lancia in una cavalcata hard rock senza voler fermarsi più, tutto il disco è di altissimi livelli compositivi, nettamente superiore agli ultimi due studio album pubblicati pur non allontanandosi troppo dagli standard sonori a cui ci avevano abituato.

L’ultima traccia si chiama Where Are You ed è stata scritta totalmente dal chitarrista Leo Leoni: bellissima canzone dove Leo dà l’ultimo saluto e si chiede dove sarà andato il suo vecchio amico, come si sentirà nel luogo dove dimora adesso. Un testo toccante ed intimo che ben descrive il vuoto che ha lasciato nelle nostre vite la morte di Steve Lee e solamente il ricordo della sua grande voce e delle sue grandi interpretazioni regalateci negli anni sanno riempire. Bellissimo il ritornello del brano dove il nuovo singer canta: “How is life for you out there? Are you dancing on a rainbow lane? Are you singing in the rain?” e ancora: “Will you make me understand? Will you be my chosen Angel? Will I find you right at the end? Right at the end“. Molto toccante il verso colmo di speranza che recita “Hope you found your piece of heaven, hope you found your way back home, tell me!” che rimanda al ritornello della grande Heaven, brano che trovate nell’album Homerun dato alle stampe nel 2001.

Non aggiungiamo altro, questo è un album bellissimo, suonato da una grande band che ha trovato un grandissimo cantante che ha il pregio di non assomigliare troppo al suo predecessore, ma di seguirne le stesse linee melodiche che si sposano col suono che da sempre contraddistingue questa realtà. Abbiamo detto che sono tornati, che non se ne erano mai andati e che da adesso in poi saranno ancora insieme a noi.

Autore: Gotthard Titolo Album: Firebirth
Anno: 2012 Casa Discografica: Nuclear Blast
Genere musicale: Hard Rock Voto: 9,5
Tipo: CD Sito web: http://www.gotthard.com
Membri band:

Nic Maeder – voce, chiatta, piano

Leo Leoni – chitarra, voce

Freddy Scherer – chitarra

Marc Lynn – basso, voce

Hena Habegger – batteria

 

Tracklist:

  1. Starlight
  2. Give Me Real
  3. Remember It’s Me
  4. Fight
  5. Yippie Aye Yay
  6. Tell Me
  7. Shine
  8. The Story’s Over
  9. Right On
  10. S.O.S.
  11. Take it All Back
  12. I Can
  13. Where Are You
Category : Recensioni
Tags : Hard Rock
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17th Lug2012

AC/DC – Ballbreaker

by Gianluca Scala

Per la pubblicazione del loro dodicesimo album i nostri rocker australiani chiamarono addirittura il guru del rock/metal americano Rick Rubin alla produzione (e si sente, di fatti l’album è forse l’unico ad avere un suono così metallico e tosto in tutto il loro catalogo) storico collaboratore di Slayer e di altre realtà nel campo hard’n’heavy come System Of A Down, Linkin Park e Red Hot Chili Peppers. È il primo disco dopo cinque anni di distanza dall’ultima fatica discografica di successo (The Razors Edge) e vedrà anche il ritorno dietro ai tamburi dello storico drummer Phil Rudd che aveva lasciato la band agli inizi degli anni ’80, evento causato da forti dissidi musicali avuti con il chitarrista Malcolm Young. Anche questo Ballbreaker si dimostrò essere un buonissimo prodotto musicale, album capace di rimettere in primo piano, forse più del precedente lavoro, quel chitarrismo puro e crudo che da sempre contraddistingue il sound del gruppo che negli ultimi anni si era un pò ammorbidito. Undici brani memorabili capaci di far battere il piede come non succedeva da tempo, carichi di groove con le chitarre sempre in risalto e con il cantato di Brian Johnson che, non cambiando di una virgola la propria impronta vocale, esalta queste canzoni con il classico spirito degli AC/DC.

