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09th Set2011

The Doors – Strange Days

by Tiziana

 

“Oh grande creatore dell’essere
concedici ancora un’ora
per esibire la nostra arte
e perfezionare le nostre vite
Le falene e gli atei sono doppiamente divini
e stanno morendo”

An American prayer – Jim Morrison (1970)

La copertina di Strange days colpisce molto. Infatti, risulta in netto contrasto con quella dell’album precedente, ovvero il primo e omonimo della band, The Doors. Ma sembra che Morrison in persona fosse irremovibile sul fatto di non voler apparire fisicamente nella cover, così William S. Harvey pensò ad un gruppo di circensi, ripresi nelle strade di New York City.
L’album, un autentico capolavoro che dopo la sua uscita nel 1967 divenne ben presto disco d’oro, a livello commerciale non fu considerato un successo. E sembra che questo causò l’inizio della profonda crisi dalla quale Jim Morrison non si riprese mai completamente.

Indipendentemente dai dati di vendite, la realtà è che ognuna delle dieci tracce di quest’album è un vero gioiello, nessuna esclusa. Psichedelia pura in tutte, poesia e cultura, ma anche ribellione, sesso, magia: il “cocktail mortale” che rende la musica dei The Doors così innovativa, potente e misteriosa. “Verso una strana notte di pietra” … Sembra un luogo mistico, nel quale Jim intende portarci proprio a cominciare dal primo, trascinante brano che dà il nome all’album. Una lenta melodia, scura come le tenebre, nel video ufficiale Strange Days è la musica di una realtà surreale, distorta, che parte proprio dalla copertina dell’album. I personaggi del circo iniziano infatti ad animarsi… Alla fine ne viene fuori un “ritratto psichedelico” della società americana di fine anni ‘60 e il senso di frustrazione sessuale e religioso di quel periodo, la crisi d’identità giovanile. Ma anche la follia di Morrison, che aleggia per tutto l’album, in ogni pezzo ce n’è un po’.
Love Me Two Times è la più ballabile, orecchiabile. Con il motivo che ti entra nelle orecchie e si impadronisce dei tuoi piedi. Adorabile, porta impresso il marchio The Doors.
Un’interessante chiave di lettura di Unhappy Girl si potrebbe trovare nella famosa intervista a Jim Morrison di Lizze James (1968): “…Se si rifiuta il proprio corpo, esso diventa la propria cella di prigionia. E’ un paradosso: bisogna andare oltre i limiti del corpo, ci si deve immergere in esso, si devono spalancare i propri sensi… Non è così facile accettare il proprio corpo – ci hanno insegnato che il corpo è qualcosa da controllare, da dominare, processi naturali come pisciare e cagare sono considerati sporchi… Le tendenze puritane muoiono lentamente. Come può essere liberatorio il sesso se in realtà non si vuole toccare il proprio corpo, se si tenta di eluderlo?”

La prigione dove sta morendo, un luogo nella sua mente, costringe la ragazza a restare sola con sè stessa, a perdersi. Jim la esorta a volare via, a nuotare nel mistero: perchè nel sesso, nella psichedelia  può esserci la salvezza. Moonlight Drive è una delle prime canzoni della band, la prima composta quando si formò a Venice Beach nel 1965: la voce si fonde quasi completamente con la chitarra e ci regala poesia pura perchè “…è facile amarti quando ti vedo scivolare/precipitando attraverso foreste bagnate/nella nostra passeggiata al chiaro di luna…”. E’ impossibile non innamorarsi di questo pezzo, non sentirne l’anima doorsiana, la profondità. In un’intervista del 1981, divenuta poi parte del documentario “No One Here Gets Out Alive: A Tribute to Jim Morrison”, Ray Manzarek lo definisce così: “Jim era uno sciamano. Era posseduto da una visione, da una follia, da una rabbia di vivere, da un fuoco divorante che lo spingeva verso l’arte…”. Ed infatti, nella bellissima People are Strange la genialità di Jim prende forma, si avverte quanto egli stesso fosse consapevole della sua unicità, del suo carisma e quanto questo suo lato irresistibile gli stesse stretto. Si coglie la sua sensazione di essere fuori luogo, in un mondo non adatto a coglierne la modernità, a capirlo fino in fondo.

