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05th Lug2012

Seid – Magic Handshake

by Giancarlo Amitrano

Direttamente dai recessi dei fiordi norvegesi, ecco i nuovi vichinghi: i Seid si presentano a noi con un dosato mix di energia psichedelico-cosmica, in stile Hawkwind. Con un azzeccato lavoro di gruppo, il quintetto produce un disco di sicuro interesse. Potremmo definirlo quasi un concept-album per la complessità delle tracce e per gli attenti arrangiamenti in sede di produzione, tuttavia, nello snodarsi del disco si ha la sensazione che il messaggio che il gruppo intende lanciare resti fra le righe di un discorso interrotto. Probabilmente, la stessa complessità dei brani induce il gruppo a dedicarsi principalmente alla loro esecuzione, piuttosto che alla fluidità dei testi stessi. Eppure l’inizio di Space Pirates Return meraviglia in positivo per la potenza sonora che emana: il basso di Rocket è notevole nella sua cadenza ed anche l’insolito cantato corale rende bene in fase propositiva, mentre il lavoro di Martin è potente e nitido assieme alle svariate chitarre che operano. Arriviamo subito alla migliore traccia del disco: Decode The Glow è un concentrato di stili diversi, che con il suo mid-tempo scorre fluida ed incatena l’ascoltatore al suo snodarsi. Eresia, forse, il ritornare con la memoria a brani storici, ascoltando il brano tuttavia, i continui e repentini cambi di tempo non stonano affatto nel loro legarsi, sfidando chi ascolta a prevedere quale sia lo sviluppo del brano. Come detto è di certo la gemma dell’intero disco, grazie anche alla voce superba di Stina Stjern, che qui collabora ai cori ed al cantato principale.

The Dark Star Is Waiting è la discesa agli Inferi: la voce dell’ospite Asgeir Engan ci trascina in un abisso infinito che incute terrore, grazie alla sapiente distorsione delle chitarre ed alla claustrofobica presenza delle tastiere, che nel refrain centrale si fondono con la sezione ritmica in una “jam” davvero notevole e di forte impatto sonoro che lascia storditi piacevolmente. Ascoltando The True Merry Poppers torniamo ai gloriosi anni ‘60, agli albori del rock: suoni in piena psichedelia, con atmosfere quasi spaziali che si snodano attraverso una lunga improvvisazione strumentale, su cui emerge la voce di un altro illustre ospite, Hans Jorgen Stop, che illumina il brano con la sua interpretazione quasi da “dietro le quinte”, con una opportuna microfonatura cupa e risonante al tempo stesso con il clarinetto di Oyvin Yri. Tron è un altro bel brano: una lunga cavalcata sonora del gruppo, che si cimenta in una sfida strumentale di rara intensità, in cui il cantato di Magnus Robot si inserisce delicatamente solo dalla fase centrale, senza appesantire il percorso iniziato dal gruppo. Le tastiere “spaziali” che inframezzano il refrain centrale collocano il ritornello in una dimensione quasi eterea che pare catapultata direttamente dai primissimi Pink Floyd, sia pur con il loro tocco di sana originalità strumentale.

L’esecuzione di Fire Up! è ancora resa eccellente da Jorgen Stop: in stile più hard, stavolta, il brano si snoda attraverso una lunga costruzione barocca che non dà adito a dubbi circa la matrice del gruppo. Un sano rock’n’roll si miscela a psichedelia a fiumi ed atmosfere cosmiche che d’incanto cessano con uno stacco semplice e d’impatto. Olyok Kok Friebib rende onore al titolo impronunziabile: il coacervo delle voci di tutti i singer ospiti nel brano lo rendono quasi come un muro di suono innanzi al quale l’uditorio deve durare fatica per non restarne sopraffatto. Anche la batteria stavolta è clamorosamente squassante: rendendo il brano quasi una trascinante sinfonia, la coralità delle voci non riesce a contrastare la potenza sprigionata dalla strumentazione, qui davvero a pieno regime anche grazie alla ancor presentissima dose di cosmicità. La concezione di Birds pone l’ascoltatore di fronte al dilemma se considerarlo un “ibrido” di generi oppure un episodio a sé stante: a noi piace propendere per la seconda ipotesi. I samples ed i sintetizzatori di Hemmelig Tempo rendono il brano una gemma che deve restare tuttavia avulsa dal contesto generale del disco: conservando il livello di qualità, il refrain centrale ed il ritornello delicatamente proposto appaiono come una cavalcata quasi “epica” nel suo svolgimento, accompagnati dai bird-samples che rendono il brano davvero particolare, brano che si chiude con un insolito orologio a cucù di allegra estrazione.

Space Rock Dogma è l’unico brano in cui il gruppo torna ad agire da solo: l’originalità della composizione non ne risente, mettendo in evidenza l’arrangiamento ancora valido del cantato. L’interpretazione del quintetto mantiene ancora livelli di qualità, rendendo il brano quasi “facile” nel suo ritornello centrale, su cui dominano senza dubbio le tastiere che indugiano su partiture di classicismo davvero inatteso in questo contesto. Siamo giunti alla title-track: con la sola partecipazione di Martin Skei al sax, Magic Handshake si rivela un caleidoscopio di generi; tutta la strumentazione è impazzita, nello scatenarsi quasi in un singolo assolo all’interno del brano, come a ricordare che comunque il bagaglio tecnico del quintetto non è certo trascurabile. Il tutto, nello svolgersi dei relativamente pochi minuti del brano: che scorre via con disappunto per il vederlo finire in fretta. Sister Sinsemilia chiude degnamente il disco: una lenta introduzione sonora fa da preludio alla seguente intensa drammatizzazione del brano. Le tastiere sono davvero notevoli nel disegnare un’atmosfera di dannazione dell’umana specie, su cui grava il cantato davvero nostalgico che funge da esecutore testamentario delle ultime volontà del gruppo che sono quelle di comunicarci che anche in generi apparentemente ostici all’ascolto come quello di loro competenza, esistono entità musicali come i Seid che saldamente ne tengono alto il vessillo.

