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24th Gen2020

Intervista agli Atom Made Earth

by Marcello Zinno
Gli Atom Made Earth sono tornati con un nuovo album, Severance, (di cui abbiamo parlato a questa pagina) che ha definito una certa evoluzione nel sound della band. Sperimentali, progressive e alternativi: cifre stilistiche che accomunavano anche i precedenti lavori ma che in Severance vengono a galla in modo diverso. Per questo motivo abbiamo deciso di fare due chiacchiere con loro e farci raccontare un po’ il progetto direttamente dai loro protagonisti.

R.G.: Ciao ragazzi, presentatevi innanzitutto a chi tra i nostri lettori non vi conosce ancora.

A.M.E.: Ciao, siamo gli Atom Made Earth e facciamo psichedelia, ascoltate il nostro ultimo lavoro Severance.

R.G.: È stato un lavoro duro per noi approfondire tutte le sfumature del vostro sound e i generi musicali toccati. Al di là di quello che avete letto, anche tramite recensioni di altri magazine musicali, come potreste descrivere voi il vostro genere? Quali influenze incorporate?

A.M.E.: Il nostro sound è un calderone di musica psichedelica, fondamentalmente, cercare di etichettare il tutto sarebbe davvero un peccato. Le influenze che vengono coinvolte nel nostro modo di vedere il songwriting, sono una vasta fascia di generi e sottogeneri a cavallo tra gli anni ‘50 ed il wall of sound dell’ultimo ventennio. Il peccato mortale di questo discorso però è che appena viene individuato qualcosa di ispirazione dal passato o dal presente che sia, il lavoro viene associato quasi totalmente a quel tipo di audio, anche solo per uno sprazzo di pochi secondi in rapporto ad un disco intero, andando a contaminare purtroppo il giudizio globale del lavoro; avendo noi un sound molto variegato può capitare questo in alcuni casi, forse per orecchie meno esperte o ascolti un po’ troppo sbrigativi.

R.G.: Cosa vi ha spinto a creare un progetto come gli Atom Made Earth?

A.M.E.: Cercare di essere molto liberi e onesti con noi stessi nella composizione e nel gesto comunicativo nei confronti di chi ascolta, senza andare a forzare con preconcetti strutturali e sociali il contenuto dei lavori che scriviamo.

R.G.: Una curiosità che abbiamo fin dal primo vostro lavoro: come mai la scelta del nome Atom Made Earth? Ed è voluta la somiglianza con uno degli album di rock psichedelico più famoso della storia?

A.M.E.: Purtroppo è un nome che ha creato molti pregiudizi verso i nostri lavori, andando ad accostare qualsiasi cosa componessimo ai Pink Floyd, anche avessimo fatto death metal probabilmente. Non nascondiamo di ammirare molto la musica floydiana (come la stragrande maggioranza dei gruppi in ambito psichedelico) e di esserne ispirati tanto quanto con i Beatles e mille altri gruppi. Anche se l’ultimo lavoro ha veramente poco di floydiano, ma ognuno ci sente quel che può, ed è giusto e bello che sia così. Una parte dell’ispirazione deriva dalla poesia ‘X Agosto di Giovanni Pascoli che descrive il nido come riparo dalla vita dolorosa che ci attende là fuori, nel nostro caso il progetto musicale che ci ”protegge” dai dolori e ci fa raccontare tramite le composizioni il nostro modo di vedere il mondo (Atomo opaco del male). Altra ispirazione è il concetto di genesi della terra da parte dell’atomo, che in questo caso viene idealizzato come il principale “start”che dà il via alla creazione del pianeta; il concetto trattato è che da una cosa infinitamente piccola può nascere il tutto.

R.G.: Da poco avete pubblicato il nuovo album “Severance”. Quanto è stato difficile concepire e registrare un album come questo?

A.M.E.: Non difficile ma molto impegnativo, è un lavoro molto strutturato e con tante sfumature, l’unica cosa difficile è stata la transizione dai vecchi componenti ai nuovi, nel momento in cui l’album era in fase di scrittura.

R.G.: Di più o di meno dei vostri precedenti lavori?

A.M.E.: Più difficile dal punto di vista strutturale e da quello audio.

R.G.: Siamo nell’epoca delle “cose veloci”. Per certi versi c’è meno attenzione rispetto al passato ad approfondire, ad ascoltare con calma musica sovrastrutturata. Perché secondo gli Atom Made Earth è ancora importante proporre una certa visione sperimentale della musica?

A.M.E.: La cosa importante crediamo sia proporre quello che si è, che si pensa e che si vuole comunicare. Il nostro modo è questo, ed è la nostra visione sonora e umana del mondo, dello spazio, della psiche e di tutto quello che trattano le nostre canzoni. Poi il ”come si fa” è a discrezione dell’artista, tutto è lecito e tutto è interessante se ha un percorso di realizzazione ragionato, istintivo, o didattico; che sia diverso o simile al nostro è solo un fatto di strade percorse e di visione. Le “paraculate” e le scorciatoie sociali non ci interessano, abbiamo tutti un lavoro oltre la musica, chi fa design, chi studia, chi fa marketing…quindi in questo progetto si fa quel che si vuole fare.

R.G.: Qual è il messaggio che volete veicolare tramite la vostra musica?

A.M.E.: Che la vita è piena di significato, pur essendo colma di dolore.

R.G.: Preferite la dimensione in studio o quella dal vivo?

A.M.E.: Amiamo entrambe, anche se forse lo studio stimola più alcuni aspetti dal punto di vista concettuale, mentre i live alcune volte sono meno ricchi di spiritualità e sfoggiano un po’ di superficialità.

R.G.: Da poco ho pubblicato un mini libro che formalizza una critica sul fenomeno del crowdfunding applicato al mondo musicale. Voi che opinione avete a riguardo?

