• Facebook
  • Twitter
  • RSS

RockGarage

      

Seguici anche su

        Il Rock e l'Heavy Metal come non li hai mai letti

  • Chi siamo
  • News
  • Recensioni
  • Articoli
  • Live Report
  • Foto Report
  • Interviste
  • Regolamento
  • Contatti
  • COLLABORA
15th Lug2012

Queensryche – Operation: Mindcrime

by Marcello Zinno

Spesso ci si chiede da dove provengano certe sonorità heavy prog anni ‘80, quale sia il gruppo che per primo abbia scolpito il proprio sound in quel periodo in modo talmente incisivo da portarsi dietro di sé centinaia di altre band a venire. Sembra quasi di risolvere un giallo partendo però da un’informazione certa: il gruppo che più di tutti è stato significativo in tal senso e che abbia ispirato tantissimi altri artisti (e ci riferiamo anche ad uscite del tutto attuali) ha come nome Queensryche. La band si forma a Seattle nel 1981 (è una delle poche che non seguirà il filone del grunge, tipico di quella zona) grazie ad un negozio di dischi in cui questi cinque grandi artisti si incontrano. Il magistrale cantante, che allora faceva parte dei Myth, è uno dei primi a cui venne l’idea di formare il gruppo il cui primo EP sarà proprio prodotto dal proprietario del negozio (i fan dei Metallica ricorderanno alcune similitudini). Subito il nome inizia a circolare. I Queensryche forgiano un sound personalissimo, molto intimista, d’impatto da un lato ma complesso da interiorizzare dall’altro. È prog puro, molto più heavy rispetto a quanto ci avevano abituati i Rush del tempo (che in fondo heavy non lo sono stati nemmeno successivamente) ma di un suono tutto da assaporare e da farsi trasportare verso un’altra frontiera. Operation: Mindcrime è il loro secondo full album, storico, un capolavoro, un concept che si dipana tra un assassinio ed un omicida, tra dolore e stupore, tra esplosione e pazzia.

Già l’inizio fa scena. Come potrebbe iniziare un concept basato su un assassinio? In ospedale. Mille sono le voci e spazio alla fantasia, iniziano i ricordi. Un’intro per calibrare le intenzioni e subito dopo si parte con Revolution Calling, Geoff Tate alla voce esprime tutto ciò che sa dare. Chi ha detto che un buon cantante si misura dalle qualità vocali? Un buon cantante deve riuscire ad interpretare ogni singola nota, a sprigionare l’emozione che si vuole dare ad ogni respiro ed in questo Geoff non ha rivali. Chris De Garmo inizia subito a farsi conoscere parlando il prog a maniera sua, come andrebbe fatto e il primo assolo entra dentro nel profondo continuando a parlarci anche al termine della traccia. La title track inizia con il trillo di un telefono: l’omicidio sta per essere annunciato, le sonorità diventano cupe, la voce è affilata come la punta di una spada, la ritmica spinge ad un headbanging violento, l’avventura è solo cominciata. L’album ha anche uno spiccato significato politico e lo si riscontra in varie strofe, una per tutte: “Politicians say no to drugs while we pay for wars in South America, fighting fire with empty words while the banks get fat and the poor stay poor and the rich get rich and the cops get paid to look away”.

Al fulmicotone sono Speak e Spreading The Desease ma l’apice lo si inizia a raggiungere con The Mission, opera in cui Geoff esprime tutto il dolore della morte, prima con un cantato pacato e cupo, poi con una forza sprigionata e seguita come un’ombra dal batterista, Scott Rockenfield, che sembra di secondo ordine ma in realtà grazie a lui i brani hanno tutto un altro sapore. Le chitarre si intrecciano per prepararsi alla lunga composizione: Suite Sister Mary, la parte centrale dell’album, con cui la band introduce sonorità molto epiche, con tastiere e cori, ma la forza dell’impatto con il sound targato Queensryche è sempre forte; i campi di tempo sono repentini come i cinque di Seattle ci hanno abituati e la carica non viene dalla potenza sonora delle chitarre bensì dalla loro capacità di scuotere l’ascoltatore, di tenerlo sempre sul filo del rasoio, di corteggiarlo e di cullarlo. Si continua con The Needle Lies, caratterizzata da una vena molto power che ha ispirato da sola almeno cinquanta gruppi (Helloween in testa, basta ascoltare Keeper of the Seven Keys Pt.1 e 2), non lascia per niente indifferenti nonostante si trovi dopo una composizione stupenda di 10 minuti e mezzo. 3 minuti bastano per fissare le fondamenta per altri 20 anni di musica.

Solo con queste 9 traccie avrebbero composto un album completissimo in quel periodo ma….c’è ancora qualcosa da dire. Dopo un intermezzo molto intimo, quasi sacrificale, c’è la potente ed energetica Breaking The Silence, che lo rompe davvero il silenzio. Il tempo è scandito dal basso, sempre preciso e completo; la canzone chiarisce ancora una volta le intenzioni del gruppo: non avere rivali. Altri due capolavori aspettano il povero ascoltatore che ha acquistato il disco aspettandosi un gruppo pari a quelli sentiti in giro: I Don’t Believe In Love è un concentrato di gioia e di sofferenza che si mescolano, Eyes Of A Stranger è la parte finale che ci fa rammaricare perché il sogno sta giungendo alla fine anche se quel pezzo stesso è un sogno e chiude egregiamente un album che non presenta cedimenti, nemmeno inpolverito da un ventennale di altra musica. I Queensryche, dopo quest’album, si trasformano imparando da loro stessi, cambiano spesso pelle pur lasciando sempre tracce indelebili del loro transito.