Autore: Seid Titolo Album: Magic Handshake
Anno: 2012 Casa Discografica: Black Widow Records
Genere musicale: Psychedelic Rock Voto: 7
Tipo: CD Sito web: http://www.myspace.com/seidrock
Membri band:

Jurgen Kosmos – voce, chitarra, organo

Burt Rocket – chitarra, tastiere, basso

Organ Morgan – tastiere

Viktor Martin – batteria, voce

Janis Lazzaroni – chitarra, percussioni

Tracklist:

  1. Space Pirates Return
  2. Decode The Glow
  3. The Dark Star Is Waiting
  4. The True Merry Poppers
  5. Tron
  6. Fire It Up!
  7. Olyok Kok Friebib
  8. Birds
  9. Space Rock Dogma
  10. Magic Handshake
  11. Sister Sinsemilia
Category : Recensioni
Tags : Psichedelia
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05th Lug2012

Homer – The Politics Of Make Believe

by Marcello Zinno

Non ci stancheremo mai di azzerare tutti i presupporti che comunemente vengono in mente quando ci si presenta dinanzi una nuova band. Il Belgio è la provenienza di questo combo, ma non c’entra nulla la birra né le sostanze stupefacenti che potrebbero suggerire un genere poco tecnico e molto festaiolo. Homer è il moniker e nulla c’entra il personaggio dei Simpson che conferirebbe un nuovo significato di leggerezza al sound della band. Ci troviamo dinanzi ad un quartetto compatto in grado di forgiare una proposta musicale a cavallo con molti genere e, pur concentrata in brani dalla durata breve, risultare comunque esaustiva. Il continuo altalenarsi tra i due stili vocali, l’uno in contrasto con l’altro, si fa apprezzare per quel non estremismo senza compromessi che probabilmente porterebbe alla stanchezza dopo una manciata di brani; il riffing risulta variegato e se l’opener strizza l’occhio alla tradizione metalcore, già con My Demons Didn’t Make It To The Future si giunge all’ambientazione per antonomasia degli Homer: l’hardcore. Il punto centrale della proposta della band sta proprio nel sound della sei corde che non è mai grezza e ruvida, come tradizione punk imporrebbe, ma si avvicina maggiormente a quanto il thrash di più recente scuola insegna, risultando in bilico continuo tra i due generi. Questo è anche l’elemento più piacevole del quartetto che in dieci brani di una trentina di minuti scarsi è in grado di dire tanto, con refrain, chorus ma soprattutto strutture sonore da pogo costante, il tutto condito da testi irriverenti e sfacciati.

Il titolo Disciples Of Rock’n Roll non è scelto a caso perchè qui l’hardcore, con una sei corde che si intinge di effetto flanger, si immola proprio al genere citato nel titolo al solo fine di acquisire un ritmo ancora più conturbante e non solo incentrato sulla velocità pura; la successiva White Does Rhyme With Empty ci convince invece per i cambi di tempo necessari data la sua lunghezza e un inaspettato senso di maturità stilista pur non condito da alcuna uniformità rispetto a roba ascoltata già in giro (in alcuni casi prossimo ad alcune influenze math-core) fino alla sfuriata finale. Assolutamente graffiante Inferno che affonda gli artigli pur richiamando qualcosa di emo-core nelle parti vocali, ma c’è anche This Statue Won’t Fall Down che continua a stupire: per almeno cento album di hardcore che sembrano uguali a se stessi (e nei quali i brani suonano piatti e “eccessivamente coerenti”) in The Politics Of Make Believe si trovano svariate sfumature ed ogni minuto lascia un segno indelebile come se vivesse di luce propria.

Gli Homer quindi ci aprono una finestra verso una musica che, seppur proveniente da un Paese non di certo famoso per il rock, lascia segni e lezioni indelebili per molti coetanei ma anche per i più vecchietti.

Autore: Homer Titolo Album: The Politics Of Make Believe
Anno: 2012 Casa Discografica: Fun Time Records
Genere musicale: Punk, Hardcore, Metalcore Voto: 8,5
Tipo: CD Sito web: http://funtimerecords.com/homer
Membri band:

Wannes Vanvoorden – batteria

Bert Quinten – chitarra, voce

Mattias Vos – basso, voce

Johan Quinten – voce

 

Tracklist:

  1. The Politics Of Make Believe
  2. My Demons Didn’t Make It To The Future
  3. My Last Piece Of Ignorance
  4. Disciples Of Rock’n Roll
  5. White Does Rhyme With Empty
  6. Inferno
  7. This Statue Won’t Fall Down
  8. Vamos!!!
  9. The Path That Leads To Reason
  10. This Scene Is Sacrificed
Category : Recensioni
Tags : Hardcore
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04th Lug2012

Darkthrone – Sardonic Wrath

by Alberto Vitale

Dopo aver inciso una notevole quantità di album (dieci in quindici anni) per i Darkthrone arriva un momento forse cruciale. Se una band di metal estremo non ridisegna il proprio sound a qualcuno la cosa potrebbe non andare giù. Per Sardonic Wrath la critica si è concessa qualche insofferenza alla standardizzazione dell’operato dei Darkthrone, dichiarandolo apertamente oppure esprimendo giudizi di circostanza, cioè giudizi nei quali si riconoscevano a Fenriz e Nocturno Culto il loro ruolo di capostipiti del balck metal, ma mettendo allo stesso tempo in evidenza l’ottusità del songwriting. Per alcuni erano dunque i Darkthrone di sempre, uguali a se stessi e oggettivamente privi di innovazioni. Per altri erano i Darkthorne, scolpiti nel granito nero del black metal, inattaccabili, unici, autori di un lavoro comunque d’impatto e sostanza.

