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10th Lug2012

Manta Rays – Manta Rays

by Gianluca Scala

I Manta Rays mettono a segno un bel colpo con questo album di debutto. Il trio veneto ha avuto la forza e la volontà giuste per pubblicare e trasformare in musica tutto il loro amore per il vecchio rock’n’roll, quello primordiale, cioè influenzato sia dal suond sporco tipico di certe band angloamericane, piuttosto che dal buon garage/punk rock tutto europeo. I Manta Rays sono nati nel 2010 grazie all’incontro ed allo scambio di cultura ed esperienze del leader Stephen Trollip, sudafricano di nascita, con due musicisti italiani conosciuti in Italia, dove risiede tuttora dopo aver passato molti anni della sua infanzia a Londra. Il trio ha velocemente composto e messo giù le canzoni che vanno a comporre questo loro pregevole debut album, un lavoro ricco di stile in grado di sprizzare energia in tutte le maniere che il rock conosce. Passione, sincerità e tanto mestiere nel proporre questi brani pieni di echi stile anni ’60 mischiati alla grande con venature di musica soul, con l’unica pecca di non avere a disposizione il brano che ti faccia sobbalzare dalla sedia. Non stiamo parlando di monotonia, ma proprio dell’assenza di una o più canzoni che ti entrino davvero in testa.

Dodici canzoni ben suonate e che ti trasportano indietro nel tempo, tanto che sembra di essere in un fumoso club nei sobborghi della swimming London. Dodici tracce alquanto atipiche anche per chi scrive: potremmo citare per la loro particolarità diverse canzoni come l’opener It Makes Me Sick che parte con quel basso martellante e suonato alla vecchia maniera, in modo grezzo ma lineare, ben seguito ed accompagnato dalle rullate precise e ben piazzate del batterista Sebastiano Ziroldo. Oppure le superbe The Sad Surfer e Easy Action: brani energici e dove la vasta gamma di influenze di questo trio si mescolano a scintille di originalità. Questo disco promette di rivelare un gruppo da seguire solo se si è prettamente appassionati di musica indie e se si ama davvero il vecchio garage rock che a quanto pare non ha mai smesso di seguire il suo cammino sino ai giorni nostri.

Autore: Manta Rays Titolo Album: Manta Rays
Anno: 2012 Casa Discografica: Garage Records
Genere musicale: Garage, Indie Rock Voto: 6,5
Tipo: CD Sito web: http://www.garagerecords.it/artisti/manta-rays
Membri band:Stephen G. Trollip – chitarra, voce

Elio De Limone – basso, voce

Sebastiano Ziroldo – batteria, voce

 

Tracklist:

  1. It Make Me Sick
  2. You Put A Spell On Me
  3. The Sad Surfer
  4. Easy Action
  5. A Long Deep Breath
  6. The River Song
  7. It Ain’t Me
  8. (Was It Worth) All The Tears I Cried
  9. Don’t Call Me Up
  10. What You Said
  11. Nothing To Hide
  12. A Little Time
Category : Recensioni
Tags : Indie Rock
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09th Lug2012

Draugr – De Ferro Italico

by Marcello Zinno

Tralasciamo l’origine geografica dei singoli sottogeneri dell’heavy metal, per un attimo consideriamo la Terra come un fondersi unico di popolazioni ed imbattiamoci in questo disarmante lavoro dei Draugr. Sì, è innegabile riconoscere nel thrash un’origine americana, nella NWOBHM una radice inglese e nel black metal la grande scuola scandinava, ma non è detto che dalla nascita alla maturazione di un genere non vadano considerate le evoluzioni che esso subisce grazie ai contributi dei diversi paesi. Non a caso a volte le reinterpretazioni di un genere risultano originali quanto i primi lavori e accendono i fari su punti di vista diversi, non ancora inquadrati negli acerbi primi anni di nascita di un filone musicale. Noi siamo orgogliosi di dire che gli italianissimi Draugr (abruzzesi per la precisione) suonano al pari di varie band europee, sia per idee, che per tecnica; migliorabile la produzione che innalzerebbe il valore di questo De Ferro Italico, ma conunque un’ora di ottimo black metal pieno di richiami per nulla banali.

Già da The Virtulean Empire i giochi sembrano fatti e ben presentati: la batteria segue gli stilemi del black metal moderno, alla Dimmu Borgir degli ultimi lavori per intenderci (con anche quel pò di tastiere che rendono più cupo lo scenario), mentre il grosso è mosso dalle chitarre che si rifanno alla tradizione black metal senza però risultare sporche come la scena “true” ci aveva insegnato ad apprezzare. In realtà, e tanto più continua l’ascolto, la parte melodica dei Draugr emerge sempre più, non solo in una componente sinfonica che ogni tanto si crea il proprio spazio ma anche tramite una coppia di sei corde davvero ben equilibrata e dalla forte personalità che spesso forgia un riffing di alto livello e su cui si erge il tutto. Suovetaurilia rappresenta il primo passo in avanti della proposta della band: il black metal si affievolisce mescolando alcuni ingredienti folk metal, alla Die Apokalyptischen Reiter giusto per intenderci (anche se confezionati in maniera differente), e questo sicuramente rende più preziosa la proposta del combo nonostante arrivi in questo brano ad oltrepassare i nove minuti di durata. È da qui che il film dal titolo De Ferro Italico assume registri diversi e la cupidigia del black storico lascia spazio a scenari folk, dove i ritmi spesso si concedono a balli da festa e le sfuriate durante alcuni frangenti si alternatno per poi lasciare spazio a varie divagazioni sul tema centrale (anche grazie a ciò i brani si dipanano per diversi minuti).