Autore: Queensryche Titolo Album: Operation: Mindcrime
Anno: 1988 Casa Discografica: EMI
Genere musicale: Heavy Metal, Progressive Voto: 10
Tipo: CD Sito web: http://www.queensryche.com
Membri band:

Geoff Tate – voce, tastiere

Chris De Garmo – chitarra

Michael Wilton – chitarra

Eddie Jackson – basso

Scott Rockenfield – batteria

Tracklist:

  1. Remember Now
  2. Anarchy-X
  3. Revolution Calling
  4. Operation: Mindcrime
  5. Speak
  6. Spreading The Disease
  7. The Mission
  8. Suite Sister Mary
  9. The Needle Lies
  10. Electric Requiem
  11. Breaking The Silence
  12. I Don’t Believe In Love
  13. Waiting For 22
  14. My Empty Room
  15. Eyes Of A Stranger
Category : Recensioni
Tags : Album del passato, Heavy Metal, Queensrÿche
0 Comm
14th Lug2012

Northwinds – Winter

by Marcello Zinno

Al quarto capitolo discografico sono giunti i francesi Northwinds, band che si incastra perfettamente nella scena doom europea anche se la caratteristica del quartetto è quella di non puntare insistentemente sugli elementi inequivocabili del genere ma di offrire anche tanta musicalità: contributi melodici delle chitarre si sovrappongono e la sezione ritmica è di gran livello cercando sempre la giusta atmosfera non lugubre in tutti i sensi ma a volte anche arricchita da varie sfaccettature. Così le tracce risultano sicuramente complesse in quanto a lunghezza (la title track supera i ventidue minuti) ma sempre digeribili, nulla di ostile per i non-fan del genere, melodie solo a tratti pompose che contengono piccole pillole di sperimentazione, il tutto impreziosito da una produzione di alto livello.

L’incedere lento dell’opener Turned To Stone è tipico delle cadenze doom ma molto più orchestrale con dei cori che conferiscono l’epicità giusta per caratterizzare il brano; è con Land Of The Dead che ci si rimanda agli immancabili Black Sabbath i quali svaniscono presto negli intermezzi acustici che sembrano richiamare le ombre di Remember Tomorrow degli Iron Maiden o di qualche passaggio di opethiana memoria. Il basso cadenzato sembra sezionare chirurgicamente il brano e conferire quel pathos che solo una parte acustica può offrire, anticipata da una sfuriata di doom elettrico ad alto vattaggio. Molto bella Last Chance dove la partita la giocano la voce e la tastiera: la prima molto audace si rifà all’hard rock settantiano mentre le parti melodiche della tastiera sovrastano la struttura del pezzo con un approccio quasi da musica gregoriana/gotica. Parentesi a parte per Winter, ultimo lunghissimo brano dell’album (se non consideriamo la bonus track): cambi di tempo e di atmosfera, flauto e chitarra distorta, sfumature progressive e lanci veloci, sono racchiusi tutti gli elementi della ricetta Northwinds.

Cover? Certo! La prima è Gorgon proposta nel lontano 1980 dagli Angel Witch e qui richiamata spogliata dalla sua parte NWOBHM (che esplode solo a metà traccia) e costruita quasi tutta sul lento fraseggio iniziale. La restante parte risulta fedele all’originale con la sua anima festaiola che risulta diversa rispetto ai restanti 50” d’ascolto. L’altra cover dell’album è l’ultimo brano Clear Windopane dei doom hard rocker St. Vitus: stavolta il brano risulta profondamente diverso con un wah wah che sostituisce l’intro quasi noise della versione originale ed un sound meno ruvido. Un lavoro interessante.

Autore: Northwinds Titolo Album: Winter
Anno: 2012 Casa Discografica: Black Widow Records
Genere musicale: Doom Voto: 7
Tipo: CD Sito web: http://www.facebook.com/northwindsdoom
Membri band:

Sylvain Auvé – batteria

Emmanuel Peyraud – tastiera

Thomas Bastide – chitarra

Thomas Boivin – basso

Tracklist:

  1. Turned To Stone
  2. Land Of The Dead
  3. Last Chance
  4. Gorgon (Angel Witch cover)
  5. Black Tower
  6. Winter
  7. Clear Windopane (St. Vitus cover, bonus track)
Category : Recensioni
0 Comm
14th Lug2012

The Answer – Revival

by Gianluca Scala

Con questo terzo e nuovo lavoro pubblicato nell’ottobre dello scorso anno i nord irlandesi The Answer sfornano un altro piccolo capolavoro. Un album davvero molto bello, con valanghe di riff graffianti, fantastici chorus e tanti assoli di chitarra esplosivi. Ci si tuffa letteralmente negli anni ‘70 ascoltando i nuovi brani composti da questi quattro rocker incalliti, dodici piccole gemme che fanno tornare alla mente quanto fatto dai Led Zeppelin durante la loro carriera. Revival si lascia ascoltare fino all’ultima traccia che è una meraviglia per le nostre orecchie, il sound che ne traspare è eccellente ed i suoni creati risultano essere ricchi di melodia e molto vibranti, con quelle loro armonie retrò che pochi gruppi sanno esaltare ai giorni nostri. Non sorprende nessuno il fatto che la loro musica piaccia e che venga apprezzata da una fascia di persone anche al di fuori dall’ambiente hard rock, forse il loro segreto sta nel saper dare il giusto peso alle loro influenze musicali che spaziano dal blues fino al vecchio rock americano, ben miscelate a dei suoni moderni e di facile appiglio. Una formula vincente che innalza queste canzoni di puro rock’n’roll e le porta ad altissimi livelli di gradimento, brani robusti e veloci come l’iniziale Waste Your Tears e Piece By Piece che si alternano a grandi rock ballad come la grandiosa One More Revival.

Questo disco è un ulteriore passo avanti nel loro cammino sonoro nel quale i The Answer non si sono mai preoccupati delle innovazioni in campo musicale, andando avanti per la loro strada; già con il precedente Everyday Demons avevano dato piena dimostrazione di sapere cosa significhi per loro il concetto di musica rock’n’roll (fatene vostra una copia di quel disco e capirete cosa intendiamo) proponendo sempre musica di ottima qualità, non per nulla li vollero come gruppo spalla gli AC/DC durante le date del tour del 2009 passato anche in Italia. Questa band è destinata a fare ancora molta strada e ha tutte le carte in regola per avere una carriera di tutto rispetto, gli assoli di chitarra di Paul Mahon insieme alla voce del singer Cormac Neeson ci accompagneranno lungo il cammino per entrare nell’olimpo dei grandi dei del rock. E bisogna aggiungere che secondo noi possono essere candidati a miglior rock’n’roll band attualmente in circolazione. Promossi a pieni voti.