Sardonic Wrath nell’iniziale versione promo vedeva otto canzoni e non nove come nella versione finale. Mancava Rawness Obsolete a chiusura dell’album e una versione leggermente differente di Hate Is The Law. Da una prima intervista a Nocturno Culto si parlò di un nuovo album, appunto Sardonic Wrath, concepito anche con influenze non propriamente black metal. La cosa forse montò anche le aspettative degli addetti ai lavori, ma Sardonic Wrath è a conti fatti un album puramente dei Darkthrone. Il modo di suonare e concepire i pezzi è quello canonico di Fenriz e Nocturno Culto, il primo mostrando un lavoro muscolare, maratoneta delle bacchette e il secondo attraverso una concatenazione di riff che passano da estasi di velocità feroce e istintiva a cadute marziali e appesantite.

Sjakk Matt Jesu Krist (più o meno Checkmate Jesus Christ) e Hate Is the Law sono due corrosive sorelle del crust-punk, soprattutto la seconda che sembra rievocare lo spettro dei Discharge. Information Wants To Be Syndicated ha un passo caotico e spedito, ma propone una fase centrale in low tempo, massacrando le linee melodiche del black metal con un pathos da cerimonia a Satana. Tutto come da copione, tutto nella tradizione nera dei Darkthrone, come per Straightening Sharks In Heaven, Alle Gegen Alle (ovvero All Against All), canzone esposta in andante mid-tempo, vera marcia trionfale del male che sfila nel mondo, con una coda finale heavy-punk sostenuta e dirompente. Anche Man Tenker Sitt è rapida ma non veloce, con l’abrasivo riff di Nocturno Culto teso a rendere il clima carico di orrida tensione. Se Sacrificing To The God Of Doubt ricorda più il black metal di carattere svedese, come i Marduk, ad esempio, anche grazie ad un numero di variazioni nei ritmi e nel riffing al di sopra della media, la conclusiva Rawness Obsolete sigilla l’album con chiodi neri e affilati, piantati con colpi lenti e disumani. Canzone dalla melodia funerea, malinconica, ma epica sembra essere la giusta chiusura di questo lavoro segnato da un sound più morbido o comunque meno frenetico e non totalmente di puro black metal ossessivo e maledetto.

Sardonic Wrath è la costruzione di trame melodiche, le quali Nocturno Culto tinge con estrema semplicità, senza troppe complicazioni nelle partiture delle chitarre, le quali sono degnamente accompagnate da un buon sound del basso. Fenriz è puntuale, marca stretta ogni nota con i suoi colpi pesanti e squadrati. Riprendono se stessi, questo è innegabile, ma le canzoni hanno una semplicità istintiva decisamente più nitida anche rispetto al precedente Hate Them e Plaguewielder. Tuttavia qualcosa nel sound e nelle intenzioni dei due sta cambiando, il germe del futuro black ‘n roll sta covando e qualcosa di spettrale e fantastico accadrà negli anni avvenire, ma occorre tenere ben aperte le orecchie, in questo Sardonic Wrath, per capirlo.

Autore: Darkthrone Titolo Album: Sardonic Wrath
Anno: 2004 Casa Discografica: Moonfog
Genere musicale: Black Metal Voto: 7
Tipo: CD Sito web: http://www.darkthrone.no
Membri band:

Nocturno Culto – voce, chitarre, basso

Fenriz – batteria

Tracklist:

  1. Order Of The Ominous
  2. Information Wants To Be Syndicated
  3. Sjakk Matt Jesu Krist
  4. Straightening Sharks In Heaven
  5. Alle Gegen Alle
  6. Man Tenker Sitt
  7. Sacrificing To The God Of Doubt
  8. Hate Is The Law
  9. Rawness Obsolete
Category : Recensioni
Tags : Black metal, Darkthrone
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04th Lug2012

Crystal Phoenix – Crystal Phoenix

by Amleto Gramegna

Nuova ristampa del primissimo lavoro per i Crystal Phoenix, opera del 1989. Il platter edito originariamente dalla Videostar di Savona è giunto ormai alla seconda ristampa dopo una prima del 1993 che inaugurò l’avventura commerciale della label ligure e quest’ultima, datata 2012, che risulta arricchita di numerose bonus track e ripropone anche l’artwork originale. Il progetto Crystal Phoenix è una creatura, o meglio una one woman band, che ruota completamente intorno alla polistrumentista Myriam Sagenwells Saglimbeni, autrice dei testi, delle musiche, della copertina, ed in più esecutrice. Il disco può essere etichettato come hard rock, sebbene in alcune tracce vi sia un effettivo richiamo al neoprogressive o all’epic metal. Vediamo di cosa si tratta, tenendo addirittura conto che esso è considerato una sorta di “Santo Graal” dai collezionisti, visto che alla sua uscita, nel 1989, non fu supportato da alcuna promozione, stampato in pochissime copie e, narra la leggenda, molte di esse mandate al macero. Il lavoro si apre con la strumentale Damned Warrior, un’energetica cavalcata chitarristica, tra Samson e Iron Maiden. Molte le tecniche strumentali mostrate: sweep picking, tapping. Insomma non manca nulla, peccato solo per la registrazione che denota tutti i limiti del tempo e sarà una costante per tutto l’album.