A.M.E.: Per esperienza personale ci sembra una gran minchiata, ma la nostra esperienza è limitata, dato che la musica che facciamo è spesso in posizioni di nicchia, quindi non avendo accesso alla totalità del pubblico, ”la massa”, il discorso diventa molto più limitato. In ambito pop probabilmente sarebbe molto diverso, questo non significa però funzionante.

R.G.: E che idea vi siete fatti della rivoluzione che internet ha comportato alla musica?

A.M.E.: Grande possibilità di comunicazione direttamente proporzionale ad un abbassamento della qualità e della quantità dell’ascolto, nonché del valore assegnato ad un lavoro preso singolarmente, molto penalizzante per chi fa musica leggermente fuori dal diagramma del mainstream o dell’easy listening, ma allo stesso molto utile e funzionante per chi è un musicofilo con gran curiosità.

R.G.: Avrete un 2020 profondamente impegnato nel far conoscere il vostro album tramite concerti vari. Avete già fissato qualche data?

A.M.E.: Abbiamo fatto un concerto di presentazione del lavoro, poi per il resto adottiamo lo stile Beatles del 1966, poco live, molto studio… forse.

R.G.: Grazie ragazzi per la chiacchierata, in bocca al lupo!

A.M.E.: Grazie a voi

Category : Interviste
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21st Nov2019

Intervista agli Opeth

by Antonluigi Pecchia
Dall’uscita del discusso Heritage, gli svedesi Opeth hanno proseguito album dopo album a migliorare il loro nuovo percorso verso i lidi del progressive rock, un sound che si è presentato un po’ acerbo seppur ricco di idee, un po’ vintage sì ma con classe. È passato quasi un decennio dalla loro svolta musicale e lo scorso settembre la band ha pubblicato la sua ultima fatica studio In Cauda Venenum, un disco realizzato per la prima volta in lingua svedese, tradotto anche in versione inglese. Che si ami o si odi questa loro seconda vita, l’album ci ha mostrato una band che ha ancora tante cose da dire e che è riuscita a raggiungere una nuova maturità stilistica. In occasione dell’unica tappa italiana del loro ultimo tour europeo abbiamo incontrato nel backstage dell’Alcatraz di Milano Joakim Svalberg, tastierista della band, per chiacchierare un po’ di questo e di altro, a voi il nostro resoconto.

R.G.: Buon pomeriggio Joakim, bentornati in Italia, come sta procedendo questo tour europeo?

O.: Grazie, il tour sta andando molto bene, ogni sera stiamo avendo dell’ottimo pubblico, un po’ di date sono andate sold-out.

R.G.: Una cosa che ho subito notato è stato il vostro tour plan, come mai solo così poche date in Europa? Sono solo 18 se non sbaglio.

O.: Sai, siamo stati tantissimo in tour negli scorsi anni e c’è da considerare che tre di noi hanno famiglia e quindi abbiamo optato di non intraprendere più tour lunghi, massimo della durata di tre settimane di fila, continueremo ad essere spesso in tour ma per periodi più brevi insomma. Abbiamo trascorso degli anni in cui eravamo per sei settimane in America e subito dopo per otto settimane in giro per l’Europa ed è stato pazzesco! Tutto ciò però non è il massimo per persone che hanno famiglia a casa che li aspetta. Io non ho famiglia, quindi posso star fuori quanto mi pare! (ride, ndr)

R.G.: Parliamo del vostro ultimo “In Cauda Venenum“che ha visto la luce lo scorso settembre, riusciresti a fare una breve introduzione al disco per i nostri lettori?

O.: E’ una domanda un po’ difficile a cui rispondere. Si tratta di un album che non è un vero e proprio concept ma in un certo senso lo è, ci sono diverse connessioni tra i brani anche se non esiste una vera e propria storia alla base del disco, come se fosse una sorta di vibrazione che alle volte ritorna nel corso delle canzoni, attraverso le melodie, che in qualche modo rende tutto connesso. Quest’ultima caratteristica viene anche scandita dall’ordine dei brani che riesce perfettamente a renderli naturalmente legati, dando un senso di continuità all’opera.

R.G.: Mi hai parlato di sensazioni legate alle melodie del disco, io ho notato inoltre che ci sono alcuni temi ricorrenti nei testi del disco e queste sono legate al tempo, ai ricordi…

O.: Voglio essere molto sincero e devo ammettere che io ascolto molto di più la versione svedese del disco, quella inglese effettivamente credo di averla ascoltata una volta o due e l’ho apprezzata ma so che è stato concepito in svedese, anche la demo era in svedese, quindi per me è naturale considerarlo tale, per questo motivo abbiamo deciso di proporre i brani in svedese anche durante i nostri live…

R.G.: Ok, ho apprezzato anche io maggiormente la versione svedese del disco, però giustamente per comprendere i vostri testi faccio riferimento sempre alla versione inglese. Ora fammi capire, sono così diversi i testi tra le due versioni?

O.: Sono un pochino diverse, soprattutto per quanto riguarda il flusso vocale, Mikeal (Akerfeldt, ndr) è stato grandioso nel tradurre tutti i testi perché il significato è rimasto invariato e sai, ha fatto tutto ciò talmente così in fretta che non saprei proprio come sia riuscito a farlo, si stava quasi uccidendo in studio per tutto il lavoro che c’era da fare (ride, ndr).

R.G.: Se tutti siamo d’accordo che la versione perfetta del disco sia quella svedese, allora da cosa è nata l’idea di doverla tradurre in inglese?

O.: Questo lo pensavamo tutti ma Mikeal credeva che le persone non avrebbero ascoltato il disco a causa della lingua e questo sarebbe stato un problema, così ha deciso di realizzarne una versione inglese affinché tutti possano apprezzarlo, anche coloro che non riescono ad ascoltare le band che cantano in altre lingue al di fuori dell’inglese.