Autore: The Answer Titolo Album: Revival
Anno: 2011 Casa Discografica: Spinefarm Records
Genere musicale: Hard Rock Voto: 8,5
Tipo: CD Sito web: http://www.theanswer.ie
Membri band:

Cormac Neeson – voce

Paul Mahon – chitarra

Micky Waters – basso

James Heatly – batteria

 

Tracklist:

  1. Waste Your Tears
  2. Use Me
  3. Trouble
  4. Nowhere Freeway (featuring Lynne Jackaman)
  5. Tornado
  6. Vida (I Want You)
  7. Caught On The Riverbed
  8. Destroy Me
  9. New Day Rising
  10. Can’t Remember, Can’t Forget
  11. One More Revival
  12. Lights Are Down
Category : Recensioni
Tags : Hard Rock
1 Comm
13th Lug2012

Black Sabbath – The Eternal Idol

by Giancarlo Amitrano

Tony Iommi è stato e resta la mente del Sabba Nero: più dello stesso Ozzy, di Ronnie James Dio e degli altri valentissimi collaboratori che si sono succeduti nella discografia della band. Come l’araba fenice, il baffuto chitarista ha saputo sempre rialzarsi dai (pochi) passaggi a vuoto della sua carriera, sia che si trattasse di attingere a nuove sonorità, sia nell’assemblare una nuova formazione all’occorrenza. Ed è esattamente ciò che si verifica anche per The Eternal Idol: salutata la miriade di turnisti occorsa per realizzare Seventh Star, Iommi riassembla stavolta una line-up decisamente più stabile. Reclutata la leggenda Bob Daisley al basso, con il fido Nicholls alle tastiere e soprattutto con il nuovo vocalist, l’ex Orion Tony Martin…la nuova avventura può partire. Sonorità di nuovo “malefiche” impregnno i solchi dell’album, sin dalla iniziale The Shining notiamo il ritorno a tematiche quasi ancestrali, su cui il cantato di Martin si innesta alla perfezione. Strutturato su un possente giro di basso, il brano si snoda attraverso il roco e sognante Martin, che dà la stura al riff centrale potente ed anche molto distorto. Accompagnato da una clip di potente impatto darkeggiante, il brano consente una partenza sparata sin dai primi ascolti del disco. Una sapiente atmosfera funerea creata da Nicholls introduce Ancient Warrior, la voce di Martin ricalca le sonorità dell’era Dio, in aggiunta ad una chitarra superbamente modulata su strofe molto mid-tempo. Il riff centrale è monumentale: tutto il Paradiso delle sei corde sta ad ascoltare l’incedere maestoso della chitarra, accompagnato magistralmente dalla sezione ritmica, per un brano da urlo.

Metal puro in Hard Life To Love: la doppia cassa di Singer rulla impetuosa, Martin si sgola a dovere per porgere su un piatto d’argento il refrain del brano articolato su due quartine di basso e batteria, che fanno da apripista a un riff di chitarra semplice, ma ossessivo e martellante, quasi dai tempi speed. Glory Ride consente a Martin il massimo dell’estensione vocale: stante il lento ma sicuro incedere del brano, questo permette al cantante di spaziare dal falsetto allo screaming con la massima nonchalance, supportato in questo dalle sapienti linee melodiche di Nicholls. Un sapiente mix che caratterizza il brano come uno tra i migliori del disco. Born To Lose è impostata su una solida linea di chitarra, attraverso la quale si evince che il gruppo vuole condurci per mano e con gentilezza al riff centrale, scaricato d’improvviso nel bel mezzo di tempi e sonorità quasi prog ma solo per un attimo. L’assolo inconfondibile del mancino è qualcosa di graffiante, coadiuvato alla grande dalla sezione ritmica, che casualmente di lì a poco incrocerà i destini della band di Gary Moore. Ancora un grande intro di Nicholls ci conduce all’incubo degno del titolo: Nightmare è un azzeccata simil-ballad, sempre dai tempi rigorosamente hard. La voce di Martin ci sorprende ancora per la sua graffiante profondità, basso e batteria sono concentrati al massimo per produrre azzeccate melodie. Il ghigno satanico di metà brano ci rimanda alle atmosfere in puro stile-Ozzy, salvo poi ricondurci alla realtà, fatta di sbandamenti vocali e chitarristici sapientemente costruiti.

Una maestosa acustica tratteggia Scarlet Pimpernel, un esercizio di stile che in un paio di minuti ci coglie impreparati, non imbracciando Iommi tale strumento ormai da tempo. Purtuttavia, grande atmosfera sognante e di impatto sicuro, in solo due minuti… Ancor più heavy, verso la fine del disco Lost Forever che scivola come un proiettile sparato in pieno volto, a distanza ravvicinata. Tira dritto per tutta la durata, senza cedimenti: Martin e Singer protagonisti assoluti del brano al cui servizio stavolta è “il grande mustacchio” che piazza la zampata da par suo proprio nel momento apicale del cantato, che qui deve necessariamente cedere il passo, salvo poi ritornare nel finale con le ultime linee sonore che schizzano superbamente oltre il muro del suono. Arriviamo alla fine con la title track, Eternal Idol, che non avrebbe sfigurato 17 anni prima al loro esordio: le atmosfere di dannazione si respirano a pieni polmoni, Iommi si mantiene quasi in una dimensione di trascendenza musicale, con semiacustica ed elettrica appena accennata; Martin che declama con fare luciferino ogni umana miseria, appoggiato in toto anche dalla sezione ritmica, che con un sapiente uso della grancassa e del basso pesante, sforna ancora un masterpiece. Tagliente come un’accetta, si snoda attraverso le onnipresenti tastiere che disegnano ancora l’Inferno in terra, in cui il singer evidentemente si trova a suo agio come pochi.