Eccezione sono L’Augure E Il Lupo dal cantato in italiano e dalle influenze pagan metal e Ballata D’Autunno, un intermezzo che spezza il fiato al centro di tanta violenza. Molto particolari sono Legio Linteata che si attiene a dei ritmi veloci lungo tutta la sua durata con un blast beat irriverente che accontenta sicuramente i fan non amanti dei compromessi dimostrando che i Nostri riescono a gestire anche una certa tecnica, e Inverno, uno dei punti più alti del lavoro. Si tratta di una true black metal song che abbraccia i Darkthrone nella parte iniziale per poi cambiare rotta e puntare ad un riffing gelido alla Immortal, il tutto condito da testi in screaming rigorosamente in italiano. Il giusto mix di tutto questo lavoro è dato dalla title track che chiude l’album, brano che come un collettore raccoglie tutte le varie idee dei Draugr e le pone a comun denominatore dell’attacco bellico.

Un lavoro che aggiunge un tassello alla musica estrema della nostra penisola, da parte di una delle band black nostrane più interessanti del momento.

Autore: Draugr Titolo Album: De Ferro Italico
Anno: 2012 Casa Discografica: To React Records
Genere musicale: Black Metal Voto: 8
Tipo: CD Sito web: http://www.draugr.it
Membri band:

Augur Svafnir – voce

Nemesis – voce

Triumphator – chitarra

Mors – chitarra

Ursus Arctos – tastiere

Stolas – basso

Jonny – batteria

Tracklist:

  1. Dove L’Italia Nacque
  2. The Vitulean Empire
  3. L’augure E Il Lupo
  4. Suovetaurilia
  5. Ver Sacrum
  6. Legio Linteata
  7. Ballata D’Autunno
  8. Inverno
  9. Roma Ferro Ignique
  10. De Ferro Italico
Category : Recensioni
Tags : Black metal
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09th Lug2012

Pearl Jam – Vs.

by Giuseppe Celano

Con un tiro micidiale e nettamente superiore a Ten, nel 1993 esce Vs. secondo disco dei Pearl Jam. Proprio mentre il tempo, e la tossicodipendenza di Cobain, decretano l’ormai inarrestabile declino dei Nirvana, i Pearl Jam diventano il fulcro della scena grunge. Totalmente adorati dal pubblico e rispettati dalla critica, i Nostri portano avanti un discorso iniziato due anni prima. Per quanto riguarda il packaging la pecora in copertina è un riferimento alla schiavitù in generale e in particolar modo al mood della band che si sentiva incatenata e senza possibilità di fuga. Da questa insofferenza nasce un album complesso, ricco d’idee contrastanti, che vive una dicotomia stilistica testimoniata dal lato più prettamente hard-rock/punk (Go e Animal) e altri introspettivi come la stupenda Indifference. Nel mezzo troviamo stranezze, contro il razzismo violento della polizia, nella straordinaria e imprevedibile W.M.A.. Nato durante il tour a supporto di Ten, in cui Vedder buttò giù i testi, l’album è aggressivo e violento. Le liriche diventano più complesse, il sound è irrobustito dal lavoro di Brendan O’Brien, produttore esperto nell’arte di affilare armi già vincenti. A differenza del lavoro precedente però la band decide di non sfruttare la potente spinta propulsiva delle immagini di MTV, evitando di rilasciare singoli per la tv.

Registrato traccia per traccia in modo da ottenere un sound più vicino al live, come se le tracce fossero prese direttamente dalle jam in studio, il nuovo lavoro mostra contaminazioni con il funk ma mantiene una potente anima hard-rock. Vedder appare in splendida forma, mentre la sezione ritmica sostiene il tempo lasciando le due asce libere di sbizzarrirsi in quel sound seventies che tanto affascina il combo. L’ottimo equilibrio fra le parti emerge deciso in Dissident, mentre la successiva Blood (dedicata ai media) riparte nervosa e senza rifiatare, una prova di forza assoluta tutta giocata su ritmiche funk, guidate dall’uso esasperato del wah-wah e dalla batteria secca e precisa. Ma è nella successiva Rearviewmirror che la band alza il tiro toccando uno degli apici del lavoro e dell’intera loro carriera. Il suo attacco dritto, il crescendo micidiale e la voce carica di pathos non temono confronti né critiche. Sempre attenti ai temi politici e sociali e soprattutto ai loro fan, i Pearl Jam salgono in cattedra in quel decennio durante il quale la musica torna a fermentare come del buon vino, le idee esplodono in proiezioni pirotecniche che rinnovano la pelle del rock.

Questa è solo una parte della loro storia, il resto ve lo racconteremo come sempre di lunedì se avrete la voglia e la pazienza di leggerci.

Autore: Pearl Jam Titolo Album: Vs.
Anno: 1993 Casa Discografica: Epic Records
Genere musicale: Rock Voto: 9
Tipo: CD Sito web: http://www.pearljam.com
Membri band:

Eddie Vedder – voce

Stone Gossard – chitarra

Mick McCready – chitarra

Jeff Ament – basso

Dave Abbruzzese – batteria, percussioni

Tracklist:

  1. Go
  2. Animal
  3. Daughter
  4. Glorified G
  5. Dissident
  6. W.M.A.
  7. Blood
  8. Rearviewmirror
  9. Rats
  10. Elderly Woman Behind The Counter In A Small Town
  11. Leash
  12. Indifference
Category : Recensioni
Tags : Grunge, Pearl Jam
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09th Lug2012