Segue 474 Anno domini. Atmosfere epiche/folk, richiami progressive, arpe, arpeggi di chitarre acustiche. Una cosa che notiamo e che, diciamo pure che ci infastidisce alquanto, è la performance vocale, davvero scarsa, quasi a rischio e al limite delle proprie capacità. Intendiamoci: la Saglimbeni ha una bellissima voce ma in tutto l’album tende a “strafare” andando completamente fuori chiave. Forse una tonalità più bassa per tutto l’album avrebbe giovato. Somewhere, Nowhere Battle richiama le già citate atmosfere, degna colonna sonora delle opere di Tolkien, o del ciclo di Shannara. Ritorna il problema della voce: di gola, urlata, si tenta di riprodurre il progetto di bulldozer richiesto da tale genere musicale nella scala di un modellino giocattolo. Non ci siamo. Migliorano le cose in Loth-er Siniell. Strumentale che odora del progressive più prezioso, come i cori che spuntano qui e lì e richiamo tempi ed epoche ormai lontane. Segue la suite Heaven To A Flower/Violet Crystal Phoenix. Finalmente la nostra polistrumentista canta rendendo piacevole l’ascolto e non inducendo al dubbio come nelle prove precedenti. Epica ballad, con un organo in gran spolvero, cambi di tempo hard rock e cavalcate maideniane.

Il disco si conclude con l’ulteriore suite Dark Shadow e ritorniamo a quanto già scritto. Bello il tema, epica la struttura, ma brutta la prova vocale. Spiace davvero dirlo (e ripetersi) ma incidere siffatte tracce vocali, unitamente alla sciatteria utilizzata per la ripresa delle chitarre, e tentare di posizionare l’album tra i lavori di alta professionalità è davvero deleterio. Non si può pretendere assolutamente che esso sia un lavoro finito ma semplicemente un demo-tape per un futuro full lenght mai uscito. Non sappiamo il motivo per il quale, nel 1989, tale album non fu distribuito massicciamente o supportato promozionalmente, ma ascoltandolo per intero qualche idea ci balena nella testa. In ogni caso siamo sinceri e realisti: nel 2012 registrare un album è sicuramente più semplice di ciò che si faceva nel 1989. Basta una buona scheda audio e le registrazioni si fanno a casa con una qualità diecimila volte superiore a quella di appena venti anni fa, lo sappiamo sin troppo bene. Ormai le nostre orecchie sono troppo “coccolate”, ma questo non può essere una giustificazione. Il primo lavoro di Frank Zappa era registrato da schifo, però il contenuto era davvero superbo e a nessuno fregava nulla delle riprese audio. Qui mancano entrambi i fattori.

Concludono la ristampa del 2012 alcuni demo tape dell’epoca più una versione 2011 del 474 Anno Domini decisamente più matura della sua controparte 1989. Per noi non è promosso.

Autore: Crystal Phoenix Titolo Album: Crystal Phoenix
Anno: 2012 Casa Discografica: Black Widow Records
Genere musicale: Hard Rock Voto: 4
Tipo CD Sito web: http://www.crystalphoenix.it
Membri band:

Myriam Sagenwells Saglimbeni – voce, chitarra, basso, arpa

 

Formazione 2012:

Luca Tedeschi – basso

Raymond Sgrò – pianoforte, tastiere, basso, flauto

Andrea Amico – batteria, percussioni

Tracklist:

  1. Damned Warrior
  2. 474 Anno Domini
  3. Somewhere, Nowhere Battle
  4. Loth-Er Siniell
  5. Heaven To A Flower
  6. Dark Shadow
  7. Damned Warrior
  8. Heaven To A Flower
  9. The Dove And The Bat
  10. 474 Anno Domini
Category : Recensioni
Tags : Hard Rock
1 Comm
03rd Lug2012

AC/DC – The Razors Edge

by Gianluca Scala

Con il rientro definitivo da parte di Malcolm Young nelle fila della band dopo il suo ricovero forzato per disintossicarsi dagli eccessi di alcol e droghe, gli AC/DC dovettero riempire il posto vacante lasciato da Simon Wright alla batteria, che accettò l’offerta dell’amico di sempre Ronnie James Dio per unirsi alla sua band. Gli AC/DC non si persero d’animo e presero ai propri servigi l’esperto batterista Chris Slade che insieme al famoso producer Bruce Fairbairn si chiusero in studio per dare un seguito al fortunato Blow Up Your Video. L’album venne pubblicato verso la fine del 1990 e venne intitolato The Razors Edge: risollevò nettamente le quotazioni della band e risultò essere un buon successo commerciale, cosa che non accadeva fin dai tempi di For Those About To Rock e buona parte del merito va al singolo di enorme successo che risponde al titolo di Thunderstruck, brano dal giro di note inziali memorabile che fece breccia nei cuori dei rocker di tutto il mondo abitato. Ma la rinnovata vena creativa del gruppo traspare anche da tanti altri brani presenti su questo grande disco, brani come Are You Ready, Fire Your Guns, la stessa title track ed anche la bellissima per chi scrive Moneytalks, col suo ammaliante ritornello e con quel gran giro di chitarra,vero specchio della società contemporanea che tutt’ora ci circonda in una nube fatta di materialismo latente.

Anche il video clip di Moneytalks era una delle cose più godibili in assoluto quando ti capitava di vederlo in tv (ricordate la cascata di dollari con l’effige della band dopo l’assolo centrale di Angus Young? Che figata!); The Razors Edge riportò gli AC/DC sotto i riflettori dell’ambiente del rock duro, fatto di copertine dedicate a loro sulle riviste, interviste, show telesivi, mentre il tour seguente si dimostrò essere uno dei più seguiti della loro carriera. Un plauso va fatto anche alla produzione curata da Mr. Fairbairn, decisamente migliore di quella dei fratelli Young (vedi Flick Of The Switch e Fly On The Wall) capace di dare il giusto appeal al sound della band che mai risulta banale o ripetitivo. Uno dei dischi degli AC/DC da avere assolutamente, uno di quei dischi che anche se non si considerano storici sono in grado di far salire l’adrenalina in corpo, ascolto dopo ascolto. Impossibile rimanere inermi davanti a bordate rock come quelle contenute nei brani sopracitati o in altri come Got You By The Balls, Mistress For Christmas o la conclusiva If You Dare. Andate a recuperare la vostra copia di questo lavoro e infilatela nel vostro stereo e vedrete che il rock genuino degli AC/DC vi accompegnarà dappertutto.