Infine, la bellissima When The Music’s Over, eterna e innovativa come nessuna: il rock psichedelico si evolve e diviene progressive, “l’urlo della farfalla” simboleggia la ribellione, la forza di una generazione che viene soffocata ma è viva. Jim sembra esortare ad un vero e proprio ritorno alle origini e dopo la Resurrezione, tutto fluisce più leggero verso la fine. Quella fine che lui cercava freneticamente: “ …La gente ha paura della morte, e più ancora del dolore. E’ strano che abbia paura della morte. La vita ferisce molto di più della morte. Al momento della morte, il dolore è finito. Sì, credo che sia un’amica…”

Autore: The Doors Titolo Album: Strange Days
Anno: 1967 Casa Discografica: Elektra Records
Genere musicale: Psychedelic rock Voto: 9
Tipo: vinile Sito web: www.thedoors.com
Membri band:

Jim Morrison – voce

Ray Manzarek – tastiera

Robby Krieger – chitarrista

John Densmore – batterista

Tracklist:

  1. Strange Days
  2. You’re Lost Little Girl
  3. Love Me Two Times
  4. Unhappy Girl
  5. Horse Latitudes
  6. Moonlight Drive
  7. People Are Strange
  8. My Eyes Have Seen You
  9. I Can’t See Your Face In My Mind
  10. When The Music’s Over
Category : Recensioni
Tags : Album del passato, The Doors
2 Comm
09th Set2011

Figli del Papa – Pelo

by Marcello Zinno

Ci sono alcuni generi, alcune sonorità che sono di confine, da spartiacque tra mondi molto diversi, a volte in conflitto tra loro. Chi ricorda gli Aerosmith duettare con i Run DMC sa cosa intendiamo: un rischio, una scelta coraggiosa, incomprensibile per alcuni perchè mischia target di pubblico e percorsi musicali molto diversi, all’avanguardia per altri. I Figli del Papa per alcuni versi ricalcano queste gesta presentandosi come una band rapcore ma nascondendo molto di più sotto la propria pelle: un crossover molto elettrico, con tanto di band a cinque membri mai relegata a figura secondaria, ma anzi protagonista nella costruzione del suono. Certo non è il primo sperimento di commistione tra rock e rap (lo stesso J-Ax ci provò anni fa seppellendo gli Articolo 31 e formando una propria band con tanto di strumenti reali al seguito) e per alcuni versi i Figli del Papa sembrano strizzare troppo l’occhio ai Limp Bizkit di Fred Durst, però è da riconoscere il coraggio del progetto.

I modenesi prendono le distanze dalle basi “scratchate”, tutto disco e dj, e cercano di lanciare le influenze hip hop verso lidi mai immaginati: bassi profondi, ritmi in 4/4 e chitarra assolutamente in prima linea, tutti ingredienti in chiaro stile rock. Ed i testi rappati alla Rage Against The Machine colorano ancora di più la proposta musicale di questi cinque giovani artisti, che sapientemente bilanciano creatività ed estro con idee chiare e ritmi cadenzati. Un pò i Fabri Fibra del Rock, rendono chiaro il proprio copione fin dalla seconda traccia e riescono anche a proporre una ballad, Nebbia, che sembra uscita da una band mainstream di buon livello, inspiegabile come nessuna etichetta si sia interessata alla loro proposta musicale. Non è banale balzare dai ritmi lenti dell’intro di Supervivo a F.D.P., uno sforzo che nasconde complessità compositive e tanta varietà, fonte limpida dei giovani artisti. Ascoltare il brano Pelo per credere…rap? Crossover? Post-rock? Sovraincisione di idee, piattaforma di registrazioni che esalta la voce mentre cita il mondo dell’heavy metal ed il riffing secco in sottosfondo tradisce il tutto. Una sperimentazione davvero piacevole, così come la mezza traccia nascosta, da ascoltare!