Migliore conclusione non poteva esservi, per un disco originariamente concepito per le linee vocali del compiantissimo Ray Gillen, poi ingiustamente defenestrato. Resa sonora tuttavia ottima anche con Martin, che da questo disco inizia una proficua e fortunata collaborazione con il Sabba Nero…il sipario è lungi dal calare.

Autore: Black Sabbath Titolo Album: The Eternal Idol
Anno: 1987 Casa Discografica: Vertigo/Warner Bros
Genere musicale: Hard Rock Voto: 7
Tipo: CD Sito web: http://www.black-sabbath.com
Membri band:

Tony Martin – voce

Tony Iommi – chitarra

Bob Daisley – basso

Eric Singer – batteria

Geoff Nicholls – tastiere

Bev Bevan – percussioni su traccia 7

Tracklist:

  1. The Shining
  2. Ancient Warrior
  3. Hard Life To Love
  4. Glory Ride
  5. Born To Lose
  6. Nightmare
  7. Scarlet Pimpernel
  8. Lost Forever
  9. Eternal Idol
Category : Recensioni
Tags : Black Sabbath
0 Comm
13th Lug2012

Violet Gibson – American Circus

by Gianluca Scala

La logic(il)logic è un etichetta discografica che da sempre dimostra di essere alla ricerca di nuovi talenti da lanciare nel mondo della musica, specialmente il nostro mondo musicale e quando diciamo nostro intendiamo dire il mercato discografico italiano, oramai stracolmo di gruppi emergenti che girano città e regioni per suonare e fare conoscere la propria musica laddove i più coraggiosi, o i più fortunati, riescono a riuscire in tale impresa anche all’estero. Detto questo uno degli ultimi acquisti della suddetta etichetta sono i Violet Gibson, band hard rock che proviene da Parma e che dopo cinque anni di distanza dalla pubblicazione del primo demo (sotto un altro monicker, Last Vegas) e dopo qualche ritocco alla propria line up arriva alla pubblicazione del debut album American Circus. L’album, formato da tredici tracce, viaggia su dei binari più rock oriented che prettamente hard rock e nel loro insieme questi brani non entusiasmano come potrebbero, fatto che deriva anche dalla mancanza a nostro avviso del brano che gli permetta di fare l’effettivo salto di qualità. Non è certo la tecnica quella che manca a questi cinque ragazzi parmigiani, tuttaltro, è che proprio non si trova in mezzo a tanto materiale ben suonato la canzone di spicco che faccia davvero la differrenza.

Ogni brano presenta sì delle idee interessanti condite da riff di buona fattura e de assoli di chitarra qua e là che si mettono anche bene in evidenza, però appunto si sente la mancanza di un qualcosa che ti faccia venire voglia di rimettere il disco nel lettore. La title track ad inizio lavoro parte con un giro di chitarra come se ne sentono già molti in giro e che non riesce a decollare mai per davvero, She Feels Alive è una ballata smielosa che non convince molto, e non l’aiuta nemmeno il fatto di durare tre minuti tre di orologio. La voce del singer Matteo Broggi è particolare, rauca tiene il botto senza svettare tra le migliori che abbiamo sentito. In tutti i brani riusciamo a salvare giusto la sezione ritmica formata dal basso pulsante di Tony La Blera e dal drumming ben equilibrato e tecnicamente possente di Michelangelo Naldini. Nemmeno il rifacimento di Superstition di Stevie Wonder riesce a sollevare di molto la lancetta del gradimento di American Circus, trasformata in una mezza cavalcata rock. In My Head prova ad inoltrarsi in territori quasi metal con quel ritmo ipnotico e con la batteria sempre ben in evidenza e nulla più. Game Of Sorrow riprende un pò il discorso che avevano intrapreso i più blasonati Velvet Revolver dall’altra parte dell’oceano, con la differenza che in quella band ci sono i 3/5 dei Guns N’ Roses, anche se il giro di chitarra portante del pezzo e gli assoli che gli girano intorno sono forse una delle poche cose salvabili in tutto il disco.

Tecnicamente ci siamo e lo dicevamo già ad inizio recensione ma è difficile trovare un brano da preferire ad un altro e si fa fatica ad arrivare alla fine dell’album per quanto siano troppo uguali i brani tra di loro, che siano brani tirati o dall’atmosfera più morbida. Questo dimostra che non basta essere dei buoni musicisti per farsi strada nel panorama musicale che ci circonda, ma bisogna essere anche in grado di scrivere delle canzoni che abbiano la capacità di appiccicarsi addosso all’ascoltatore, qualunque sia il genere musicale suonato. Speriamo che con il prossimo lavoro i Violet Gibson riescano a trovare la direzione giusta da seguire che gli permetta davvero di distinguersi dalla miriade di band che ci circondano oggi, perchè come recitava uno dei più veri modi di dire del movimento giovanile nato alla fine degli anni ’60 in Inghilterra, i Mods: Distinzione è stile.