Autore: AC/DC Titolo Album: The Razors Edge
Anno: 1990 Casa Discografica: Atlantic Records
Genere musicale: Hard Rock Voto: 8
Tipo: CD Sito web: http://www.acdc.com
Membri band:

Brian Johnson – voce

Malcom Young – chittara, cori

Angus Young – chitarra

Cliff Williams – basso, cori

Chris Slade – batteria

Tracklist:

  1. Thunderstruck
  2. Fire Your Guns
  3. Moneytalks
  4. The Razors Edge
  5. Mistress For Christmas
  6. Rock Your Heart Out
  7. Are You Ready
  8. Got You By The Balls
  9. Shot Of Love
  10. Let’s Make It
  11. Goodbye & Good Riddance To Bad Luck
  12. If You Dare
Category : Recensioni
Tags : AC/DC
2 Comm
03rd Lug2012

Cosmetic – Conquiste

by Matteo Iosio

Non vendono creme anti rughe o lucidalabbra alla moda, i Cosmetic sono invece una band romagnola che vanta già due album all’attivo che in passato hanno suscitato parecchio interesse da parte della stampa e del pubblico. Oggi si presentano con la loro terza fatica denominata Conquiste, forse per propiziare un ingresso in grande stile all’interno del mercato internazionale. All’ascolto si mostrano come un’interessante band alternative rock con sonorità che molto spesso richiamano band di grosso blasone come Sonic Youth, Smashing Pumpkins o gli italici Verdena con cui il cantante condivide un timbro vocale molto simile. Il disco si potrebbe definire senza particolare sforzo onesto e diretto, privo di qualsiasi artifizio. Le sonorità sono dirette e ruvide, chitarre distorte e ritornelli che subito rimangono in mente, batteria pulita ed essenziale e giri melodici che spesso riportano la mente a sonorità da primi anni ‘90. Nessun arabesco o barocchismo di qualsivoglia fattura, tutto appare estremamente schietto e privo di fronzoli. Se cercate dell’innovazione e delle nuove sperimentazioni questo non è un disco fatto per voi, da una parte il prodotto percorre sentieri sicuri e ben battuti, da un altro forse sarebbe servita un po’ più di audacia, le traccie sono tutte di pregevole fattura ed estremamente orecchiabili, quello che manca è forse un minimo di inventiva od un tocco di creatività in più che sicuramente avrebbe fatto fare il salto qualitativo che la band necessitava. Non stiamo parlando di una bocciatura, il disco appare onesto e poggia su buone basi ma forse un tocco di innovazione avrebbe sicuramente dato una grossa mano.

Da segnalare la seconda traccia denominata Molly che parte sognante e distorta con una voce effettata in lontananza in grado di  richiamare i primi Oasis ma con una venatura più indie che rende il pezzo riuscito ed estremamente convincente. Scisma parte subito forte con una parte cantata estremamente melodica, che entra subito nel vostro sistema nervoso senza abbandonarvi più ed appare come uno dei pezzi più riusciti di tutto il progetto. La ballad Calla si colloca poco oltre la metà del disco con il chiaro intento di “staccare” un po’ l’acceleratore e per donare quella atmosfera malinconica che ultimamente si addice alle sonorità indie moderne, buon pezzo anche questo, riflessivo e introspettivo il giusto. Le canzoni rimanenti scivolano via come una piacevole pioggia estiva accorsa a rinfrescare una torrida giornata estiva; fresche e di buon impatto troviamo Per Un Amico, Andreini e la lisergica e distorta Colonne D’ Errore.

Il progetto si chiude con Lo Spavento forse la traccia più sperimentale di tutto l’album atmosfere oniriche e sghembe che concludono il disco con un rimando agli anni ‘60. In definitiva ci troviamo ad un buon lavoro, onesto e privo di fronzoli che dimostra come la scena indie nostrana sia in pieno fermento e tutt’altro che agonizzante. Il sottobosco appare vivo più che mai ed in piena fase evolutiva con numerose band emergenti in grado di trasportare tutto il movimento verso un prossimo “rinascimento” che tutti stiamo aspettando con grande speranza.

Autore: Cosmetic Titolo Album: Conquiste
Anno: 2012 Casa Discografica: La Tempesta Records
Genere musicale: Indie Rock, Shoegaze Voto: 6,5
Tipo: CD Sito web: http://www.cosmeticmusic.com
Membri band:

Bart – voce, chitarra

Pain – basso

Emily – chitarra

Mone – batteria

Tracklist:

  1. Lenta Conquista
  2. Melly
  3. Sitar
  4. Scisma
  5. Prima O Poi
  6. La Fine Del Giorno
  7. Calla
  8. Per Un Amico
Category : Recensioni
Tags : Indie Rock
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02nd Lug2012

Pearl Jam – Ten

by Giuseppe Celano

È l’agosto del 1991 quando esce Ten dei Pearl Jam, in Italia l’album uscirà a febbraio dell’anno seguente, maggiorato con tre bonus track fra cui una versione dal vivo di Alive. Come per gli altri gruppi di Seattle anche i Pearl Jam vengono associati al movimento scaturito dall’energia tettonica rilasciata dai Nirvana. Accusati, ingiustamente o no sta a voi deciderlo, di essere saltati sul carrozzone di Kurt Cobain e soci i cinque, a differenza dei Nirvana, hanno un piglio più hard rock, molto vicino alle sonorità degli Zeppelin e un approccio meno punk. Attivissimi sul piano politico e sociale i Pearl Jam si vanno a inserire come quarto elemento di quel poker che per quasi una decade ha guidato il grunge. Ten decolla sulle note dell’introduttiva Once che apre le danze attraverso un incipit ingannevole, subito corretto dal rifferama a due asce e dalla voce cazzuta di Vedder che mettono in chiaro chi comanda. È rock di pregiata fattura che strizza l’occhio alla melodia, ben nascosta nella struttura ma facilmente intellegibile da un orecchio attento. Della produzione se ne occupa il buon Rick Parashar e il risultato, anche se tardo, arriva con ben tre singoli ormai impressi negli annali del rock. E a proposito di singoli Even Flow, piazzata al secondo posto della tracklist, riassume tutto il pensiero sonoro dei Pearl Jam: rock muscolare che flirta con la melodia, la sezione ritmica vitaminizzata spinge al punto giusto su chitarre sfigurate dal wah-wah, sempre nella tradizione del buon Jimi Hendrix.