Si aprono le danze con Hard As A Rock, e già il titolo parla da sé, grande intro di chitarra arpeggiato che ti batte sulla spalla come se fosse la pacca ricevuta da un vecchio amico, con quell’incedere classicheggiante che sfocia nel grandioso riff portante della canzone che accompagna l’ascoltatore fino ad uno dei ritornelli boccacceschi e sessisti che la band ti suona e canta davanti al naso; grandioso e sempre spettacolare anche il video clip che accompagna il brano che era stato scelto anche come singolo apripista dell’intero lavoro, che sarà seguito dal rilascio sul mercato anche da Cover You In Oil e da Hail Ceasar. Quest’ultima ha il pregio di avere dalla sua parte il riff e l’andamento complessivo che riprende dei giri di chitarra ed il modo di avere impostato la canzone come solo loro erano in grado di fare agli inizi della loro carriera, nel senso che assolo di chitarra, riff portante ed anche il cantato suonano molto retrò (l’avrebbe potuta cantare benissimo anche il buon vecchio Bon Scott tanto per intenderci). Stesso ragionamento lo si può fare con la traccia intitolata Boogie Man, brano che sembra arrivare dai seventies con quell’andamento che fa tornare alla mente addirittura un grande brano come The Jack, dove Brian Johnson canta dei versi che sono puri racconti di strada e di vita notturna passata tra un locale all’altro, basti leggere le lyrics per entrare in un bar e chiedere al bancone un boccale di birra quando si legge: “Some people say I’m only out of night, maybe those folks might of got it right. And some people say I drive a cadillac car, or sell my wares hauntin’ hotel bars“.

The Honey Roll non si discosta molto dalle ultime produzioni ed insieme al brano che dà il titolo all’album rendono l’idea del perchè abbiano chiamato mr. Rubin alla produzione: qui c’è tutto il succo sonoro degli AC/DC, grandi riff di chitarra e gli assoli di Angus Young suonano diretti e limpidi come non si sentiva da un sacco di tempo. Questo disco ci ripresentò la band in gran forma ed il fatto di avere recuperato il suo storico drummer dal tocco unico per questo genere dimostrò anche la volontà di ripescare quelle vecchie sonorità tanto care a loro per distaccarsi da tante altre band in circolazione. E per lanciare anche un messaggio ben preciso al mondo, ossia che gli AC/DC ci sono ancora e sempre ci saranno! Almeno per noi che ci porteremo dietro il loro bagaglio musicale fino alla tomba, ed anche nella prossima vita terrena.

Autore: AC/DC Titolo Album: Ballbreaker
Anno: 1995 Casa Discografica: EastWest Records
Genere musicale: Hard Rock Voto: 7
Tipo: CD Sito web: http://www.acdc.com
Membri band:

Brian Johnson – voce

Malcolm Young – chitarra, voce

Angus Young – chitarra

Cliff Williams – basso, voce

Phil Rudd – batteria

Tracklist:

  1. Hard As A Rock
  2. Cover You In Oil
  3. The Furor
  4. Boogie Man
  5. The Honey Roll
  6. Burnin’ Alive
  7. Hail Ceasar
  8. Love Bomb
  9. Caught With Your Pants Down
  10. Whiskey On The Rocks
  11. Ballbreaker
Category : Recensioni
Tags : AC/DC
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17th Lug2012