R.G.: Ok, ora che è passato un mese dalla sua uscita e quindi avrete già avuto modo di notare il riscontro da parte del pubblico, dovremmo aspettarci di ascoltare un prossimo album ancora in svedese da parte vostra?

O.: Non lo sappiamo ancora, magari proveremo a fare un disco in swahili! (ride, ndr)

R.G.: “In Cauda Venenum“ rappresenta il terzo disco degli Opeth per te.

O.: In realtà sarebbe il quarto se contassimo anche l’introduzione del disco Heritage, quando sono entrato in formazione era l’unica canzone non ancora registrata da Per (Wiberg, ndr). Quindi praticamente ho fatto l’audizione per gli Opeth direttamente in studio, dove per la prima volta ho incontrato Axe (Martin Axenrot, ndr) quando ero già seduto davanti al piano per registrare.

R.G.: Quindi sono ormai passati quasi dieci anni da quando sei parte della band, come pensi sia cambiato il tuo contributo nel processo di scrittura nel corso di questi anni?

O.: Ti dirò, tutto viene composto principalmente da Mikeal tramite un programma che registra file midi tramite computer, lui ha tutte le idee ed è anche molto bravo in questo. Alle volte mi tocca dover cambiare qualcosa in ciò che scrive semplicemente perché ho solo dieci dita a disposizione (ride, ndr), lui non pensa a questa cosa, si concentra solo su come dovrebbe suonare ma ovviamente tutto deve essere suonabile e quindi cerco di adattarlo. Alle volte capita di improvvisare un po’, per esempio in Pale Communion è presente il brano Goblin, lo conosci?

R.G.: Sì, ovviamente, un chiaro tributo ai nostrani Goblin.

O.: Esattamente, lì è contenuto un solo di piano in cui Mikeal mi ha lasciato totalmente spazio di improvvisazione. Fondamentalmente è questa la scuola prog da cui io provengo, fatta buona parte di improvvisazioni, è molto diverso il mio ruolo da quando sono parte di questa band. Si tratta di un lavoro molto più ristretto rispetto a quando suono in altre band in cui ho molto più spazio per i miei soli di piano, con gli Opeth non siamo ancora giunti a fare queste cose, però non importa, quello che conta è produrre delle buone canzoni, quindi focalizzarsi su come devono suonare. Meglio così, non devo nutrire il mio ego! (ride, ndr) Mai dire mai però, può darsi che sul prossimo disco inseriremo più soli di piano oppure magari li inseriremo in qualche canzone live, vedremo.

R.G.: Ritornando ai testi del disco, mi sono reso conto che la parola ‘gioventù’ viene citata spesso, state per caso risentendo del tempo che scorre inesorabile sulle vostre vite e quindi vi sentite vecchi ormai?

O.: (ride,ndr) Io cerco di non pensarci, anche perché sono il più vecchio nella band! Questa è una domanda che andrebbe fatta a Mikeal ma penso che il disco sia fatto di canzoni che parlano di vita e di morte, questa parola viene ripetuta tra le varie canzoni perché rientra in questi territori: gioventù, vecchiaia, guardare al passato e al futuro…

R.G.: Ecco, parlando proprio di futuro. Per il momento cosa prevede il futuro degli Opeth?

O.: Saremo in tour a lungo per la promozione di questo album, dopo aver finito in Europa saremo in Asia e in Australia, ci fermeremo per Natale e riprenderemo a gennaio con tre date in Scandinavia, poi a marzo ci sposteremo in America e in Canada, poi in Sud America per aprile e poi ci dedicheremo ai festival estivi che saranno molti più rispetto a quelli fatti quest’anno, ovviamente per via del nuovo album. Poi sicuramente torneremo di nuovo in tour, credo che i nostri viaggi dureranno per almeno un anno.

R.G.: Avete già parlato di un nuovo album oppure dopo il lungo tour di promozione vi prenderete la pausa che avreste voluto già prendervi in precedenza?

O.: Non ne abbiamo ancora parlato di tutto ciò, sai ora è tempo di lavorare e quindi non ci pensiamo. Io credo che, dopo che avremo finito con questo album, Mikeal vorrà tornare presto di nuovo a comporre perché lui adora farlo, è una cosa che lo rende veramente felice ed ispirato. Mi sorprenderebbe se questo non accadesse! In effetti avevamo in programma di prenderci un anno di pausa che per diversi motivi però non abbiamo avuto, così Mikeal si è presentato un giorno in studio con l’album già scritto ed è stata una cosa positiva perché non ha avuto pressioni nel doverlo scrivere, con questo non voglio dire che i dischi precedenti suonino come se lui avesse avuto pressioni nel doverli scrivere perché ha sempre scritto buona musica, ma il modo in cui si è sentito nel corso della scrittura è stato diverso. Noi tutti abbiamo apprezzato ogni singola canzone scritta per questo disco, anche le bonus tracks, al punto che è stato molto difficile riuscire adecidere la tracklist perché avremmo voluto inserirle tutte.

R.G.: Ok grazie Joakim per la chiacchierata

O.: Grazie a voi!

Category : Interviste
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31st Ott2019

Intervista ai Baroness

by Piero Di Battista
Nell’area parcheggio per i tourbus adiacente al Fabrique di Milano abbiamo incontrato Nick Jost, bassista dei Baroness. E a poche ore dall’evento, che ha visto sul palco anche Volbeat e Danko Jones, ci ha concesso un’intervista nella quale ci ha parlato di Gold & Grey, ultimo disco della band americana, e non solo.

R.G.: Ciao Nick, benvenuto su RockGarage! Pronto per stasera?

B.: Ciao e grazie per l’invito! Certamente!