I testi, spesso autobiografici, tirano in ballo storie reali come il ragazzo suicida di Jeremy, parlano di ospedali psichiatrici in Why Go ma anche di solitudine, depressione e senzatetto. Ma è in pezzi come Garden e la sua forza trascinante o come Oceans, in cui Palmer si diverte a sovraincidere rumori di estintori e shaker come percussioni, che si devono cercare le perle di questo disco. Il resto, tolta la lunga coda psichedelica di Release, è ciò che si potrebbe definire un raid aereo la cui potenza di fuoco si basa sul rifferama anabolizzato delle due chitarre in dialogo serrato con la potente sezione ritmica. I Pearl Jam fanno parte di quella schiera di musicisti facilmente inseribili nella cerchia del “rock da stadio” che ha reso immensi molti gruppi dei seventies, periodo musicale a cui i cinque sono spudoratamente devoti.

Autore: Pearl Jam Titolo Album: Ten
Anno: 1991 Casa Discografica: Epic Records
Genere musicale: Rock Voto: 7,5
Tipo: CD Sito web: http://www.pearljam.com
Membri band:

Eddie Vedder – voce

Stone Gossard – chitarra

Mick McCready – chitarra

Jeff Ament – basso

Dave Crusen – batteria, percussioni

Tracklist:

  1. Once
  2. Even Flow
  3. Alive
  4. Why Go
  5. Black
  6. Jeremy
  7. Oceans
  8. Porch
  9. Garden
  10. Deep
  11. Release
  12. Alive (bonus track – live)
  13. Wash (bonus track)
  14. Dirty Frank (bonus track)
Category : Recensioni
Tags : Grunge, Pearl Jam
1 Comm
02nd Lug2012

Chester Gorilla – Solo Guai

by Marcello Zinno

I vari cambi di line-up e una biografia poggiata su cinque lunghi anni di attività senza alcun album fino a questo EP Solo Guai, hanno permesso ai Chester Gorilla di coniare un calderone di idee musicali differenti, che si sono evolute nel tempo (rispetto  agli esordi funk) ma che sono anche la somma dei differenti background dei singoli componenti (anzi forse non la somma bensì il prodotto). Questo EP, infatti, li presenza in maniera multiforme dove ogni brano rappresenta uno stato d’animo differente e quindi un ispirarsi ad atmosfere nuove. L’unico aspetto che investe trasversalmente il lavoro è una caratteristica comune degli EP: una produzione non raffinata. Ma vediamolo nel dettaglio. Another Day viaggia su dei tempi molto lenti, a cavallo tra stoner e rock strascicato che affossa tutto il mordente di cui sono in grado di sprigionare i quattro. Come facciamo a dirlo? Basta ascoltare Voglio Solo Guai, un pezzo che dimostra un ritmo graffiante e un ottimo connubio tra i vari strumenti. Peccato per la produzione non di altissimo livello che penalizza la resa complessiva e snatura la forza come band nel suo complesso.

Con Che Me Ne Fotte si sale ancora in qualità compositiva toccando lidi rock’n’roll ma colonizzati da un riverbero che ci ricorda alcuni dettami grunge; intermezzo quasi funk rap alla Rage Against The Machine che sicuramente fa la sua grande figura in sede live. Genio Della Lampada si fa apprezzare per i suoi riff stoppati e per il suo basso impostato mentre l’ultima Sometimes (secondo brano in lingua inglese) torna ai ritmi lenti e conturbanti che fanno schizzare l’attenzione durante l’assolo di chitarra davvero ben costruito. I Chester Gorilla hanno bisogno, a nostro parere, di maturare ancora per quanto concerne gli arrangiamenti ma soprattutto necessitano di una produzione di alto livello: gli altri ingredienti ci sono tutti ma si sa che in un piatto anche una sola manciata di sale in più può modificarne completamente il sapore.

Autore: Chester Gorilla Titolo Album: Solo Guai
Anno: 2012 Casa Discografica: Pogoselvaggio! Records
Genere musicale: Rock Voto: s.v.
Tipo: EP Sito web: http://www.myspace.com/chestergorillas
Membri band:

Daniele Caviglia – chitarra

Danilo Lombardo – voce

Filippo Caviglia – basso

Gabriele D’Armetta – batteria

Tracklist:

  1. Another Day
  2. Voglio Solo Guai
  3. Che Me Ne Fotte
  4. Genio Della Lampada
  5. Sometimes
Category : Recensioni
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01st Lug2012

Hybrid Circle – Before History

by Giancarlo Amitrano

Ancora Italia nei nostri. discorsi: dobbiamo con piacere riconoscere che la fucina musicale dei nostri talenti è pressocchè illimitata, stanti le numerose produzioni “autarchiche” a disposizione dell’uditorio. È questo il caso della band abruzzese di cui oggi ci occupiamo. Dopo alcuni demo di autoproduzione, giungono finalmente a questo full-lenght in cui sfoderano tutte le armi del genere di appartenenza: già, ma quale di preciso in cui inquadrarli? Il lavoro si snoda attraverso un concept scritto dal sestetto, in cui si rinvengono sonorità davvero di varia natura che possiamo definire come spazianti dai Meshuggah ai Fear Factory, senza per questo scadere in una loro copia pedissequa. Basato su un death metal di stile quasi “robotizzato”, il gruppo scivola lieve attraverso le tracce dell’album, giostrando a pieno organico su arrangiamenti di una certa complessità, grazie all’ottimo lavoro delle tastiere di Costantino, che specie in brani quali Plan Cybervac e Cy Square Zero raggiungono picchi di atmosfera “spaziale” su cui il gruppo riesce poi a dipanare una complessa melodia degli strumenti, senza risultare mai pedante o ripetitivo. Il lavoro della batteria riesce sempre gradevole, con un rullato di doppia cassa davvero ben inserito nell’economia dei brani, come si può ampiamente rilevare nella versione acustica di Circle, la bonus-track del disco.