Autore: Violet Gibson Titolo Album: American Circus
Anno: 2012 Casa Discografica: logic(il)logic
Genere musicale: Hard Rock Voto: 6
Tipo: CD Sito web: http://www.violetgibson.biz
Membri band:

Matteo Brozzi – voce

Gabriele Tassara – chitarra

Giovanni Marchi – chitarra

Tony La Blera – basso

Michelangelo Naldini – batteria

Tracklist:

  1. Go Ahead
  2. American Circus
  3. Original Sinner
  4. She Feels Alive
  5. Superstition (cover di Stevie Wonder)
  6. In My Head
  7. Forget About The Rain
  8. Game Of Sorrow
  9. I Wish I Could
  10. Parasite
  11. From The Moon To Your Feet
  12. Your Balls On Fire
  13. The Reason To Be God
Category : Recensioni
Tags : Hard Rock
0 Comm
12th Lug2012

Lita Ford – Living Like A Runaway

by Marcello Zinno

Un importante ritorno quello di Lita Ford. La cinquantaquattrenne artista angloamericana non ne vuole sapere di uscire dalle scene, nonostante i vari stop in passato vissuti per svariati motivi (le due gravidanze ma ancora prima le difficoltà ad arruolare i giusti musicisti) dal mondo della musica. C’è da ammettere che di tecnica ce n’è tanta, nonostante i nostri presupposti ‘infami’ rendano sempre più difficile riconoscere un alto valore degli assoli prodotti da un personaggio non maschile, ma allo stesso tempo possiamo dire che non è cambiato nulla nel trademark dell’artista. Nonostante la sua fedele e cattivissima B.C. Rich, nonostante il suo aspetto affascinante ma street allo stesso tempo, Lita punta sempre su un heavy molto ascoltabile e la pubblicazione di due soli album negli ultimi diciotto anni non ha contribuito al desiderio di produrre qualcosa di maggiormente heavy, qualcosa che rappresentasse un segno di rottura con il passato. Le aspettative erano alte al momento della presentazione dell’album, quando Lita aveva ringraziato la nuova etichetta SPV/Steamhammer Records per permettergli di esprimersi al meglio, per avere la possibilità di tornare alla line-up rock con gli strumenti tradizionali, senza elementi elettronici (che però parzialmente compaiono come nell’ultima traccia scritta con Mr. Nikki Sixx), bensì concentrandosi sulle basi del punk e del metal. E proprio da lì le aspettative erano salite ma allo stesso tempo eravamo tornati con la mente al quel 1987 che aveva visto la possibilità di svolta per l’artista con quel The Bride Wore Black mai pubblicato dalla PolyGram Records perchè reputato troppo pesante. Così nacque nello stesso anno Lita, un album di grande successo ma che si muoveva su linee ben calibrate e dentro i confini del rock.

Non possiamo ignorare il suo passato perchè è da qui che senza dubbio si muovono le idee anche del presente di Lita e dei presupposti su cui si fonda Living Like A Runaway di quest’anno, un album che alterna momenti abbastanza duri e groovy come l’opener decisa dal titolo Branded, o Relentless, una hard’n’heavy anthem dai ritmi lenti, a passaggi ben più pacati come la stessa title track che rappresenta il classico pezzo morbido capace di strizzare l’occhio alla tradizione americana “alla Springsteen” nella parte iniziale per poi sfociare in un refrain facilmente cantabile; si salva l’assolo che non potrebbe sfigurare in un brano ben più tosto. Ovviamente più pacata Mother (a proposito una curiosità: la madre di Lita è italiana), una quasi ballad in cui la Ford si avvicina ad una Courtney Love con una voce più raffinata uscendo però dai propri terreni graffianti. Qualcosa di più convincente lo si ascolta nella rovente Devil In My Head (escludendo la parte centrale) e Asylum che sembra un pezzo degli ultimissimi Iron Maiden con un arpeggio iniziale e un raddoppio di chitarra elettrica interessante pur restando in dei confini rock. In definitiva un album per chi cerca un certo soft rock da radio americana, nulla di più.

Autore: Lita Ford Titolo Album: Living Like A Runaway
Anno: 2012 Casa Discografica: SPV/Steamhammer
Genere musicale: Heavy Metal Voto: 5
Tipo: CD Sito web: http://litafordonline.com
Membri band:

Lita Ford – voce, chitarra

Gary Hoey – chitarra, basso, voce

Matt Scurfield – batteria

 

Tracklist:

  1. Branded
  2. Hate
  3. The Mask
  4. Living Like A Runaway
  5. Relentless
  6. Mother
  7. Devil In My Head
  8. Asylum
  9. Love 2 Hate U
  10. A Song To Slit Your Wrists By (58 cover, scritta da Nikki Sixx)
Category : Recensioni
Tags : Heavy Metal
0 Comm
11th Lug2012

Darkthrone – The Cult Is Alive

by Alberto Vitale

Doveva cambiare qualcosa nei Darkthrone e non per imposizione, ma solo per via di una fisiologica evoluzione che in tutte le band musicali avviene nel tempo. Come i serpenti che si svestono della pelle per esibirne una nuova, i Darkthrone in The Cut Is Alive, ovvero il loro dodicesimo album, espongono un sound che si rifà più al rock che al black metal. Fu lo stesso Fenriz a dire “call it BLACK METAL or EVIL ROCK. I don’t care”. Se i demo sul finire degli anni ’80 furono la genesi e Soulside Journey, 1991, il vecchio testamento nel segno meschino del death metal, con l’aggiunta dell’apocrifo Goatlord, 1996, la loro saga eterna e mitologica si sviluppò nel 1992 con A Blaze In The Northern, il loro primo editto imperiale nel segno del black metal. Da allora ogni album del duo era il verbo, e il suono, che ogni figlio del metallo nero attendeva con ansia e onore; il tempo è però tiranno e la pedissequa ripresa del loro stile stava ghettizzando i Darkthrone. Due anni prima Sardonic Wrath aveva lanciato i primi segnali di una rinnovata intenzione di Fenriz e Nocturno Culto a rivedere il loro pur sempre letale black metal, infondendovi elementi di brutale punk e tendenze classicamente heavy metal. Nel finire del febbraio 2006 i Darkthrone danno in pasto alle orde di adepti The Cult Is Alive.

L’album mostra un sound rinnovato, nelle dinamiche, nelle tendenze stilistiche, ma non privo dei canonici elementi che i Darkthrone hanno da sempre fatto mostra nelle loro canzoni. Le tipiche frenate, le andature improvvisamente mastodontiche, i mid-tempo piantati all’improvviso a spezzare qualche bordata furiosa. Un drumming robusto e comunque sempre lineare, una chitarra dalla distorsione roca e intrisa di un groove gelido, The Cult Is Alive è questo, ma è anche una ripresa di punk estremizzato e di andature che, dal suo successore in poi, verranno bollate come Black ‘n Roll. L’idea di fondo di Fenriz e Nocturno Culto era appunto quella di riprendere la concezione musicale di quei generi come l’heavy metal primordiale, il punk e il rock più spinto possibile e fonderli attraverso la loro visione estrema e distorta della musica. Una visione comunque black metal, rievocando la nascita del genere attraverso i Venom e i Bathory e abbinandoli al punk più approssimativo possibile.