Signs Preyer – Signs Preyer

by Martino Pederzolli

Un volto che urla è l’artwork di Signs Preyer, album degli omonimi orvietani, e richiama un po’ la copertina di In The Court Of The Crimson King dei King Crimson non fosse per la maggiore rabbia che esprime rispetto all’angoscia persistente che evoca il dipinto di Barry Godber. Ed è proprio con Anger che il disco ha inizio; una breve intro stile That Was Just Your Life dei Metallica ci trascina in un pesante riff (pregevole l’entrata della grancassa, una finezza del batterista James Mapo) che viene presto preso per mano dalla voce calda e strisciante di Ghode Wielandt e portato verso una struttura più articolata, più aperta ma non meno efficace. Il primo brano si spegne rapidamente infilandosi nella più classica Bitch Witch che riporta l’ascolto verso il thrash pur non rinunciando ad inserimenti più moderni e rapidamente, troppo rapidamente forse, si arriva alla track centrale Killer Instinct. Brano di qualità, porta in sé tutte le caratteristiche del gruppo che in questa canzone ha molto da dire (e ciò si riflette anche sulla durata del pezzo) a partire dal cantante che sembra voler strizzare l’occhio ai Candlemass…ascoltare per credere. Il lavoro procede spedito e compatto, debitore di gruppi come Black Label Society ma anche Audioslave e Mudvayne e di certo non poteva mancare la ballata: è la particolare Dark Soul, dove il quartetto osa un po’ di più e si addentra in atmosfere diverse da tutto il resto del disco riuscendo particolarmente bene a creare il mood adatto al titolo.

Si chiude con la title track che non si discosta dal resto dell’album, tranne per una ghost track che si rivela essere una alternative version della traccia appena conclusa. Il lavoro è indiscutibilmente buono, il recording è ottimo ed i Signs Preyer hanno una gran carriera live alle spalle (due volte con Pino Scotto, Paul Di Anno, Corrosion Of Conformity e tanti altri) ma nonostante tutto queste nove tracce non riescono a decollare; forse è venuto il momento di lasciare a terra il pesante bagaglio del passato ed alzarsi verso nuovi orizzonti sonori. Ad ogni modo complimenti ragazzi, Signs Preyer si fa ascoltare bene e merita sicuramente tutto il nostro sostegno.

Autore: Signs Preyer Titolo Album: Signs Preyer
Anno: 2012 Casa Discografica: Red Cat Promotion
Genere musicale: Nu Metal Voto: 7
Tipo: CD Sito web: http://www.myspace.com/signspreyer
Membri band:

Ghode Wielandt (Corrado Giuliano) – chitarra, voce

Eric Dust (Enrico Pietrantozzi) – chitarra

Viktor Kaj (Andrea Vecchione Cardini) – basso

James Mapo (Giacomo Alessandro) – batteria

Tracklist:

  1. Anger
  2. Bitch Witch
  3. It Comes Back Real
  4. Just To Kill You
  5. Killer Instinct
  6. Painless Pain
  7. Dark Soul
  8. Hell
  9. Signs Preyer
Category : Recensioni
Tags : Nu metal
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08th Lug2012

Fuel From Hell – Easier Said Than Done

by Francesco Damiano

In questi giorni nelle sale cinematografiche italiane c’è un bel film in programmazione per gli amanti del buon rock d’annata: Rock Of Ages, una sorta di atto d’amore per i bei tempi del glam rock degli anni ’80, tutto eccessi e sfarzo, tempi ormai andati…Oddio, andati poi mica tanto!!! Provate, infatti, ad ascoltare il secondo album dei nostrani Fuel From Hell, Easier Said Than Done: un disco che sembra essere stato catapultato nei giorni nostri dalla macchina del tempo, da un passato ormai remoto. Easier Said Than Done è in tutto e per tutto un disco che sarebbe dovuto uscire al massimo nel 1989. Immagine, suono, voce, arrangiamento, persino registrazione: ogni singolo dettaglio è smaccatamente glam rock anni ’80. Ora, per chiarire un concetto preliminare, tra gli album “ di genere” esistono due categorie: quelli che sono chiaramente ispirati ai classici di un determinato filone musicale, ma che contengono una rilettura aggiornata secondo canoni moderni, e poi ci sono album come questo in cui praticamente ogni singola nota, ogni singolo passaggio è suonato proprio come in un disco hard rock degli anni ’80. In particolare, i nostri si cimentano in un glam rock non particolarmente aggressivo, più vicino ai Def Leppard o meglio ancora ai Survivor e/o Foreigner che non ai soliti mostri sacri Motley Crue o Guns N’Roses. Che i Fuel From Hell non aspirino a vette di particolare raffinatezza è chiaro sin dall’immagine di copertina: look abbastanza zarro, con i nostri cinque eroi nemmeno tanto coordinati nello stile. Insomma più Spinal Tap che non i curatissimi Poison per intenderci. Ecco, diciamo che a questo punto, dopo tutte queste premesse non proprio lusinghiere le vostre aspettative non saranno altissime…ed invece, a sorpresa, va riconosciuto che il disco si lascia ascoltare volentieri.

I Fuel From Hell sanno sicuramente il fatto loro dal punto di vista musicale, avendo diviso in passato il palco in Italia addirittura con nomi molto altisonanti (leggasi L.A. Guns) e lo dimostrano in particolare nella prima parte del disco. Electrified apre le danze in maniera davvero convincente, potente ed incendiaria, mentre la successiva Poison Whiskey è, già dal titolo, quanto di più banale e scontato possiate aspettarvi da un album glam rock…però, nonostante tutto, decisamente accattivante. Nowhere In The Night è il pezzone dell’album, senza dubbio il migliore del lotto. La canzone più metal del disco, che non esiterei a definire una hit mancata degli anni ’80: ascoltare per credere. Molto interessanti anche le successive Some Girls e soprattutto Send Me Your Love, dove i rimandi a certo rock radiofonico (il classico AOR) di matrice statunitense si fa più forte. Anything Goes invece è il primo singolo dell’album, per il quale i Nostri hanno girato anche un video (tutt’altro che imperdibile a dir la verità). Scelta non proprio azzeccata, posto che il pezzo non è certamente tra i migliori del disco. Il resto dell’album non è all’altezza delle prime canzoni, e si trascina avanti fedele al canovaccio glam, con i cori a caratterizzare la maggior parte delle song.