GPL – Phoenix

by Marcello Zinno

Dalla nostra Italia arrivano i GPL un gruppo che di italiano ha molto poco: testi in inglese e impatto praticamente americano uniscono questo quartetto molto esterofilo anche nei nomi dei suoi membri. Ma ciò che più ci riporta a terre d’oltroceano dopo l’ascolto di un loro brano è proprio il sound profondamente debitore alla scena punk americana (The Offspring in primis soprattutto per le linee vocali) e all’hardcore statunitense a cui i GPL si dicono appartenere. Certo diciassette minuti sono un pò pochini per valutare la genuinità di un’uscita ma bisogna ammettere che la band inserisce parecchi elementi, alcuni degni di nota: i refrain perdono spesso mordente a svantaggio delle parti più ritmate e veloci che nella maggior parte dei casi propongono dei riff a raffica (perdonate la cacofonia) e catturano per l’aggressività. I cori sono marginali e anche le seconde voci sono utilizzate più per dare omogeneità alla proposta musicale rispetto al genere che non per tramutarla in qualcosa di più originale. La parte iniziale di The Age Of Green Pastures è quella che sprigiona più energia, seppur legata a doppia mandata a molta della scena hardcore già passata e travisata nelle nostre orecchie, mentre l’opener Song Of Liberty mostra invece una maggior capacità nel songwriting con delle sfumature diverse e dei cambi di registro apprezzabili, sicuramente più appetibili anche per un contesto live.

So Long mostra la seconda faccia della band, quella più canonica e hardcore, con poco in più da dire, mentre l’ultima Letters To Myself, più allegra e spensierata, tocca dei lidi di maggior potenza sonora; peccato di nuovo per alcuni refrain dal facile ascolto. La ricetta a nostro parere rappresenta un buon punto di partenza su cui il quartetto deve lavorare per proporre qualcosa di personale e che abbia motivo di dire la propria in uno scenario che vive di grandi nomi e di storia passata.

Autore: GPL Titolo Album: Phoenix
Anno: 2012 Casa Discografica: Autoproduzione
Genere musicale: Hardcore, Punk Voto: s.v.
Tipo: EP Sito web: http://www.myspace.com/gplhc
Membri band:

Tony – voce, basso

Prisco – chitarra, voce

Spina – chitarra, voce

Fra – batteria

Tracklist:

  1. Song Of Liberty
  2. City’s Down
  3. The Age Of Green Pastures
  4. So Long
  5. Letters To Myself
Category : Recensioni
Tags : Hardcore
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16th Lug2012

Pearl Jam – Vitalogy

by Giuseppe Celano

A solo un anno dall’uscita di Vs. (1993) i Pearl Jam danno alla luce Vitalogy. Tanto per sfatare la regola del terzo difficile disco, con cui tutte le band si devono confrontare, Vedder e soci fanno le cose in grande senza sbagliare mira. Come per il precedente lavoro anche il nuovo album viene scritto mentre la band è impegnata nel tour a supporto di Vs. Rilasciato prima in edizione vinile, e solo successivamente in cd, Vitalogy vanta un packaging intrigante, nero e con il titolo dorato, simile a una raccolta medica del 1920. Considerato l’ottimo risultato ottenuto in precedenza, la band rinnova la fiducia al produttore Brendan O’Brien che non manca il bersaglio, ma a differenza del suo predecessore Vitalogy ha un piglio diretto (Last Exit), i pezzi sono più nervosi e connotati da un’urgenza tipicamente punk (Spin The Black Circle). La tensioni interne, tanto importanti da far pensare che Gossard stia per abbandonare la nave si riflettono in modo sensibile sul lavoro. È proprio in questo periodo che Vedder diventa il portavoce e l’uomo delle decisioni importanti. Il singer contribuisce in modo significativo alla stesura dei brani, dimostrando ottime doti anche come chitarrista. Vitalogy è un disco più difficile, di vedute alte, non accetta compromessi e si spinge oltre con un eclettismo che lo rendono ancora oggi unico.

I brani come Tremor Christ impattano violentemente contro il lato melodico di Nothing Man, allo stesso modo Whipping si oppone alle stranezze di Bugs (con tanto di accordion suonato da Eddie) e Pry, To. I quarantatre secondi di quest’ultima, apparentemente no sense, aprono la strada a Corduroy che vanta potenza, sapiente soluzione melodica e interpretazione magistrale del singer. I testi riflettono il loro stato d’animo: la band sente la pressione dell’industria discografica e della fama, la privacy violata dalla continua esposizione ai riflettori. In Bugs Eyes, sempre per rimanere in tema di stranezze, la sezione ritmica viene registrata mentre il batterista Dave Abbruzzese è bloccato in un letto d’ospedale per l’asportazione delle tonsille. Poco prima della fine arriva la delicata Immortality la cui melodia da sola basta a mietere vittime entrando di forza nei cuori dei fan e, lo crediamo fermamente senza paura di essere smentiti, anche dei loro detrattori. Sigilla il tutto Hey Foxymophandlemama, That’s Me, inquietante registrazione di pazienti di un ospedale psichiatrico mandata in loop tanto per aumentare le stranezze di questo disco.