The Cult Of Goliath è la prima mazzata, sommariamente il percuotere di Fenriz è dannatamente punk e Nocturno Culto non sembra essere da meno, ma la bestialità della distorsione e i riff così veloci e aggressivi vanno anche oltre quel genere. Lo stesso vale per i primi minuti della travolgente Too Old Too Cult (canzone ripresa anche per un interessante mini EP che porta appunto quel nome), qui il punk abbonda, ma nella fase centrale le tipiche frenate dei Darkthrone ricalcano appunto i Venom. Se Atomic Coming è dedicata a Piggy dei Voivod, rivelandosi anche una ripresa di come i canadesi evolsero l’hardcore-metal, Graveyard Slut cita il punk e il rock, attraverso suoni tenebrosi e decisamente black metal, ma con l’esibizione alla voce di Fenriz. Forse sono De Underjordiske e Underdogs And Overlords ad essere i brani più canonicamente black metal in The Cult Is Alive, soprattutto la seconda canzone che si ispira agli scenari di Under A Funeral Moon. Seminando la musica di elementi più fruibili ecco spuntare situazioni più semplici, come Whisky Funeral, 4’ di quasi motorheadiana memoria, istintivi, immediati. Tyster På Gud, francamente sembra un riempitivo, mentre Shut Up è la feroce invettiva (forse un pochino stucchevole) dei Darkthrone a tutti coloro che gli hanno saccheggiato le idee facendo fortune (“copi il mio stile e ti definisci un uomo”). Chiude Forebyggende Krig, canzone messa su tempi lenti e quindi ancorata alle funeree e cadenzate andature tipiche di sempre.

The Cult Is Alive è il ritorno dei Darkthrone alla Peaceville, forse i tempi erano maturi per l’etichetta a non rischiare più di imbarazzarsi per l’accostamento del loro nome a simpatie ariane e naziste. Tra il precedente Sardonic Wrath e The Cult Is Alive vennero anche pubblicati Under Beskyttelse Av Mørke, un EP con pezzi editi, una nuova e speciale versione della compilation Preparing For War e l’EP Too Old Too Cult, quasi in contemporanea con l’album d’appartenenza. Le registrazioni avvennero nello studio privato e casalingo dei Darkthrone, Necrohell 2, con la regia di Nocturno Culto, il quale svolse un lavoro magnifico, per quanto concerne la resa finale dei suoni. Il basso suonato da lui stesso è perfettamente nitido e udibile in ogni singolo passaggio.

Autore: Darkthrone Titolo Album: The Cult Is Alive
Anno: 2006 Casa Discografica: Peaceville Records
Genere musicale: Black Metal Voto: 7,5
Tipo: CD Sito web: http://www.darkthrone.no
Membri band:

Nocturno Cult – voce, basso, chitarra

Fenriz – batteria, voce

Tracklist:

  1. The Cult of Goliath
  2. Too Old Too Cold
  3. Atomic Coming
  4. Graveyard Slut
  5. Underdogs and Overlords
  6. Whisky Funeral
  7. De Underjordiske (Ælia Capitolina)
  8. Tyster På Gud
  9. Shut Up
  10. Forebyggende Krig
Category : Recensioni
Tags : Black metal, Darkthrone
0 Comm
11th Lug2012

(AllMyFriendzAre)DEAD – Black Blood Boom

by Marcello Zinno

Dopo due anni di intenso lavoro sia live che in studio gli (AllMyFriendzAre)DEAD sono tornati con una nuova fatica. Hellcome aveva caratterizzato il loro 2010 (recensito da noi al seguente link), il primo vero esordio discografico della band se non consideriamo i due precedenti EP; oggi il quintetto affascinato dal rock’n’roll più sudicio dimostra di essere pronto a lanciare una nuova sfida meno unidirezionale. 37 i minuti, contro i 27 minuti del precedente lavoro a parità di numero di tracce, gli (AllMyFriendzAre)DEAD seguono con coerenza i binari del loro passato, puntando sempre sulla ruvidità dei suoni che spesso è insaporita da alcuni inserimenti solisti apprezzabili. Non è solo questione di numeri perchè le differenze sono profonde: il bilanciamento dei contributi ad ogni singola traccia si sviluppa con chitarra e basso profondamente fedeli alla tradizione rock’n’roll e la seconda sei corde cerca l’elemento fuori dal coro, rendendo più originale il sound e prendendo, maggiormente rispetto al passato, le distante con band più intransigenti (dal punto di vista musicale).

C’è qualche passaggio più particolare come Donnie B. Good (da cui è stato estratto anche un videoclip davvero pulp) o The Man Into The Cave che con la sua tastiera/organetto in stile Smash Mouth e i suoi ritmi affievoliti spiazza; non a caso si riconosce in generale un percorso evolutivo in cui il quintetto si è imbarcato, un’evoluzione sonora che punta al rock a tutto tondo e tenta di inserire partiture più sofisticate che conferirebbero sicuramente un piacere maggiore se fossero adeguatamente valorizzate da una più luccicante produzione. Stesso discorso per Goodbye Cleaver con il suo intermezzo quasi swing avvolto in un alone rigorosamente rock’n’roll ad inizio e fine brano, o per Funeral Blowjob che innesca tre minuti strumentali dal sapore ‘suddista’ trasversali in quanto a genere di appartenenza. A noi sicuramente piacciono i passaggi più ritmati come in Vagina Pectors con addirittua un sax che entra in gioco, o il pezzo dal titolo deciso Overfuck che con decisione irrompe in scenari rock. In definitiva l’impressione che riscontriamo dall’ascolto di Black Blood Bloom è che le tracce, progettate per una migliore resa dal vivo, avrebbero necessità di un maggior mordente in sala di registrazione e che le divagazioni sono davvero tante, segno di una maggiore creatività di cui la band è dotata ma anche di una maturazione che arriverà nel prossimo futuro.