In definitiva, un disco arrivato evidentemente oltre tempo massimo, a cui dare un volto lascia il tempo che trova. Se dovessimo valutarlo per il “valore artistico” dell’opera, o per l’originalità, infatti, la valutazione non potrebbe essere positiva. Se invece desiderate ascoltare una manciata di buone canzoni rock, incuranti del fatto che lacca e fuseaux non si vendono più nemmeno nei peggiori mercati rionali, beh allora i Fuel From Hell fanno al caso vostro.

Autore: Fuel From Hell Titolo Album: Easier Said Than Done
Anno: 2012 Casa Discografica: Street Symphonies Records
Genere musicale: Glam Rock Voto: 6,5
Tipo: CD Sito web: http://www.fuelfromhell.com
Membri band:

Phil Lasher – voce

Dam Littmanen – chitarra

Steve Eighteen – chitarra

Max Velvet – basso

Alex Count – batteria

Tracklist:

  1. Electrified
  2. Poison Whiskey
  3. Nowhere In The Night
  4. Some Girls
  5. Send Me Your Love
  6. Anything Goes
  7. 17 & Wasted
  8. Midnight
  9. December ’89
  10. Bad Jane
  11. House Of Love
Category : Recensioni
Tags : Glam
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07th Lug2012

Metallica – S&M

by Rod

Reduci da tour mondiali massacranti e da tre uscite discografiche passate alla storia non esattamente come il punto più alto della loro dorata carriera (parliamo di Load, ReLoad e Garage Inc.), i Metallica degli anni ’90 versione 2.0, continuano sul finire del decennio, loro malgrado, ad essere i protagonisti della scena rock‘n’heavy mondiale, spiazzando ancora una volta pubblico e critica per stravaganza ed imprevedibilità. Mentre tutti si aspettavano un rinsavimento artistico del quartetto americano verso suoni ed idee più vicine a quelle che negli anni ’80 facendo tremare i palchi di mezzo mondo, James Hetfield prese per mano la band e decise invece di lavorare su un progetto nuovo ed inaspettato che prevedeva una collaborazione senza dubbio sui generis: un’esibizione live in un teatro al fianco dell’Orchestra Sinfonica di San Francisco diretta dal maestro Michael Kamen, già autore del fantastico arrangiamento che ha reso immortale Nothing Else Matters, prima ballad ufficiale della band inserita nel best seller Black Album. Il titolo dell’opera orchestrale che venne suddivisa su due dischi, fu appunto S&M, acronimo di Symphony and Metallica e riguarda i concerti che si tennero il 21 ed il 22 aprile 1999 nella città americana che lega la band all’orchestra: San Francisco.

L’apertura del primo disco viene consegnata come tradizione ad Ecstasy Of Gold, leggendario tributo ad Ennio Morricone ed allo spaghetti western, overture tradizionale di tutti i live metallici. Gli succede The Call Of Ktulu, brano in cui la band ripercorre a memoria le note di uno dei loro capolavori strumentali, su cui il fantastico assolo di Kirk Hammett fa da spina dorsale ad un’interpretazione che in assoluta scioltezza s’interseca con gli accompagnamenti sinfonici dell’orchestra. L’ottimo inizio prelude alla riproposizione del primo vero grande capolavoro dell’era thrash della serata: Master Of Puppets. Dopo un impatto folgorante, il brano fatica a decollare, denotando un marcato disallineamento tra il combo ed i musicisti diretti da Kamen. In Of Wolf And Man, brano che già in origine non si distingue per particolari peculiarità tecniche ed espressive, le due componenti sembrano rimettersi in carreggiata, offrendo spunti da film horror ed un finale emotivamente più inteso. A seguire troviamo The Thing That Should Not Be, altra perla estratta da Master Of Puppets, il cui andamento prima rallentato e poi man mano accelerato, conferisce al brano, grazie soprattutto al supporto sinfonico, un passo tetro ed inquietante. Arriva il momento di fare un balzo temporale in avanti ed arrivare all’esplosiva Fuel, canzone che grazie al suo dna grezzo e granitico, mal si interfaccia con le pennellate orchestrali troppo spesso fuori dalle righe e poco incisive sulla godibilità del brano. Discorso diverso va fatto per la contemporanea The Memory Remains, la cui interpretazione non si fa di certo segnalare come la migliore del concept, ma che perlomeno grazie al suo quattro quarti regala al pubblico ed ai musicisti l’opportunità di interagire positivamente con tutta la band.

Alla traccia n. 8, troviamo l’entusiasmante No Leaf Clover, il primo dei due inediti inserito in S&M, da molti considerato non solo il punto più alto dell’album, ma probabilmente dell’intera produzione targata Metallica di quel periodo. Trattandosi non di un brano già conosciuto e riarrangiato per l’occasione, ma di una nuova composizione nata e cresciuta in simbiosi con l’interazione sinfonica, No Leaf Clover si regge sulla perfetta sintonia tra la band e l’orchestra e vede nel cuore del testo una illuminante riflessione da vecchia scuola hetfildiana che ammonisce: “…Then it comes to be that the soothing light at the end of your tunnel…was just a freight train coming your way…” (letteralmente “…E poi ti accorgi che la luce rasserenante alla fine del tunnel… era solo un treno merci che ti veniva addosso…”). Le rimanenti tracce Hero Of The Day, Devil’s Dance e Bleeding Me, canzoni anch’esse figlie del periodo Load/ReLoad, probabilmente inserite per dare l’ennesima possibilità di lustro alla bontà del progetto Metallica di inizio decennio 90’s, rispecchiano invece la poco consistente produzione della band di quegli anni, chiudendo il primo disco del concept nell’indifferenza più totale.