R.G.: Lo scorso giugno avete pubblicato “Gold & Grey”, dopo quattro mesi che feedback avete ricevuto dai fan?

B.: Posso dire che il feedback è molto buono. La stampa e i media in generale ne parlano bene quindi è piaciuto molto. Ed ora che lo stiamo portando “on stage” posso dirti che anche la risposta dei fan è stata ottima; le nuove canzoni vengono mano a mano recepite e imparate ed è bello vedere il pubblico che le canta con noi. Soprattutto perché è un disco su cui abbiamo lavorato davvero tanto, quindi vedere questa risposta da parte di critica e fan è un’enorme soddisfazione.

R.G.: Ascoltando più volte il vostro ultimo album si ha la sensazione che con questo avete raggiunto il più alto livello di maturazione, concordi?

B.: Spero di no! (risate, ndr) Sicuramente siamo maturati, come persone e come musicisti, ma in futuro faremo sempre qualcosa di diverso e cercheremo di capire come crescere ancora per i prossimi dischi. Questo è l’obiettivo.

R.G.: Però rispetto ai precedenti dischi, questo è forse quello più “intimo”, giusto?

B.: Si sono d’accordo, il modo con cui John (Dyer Baizley, cantante-chitarrista) e Gina (Gleason, chitarrista) hanno scelto di cantare, il modo di eseguire i loro duetti rendono il disco molto, molto intimo. Ci sono anche dei momenti dove John trova maniere nuove e insolite di cantare e questo rafforza il concetto e la sensazione che dicevi poco fa, ovvero quello di rendere il tutto più intimo e personale.

R.G.: Siete ormai in tour da diversi mesi, come sta andando?

B.: Molto bene! Come ti dicevo poco fa i fan stanno piano piano imparando le nuove canzoni, e devo dire che stanno piacendo molto. All’inizio, quando suoni qualcosa di nuovo per la prima volta è divertente vedere le reazioni dei fan che ancora non conoscono i nuovi pezzi. Quando suonavamo per le prime volte il nostro singolo, o canzoni che ancora non erano state pubblicate, i fan reagivano come se dicessero “ma…mi piace o no questo nuovo brano?”. Ora però abbiamo notato che sono entusiasti del nuovo album, e ovviamente ne siamo felici.

R.G.: Vi ho visti per la prima volta lo scorso anno al Firenze Rocks, che ricordo hai di quel pomeriggio?

B.: Ah dai grande! Per noi è stato davvero un bel concerto, anche se la maggioranza del pubblico aspettava i Guns N’Roses.

R.G.: Si ricordo bene, e anche in quell’occasione avete suonato con i Volbeat, come farete stasera.

B.: Si esattamente! Ho sempre comunque ottimi ricordi di quando suoniamo qui in Italia, ci divertiamo sempre!

R.G.: E a proposito di questo, com’è condividere il palco con loro?

B.: E’ molto bello! Loro sono un bel gruppo di persone e si respira un clima di totale positività. Quasi tutte le sere facciamo sold out, ma è bello e stimolante per noi fare la parte degli “sconosciuti” perché ci motiva a conquistare anche il pubblico dei Volbeat, vogliamo portare i loro fan a domandarsi perché con loro suona una band prog metal!

R.G.: Visto che si parla di generi diversi mi viene spontaneo chiederti cosa pensi dell’attuale scena metal.

B.: Non sono un grande ascoltatore di musica metal anche se una delle mie band preferite sono i Meshuggah. Un altro gruppo che mi piace e che sto ascoltando parecchio ultimamente sono i King Gizzard & The Lizard Wizard; loro al momento sono il top, ed hanno appena fatto un disco pseudo thrash metal che è fantastico! Poi direi anche i Big Brave che vi consiglio assolutamente. Penso che ci siano tanti artisti interessanti ma che non saranno mai “pop”, e va bene così, resteremo nel nostro mondo!

R.G.: Nick, grazie per l’intervista e buon concerto per stasera!

B.: Grazie a te e a RockGarage!

Category : Interviste
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27th Ago2019

Intervista ai Thunder Brigade

by Piero Di Battista
Presso il Parco di Villa Tittoni di Desio abbiamo incontrato i Thunder Brigade, trio milanese che da pochi mesi ha pubblicato il debut album Spirit Of The Night. Pochi minuti dopo la loro esibizione, per l’occasione in acustico, ci hanno raccontato delle loro origini, del disco e relativa accoglienza.

R.G.: Benvenuti su RockGarage! Inizierei parlando di come nascono i Thunder Brigade.

T.B.: Grazie! I Thunder Brigade nascono un po’ di tempo fa. Inizialmente eravamo un duo (Stefano Cascioli alla voce e Stefano Bigoni alla chitarra, ndr) dove ognuno dei due veniva da due generi diversi, uno punk rock e l’altro post-metal. Abbiamo deciso di metterci insieme con l’obbiettivo di creare qualcosa di originale, senza la pressione di dover per forza essere incasellati in un unico genere e ti dirò che è stato abbastanza semplice trovare la quadra per riuscire a realizzare qualcosa assieme. Per quanto riguarda i primi pezzi che abbiamo creato, abbiamo avuto un approccio da songwriter, ovvero voce più chitarra acustica. Da lì pian piano sono nati i primi brani, e di conseguenza anche le prime proposte per suonare dal vivo; il problema era però che non avevamo pezzi a sufficienza per un set live quindi abbiamo deciso di portare anche qualche cover, nella fattispecie di Johnny Cash, Eagles, Rolling Stones, dando a queste una sonorità un po’ più moderna, un po’ più “nostra”. Dopo un paio d’anni abbiamo deciso di trasformare il tutto in un set elettrico; fermo restando che non era il nostro obiettivo essere un duo acustico, abbiamo ampliato la line-up con Stefano Lecchi alla batteria, perché volevamo dare concretezza a quello a cui miravamo, considerato il nostro approccio da “band”.