Una band per persone prive di pregiudizi musicali.

Autore: Figli del Papa Titolo Album: Pelo
Anno: 2011 Casa Discografica: Autoprodotto
Genere musicale: Crossover Voto: 6,5
Tipo: CD Sito web: www.myspace.com/figlidelpapa
Membri band:

GkA – voce

Bello Emsi – dj & vst

Billnoise – chitarra

Pinny – basso

Chiò – batteria

Tracklist:

  1. Molto Underground
  2. F.D.P.
  3. Sotto A Chi Tocca Sotto
  4. Milvane
  5. Nebbia
  6. Supervivo
  7. Gli Occhiali Da Sole
  8. Pelo
Category : Recensioni
Tags : Crossover
0 Comm
09th Set2011

Pantera – Far Beyound Driven

by Marcello Zinno

L’apice, il punto più alto. Ma non per altezza assoluta, bensì come ultima perfetta danza di un gruppo che ha dato tanto, prima di dirottare le proprie menti acide verso terre quasi inesplorate. Far Beyound Driven rappresenta il tassello mancante alla coppia Cowboys From Hell/Vulgar Display Of Power, l’ossigeno trattenuto nei propri polmoni prima dell’irriverente esalazione di un grind dai sapori glaciali con il successivo The Great Southern Trendkill. Gli ingredienti sono gli stessi ormai rodati dalla band fin dall’ingresso del carismatico e folle singer: potenza, adrenalina, sludge sporco, riff ruvidi e tossici imbevuti di impacchi doom, e groove a manetta! Ma lo stupore sta proprio nelle idee sviluppate in queste 12 tracce senza modificare di una molecola il sound.

Le capacità di Darrell sembrano bandierine fittissime su una cartina geografica priva di strade, così come il suo approccio all’heavy risulta essere privo di schemi e di regole; Anselmo cambia attitudine, a partire dalla immortale 5 Minutes Alone cantata con voce rauca e barbara fino alla parlata Good Friends And A Bottle Of Pills in cui il nostro racconta ad un amico (nemico?!) come ha violentato la sua ragazza e quanto si eccitava immaginando che fosse spiato (per non parlare di Becoming in cui probabilmente si attesta una delle miglior fonti di ispirazione di Corey Taylor). La frase urlata “I serve too many masters” la dice lunga sulla rabbia intenzionalmente sprigionata dal portavoce.

5 Minutes Alone rappresenta proprio l’immagine di questa opera in cui la forza sprigionata dalla musica ha il merito di risultare pari a quella emanata dai testi, crudi, praticamente spiaccicati in faccia a chi ascolta; e quel pizzico marcio ed amaro di melodia che si vuole iniettare in quel dannato ritornello, risulta ancora più doloroso ed insapore. Quando si giunge alla fine sembra quasi di sentire un riff in stile AC/DC pur annegato in una cisterna di grasso. All’intro di I’m Broken si catapultano nella nostra mente i Rage Against The Machine, ma soprattutto quello che saranno gli Audioslave, quando poi il vero cuore della song inizia a scalpitare l’incubo ha inizio! I riff stoppati creano una campana di vetro, frantumata dall’ingresso dell’assolo privo di chitarre di accompagnamento (per dare un’anima live al pezzo); le urla in sottofondo al termine potrebbero impressionare un gruppo black metal, mentre il refrain si attacca alle ossa.