La seconda parte del live, non poteva non aprirsi che con Nothing Else Matters, senza dubbio l’inconsapevole progenitrice del progetto orchestrale. La versione live qui proposta, pur non perdendo la sua caratteristica andatura malinconica ed emotiva, viene interpretata da James in maniera meno intensa della proposta originale, una performance quasi al limite della sufficienza: un’interpretazione talmente blanda e sotto le righe da trasformare quello che doveva essere il brano di punta della collaborazione, in un remake azzardato e malriuscito dell’unico brano naturalmente alla portata del progetto. La scaletta prosegue con Until It Sleeps, ottima recente composizione della band, che restituisce energia alla serata, recuperando fervore e coinvolgimento del pubblico grazie alla sua potente carica hard rock ed al piglio mainstream. Su For Whom The Bells Tolls si rivede il delirio della platea per un brano che sin dall’origine racchiude in sé qualcosa di cinematografico e che grazie al suo nuovo arrangiamento dall’andatura maestosa, potrebbe tranquillamente fare da preludio ad uno di quei colossal movie sull’impero romano o sulla guerra d’indipendenza. Human è il secondo inedito della raccolta, sicuramente non al livello di No Leaf CLover, nonostante i musicisti del maestro Kamen siano riusciti a salvaguardarne l’attitudine hard rock. Null’altro da segnalare. L’esibizione relativa a Wherever I May Roam, uno dei migliori singoli del Black Album, ricalca un po’ quanto detto per Nothing Else Matters: un Hetfield che nonostante qualche sprazzo di vitalità qua e là, appare stanco ed affaticato, non riuscendo ad imprimere la giusta energia al pezzo eseguito come un compitino alle elementari e che scivola via senza lasciare alcun segno sulla pelle.

A seguire, la noiosissima Outlaw Torn, una nenia poco sopportabile già nella versione originale e resa ancor più pesante dal “trattamento” sinfonico. Bisogna riconoscere ai Metallica la gran capacità di saper costruire intelligentemente le scalette, inserendo là dove si è osato spostarsi un po’ di più in là dal gradimento del pubblico, brani capaci di risollevare le sorti di un intero concerto. Ed è per questo che arriva finalmente il primo brano degno di nota della seconda parte di S&M: Sad But True. Finalmente la band da segni di vitalità significativi: pur rallentando l’esecuzione del pezzo in modo da potersi collimare alla perfezione con l’orchestra (che per l’occasione sfoggia uno degli arrangiamenti più semplici ed efficaci del live), i quattro riescono ad infondore ogni energia possibile nell’esecuzione di un brano vincente per sua intrinseca natura. Andando avanti, arriva finalmente il momento dell’epica One. L’Orchestra Sinfonica di San Francisco riserva al brano una intro speciale ad alto tasso emotivo per l’asse portante di …And Justice For All, che ammorbidisce le linee crude del brano, regalando alla prima parte un abito più onirico e meno disincantato. Meno bene la seconda parte del pezzo, in cui le sfuriate in doppio pedale di Ulrich e l’assolo prepotente di Hammett in occasione dell’apocalittico finale, non vengono adeguatamente supportati dai maestri dell’orchestra che si limitano a porre degli accenti sulle quote strumentali dei Nostri. Enter Sandman senza dubbio risulta ancora una volta essere per sua natura intrinseca, una composizione vincente, un pezzo sicuramente unico nel suo genere. Anche in questa versione infatti, il pezzo fa muovere la testa e battere il piede, e, grazie al suo classico incedere di tempo, concede a Kamen e ai suoi maestri la possibilità di realizzare delle efficaci soluzioni strumentali funzionali al brano. Battery è l’ultima traccia che chiude questo doppio album. Il pezzo si apre con una stupenda overture dell’orchestra che per alcuni secondi si impossessa della scena rubando i riflettori agli dei del metal. Il resto della canzone è pura adrenalina, è energia, è emozione thrash raffinata al 100%. Pubblico in visibilio, inchino reverenziale e giù il sipario.

È con questo rischioso ma godibile accoppiamento tra musica metal e orchestra sinfonica che i Metallica hanno voluto regalare al proprio pubblico un prodotto che fosse a metà tra un “best of” ed una prova d’ardimento atta a dimostrare quanto siano poco importanti per il combo californiano quei limiti artistici che solitamente altre band si pongono al fine di evitare ricadute sull’impatto commerciale e d’immagine. Probabilmente per aumentare la sua credibilità agli occhi dei fan, S&M doveva contenere molti più pezzi scritti nell’era thrash rispetto a quelli di ultima generazione, visto che quelli portati in scena a San Francisco, si sono rivelati senza dubbio inadeguati, non convincenti e poco inclini al progetto sinfonico. Ai Metallica va comunque riconosciuto il grande merito di aver fatto del rischio, il marchio indelebile della loro sfrontata concezione di libertà artistica.

Autore: Metallica Titolo Album: S&M
Anno: 1999 Casa Discografica: Elektra, Vertigo
Genere musicale: Heavy Metal, Thrash Metal, Symphonic Metal Voto: 7
Tipo: CD Sito web: http://www.metallica.com
Membri band:

James Hetfield – voce, chitarra

Kirk Hammett – chitarra, cori

Jason Newsted – basso, cori

Lars Ulrich – batteria, percussioni

Orchestra Sinfonica di San Francisco

Tracklist:

Disc 1

  1. Ecstacy Of Gold
  2. The Call Of Ktulu
  3. Master Of Puppets
  4. Of Wolf And Man
  5. The Thing That Should Not Be
  6. Fuel
  7. The Memory Remains
  8. No Leaf Clover
  9. Hero Of The Day
  10. Devil’s Dance
  11. Bleeding Me

 Disc 2

  1. Nothing Else Matters
  2. Until It Sleeps
  3. For Whom The Bell Tolls
  4. Human
  5. Wherever I May Roam
  6. The Outlaw Torn
  7. Sad But True
  8. One
  9. Enter Sandman
  10. Battery
Category : Recensioni
Tags : Metallica
2 Comm
07th Lug2012