In conclusione, se qualcuno di voi pazzi lo avesse mancato per un motivo o più motivi, che comunque consideriamo comunque imperdonabili, si affretti ad affacciarsi nel caleidoscopico mondo di Vitalogy.

Autore: Pearl Jam Titolo Album: Vitalogy
Anno: 1994 Casa Discografica: Epic Records
Genere musicale: Rock Voto: 9,5
Tipo: CD Sito web: http://www.pearljam.com
Membri band:

Eddie Vedder – Voce

Stone Gossard – Chitarra

Mick McCready – Chitarra

Jeff Ament – Basso

Dave Abbruzzese – Batteria e percussioni

Tracklist:

  1. Last Exit
  2. Spin The Black Circle
  3. Not For You
  4. Tremor Christ
  5. Nothingman
  6. Whipping
  7. Pry, To
  8. Corduroy
  9. Bugs
  10. Satan’s Bed
  11. Better Man
  12. Aye Davanita
  13. Immortality
  14. Hey Foxymophandlemama, That’s Me
Category : Recensioni
Tags : Grunge, Pearl Jam
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16th Lug2012

Thin Wire Unlaced – Get Out Of My Head

by Marcello Zinno

La scena si ripete: chi ha mai detto che dei musicisti attivi ormai da un decennio devono obbligatoriamente concentrarsi si un full lenght? Ormai si sa che il funzionamento di una band riflette molto di più l’impegno (e la resa) live che non la quantità di album che popolano la propria discografia. E così i Thin Wire Unlaced, non molto longevi con questo moniker ma sicuramente dotati di un interessante bagaglio musicale alle spalle, si dedicano all’ennessimo EP (il quarto se consideriamo anche le precedenti esperienze di Steph e di Dirty Frank), una manciata di brani per affermare ancora di più le loro radici ma anche la loro evoluzione musicale. Non a caso questo Get Out Of My Head riprende gli inizi post-grunge/metal per inserirvi quando è possibile qualche piccola idea più alternative, più intima, frutto della propria maturazione. La title track apre le danze e l’impatto è assolutamente chiaro a chiunque: il quartetto attinge direttamente alla scena nu metal più ricercata, inserendo delle partiture quasi psichedeliche (talvolta semplicemente acustiche) che l’avvicinano più ad una band post-metal.

In Time si apprezzano le sfuriate di batteria che non solo cercano di rafforzare l’impostazione musicale ma a volte rendono più creativa la sezione ritmica; il sound scomoda Tool e A Perfect Circle in maniera diretta tanto da risultare prezioso per fan della vecchia scuola di Mr. Maynard Keenan mentre meno contenutistico per chi cerca il riff immortale. La componente ideativa cambia, con una The Last Goodbye che tocca lidi ballad pur nella sua elettricità per poi optare per alcuni inserti quasi prog metal, ed una conclusiva Endless Cycle che intimidisce con un’atmosfera quasi horror ma con un impatto heavy devastante e più di un cambio di registro lungo l’ascolto.

C’è da ammettere che il livello qualitativo della produzione è davvero molto alto, in grado di far sfigurare centinaia di prodotti di band ben più altisonanti, e questo valorizza sicuramente le idee del combo. Speriamo che in un futuro poco lontano il quartetto riesca a differenziarsi ulteriormente e far parlare di sé anche con un full lenght.