R.G.: Due mesi fa è uscito il vostro album di debutto “Spirit Of The Night”, volete parlarcene?

T.B.: Sì, tieni conto che prima del disco ne abbiamo fatta di gavetta! Ma a un certo punto abbiamo deciso di realizzare qualcosa di ancor più concreto: ci siamo affidati a un amico, Stefano “Orkid” Santi e al suo SPVN Studios di Como; da lì abbiamo imparato molte cose, in particolare riguardo i tantissimi aspetti tecnici che riguardano la vera e proprio registrazione di un brano, studiando ogni minimo dettaglio. L’approccio che ci siamo dati era quello di entrare in studio e di suonare come se stessimo suonando dal vivo, e questo l’abbiamo imparato anche leggendo le interviste dei nostri artisti preferiti, in particolare quella dove i Metallica ricordavano come il loro produttore Fleming Rasmussen diede il medesimo consiglio per la registrazione di Master Of Puppets. E si arriva quindi a due mesi fa, quando esce Spirit Of The Night; pensa che il titolo esisteva già sin da prima di registrare questo album; un giorno eravamo a casa a scrivere e dissi “quando uscirà il nostro album vorrei titolarlo “Spirit Of The Night”, in quel periodo venne a mancare un nostro amico comune, ma il titolo non voleva essere un requiem o qualcosa del genere, voleva essere qualcosa di più spirituale. Non voleva neanche essere una sorta di omaggio, perché siamo dell’idea che questa persona è come se ci fosse ancora ed è per questo che nel disco ci sono molte sonorità “western”, che richiamano un po’ lo stile degli indiani d’America come i Navaho o i Cherokee. Poi sì, nel disco ci sono anche brani più grezzi, però il mood è quello descritto prima, abbiamo preso spunto anche dalla cultura orientale, dove vedono la morte non come una fine ma come una sorta di continuità.

R.G.: Che feedback avete avuto riguardo il disco? Intendevo più che altro riguardo le recensioni.

T.B.: Guarda, abbiamo letto diverse recensioni, tra queste ci sono quelle dove chi scrive ha capito il senso del disco, ma d’altro canto ci sono anche altre dove non è stato proprio recepito. Una che mi è rimasta impressa ci “accusava” di essere troppo altalenanti, che c’era troppa alternanza tra brani lenti e brani più sostenuti, e che si aspettava più brani “a cannone”. Un’altra diceva che abbiamo preso “troppo” da generi e influenze americane, cosa che non capisco anche perché, come abbiamo detto a inizio intervista, siamo stati tutti influenzati da genere che provengono da lì. Come se ci avessero accusati di essere poco italiani, ma non è questione di non amare la nostra terra anzi, per dire io adoro Max Pezzali! Ma non riesco proprio a scrivere in italiano. Noi abbiamo creato qualcosa che rispecchiasse noi, le nostre influenze; avremmo potuto diventare la brutta copia dei Blackberry Smoke, o dei Nickelback, ma noi non siamo questi. E siamo soddisfatti del lavoro fatto, perché lo sentiamo nostro, e, con tutta l’umiltà del mondo, siamo riusciti a creare qualcosa che ha una identità.

R.G.: C’è anche un pregiudizio “molto italiano” e soprattutto sbagliato verso chi, come voi, tende ad approcciarsi a sonorità più estere, concordi quindi?

T.B.: Certo anche, c’è un problema di “ricezione” nel nostro paese, ovvero la difficoltà di accettare qualcuno che non si attiene a questa sorta di conformismo musicale all’italiana; noi lo accettiamo anche, ma a 30 e passi anni è anche giusto decidere di fare quel cazzo che vogliamo, di fare quello che più ci sentiamo e che riteniamo più vicino a ciò che siamo. Questo problema esisteva già sin da quando eravamo ragazzini, quando suonavamo hardcore venivamo accusati di copiare questo o quell’altro artista; è un problema italiano e che si riflette su tutta la scena underground dove ad esempio i locali preferiscono far suonare le cover band perché garantiscono incassi. E’ un problema totalmente culturale. E internet, i social network, hanno distrutto tutto; per carità oggi nel 2019 servono, ma per contesti come quello di stasera avrebbe funzionato il classico passaparola che andava fino a 10-15 anni fa. Internet è tutt’altro che comunicazione, è un po’ come il centro commerciale che ha distrutto il negozietto di paese.

R.G.: Progetti futuri?

T.B.: Le idee ci sono, non abbiamo ancora iniziato a scrivere roba nuova ma l’obiettivo è quello. Ci concentriamo ora sulla promozione del disco, abbiamo fatto anche il video del brano Beat A Dead Horse, ma non abbiamo intenzione di farne altri al momento.

R.G.: Grazie ragazzi, alla prossima!

T.B.: Grazie a te e a RockGarage!

Category : Interviste
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31st Lug2019

Intervista ai Twilight Force

by Cristian Danzo
Al Rock’n’Roll di Milano abbiamo incontrato Alessandro Conti, che ha appena registrato alla voce il nuovo album degli svedesi Twilight Force,Dawn Of The Dragonstar, disponibile dal 16 agosto per Nuclear Blast. Alessandro è anche la voce degli italianissimi Trick Or Treat e quindi la chiaccherata fatta si è poi spostata su tematiche varie. Vediamo cosa ci ha raccontato.G

R.G.: Ciao Ale e benvenuto su Rockgarage.it. Come sei stato scelto dai Twilight Force?