Nuur – Paradisi Artificiali

by Marcello Zinno

Uno dei grossi dilemmi che il rock ci sta ponendo negli ultimi anni è fin quanto esso si possa spingere in termini di elettronica e di sperimentazione per non sforare in altri panorami musicali. La tendenza a mescolare dei riff elettrici a degli effetti elettronici e sempre più insistente, soprattutto nello scenario underground italiano, tanto da farci rivivere spesso alcune soluzioni degli indimenticabili anni ’80 (se non ’70). I Nuur ci ripropongono questo dilemma e lo fanno con delle soluzioni complesse che difficilmente riescono ad assumere delle sembianze certe, sposando un genere in pieno; piuttosto preferiscono amoreggiare con sound diversi e puntare più sulle atmosfere che sulla forma canzone così come noi la conosciamo. Le musiche quasi medio-orientali di Nemesi che ben presto introducono dei riff ditorti, i testi quasi recitati di Maschere che regala anche in intermezzo solista davvero interessante, fanno presagire subito ad un’opera non facile.

Ma ciò non basta a descriverli: il rock quasi alternative di Ego che intende essere prorompente solo nel primo minuto trasformandosi poi in versione acustica e altalenandosi tra le due anime, oppure il basso profondo che compare quasi in tutti i brani rendendoli più particolari e ammorbidendo i vari suoni proposti a volte spigolosi. A Sangue Freddo comprime la parte testuale e si concede ad un pezzo quasi interamente strumentale che risulta un viaggio onirico tra culture e terre diverse, pescando dallo psycho-prog dei primi Rush o di un nostro giovane Battiato; e solo dopo i cinque minuti puramente sperimentali che si apre la strada della title track con un refrain costante ma che fa da cornice a dei testi forti, contro le convenzione della nostra società. E mentre sfumano dei minuti di floidiana memoria con Sinapsi (o come la conclusiva Spleen), i testi introspettivi continuano a far riflettere anche in un pezzo come Bianco E Nero che sembra un brano dalle musicalità leggiadre. Un’attenzione, lungo questa ora di ascolto, molto alta verso i dettagli compositivi e impreziositi da una produzione di alto livello che risulta fondamentale considerando il genere proposto.

Un lavoro nel complesso non facile da creare ma nemmeno da ascoltare, un lavoro che mette in mostra tutto il coraggio di questi tre ragazzi, un coraggio che noi apprezziamo così come la loro musica.

Autore: Nuur Titolo Album: Paradisi Artificiali
Anno: 2011 Casa Discografica: Autoproduzione
Genere musicale: Rock, Elettronica, Alternative Voto: 7
Tipo: CD Sito web: http://www.myspace.com/nuurband
Membri band:

Edwin Lucchesi – chitarra, effetti

Simone Ducci – batteria, synth

Matteo Bellesi – voce, basso, effetti

Tracklist:

  1. Eremo
  2. Nemesi
  3. Ego
  4. Maschere
  5. Nemesi (Parte II)
  6. A Sangue Freddo
  7. Paradisi Artificiali
  8. Climax
  9. Sinapsi
  10. Bianco E Nero
  11. Riflesso
  12. Spleen
Category : Recensioni
Tags : Alternative Rock
0 Comm
06th Lug2012

Black Sabbath (featuring Tony Iommi) – Seventh Star

by Giancarlo Amitrano

Sembra passato un secolo dalla realizzazione di capolavori quali Heaven And Hell e Mob Rules. È passata tanta acqua sotto i ponti del Sabba Nero, e non tutt’acqua pulita. Dopo l’abbandono di Dio dovuto a contrasti con Iommi circa il missaggio di Live Evil, e la successiva parentesi con Gillan per la realizzazione del controverso Born Again, il gruppo è definitivamente allo sbando. Abbandonano Ward, Butler e il misconosciuto Dave Donato, che aveva sostituito Gillan dopo la conclusione del tour del 1984: resta solo il capostipite, che tuttavia non si perde d’animo ed in breve tempo riassembla una nuova line-up, sia pure di turnisti d.o.c. . Con la clamorosa partecipazione di “The Voice” Glenn Hughes, Eric Singer alle pelli, Dave Spitz al basso ed il fedele Nicholls alle tastiere, viene rilasciato Seventh Star agli inizi del 1986. Per motivi contrattuali, il gruppo è denominato Black Sabbath Featurnig Tony Iommi. E, tuttavia, annotiamo ancora una pagina memorabile del gruppo: risorto dalle proprie ceneri come la Sfinge, il quintetto sfodera una prestazione da brividi lungo tutto lo snodarsi del disco. Le sonorità sono in pieno stile anni ’80, la produzione impeccabile e corposa rende giustizia alla fatica dei cinque, che danno davvero il meglio di sé. L’intro di In For The Kill squassa i timpani: il drummer pesta a più non posso per preparare l’ingresso di Hughes, con un urlato degno di Burn di una decade precedente. Iommi sembra non risentire di essere restato unico membro originale e per non dispiacerci ci dona un riff micidiale, mozzafiato di rara intensità che scandisce il superbo tempo della sezione ritmica:  un inizio già su livelli di eccellenza.