Autore: Thin Wire Unlaced Titolo Album: Get Out Of My Head
Anno: 2012 Casa Discografica: Autoproduzione
Genere musicale: Post-Metal Voto: 6,5
Tipo: EP Sito web: http://www.thinwireunclaced.com
Membri band:

Stefano “Steph” Calabrese – voce

Francesco “Dirty Frank” Persia – chitarra

Francesco “Tripp” Tripaldi – basso

Luca “The Cuttlefish” Martino – batteria

Tracklist:

  1. Get Out Of My Head
  2. Time
  3. The Last Goodbye
  4. Endless Cycle
Category : Recensioni
Tags : Post-metal
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15th Lug2012

Max Navarro – Hard Times

by Martino Pederzolli

Negli anni ‘80 il fervore musicale nel panorama rock era notevole ed è in quel periodo che artisti come Bruce Springsteen, Toto, Van Halen diedero il meglio di loro stessi; testi dalle tematiche di protesta, di sfiducia, musica che tendeva ad innovare ed a lasciarsi alle spalle il periodo precedente dominato dal fin troppo colto prog per puntare a suoni immediati e di grande effetto. Hard Times, terzo album dell’italo-canadese Max Navarro, sembra scritto proprio in quel frangente ed ha in sé tutti i caratteri dell’hard rock più conosciuto e apprezzato: riff di facile assimilazione, refrain che si stampano indelebili nella mente e faticano ad uscirne, lyrics rabbiose e struttura dei brani lineare e senza sorprese. “Volevo un disco di rock puro, creato mattone su mattone dalla rabbia per tutto lo schifo che viviamo ogni giorno” queste le parole del produttore/chitarrista Nick Meyer e bisogna dire che un album di rock puro è riuscito a sfornarlo ma forse, nel 2012, per rigettare lo schifo che viviamo ogni giorno si sarebbe dovuto cercare di produrre un lavoro meditato, meno “facile” di questo.

Perché Hard Times è questo e null’altro: un facile album hard rock, che ci riporta indietro e gioca sulla forza di ciò che è già stato in passato questo genere, ecco il suo unico punto forte. Non si può evadere da questa “sporca, malata e cannibale società” solo tornando indietro di 30 anni senza apportare nessun contributo, nessuna idea personale se non una nostalgia che lascia il tempo che trova. Forse è per questo che, oggi, questo lavoro dice poco soprattutto a chi, in questa società cannibale, ci dovrà vivere ancora per molto ed ha voglia di rinnovamento, di riscoperta attraverso la rielaborazione e non la ripetizione. Dirà pochissimo a chi crede che le parole di una canzone non debbano essere aliene alla musica che le accompagna ma, al contrario, debbano essere le loro migliori amiche, che vengono esaltate dagli strumenti ed a loro volta sottolineano l’accompagnamento. Tuttavia gli arrangiamenti ed il complessivo andamento delle nove tracce sono pregevoli (ad eccezione della voce che sembra sempre essere troppo lontana) e certamente faranno buona compagnia a coloro i quali vogliono lasciarsi trascinare indietro negli anni pur ascoltando brani inediti. Si spera che il nostro rocker, in futuro, non si lasci influenzare troppo dalle decisioni del mercato e scelga di incidere un album solo quando ne sentirà veramente il bisogno.

Autore: Max Navarro Titolo Album: Hard Times
Anno: 2012 Casa Discografica: Cherry Lips Records
Genere musicale: Hard Rock Voto: 5
Tipo: CD Sito web: http://www.maxnavarro.com
Membri band:

Max Navarro – voce

John Paul Bellucci – chitarra

Nick Meyer – chitarra

Jack Novell – basso

Simone Morettin – batteria

Tracklist:

  1. You Can Rely On
  2. Out Of Bounds
  3. The Wrong Side
  4. Nothing’s Guaranteed
  5. Cryin’
  6. Winter In Chicago
  7. Beyond The Silence
  8. Poison Girl
  9. End Of The Universe
Category : Recensioni
Tags : Hard Rock
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