Per chi etichetta il rock’n’roll come un approccio musicale tipicamente americano potrebbe ricredersi ascoltando questi cinque infuocati calabresi. Noi aspettiamo di scoprire dove la loro evoluzione musicale li porterà.

Autore: (AllMyFriendzAre)DEAD Titolo Album: Black Blood Boom
Anno: 2012 Casa Discografica: Overdrive Records
Genere musicale: Rock, Rock’n’Roll Voto: 6
Tipo: CD Sito web: http://www.allmyfriendzaredead.com
Membri band:

Frantz – voce

Succo – batteria

Gicass – chitarra

El Pez – chitarra

Meltedman – basso

Tracklist:

  1. We Kill X
  2. Donnie B. Good
  3. Overfuck
  4. The Man Into The Cave
  5. Vagina Pectors
  6. Goodbye Cleaver
  7. Funeral Blowjob
  8. Arramo Lincoln
  9. The Witch
  10. My Dog Is A Kamikaze
  11. Piggy Popper
Category : Recensioni
Tags : Rock'N'Roll
0 Comm
11th Lug2012

Van Halen – Women And Children First

by Giancarlo Amitrano

Dopo i primi due album (seminale il primo, d’impatto il secondo), la band decide di prendersi una pausa, esplorando nuove sonorità nell’elaborazione di questo terzo disco. Se l’esordio aveva visto la sei corde di Eddie ergersi a protagonista assoluta, ridisegnando il concetto di “guitar-hero”, il lavoro successivo si caratterizzava più per lo sforzo d’insieme del quartetto, che contribuì alla pari alla stesura dei testi. Questa terza realizzazione, sotto la supervisione del fidato Ted Templemann, vede la luce nei primi mesi del 1980, anno della ormai nota esplosione della NWOBHM. Purtuttavia, il gruppo pare non darsene per inteso, preferendo anzi distaccarsi temporaneamente dalle sonorità allora imperanti, per percorrere metodologie, anche compositive, quasi alternative. L’impatto di And The Cradle Will Rock è in puro stile vanhaleniano: chitarra magistrale, voce roca come non mai e sezione ritmica da sballo, di modo che il riff centrale sia graffiante al massimo e la voce di Roth si posi su di esso come un rassicurante mantello sonoro di copertura. Everybody Wants Some! è un brano quasi easy-listening: il refrain viene condotto in puro rilassamento, il cantato si snoda molto semplicemente , a far da contraltare alla chitarre comunque “hard”, senza che il brano risenta di questo strano dualismo.

La sequenza che vede sfilare Fools, Romeo Delight e Tora,Tora! è probabilmente l’anello debole del disco: se singolarmente il quartetto sfodera comunque prestazioni all’altezza, ciò che viene meno è la debolezza dei testi, che nemmeno la pulizia degli arrangiamenti riesce a far decollare. Sta di fatto che le parentesi strumentali che si alternano lungo i suddetti brani catturano certamente l’ascolto, ma non incidono appieno nell’economia degli stessi. Come se, volendo interpretare tutto il disco in modo quasi distaccato, il gruppo non si preoccupasse delle prevedibili critiche negative al lavoro: cosa che puntualmente ebbe a verificarsi,  in termini di gradimento e soprattutto di vendite. Loss Of Control riporta la qualità del disco a livelli più che accettabili, un brano sicuramente d’impatto, dove il quartetto riesce a riprendersi dal precedente torpore. Le linee di basso risultano piacevolmente marcate, per innestarsi appieno nell’economia del pezzo: brano importante, anche perché funge da apripista alla finalmente degna conclusione del disco, rappresentata dal trittico finale che segue.

Take Your Whiskey Home è la top-hit del disco: l’inizio sapientemente rallentato pare ricalcare la “sciatteria” dei brani precedenti: ebbene, non è così. La sei corde di Eddie è a dir poco mortifera, la sezione ritmica lascia basiti per la precisione e la nettezza del suono, su cui si staglia, ancora, l’istrionica voce di Roth, qui davvero particolarmente ispirato. Ascoltando Could This Be Magic ci riassale il dubbio: ma quale miscuglio di sonorità il gruppo ha inteso proporre in questo lavoro? Quesito in sé plausibile, stante l’indecisione in cui pare ancora dibattersi il quartetto nell’esecuzione di questo particolare brano. Dominato dall’acustica, esso si snoda con una melodia quasi ripetitiva che, se pur inficiasse la sua totalità, riesce tuttavia a graffiare egualmente proprio a causa della linea melodica davvero simpatica che cattura e diverte: cosa che probabilmente il gruppo si è riproposto nello svolgersi di tutto il disco. Un disco appunto che si conclude davvero bene, in verità In A Simple Rhyme, secondo chi scrive, potrebbe contendere a Take Your Whiskey Home la palma di miglior brano del disco. Atmosfere quasi sognanti, in cui un accenno tastieristico appena sfumato contribuiscono a valorizzare appieno la voce estatica di Roth che da par suo conduce il gruppo verso la conclusione del pezzo attraverso un refrain centrale quasi mid-tempistico.

In definitiva, definiamo il disco “bello senz’anima”: magari, con l’anima solo in alcuni brani. Difatti, pur se singolarmente il quartetto è impeccabile, come già segnalato, quel che alla fine manca è il lavoro di gruppo, che appare a tratti svogliato e senza trasporto. Probabilmente, il quartetto ha ritenuto tenere in serbo le prossime cartucce da sparare per il futuro discografico…cosa che di certo si è avverata.