No Stranger To Love: il menestrello in persona, rappresentato da Iommi ed il cantastorie impersonato da Hughes, vi presentano la perfezione lirica e sonora. Sostenuto da un videoclip letteralmente da Oscar, il brano diviene presto uno dei capisaldi del gruppo, maestoso come non mai e strappalacrime al momento giusto. Monumentale l’assolo centrale della sei corde, che rende divino l’incedere del pezzo reso leggendario dalle tonalità soavemente modulate di Hughes, che lo rendono un evergreen. Con Turn To Stone ci catapultiamo in un buon angolo di metal classico: una grancassa “impazzita”, un giro di basso rutilante, un cantato quasi distorto nella fase centrale e naturalmente una sei corde massacrante, contribuiscono a formare un muro sonoro di rara intensità. Superbo il legato di “mid-tempo”, che prepara al refrain finale quasi senza accorgersene, di modo che la sovrapposizione strumentale renda ancora più infuocato il brano, che si distingue ancora per il roco cantato finale. Dopo la parentesi strumentale di Sphinx, giungiamo alla title track: ma sembra anche di tornare indietro di un ventennio per la sua sonorità. Linee quasi “ossianiche” preludono alla narrazione tormentata di Hughes, che deve sforzarsi da par suo per giungere alla parte centrale del brano in modo lineare, legando la originaria quartina alla successiva tonalità di “rientro” della chitarra, che deve accompagnare quasi per mano l’ascoltatore dalla dimensione “lisergica” della prima strofa alla conclusione in stile quasi prog.

L’interpretazione di Danger Zone ci lascia senza parole: Hughes è memorabile in veste “thrasher”, accompagnato da una linea sonora di rara potenza, in primis con la sei corde. Dominante la maggior parte del brano, Iommi sciorina a piacimento un ossessivo e martellante refrain, su cui opera trionfalmente la sezione ritmica da sballo, che vedrà di lì a poco il reclutamento nella band di Gary Moore. Danger Zone è tra i migliori brani dell’album, purtroppo verrà raramente ripreso in sede live con una formazione che a breve non avrebbe più visto Hughes dietro il microfono, vittima di un’impunita aggressione da parte del loro ex manager, Don Arden, nonché padre della signora Osbourne. Causato da un pugno alla gola, il malessere del cantante obbligò il gruppo a sostituirlo per la fine del tour con il compiantissimo Ray Gillen. Il trittico finale del disco, Heart Like A Wheel, Angry Heart e In Memory, ci consegna la parte più melanconica ed intimista del gruppo: strano a dirsi, per una band tacciata a torto anche di satanismo. Le melodie contraddistinguono i tre brani, sostenuti dal lavoro ora valorizzato di Nicholls, che costruisce a suo piacimento il tappeto sonoro su cui si snodano i ritornelli apparentemente tra loro simili, accomunati anche dalla calda voce di Hughes, il quale evidentemente ci tiene a lasciare un buon ricordo di sé.

Cosa che di certo si è verificata, pur se rapidamente posta in secondo piano da nuovi ed ulteriori accadimenti che stanno per verificarsi in seno alla band. In tempo, tuttavia, per regalarci ancora una pietra miliare degli anni ‘80 e non solo…

Autore: Black Sabbath (featuring Tony Iommi) Titolo Album: Seventh Star
Anno: 1986 Casa Discografica: Vertigo
Genere musicale: Hard Rock Voto: 8
Tipo: CD Sito web: http://www.black-sabbath.com
Membri band:

Glenn Hughes – voce

Tony Iommi – chitarra

Dave Spitz – basso

Eric Singer – batteria

Geoff Nicholls – tastiere

Tracklist:

  1. In For The Kill
  2. No Stranger To Love
  3. Turn To Stone
  4. Sphinx
  5. Seventh Star
  6. Danger Zone
  7. Heart Like A Wheel
  8. Angry Heart
  9. In Memory
Category : Recensioni
Tags : Black Sabbath
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06th Lug2012

Morgana – Rose Of Jericho

by Rod

Per chi negli anni ’80 era solito frequentare i malfamati quartieri del rock e del metal italiano, il nome di Roberta Delaude, in arte Morgana, non suonerà nuovo. Già vocalist di band come Damnath, Jester Beast e Hurtful Witch, dopo i fasti di quegli anni ruggenti ed un lungo periodo di assenza dalle scene, la rocker è tornata on the road nel 2005 con l’album Three Years of Madness. Il nuovo percorso artistico della singer piemontese vede come ultimo anello della sua discografia, Rose Of Jericho, un album in cui la Nostra fonde artisticamente voce, cuore ed anima assieme all’esperienza ed il talento di, udite udite, mister Tommy Talamanca, chitarrista nonché membro fondatore dei genovesi Sadist. Un album che va approfondito con diversi ascolti e che dissemina durante il suo percorso, diverse incertezze. Innanzitutto, strano a dirsi, per lo stile interpretativo di Morgana. Senza dubbio, com’è noto a chi l’ha seguita negli anni nel suo percorso artistico, Roberta riesce a mettere potenza, profondità ed intensità in ogni brano, infondendogli quel mix di acquavite rock sensuale e allo stesso tempo ribelle, che poche vocalist in Italia sanno dosare. È anche vero che in diversi passaggi, l’album rinuncia di proposito a decollare, vuoi per le liriche a tratti apparse forzatamente disallineate, vuoi per certe tonalità troppo alte per essere sfumate con dosata maestria e, su tutto, per la palese non perfetta simbiosi tra lo stile progressive di Talamanca e soci (precisione e tecnica in ogni dove) a fronte dell’incontrollata irruenza hard rock e pop di Morgana.

Per i motivi di cui sopra, convincono appena Golden Hours, l’incerta ballata 610 (bene invece il ritornello), I Will Not Turn Back e How Do You Feel. Bocciata senza appello, la cover della celebre Bang Bang: nonostante l’interessante arrangiamento, l’interpretazione vocale sopra le righe risulta inadeguato ad un pezzo incline ad altre corde. Molto interessante invece, il rifacimento di Lady Winter, vecchio cavallo di battaglia della Delaude. Davvero esaltanti infine, sia il brano di apertura Alive…, che quello di chiusura … and Kickin, (facile intuire il gioco del trait d’union), in cui la band sfoggia un progressive metal di alto livello ed in cui Morgana sa vestire i panni della poetessa rock ispirata in stile Patti Smith. Stesso discorso vale per l’interpretazione della versione acustica di Lady Winter, proposta a fine album come bonus track.