Ma lo stupore non finisce, non prima dei vari slide d’effetto di Darrell, dei cambi di tempo su Hard Lines, Sunken Cheeks e dell’introduzione di qualche parte lenta/melanconica ritrovata poi nell’album successivo. E di qui tutto in salita lungo una Slaughtered in piena inondazione grind-core con delle scariche di mitra che, senza avvisare, distruggono le cellule non sacrificate in precedenza; una spaventosamente cadenzata 25 Years che assume forme diverse proprio come un impasto di gelatina e nasconde un’aria tetra e spettrale che addirittura poche epic songs sono riuscite a raggiungere. E la diversità non ha fine, ogni fottuto rigo del pentagramma di questo album è così diverso ma pur sempre uguale per approccio a se stesso che sembra strano quanto potesse essere distruttivo e sorprendente, ancora oggi. Shedding Skin è la canzone in cui Anselmo esprime maggiormente la sua elasticità vocale, senza mettere in ombra una sola corda vibrante nè il fantastico Vinnie Paul, costantemente ultra-preciso, quasi stesse frazionando un atomo. I tamburi entrano dentro e si sente la loro eco all’interno della nostra cassa toracica mentre il basso sprofonda sotto l’egemonia dei riff di chitarra, i tempi sono davvero pensati, variegati e dispa(e)rati nella stessa misura.

Ma la lacrimuccia scorre involontaria all’ascolto dell’ultimo pezzo: Planet Caravan cover dei Black Sabbath dei tempi di platino di Paranoid. Anselmo cerca di ricostruire la stessa atmosfera, inserendo una forte dose di malinconia e di tristezza, ma suona ovviamente diversa. La voce di Ozzy sembrava incastonata in quel diamante a forma di pianeta e non può che farci ricordare i vecchi tempi; il tocco di Darrell invece ci fa sentire il sangue scorrere ed i muscoli tremare.

Così termina non solo un album ma anche un periodo stupendo nella storia di un gruppo che ha fatto storia.

Autore: Pantera Titolo Album: Far Beyound Driven
Anno: 1994 Casa Discografica: Atlantic
Genere musicale: Death metal Voto: 8,5
Tipo: CD Sito web: http://www.officialpantera.com/
Membri band:

Philip Anselmo – voce

Dimebag Darrell – chitarra

Vinnie Paul – batteria

Rex – basso

Tracklist:

  1. Strength Beyound Strength
  2. Becoming
  3. 5 Minutes Alone
  4. I’m Broken
  5. Good Friends And A Bottle Of Pills
  6. Hard Lines, Sunken Cheeks
  7. Slaughtered
  8. 25 Years
  9. Shedding Skin
  10. Use My Third Arm
  11. Throes Of Rejection
  12. Planet Caravan
Category : Recensioni
Tags : Album del passato, Pantera
0 Comm
09th Set2011

Slipknot – Vol.3: The Subliminal Verses

by Marcello Zinno

Uno dei gruppi più discussi della scena metal, gli Slipknot, sono giunti qualche tempo fa alla loro terza fatica. In effetti i nove musicisti dopo aver dichiarato di voler indossare delle maschere al solo scopo di valorizzare la loro musica in quanto tale e per non divenire semplici visi famosi osannati dai propri fan (sono sempre stati contrari alle regole dello spettacolo e del successo), si sono tuffati (appena sciolta l’ebbrezza del loro secondo album Iowa) in progetti paralleli per lo più “a volto scoperto” spalancando alla luce del sole le loro identità e spiazzando così il pubblico (il successo maggiore lo hanno riscosso il batterista Joey Jordison con i Murderdolls e l’accoppiata Taylor/Root con gli Stone Sour). Che che se ne dica sono al centro di ogni questione anche in merito al genere musicale: molti lo etichettano come generico nu metal in cerca di vendite, altri vi vedono dei punti di attenzione maggiore. Ascoltando questo terzo piece in effetti è emersa la matrice nu metal del combo, ma vanno riconosciuti anche dei grossi pregi in termini di arrangiamenti qua e là usati davvero con cognizione di causa: gli Slipknot, infatti, hanno da sempre vantato l’aggiunta di campionamenti/samples, dj, percussionisti e gran parte degli ingredienti che sono estranei al concetto tradizionale di heavy metal.