La struttura elaborata ed articolata cui il gruppo si impronta, riesce sempre a fare capolino tra i brani proposti: prendendo ad esempio Never The Same Again notiamo come il cantato quasi “grind” di Angelico riesca a trascinare dalla sua parte tutta l’energia e la potenza del gruppo, che in questo brano sfodera davvero una notevole prestazione, davvero inattesa per il contesto di cui ci si occupa. In questo, riveste notevole importanza la produzione davvvero raffinata e di originalità che riesce a far scorrere senza momenti di debolezza l’intero disco e che, proprio a causa della sua estensione, poteva correre il rischio di apparire dispersivo e legnoso in alcune parti. L’ascolto di Onset ci solleva dal dubbio, stante l’ottima trasposizione che il gruppo riesce ad assemblare: con la costante presenza delle tastiere, la chitarra di Di Cicco riesce ad ammorbidire il roco canto di Angelico, che tuttavia appare altamente addentro alla stesura del brano stesso. La chiusura in stile Kraftwerk rende il brano tra le pagine menzionabili del disco. Con Team Work e Project Bait, il sestetto ci offre ampiamente la possibilità di apprezzare la loro voglia di sperimentare nuove sonorità, che si snodano attraverso un poderoso e concentrato mix di metalcore, groove ed anche industrial, senza per questo perdere di vista la loro originalità, specie nel primo dei due brani esaminati, dove l’approccio “galattico” viene seguito dalla poderosità della doppia cassa che fornisce spunto al cantante di cimentarsi in evoluzioni stilistiche degne di nota.

The Preacher è l’ennesimo brano di rilievo: grazie all’approccio quasi thrash, il brano sferra un pugno nello stomaco, delicato nel cantato e potente nell’esecuzione strumentale, che in alcuni passi ricorda addirittura i Dream Theater di Awake in una sana interpretazione originale. Tuttavia, il pezzo forte del disco è di certo Outro: un’ampia introduzione tastieristica, che ci ha ricordato per certi versi momenti della colonna sonora del medievale Nome della Rosa, fa da preludio ad una spettacolare jam del sestetto che viene letteralmente condotto per mano, anzi per tasto, da Costantino in un connubio ideale di atmosfere di lovecraftiana memoria. Il brano più complesso resta comunque Wisdom Popular: la doppia cassa squassa con i suoi rullanti, mentre il refrain del brano viene sparato in faccia all’ascoltatore, senza soluzioni di continuità. La fase centrale viene ben condotta dal sestetto, bilanciando saggiamente la voglia di eccedere della sezione rimica con il canto non melodico, ma di certo ritmicamente innestato nei riff ravvicinati che la doppia chitarra propone in abbondanza.

In conclusione, il gruppo di certo si è espresso su livelli egregi, stanti la già accennata ottima produzione ed i buoni arrangiamenti che contribuiscono a legare fra sé tutte le tracce, anche quelle apparentemente slegate dal contesto. Per lavori successivi che sicuramente si manterranno su questi livelli di buon gradimento.

Autore: Hybrid Circle Titolo Album: Before History
Anno: 2012 Casa Discografica: Buil2Kill Records
Genere musicale: Grindcore Voto: 7
Tipo: CD Sito web: http://www.hybridcircle.net
Membri band:

Stefano Angelico – voce

Alessandro Mitelli – chitarra

Matteo Mucci – basso

Simone Di Cicco – chitarra, cori

Vittorio Del Prete – batteria

Giuseppe Costantino – tastiere

Tracklist:

  1. Intro
  2. Ouverture 209
  3. The Preacher
  4. Not Different From Us
  5. Plan Cybervac
  6. Wisdom Popular
  7. Team Work
  8. Project Bait
  9. The Factory
  10. Onset
  11. Never The Same Again
  12. CySquare Zero
  13. Outro
  14. Circle (bonus track)
Category : Recensioni
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30th Giu2012

Queensryche – Rage For Order

by Marcello Zinno

Il primo importante album (anche se non prima uscita) dei Queensryche è Rage For Order, un pacchetto di tracce che tenta di urlare l’ordinata rabbia dei 5 grandissimi artisti ma che allo stesso tempo vuole fondere così due attributi diametralmente opposti tra loro, come sempre non senza raggiunge l’intento. Se state leggendo con l’album nelle vostre mani incuriositi da un primo ascolto che ancora deve avvenire, tenetevi pronti a degustare tutta la musica anni ‘80 mista ad un heavy direttamente proiettato nel futuro e a trovare proprio in questo full-lenght le basi per centinaia di gruppi dell’epoca e non. Band etichettata principalmente come prog metal band ma che ha cambiato pelle ad ogni uscita, sfoggia una destrezza nel danzare tra un genere e l’altro senza timore. Complessivamente il sound di Rage For Order è accostabile ad Empire ma in modo molto più cattivo, ricercato e meno diretto, nonostante sia passato di mezzo l’amatissimo e incontrastato capolavoro Operation Mindcrime che ha stravolto la storia ed appassionato legioni di fan. Le basi qui riscontrate sono un hard rock raffinato e ricco di contenuti contornato da un’attenzione agli arrangiamenti senza fine. Il protagonista dell’album è senza dubbio Geoff Tate cantante dalla voce eccellente e dal carattere intriso in ogni singola nota.