A.C.: (sospira,nda) Sono stato scelto tra mille candidati… in realtà è stato molto semplice. Il loro cantante (Chrileon, nda) è andato via nel periodo in cui Luca (Turilli, chitarrista dei Luca’s Turilli Rhapsdoy di cui Alessandro era il cantante, nda) ha annunciato il reunion tour (dei Rhapsody, che ha visto tornare Fabio Lione dietro il microfono, nda) e parlando con lui abbiamo capito che non ci sarebbe stato un nuovo lavoro. Per cui essendo tutti sotto la stessa etichetta, la Nuclear Blast ha suggerito ai Twilight Force che potevo essere un valido sostituto. I ragazzi della band li conoscevo già da anni e conoscevo la loro stima nei miei confronti per cui è stata una cosa abbastanza liscia.

R.G.: Come ti trovi a realizzare un processo di registrazione e composizione a distanza?

A.C.: Con internet tutto funziona abbastanza bene. Le pre-produzioni vengono tutte realizzate in loco e poi inviate via web. Sono partito poi per la Svezia per 8 giorni per registrare il disco e sono tornato ieri da lì perché abbiamo registrato il video. Bisogna fare un po’ avanti e indietro ma oggi giorno si riesce a farlo abbastanza agevolmente. Un paio di voli e sei arrivato. Più difficile il discorso delle prove e della preparazione del live. Bisogna prepararsi tutto a casa e l’idea di trovarti pronto on stage mette un po’ di ansia. E’ una cosa tosta che fa parte del gioco.

R.G.: Hai partecipato alla composizione dei testi? Se si, quanta libertà hai avuto?

A.C.: No i testi e le musiche erano già tutte composte, come succedeva anche con Luca. Si è trattato solamente di eseguire ma ovviamente ho avuto libertà di arrangiamento. Scegliere le linee giuste, l’interpretazione giusta. Devo dire che loro si sono fidati molto e mi hanno lasciato spazio.

R.G.: Come ti sei trovato in questo frangente?

A.C.: Molto bene.

R.G.: In futuro cambierà questo aspetto? Sarai più partecipe anche nella composizione?

A.C.: Questo album era già almeno per metà scritto prima di sapere che sarei stato il loro cantante quindi era già pronto al 50%. Sicuramente in futuro ci sarà una collaborazione più stretta, anche se a livello di songwriting sono chitarristi e tastierista a fare tutto e penso che questo aspetto rimarrà invariato, anche per mantenere la linea stilistica.

R.G.: Hai modificato il tuo approccio ed il tuo modo di cantare in questo progetto?

A.C.: Si, ed una cosa che mi ha fatto piacere è stato portare avanti la tecnica che usavo con i Rhapsody diventando un po’ più lirico e teatrale rispetto a quello stile power metal tradizionale che utilizzo nei Trick Or Treat. Qui ci sono partiture più da musical, cose già sperimentate appunto con Luca Turilli e probabilmente è stato grazie a lui che ho raffinato ed anche imparato quel metodo di cantato. Sicuramente è uno stile vocale che non puoi utilizzare universalmente in tutte le band metal. Qui c’è un approccio tenorile e completo del canto.

R.G.: Ci sarà un tour per promuovere “Dawn Of The Dragonstar”?

A.C.: Abbiamo in programma alcuni festival. Sicuramente ci sarà una tournée ma ancora non è stato deciso nulla di definitivo. Vedremo anche dai responsi di vendite e critica ma i Twilight Force negli anni passati hanno fatto tour molto lunghi e quindi ci sarà da pedalare sicuramente.

R.G.: Come la vivi questa cosa? Nel senso che da italiano, non è così comune che un cantante o un musicista siano scelti da un gruppo straniero.

A.C.: Verissimo. Ci pensavo per la prima volta mentre prenotavo il volo per la Svezia e mentre viaggiavo. A me sembra normalissimo ma se ti guardi intorno non ci sono tanti cantanti italiani che lo fanno. C’è Fabio Lione che lo fa di consuetudine ormai, e devo dire che è un peccato che non ce ne siano altri perché secondo me ci sono un sacco di artisti che sono in grado di esprimersi a livello internazionale. Diciamo che forse il rock ed il metal italiano non hanno la credibilità fuori dai nostri confini, anche a livello di professionalità, per potere convincere etichette e band a dire: “Ok, é un soggetto preparato e credibile e quindi possiamo affidarci a lui”. La mia fortuna è stata lavorare con i Rhapsody, cosa che mi ha permesso di costruire una carriera ed una credibilità anche all’estero. Capisco comunque che non sia facile. Piano piano devo dire che qualcosa sta cambiando. Guarda Luppi nei Whitesnake (Michele Luppi, tastierista italiano, nda) è una cosa molto più grossa di quella che è capitata a me. Un po’ di nomi stanno venendo fuori. Ci vogliono tanti anni di gavetta, più che in altri Paesi. Se ci sono voglia, qualità e professionalità, prima o poi queste vengono riconosciute.

R.G.: Avete registrato le voci separatamente dalla musica. La band invece che approccio ha avuto? Ha registrato in presa diretta oppure separatamente?

A.C.: Tutto separatamente. Ognuno di loro ha un piccolo studio. Anche con i Trick Or Treat, nonostante la vicinanza, facciamo alla stessa maniera. Magari ci si scambiano idee e consigli, ma registrare così è molto più comodo.

R.G.: Te lo chiedevo perché molti prodotti ora vengono realizzati suonando tutti insieme per avere una resa su disco più simile al live, più di impatto e compatta.

A.C.: Sicuramente è una scelta che funziona e dà i suoi frutti, però in sede di produzione è una cosa meno modificabile, meno controllabile ed ovviamente molto più dispendiosa. Prima era il contrario: la presa diretta era vantaggiosa. Adesso invece guadagni più tempo a lavorare ognuno per sé.