L’album si apre con Prelude 3.0 traccia pseudo-dark, ma è solo con The Blister Exists che si carpisce il filo conduttore tra il passato della band e questo The Subliminal Verses. Three Nil è invece il primo punto di svolta, concentrato e heavy come non mai, probabilmente il pezzo migliore di questa uscita, che intende, senza stravolgere le abitudini di vita della band, innalzare la resistenza fisica richiesta per far fronte al loro sound. Duality è il singolo che insieme a Before I Forget molto ha fatto parlare per l’approccio semplicista soprattutto nella parte del ritornello, canticchiabile, nonostante la prima contenga dei riff molto Pantera-style, ruvidi e duri. Riff accattivanti e ritornelli orecchiabili sembrano gli ingredienti dei singoli di questo album (forse volutamente cercati?!) che fanno storcere il naso a più di un fan.

Opium Of The People invece parte con una grandissima lezione targata System Of A Down, ma anche per essa il vero cuore pulsa di arrangiamenti più che di “struttura-canzone”: cambi di tempo e varianti rafforzano il lavoro di squadra del gruppo. Circle è una vera e propria ballad, quasi insignificante nel contesto, mentre Welcome ripercorre il letto del fiume solcato dai nove musicisti, senza aggiungere nulla, se non fosse per i due assoli brevi ma potenti.

Vermillion che si apre con un Corey Taylor che strizza l’occhio al reverendo Manson (il musicista si intende), vuole allontanarsi dalla durezza fredda degli altri pezzi, non tanto per i riff che comunque tengono un impatto alto, ma per i tempi ben più cadenzati. Bridge e ritornello, anche se di più facile interpretazione, catturano ed anche il drumming continuo e preciso infuoca, senza per questo dover raggiungere velocità supersoniche (forse questo brano potrebbe rappresentare la vera evoluzione della band). Ma il tutto si spezza lentamente, giusto il tempo di due tracce intermittenti e lo spettacolo di Vermillion riprende, in una seconda parte. Artefici dell’interruzione sono Pulse Of The Maggots unica con il suo incedere sicuro e desertico, ricca di convinzioni, priva di illusioni così come ognuno di noi a questo punto dell’album, conscio di avere davanti una band che sa usare le proprie armi (ma nel modo giusto?!); la doppia grancassa strizza l’occhio ai samples in sottofondo mentre si apre la già citata Before I Forget con la sua strofa mitragliante ed il suo incedere molto nu metal.

The Nameless con la sua anima molto rappata mentre le chitarre viaggiano in autonomia, ci “rispiazza” con una parte lenta quando una pioggia di sassolini ci investe prima di chiudere il sipario. The Virus Of Life priva di carattere e la lenta e cantata Danger – Keep Away chiudono questo capitolo che vorrebbe rappresentare una sperimentazione toccando sonorità lontane dalla filosofia Slipknot. Peccato che si tratta di sonorità molto più lente e dolci (?!) rispetto agli esordi.

Autore: Slipknot Titolo Album: Vol.3: The Subliminal Verses
Anno: 2004 Casa Discografica: Roadrunner Records
Genere musicale: Nu metal Voto: 6
Tipo: CD Sito web: http://www.slipknot1.com/
Membri band:

#0 Sid Wilson – dj

#1 Joey Jordison – batteria

#2 Paul Gray – basso

#3 Chris Fehn – percussioni

#4 James Root – chitarra

#5 Craing Jones – samples

#6 Shawn Crahan – percursioni

#7 Mick Thomson – chitarra

#8 Corey Taylor – voce

Tracklist:

  1. Prelude 3.0
  2. The Blister Exists
  3. Three Nil
  4. Duality
  5. Opium Of The People
  6. Circle
  7. Welcome
  8. Vermillion
  9. Pulse Of The Maggots
  10. Before I Forget
  11. Vermillion Pt.2
  12. The Nameless
  13. The Virus Of Life
  14. Danger – Keep Away
Category : Recensioni
0 Comm
09th Set2011