L’album non presenta nessun cedimento, nemmeno ad osservarlo con il microscopio; l’opener Walk In The Shadows mette in campo il meglio che possono proporre i Queensryche con dei testi molto meno complicati del già citato Operation Mindcrime ma potentissimi per impatto senza raggiungere a tutti i costi vette altissime; Chris De Garmo ovviamente ci mette il suo e sappiamo che quando si impegna ha veramente pochissimi rivali (non ci riferiamo alla velocità, nella quale Chris mostra comunque tutta la sua tecnica, ma nell’arte e nella disinvoltura con cui unisce note e crea melodie immortali). Anche la presenza di ritornelli in vista, fattore ripreso solo due album dopo ed abbandonato nel successivo concept-album, convince ed appassiona; non ci sono scuse, un ottimo cantante riesce a tradurre la musica in emozioni con la forza di un respiro. I Dream In Infra-red è la canzone che più di tutte riprende lo stile “Queensryche” conservandolo più a lungo, mentre The Whisper apre il sipario ad un riff intricato ed appassionante che dà alla luce un tempo fresco e studiatissimo. Il power la fa da padrone mentre le chitarre si destreggiano a seminare note avvolgenti; quel “listen” urlato con rabbia e convinzione è proprio ciò che viene richiesto ai fan, ma inteso nel doppio senso della sua traduzione perché la musica può essere ascoltata ma anche sentita.

L’atmosfera cambia con Gonna Get Close To You: le chitarre cuciono una trama intricatissima che fa da cornice all’intero brano, un muro invalicabile in cui Geoff dirige egregiamente il combo ed interviene senza uno struttura precisa ma solo quando il suo cuore batte più forte diventando davvero rovente quando Eddie Jackson entra con un basso groove che penetra dentro e spiazza qualsiasi mente pazza all’ascolto. Il bridge enfatizza ancora più l’anima cupa della track vendendo claustrofobia a manetta e trasmettendo sensazioni uniche. The Killing Words apre con una tastiera molto anni ’80 ma i riff fanno ingresso e lanciano nel tunnel dei novanta il brano, la voce strozzata dal pianto esprime il dolore di una storia finita. Ogni singola nota trasuda disperazione, senza nessuna forma di conforto ma sputato in faccia a chi, debole di cuore, non riesce ad accettare la realtà. Il titolo in effetti l’aveva preannunciato. È solo Surgical Strike che rimette in careggiata il combo ed esprime tutta la compattezza di cui solo i Queensryche sono portatori, mentre Neue Regel si lancia in un riff acustico complesso in una sua suddivisione con un sound profondamente hard rock; anche qui, come in tracce precedenti, la simbiosi che assiste la sezione ritmica crea una crepa rispetto al resto della song che procede strafottente con le due guitar quasi l’una la mente dell’altra, ed un Geoff straordinario. Si aggiunge un coro azzeccatissimo ed il tipico sound della band che non ha bisogno di essere commentato. Gli assoli come sempre giungono irruenti all’interno del brano e spazzano via la pesantezza delle parole e dei tempi facilmente suonati.

È Chemical Youth che avvolge il sorpreso ascoltatore in più calde sfuriate di riff e rullanti, le linee vocali si intrecciano come se il brano fosse semplice da digerire mentre il tutto è in continuo mutamento intorno a noi. Una strofa parlata spezza la canzone, un assolo pronunciato di batteria con un flangers molto kissiano lo copre, un De Garmo ispiratissimo e floidiano come non lo è mai stato, un sapore unico che solo Rage For Order sa dare. Ma il vero dolore, il sacrificio umano senza ricorrere a mezzucci blasfemi, deve ancora giungere. Ed è London che a voce bassa splende uno stato da rianimazione latente, una sferzata di aria del doppio assolo ed il tutto diviene molto più power e mai epico anche se molto atmosferico. La voce sale, i sogni si realizzano in un luogo per noi nuovo ma molto ben raffigurato dai cinque, gli scatti delle chitarre continuano come colpi di spada diretti al petto, il sacrificio non è terminato. Screaming In Digital, anch’essa con un tempo intricatissimo, un basso “effettato” allo sfinimento, vuole essere a tutti i costi protesa nel futuro fino a quando la strofa piena non raggiunge lidi ben conosciuti. Complesso e coraggioso come brano, cupo e sanguinante senza essere ruffiano, ben delineato l’assolo in classico stile heavy metal; il tutto ripreso in I Will Remember un brano acustico con un refrain struggente e mentre Geoff esprime tutta la sua amarezza i riff si intrecciano ed amplificano il proprio urlo e il brano termina con un senso di rammarico, un altro capolavoro è terminato.

Un album da non perdere, consigliata la versione rimasterizzata in cui è presente anche Gonna Get Close To You 12” version, The Killing Words (totalmente stravolta e molto più intimista) e Walk In The Sadows versione live (ancora più catchy dell’originale) ed una versione acustica di I Dream In Infrared. Spettacolo.

Autore: Queensryche Titolo Album: Rage For Order
Anno: 1986 Casa Discografica: EMI
Genere musicale: Prog Metal Voto: 9
Tipo: CD Sito web: http://www.queensryche.com
Membri band:

Geoff Tate – voce

Chris De Garmo – chitarra

Michael Wilton – chitarra

Eddie Jackson – basso

Scott Rockenfield – batteroa

Tracklist:

  1. Walk In The Shadows
  2. I Dream In Infrared
  3. The Whisper
  4. Gonna Get Close To You
  5. The Killing Words
  6. Surgical Strike
  7. Neue Regel
  8. Chemical Youth (We Are Rebellion)
  9. London
  10. Screaming In Digital
  11. I Will Remember
Category : Recensioni
Tags : Album del passato, Progressive, Queensrÿche
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