Usando una metafora calcistica, Rose Of Jericho è un album che resiste con sudore pur senza offrire un buon gioco, ma che riesce ad arrivare ai calci di rigore grazie all’ottima prova di tutti i musicisti impegnati.

Autore: Morgana Titolo Album: Rose Of Jericho
Anno: 2011 Casa Discografica: Nadir Music
Genere musicale: Hard Rock Voto: 5
Tipo: CD Sito web: http://www.morganadelaude.com
Membri band:

Morgana – voce

Andy Marchini – basso

Tommy Talamanca – chitarra, tastiera

Alessio Spallarossa – batteria

 

Ospiti Quartetto Eufonica:

Federica Pellizzetti – violino

Gabriele Boschi – violino

Francesco Candia – viola

Giacomo Biagi – violoncello

Tracklist:

  1. Alive….
  2. Love Me The Way I Am
  3. Golden Hours
  4. Lady Winter
  5. 610
  6. Bang Bang (Sonny Bono cover)
  7. I Will Not Turn Back
  8. How Do You Feel
  9. …And Kickin’
  10. Lady Winter (acoustic)
Category : Recensioni
Tags : Hard Rock
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06th Lug2012

Blackmore’s Night – A Knight In York

by Marcello Zinno

Probabilmente non esistono appassionati di rock che non conoscano Ritchi Blakmore, noto chitarrista dei Deep Purple e fondatore dei Rainbow. Probabilmente alcuni ignorano la sua grande passione per il rock/folk medievale che lo ha portato a studiare a fondo strumenti e sonorità del tempo che fu; probabilmente  meno persone ancora conoscono a pieno i Blackmore’s Night, progetto nato dall’incontro (nella musica come nella vita) del noto chitarrista e dell’affascinante Candice Night (il nome della band non è altro che l’unione dei due cognomi) e giunto ormai all’ottava prova in studio ed al terzo DVD dal titolo A Knight In York. Molto tempo era trascorso dall’ultima data inglese e dalla presentazione dell’album Autumn Sky (del 2010), da qui nasce l’idea di dare alle stampe un dvd dell’esibizione del 30 settembre 2011 in cui la band al completo ha dato veramente il massimo.

Atmosfera giusta per presentare uno show all’insegna dello scenario medievale: un palco immerso nel fieno che conferisce rusticità e valorizza le sonorità acustiche. La voce di Candice Night è perfetta, non punta mai a tonalità eccessive (fatta eccezione per il toccante brano Barbara Allen) ma cerca di avvolgere con delle liriche suadenti chi dinanzi a lei ammira stupefatto, mentre allo stesso tempo Ritchi Blackmore si destreggia in arpeggi non terribilmente complessi ma che con gusto completano la bellezza delle composizioni. L’arma segreta del combonon sta nella tecnica, né nell’insistenza con cui si ripresentano particolari scenari musicali, bensì negli inaspettati duetti tra gli strumenti come nell’opener Locked Within The Crystal Ball dove violino e chitarra acustica si scambiano passaggi reciprocamente creando un alone fiabesco tutto intorno.

Non mancano momenti più soft come Gilded Cage o le romantiche The Peasant’s Promise e Dandelion Wine, ma noi preferiamo i Blackmore’s Night nei momenti più festaioli come in The Circle che parte con un ritmo folcloristico poggiato su un giro di mandolino semplice ma che poi esplode quando Ritchie imbraccia la sua Stratocaster è si imbatte in un assolo lunghissimo dalle sfumature orientali (e a vederci bene qualcosa dei Deep Purple si avverte), oppure Toast To Tomorrow dalle sembianze musicali quasi russe ma che presenta uno spazietto simpatico con una parodia di Lady Gaga (giusto per non prendersi troppo sul serio e divertire un pò il pubblico). Lo stesso estro di Mr. Blackmore viene ripresentato anche in Journeyman, un brano che presenta varie sfumature dal rock fino al metal, o nella parte centrale di Fires At Midnight. Impressionante notare con quanta facilta Blackmore riesca a creare melodie bellissime semplicemente sfiorando le corde o impugnando il manico con decisione…una nuova lezione secondo la quale la tecnica non è pura velocità bensì gusto.

Assolutamente superlativa la prova di Candice Night che conferma ancora una volta la sua splendida voce e il suo approccio interpretativo ai singoli brani: è lei l’elemento essenziale del progetto, probabilmente anche in misura maggiore del roboante marito, alla luce delle poche sfuriate elettriche a cui ci ha abituati negli anni. Al di là di ogni opinione e di ogni gusto, uno show da vedere.

Autore: Blackmore’s Night Titolo Album: A Knight In York
Anno: 2012 Casa Discografica: UDR/EMI
Genere musicale: Rock rinascimentale Voto: 8
Tipo: CD + DVD Sito web: http://www.blackmoresnight.com
Membri band:

Ritchie Blackmore – chitarra, mandolino, liuto, ghironda

Candice Night – voce, flauto

Earl Grey Of Chimay – basso, chitarra

Bard David Of Larchmont – tastiere, voce

Squire Malcom Of Lumley – batteria, percussioni

Gypsy Rose – violin, voce

Ministrel Albert – woodwinds

Tracklist:

CD+DVD

  1. Locked Within The Crystal Ball
  2. Gilded Cage
  3. The Circle
  4. Journeyman
  5. World Of Stone
  6. The Peasant’s Promise
  7. Toast To Tomorrow
  8. Fires At Midnight
  9. Barbara Allen
  10. Darkness
  11. Dance Of The Darkness
  12. Dandelion Wine
  13. All The Fun Of The Fayre
  14. First Of May
Category : Recensioni
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