Queensryche – Dedicated To Chaos

by Marcello Zinno

Una cosa deve essere chiara fin dall’inizio: un album dei Queensryche è molto difficile da inquadrare. Basti ascoltare Empire e Promise Land per stentare a credere che si tratti della stessa band dietro gli strumenti (d’altra parte anche Geoff Tate risulta irriconoscibile se visto oggi ed ai tempi di Rage for Order). È pur vero che una delle rarissime band di Seattle a non suonare grunge ha negli ultimi anni perso il mordente heavy principalmente a causa della dipartita di Chris DeGarmo, eccellente chitarrista e compositore, lasciando tutte le redini del gioco al duo Tate/Rockenfield (talvolta aiutato da Wilton). Un serpente che cambia pelle è difficile da riconoscere e l’errore di scambiarlo per innoquo è dietro l’angolo. Lo stesso vale per questo Dedicated To Chaos che al primo ascolto sembra essere figlio unigenito di quel blando American Soldier che tanto aveva fatto disperare i fan. La verità è che ci sono varie sorprese ben camuffate: dimenticate i pezzi diretti tipo Warning poggiati su un riff di chitarra ed immergetevi in composizioni più intricate per il semplice fatto che a comporle non compare un chitarrista ma la mente di Tate che guitarman non è. Intricate ma non complesse, anzi le tracce risultano scorrevoli (forse troppo) e di facile appiglio, orecchiabili ma non intuitive.

Un esempio per tutti è Retail Therapy che ben rappresenta il disco: i Queensryche del nuovo decennio risultano essere poco metal (a parte qualche schizzo qua e là) e molto riflessivi, seppur non profondi: hanno di nuovo cambiato pelle, questo è il fatto, e che piacca o no bisognerebbe interpretare quanto di buono questa ennesima metamorfosi può regalarci. Around The World è un pezzo piacevole, nel quale Geoff si sente a suo agio e ciò si avverte subito, arricchendo un lavoro molto attento di chitarre ed arrangiamenti seppur volti a trasformare il brano in singolo da radio; Higher (il titolo la dice lunga) è uno dei pezzi più alti dell’album, che richiama il groove presente in Empire ma facendolo con classe e non sfruttando l’appiglio hard rock (in alcuni casi sembra ricordare il sax che elogiava i pezzi di Chameleon degli Helloween, anch’esso un album di alt(r)o rango per la band) con un assolo davvero ben fatto ed un basso finalmente “alla Jackson”; lo stesso groove si presenterà in Drive per smuovere gli animi e spingere le pulsazioni ad un’accellerazione senza controllo pur non usando tempi da hardcore, mentre la medesima eleganza si ripresenterà in Wot We Do che grazie agli arrangiamenti risulta elaborato e stuzzicante.

Ma non è tutto oro quello che luccica (seppur non subito): Got It Bad risulta discutibile, eccessivamente “voce-centrico”, un pò come la quasi orchestrale Broken, un brano forzatamente ballad ed eccessivamente teatrale; I Believe, a parte per il contributo ritmico piacevole, non aggiunge niente se non rallentare il passo di una “non-corsa”, di una gita che sembra talvolta lasciarci senza mutamenti, spostandoci ma senza trascinarci realmente in nessun luogo. Questa è la sensazione che si prova anche con I Take You, dall’apparenza dura ma meno pericolosa di una lucertola (altro che serpente!).

La vera domanda è: ma da una band con queste capacità compositive e creative qual è la direzione che si aspetterebbe? È proprio questa?