Autore: Van Halen Titolo Album: Women And Children First
Anno: 1980 Casa Discografica: Warner Bros
Genere musicale: Hard Rock Voto: 7
Tipo: CD Sito web: http://www.van-halen.com
Membri band:

David Lee Roth – voce

Edward Van Halen – chitarra

Michael Anthony – basso

Alex Van Halen – batteria

Tracklist:

  1. And The Cradle Will Rock
  2. Everybody Wants Some!
  3. Fools
  4. Romeo Delight
  5. Tora Tora!
  6. Loss Of Control
  7. Take Your Whiskey Home
  8. Could This Be Magic?
  9. In A Simple Rhyme
Category : Recensioni
Tags : Album del passato, Hard Rock
0 Comm
10th Lug2012

AC/DC – Live

by Gianluca Scala

Per gli AC/DC il ritorno al grande successo planetario era diventato oramai un obiettivo di vitale importanza, per molti addetti ai lavori l’ultimo The Razors Edge fece definitivamente entrare la band fra le più importanti icone del rock. Durante la tournée dell’ultimo studio album la band registrò dei brani da includere in una nuova pubblicazione dal vivo, la prima dopo ben 14 anni di distanza dal primo live album ufficiale del gruppo, ossia If You Want Blood, You Got It Live. Le registrazioni provengono dalla data che la band tenne a Donington Park in Gran Bretagna durante quel grandioso tour che andò a toccare ben 121 paesi con un totale di 153 date, facendo loro guadagnare una nuova presenza come band principale al colossale Monsters Of Rock Festival nel quale i Nostri suonarono insieme a band come Metallica, Motley Crue, Queensryche e The Black Crowes (in Italia la prima band ad esibirsi furono i nostrani Negazione quando il festival giunse a Modena). Per celebrare l’evento il concerto di Donington fu filmato tramite un enorme dispiego di mezzi, con 26 telecamere di cui una montata su un elicottero per le riprese aeree, immagini video che andranno a fare parte della versione DVD di questo grande evento che per chi non lo sapesse, riuscì a vendere 5.000.000 di copie in tutto il mondo. Il disco venne dato alle stampe in due versioni, una singola ed una doppia più completa contenente 23 brani, con tanti estratti dall’ultima release discografica.

Il lato A infatti si apre con il nuovo inno Thunderstruck che oramai era diventato uno status symbol della band, insieme a Fire Your Guns, The Razors Edge, la spassosissima Moneytalks e Are You Ready. Il resto della scaletta del concerto era un alto concentrato di classici che non si può non amare ad ogni ascolto, brani come Shoot To Thrill, Back In Black, The Jack, Hell’s Bell’s, uno dietro l’altro passano in rasegna buona parte della storia della musica che noi tutti amiamo. Lo stesso si può dire del lato B del disco, dove tra una bambolona gonfiabile che appare sulle note di Whole Lotta Rosie e di fan che indossano delle corna fuorescenti ascoltando la mitica Highway To Hell, nonché le note che formano “il riff” per antonomasia del rock di You Shook Me All Night Long ci si avvicinava verso la fine dello show lasciando il posto al colpo d’occhio finale, dove alle spalle della band appaiono uno stuolo di cannoni pronti a sparare durante l’immensa For Those About To Rock (We Salute You) brano che servirà a salutare l’ondata di fan accorsa e che ancora accorre ad ogni loro concerto ovunque egli suonino, Luna compresa. Live è un disco che racchiude perfettamente il concetto che serve per spiegare ai profani che ci circondano che cosa sia un concerto di una rock’n’roll band e sopratutto ben rappresenta una fede che raggruppa proseliti in tutto il mondo.

Autore: AC/DC Titolo Album: Live
Anno: 1992 Casa Discografica: Atlantic Records
Genere musicale: Hard Rock Voto: 8
Tipo: CD Sito web: http://www.acdc.com
Membri band:

Brian Johnson – voce

Malcolm Young – chitarra, voce

Angus Young – chitarra

Cliff Williams – basso, voce

Chris Slade – batteria

Tracklist:

Disc 1

  1. Thunderstruck
  2. Shoot To Thrill
  3. Back In Black
  4. Sin City
  5. Who Made Who
  6. Heatseeker
  7. Fire Your Guns
  8. Jailbreak
  9. The Jack
  10. The Razors Edge
  11. Dirty Deeds Don’t Dirt Cheap
  12. Moneytalks

Disc 2

  1. Hell’s Bell’s
  2. Are You Ready
  3. That’s The Way I Wanna Rock’n’Roll
  4. High Voltage
  5. You Shook Me All Night Long
  6. Whole Lotta Rosie
  7. Let There Be Rock
  8. Bonny
  9. Highway To Hell
  10. T.N.T.
  11. For Those About To Rock (We Salute You)
Category : Recensioni
Tags : AC/DC
0 Comm
Pagine:«1...722723724725726727728...780»
« Pagina precedente — Pagina successiva »
  • Cerca in RockGarage

  • Rockgarage Card

  • Calendario Eventi
  • Le novità

    • Novaffair – Aut Aut
    • Depulsor – Walking Amongst The Undead
    • Giuseppe Calini – Polvere, Strada E Rock’n’roll
    • Bull Brigade – Il Fuoco Non Si È Spento
    • Mandragora Scream – Nothing But The Best
  • I Classici

    • Royal Hunt – Moving Target
    • Angra – Omni
    • Black Sabbath – 13
    • Saxon – Inspirations
    • Whitesnake – Forevermore
  • Login

    • Accedi
  • Argomenti

    Album del passato Alternative Metal Alternative Rock Avant-garde Black metal Cantautorale Crossover Death metal Doom Electro Rock Folk Garage Glam Gothic Grunge Hardcore Hard N' Heavy Hard Rock Heavy Metal Indie Rock Industrial KISS Libri Metalcore Motorpsycho Motörhead New Wave Nu metal Nuove uscite Podcast Post-metal Post-punk Post-rock Power metal Progressive Psichedelia Punk Punk Rock Radio Rock Rock'N'Roll Rock Blues Stoner Thrash metal Uriah Heep
Theme by Towfiq I.
Login

Lost your password?

Reset Password

Log in