R.G.: Tornando alla domanda precedente, perché secondo te, nonostante una scena forte ed ormai decennale l’Italia non riesce ad avere una considerazione importante all’estero? Tanto per farla semplice, se tu non fossi nato qui ma negli Usa o in Germania, avresti avuto un responso diverso da quello che hai qui?

A.C.: Personalmente non saprei…

R.G.: Prendiamo come metro di valutazione i Trick Or Treat.

A.C.: Sicuramente saremmo più conosciuti. Anche se molti dicono che in Italia si combina poco cantando in italiano. Re-Animated (album del 2018, nda) è un disco fatto esclusivamente per il mercato italiano ed i fan italiani ed è stato un successo incredibile ed inaspettato. Ai concerti trovi diverse generazioni, anche ragazzi molto giovani che non hanno nulla a che fare con il pubblico metal ma che vengono a vederci perché facciamo le sigle dei cartoni animati in versione metal. Bisogna anche sapersi ritagliare uno spazio. Siamo arrivati per due ragioni a sviluppare questo discorso: la prima è la passione per i cartoni animati, quella passione un po’ nerd, sviluppata crescendo con le sigle e quell’imprinting. La seconda è che con i Trick Or Treat eravamo giunti ad avere il massimo della fanbase che puoi avere nella scena metal in Italia già cinque anni fa e quando arrivi a quel punto poi non ti sviluppi più. Allora ci siamo detti: “Proviamo a fare qualcosa che non snaturi il nostro stile e che sia rispettoso anche verso la nostra linea musicale e personale”. Anche con il nuovo disco che stiamo facendo sui Cavalieri Dello Zodiaco l’impostazione sarà questa. Non perdere i nuovi fan, quelli che non fanno parte della scena metal, con musiche originali nostre ed accattivanti. Ci si prova, magari non si riesce. Però allargare la fanbase ed avere spirito di arrangiarsi è sicuramente qualcosa che bisogna fare. Ovviamente se nasci in un Paese dove ci sono già infrastrutture adatte, etichette professionali a livello di promozione e distribuzione, la credibilità in automatico aumenta ovunque. L’Italia ha un problema di deficit di infrastrutture. Ci sono molte band ed anche etichette, ma queste non sono abbastanza grandi e focalizzate nell’investire sugli artisti. Ad esempio però la scena metal italiana è cresciuta perché la Frontiers (casa discografica italiana, nda) ha investito qualcosa nelle band nostrane. Non parlo di quantità di investimento, perché non ne sono a conoscenza, ma basterebbero quattro o cinque realtà come la loro ed in 5 anni avremmo una scena che spacca. Non è detto che purtroppo succederà. A questo punto bisognerebbe trovare vie alternative, come il crowdfunding o altre soluzioni.

R.G.: Qual è la tua opinione in merito al fatto che la nostra generazione è così influenzata e legata nel profondo alle sigle dei cartoni animati?

A.C.: Ci ho pensato molte volte e la mia interpretazione è questa. Una ragione è da trovarsi nel boom economico italiano degli anni ’70-’80 che ha fatto sì che i nostri genitori fossero tutti a lavorare, con noi mollati davanti alla televisione che faceva da baby sitter. La televisione era l’amico, la mamma, il fratello maggiore e tutti i giorni le sigle sentite e risentite a iosa che introducevano cartoni di qualità ha fatto si che nella mente di un 40-35enne di oggi quelle musiche lì, ascoltate poi in un momento in cui il cervello è una spugna che assorbe tutto, suscitino ricordi e sensazioni piacevoli e bellissime. Si crea un ponte cognitivo dei tuoi pomeriggi sul divano a bere il succo e mangiare la merende, completamente spensierato. Mettici poi che i cartoni giapponesi ti educavano e preparavano all’età adulta, con storie tragiche e storie di onore con un grande senso della morale e si completa il tutto.

R.G.: Quali sono gli artisti che hanno avuto più influenza su di te?

A.C.: Kiske (Michael, cantante degli Helloween, nda) e Matos (Andre, cantante degli Angra e degli Shaman, da poco scomparso a causa di un infarto, nda) a livello tecnico vocale. Musicalmente Helloween, Angra, i primi Rhapsody e tutto il power metal teutonico. Ho iniziato ad ascoltare musica abbastanza tardi, verso i 16-17 anni. Per me queste band sono fondamentali. Adesso ascolto anche band nuove ma quelle band sono rimaste a livello sentimentale e molto penetrante. Anche se dopo puoi cambiare i tuoi gusti, le band con cui ti avvicini alla musica sono quelle che rimarranno per sempre le tue preferite.

R.G.: Come vedi il mercato musicale tra cinque anni, contando che ogni giorno la tecnologia modifica le possibilità degli emergenti e cambia l’approccio di chi già nell’ambiente ci è da tempo e magari ha anche una posizione salda e radicata?

A.C.: Sicuramente adesso il music business è molto più democratico perché tutti hanno la possibilità di registrare un disco in maniera economica e professionale rispetto agli anni ’80. Questo però rende tutto una sorta di giungla, perché tutte le band emergenti, avendo le stesse possibilità, si trovano davanti ad un pubblico che consuma musica alla velocità della luce. Il segreto è realizzare qualcosa di virale e che faccia parlare di sé senza scadere nel ridicolo, a meno che tu non voglia farlo di proposito. Il problema è che la viralità è fatta da cose che fanno ridere, intristiscono o sono completamente ridicole e sono caratteristiche in cui la musica non dovrebbe rientrare. Bisogna essere molto attenti a questi aspetti.

R.G.: Grazie Ale per il tempo che ci hai concesso.

A.C.: Grazie a voi. Un saluto a tutti i lettori di RockGarage.