Autore: Queensryche Titolo Album: Dedicated To Chaos
Anno: 2011 Casa Discografica: Roadrunner Records
Genere musicale: Rock Voto: 5,5
Tipo: CD Sito web: www.queensryche.com/
Membri band:

Geoff Tate – voce

Michael Wilton – chitarra

Eddie Jackson – basso elettrico, voce

Scott Rockenfield – batteria e tastiere

Parker Ludgren – chitarra

Tracklist:

  1. Get Started
  2. Hot Spot Junkie
  3. Got It Bad
  4. Around The World
  5. Higher
  6. Retail Therapy
  7. At The Edge
  8. Broken
  9. Hard Times
  10. Drive
  11. I Believe
  12. Luvnu
  13. Wot We Do
  14. I Take You
  15. The Lie
  16. Big Noize
Category : Recensioni
Tags : Queensrÿche, Rock
0 Comm
09th Set2011

Amplifier – The Octopus

by Marcello Zinno

Un’idea probabilmente geniale, una di quelle che qualsiasi discografico del mondo boccerebbe senza pietà (e già questo fa intuire quanto sia geniale): un album senza titolo, senza nome della band, senza alcuna scritta che riporta la benché minima informazione del contenuto della confezione. Un logo bianco, su uno sfondo nero pece, che a tratti rimarca i tentacoli di un grosso polipo, con un capo piccolo e ramificazioni che somigliano a numerose chiavi di violino. Aperta la confezione ci troviamo dinanzi una specie di doppio EP (?!) che poi, alla luce della lunghezza dei brani, si trasforma in un doppio album, suddiviso in due parti, ognuna costituita da otto tracce. Ma le soprese non sono terminate perché dietro quella che è la “band canonica”, composta da 3 o 4 membri, ognuno per uno degli strumenti che Dio Rock ha portato sulla Terra, ci troviamo una lista di dieci musicisti, senza considerare gli artisti dediti al “lavoro sporco” (produzione, mixing…).

Un rock intenso, celebrale ma per nulla cervellotico, solo talvolta intransigente ed elettrico (Interglacial Spell), quasi sempre figlio del post-metal (A Perfect Circle, Opeth, Isis) pur non essendo mai metal. Le molteplici mani che sorreggono questo lavoro, proprio come i tentacoli del polipo in copertina, si notano tutte: per nulla un lavoro diretto né scontato, The Octopus cerca di mostrare varie sfumature altalenando doppie voci, melodie cupe quanto basta da non sconfinare nella tristezza, parti di forte richiamo floydiano (come la bellissima Trading Dark Matter On The Stock Exchange, floydiana anche nel titolo, controverso per presentare un brano), ed una matrice radicalmente inglese.

Semplici come gli Eels, sperimentali come i Motorpsycho, variegati e artistici come fossero un gruppo progressive, gli Amplifier sembrano crearsi una bolla d’aria entro la quale sperimentare suoni ed accordi e fuoriuscirne molto raramente (esempio Fall Of The Empire) per dare sfogo ad un’energia che altrimenti rischierebbe di implodere e far svanire in un istante la bolla stessa.

C’è una certa linearità tra i due album fatta di composizioni, di linee musicali, tavolta orientaleggianti, incastrate in un brano che fanno da trademark e lo conducono fino al suo fader finale, linearità però che spesso non esiste tra una traccia e la sua successiva cosicché è difficile immaginare dove vogliono arrivare gli Amplifier ma, emotivamente, diviene facile comprenderne il percorso. Un percorso tutto da gustare.

Autore: Amplifier Titolo Album: The Octopus
Anno: 2011 Casa Discografica: Ampcorp
Genere musicale: Rock Voto: 7,5
Tipo: CD Sito web: www.amplifiertheband.com/
Membri band: 

Sel Balamir – voce, chitarra

Matt Brobin – batteria

Neil Mahony – basso

 

Tracklist: Disc 1

  1. The Runner
  2. Minion’s Song
  3. Interglacial Spell
  4. The Wave
  5. The Octopus
  6. Planet Of Insects
  7. White Horses At Sea // Utopian Daydream
  8. Trading Dark Matter On The Stock Exchange

 Disc 2

  1. The Sick Rose
  2. Interstellar
  3. The Emperor
  4. Golden Ratio
  5. Fall Of The Empire
  6. Bloodtest
  7. Oscar Night // Embryo
  8. Forever And More
Category : Recensioni
Tags : Rock
0 Comm
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