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26th Lug2019

Intervista agli Hangarvain

by Marcello Zinno
Subito prima dello show dei The Darkness al Carroponte di Sesto San Giovanni (MI) abbiamo incontrato gli Hangarvain che poco prima avevano aperto la serata, lasciando poi il palco ai Noise Pollution. Per noi si sono preparati Sergio Toledo Mosca (voce), Alessandro Liccardo (chitarra) e Alessandro Stellano (basso) e siamo riusciti a fare due chiacchiere in previsione della pubblicazione del loro nuovo album. Ecco cosa ci hanno raccontato.

R.G.: Ciao ragazzi, in questo periodo vi state esibendo dal vivo dopo un periodo intenso in sala di registrazione per i lavori del prossimo album, corretto?

A.L.: In realtà il disco è pronto. Abbiamo finito 20 giorni fa, abbiamo fatto un po’ di date di rodaggio questa estate per preparare la release che sarà in autunno.

R.G.: Ok, tra l’altro non è trascorso molto tempo dalla precedente release?

A.L.: Maggio 2018.

R.G.: Quindi praticamente un anno…siete ripartiti con il botto dopo la pausa di un paio di anni.

A.L.: Sì siamo stati fermi tutto il 2017 e metà 2018. Era doverosa questa pausa perché ognuno di noi si è dedicato ad altre cose, io personalmente alla Volcano Records che mi prende il 99,9% del mio tempo…però poi quando la vita ti assorbe e hai delle responsabilità quotidiane ti manca tutto questo. Quindi è diventato un pensiero fisso.

R.G.: In particolare come è stato il ritorno in attività, siete ripartiti dal punto in cui vi eravate fermati oppure nel frattempo vi siete evoluti e quindi sono cambiate un po’ di cose?

S.M.: Be’ noi avevamo già un album pronto quando ci siamo rotti tra virgolette, rimettendoci insieme abbiamo riscritto tutto però abbiamo fatto una prova, infatti Roots And Returns (la precedente uscita del 2018 ndr) è un EP. Facciamo un EP di prova e vediamo come va. Ed è stato un ponte di transizione anche musicalmente parlando, noi abbiamo la fortuna di essere persone che ascoltano, vivono ed assorbono la musica quindi abbiamo orecchie ovunque e questo ci fa crescere.

R.G.: Quindi il prossimo album è il primo full-lenght della reunion, possiamo dire? O è semplicemente un nuovo capitolo degli Hangarvain?

S.M.: Stasera stai parlando con tre persone che hanno formato gli Hangar, nemmeno a farlo apposta, Alessandro (Stellano, il bassista ndr) addirittura dall’Australia che non vedevamo da 4 anni sul palco…non c’è una reunion, gli Hangarvain alla fine siamo io ed Ale, non c’è mai stata una rottura tra me e lui e non c’è bisogno di una reunion quando non si rompe nulla. C’è stato un rimettersi in carreggiata, abbiamo fatto questa prova con Roots And Returns che a sua volta era già un ponte rispetto a Freaks, c’è un distacco serio rispetto a Freaks e quello che sarà dell’album nuovo che, non so se possiamo già svelare il titolo…

A.L.: No, no, non possiamo svelarlo.

R.G.: Però possiamo svelare qualcosa del nuovo album…

S.M.: Stasera il primo pezzo che abbiamo suonato è estratto dal nuovo album, che a questo punto ti diciamo come si chiama…

A.L.: No, no, non lo possiamo dire! (risate generali ndr)

R.G.: Ma quindi l’album si intitolerà “Non lo possiamo dire”? (altre risate ndr) Quando sarà la pubblicazione? Avete già in mente una data?

A.L.: Allora, noi siamo sotto label Volcano Records però stiamo valutando alcune proposte e stiamo approfondendo alcune opportunità. Dipende tutto da chi si siede al tavolo. Ci siamo dati come scadenza i primi di agosto per definire lo scenario, dopo di che se tutto va come programma e quindi Volcano gestisce per l’Europa, la pubblicazione avverrà la seconda settimana di ottobre. Noi abbiamo comunque già una serie di date live in programma, il treno è lanciato.

R.G.: Voi avete già aperto ai The Darkness in passato. Com’è esibirvi prima di loro?

S.M.: Mah loro sono tranquillissimi, anche una data precedente era con loro e i Noise Pollution…poi sai noi facciamo il nostro lavoro…

A.L.: A noi fa piacere suonare con band come i The Darkness perché sono rock ma abbastanza fruibile, abbastanza mainstream. Ci piace molto, perché noi non siamo assolutamente una band metal. Tante volte ci capita di vivere in un ecosistema underground dove la prevalenza del metal sul rock è importante…abbiamo fatto una data di recente con i Vision Divine, una band che stimiamo, è stato figo però…anche ieri sera, eravamo sul palco con i Destrage, fortissimi, però noi facciamo altro. Anche perché poi si crea quell’equivoco, pubblico nostro, pubblico loro…chiaramente con i The Darkness è quasi tutto pubblico loro.

R.G.: Un’altra domanda che volevo farvi riguarda il genere, visto che Alessandro ha aperto il tema rock / metal. Io faccio sempre fatica a incasellarvi più nel southern rock o più nel grunge, è difficile inserirvi nell’uno o nell’altro calderone. Detto comunque che una band non deve stare per forza di là o di qua…

S.M.: Ma tu sai benissimo che le etichette servono solo per gli scaffali nei centri commerciali…diciamoci la verità. Noi abbiamo questa fortissima base blues, Alessandro ha fatto una tesi sul blues, lo vista, l’ho letta…

A.L.: L’ha addirittura letta (risate generali ndr)

S.M.: Una volta John Lennon disse che il blues è la sedia su cui tutta la musica moderna si siede, quindi noi da quella sedia ci spostiamo dove più ci piace. Io ho il timbro che può ricordare Eddie Vedder, stimatissimo, ok…però…non ci etichettare… (altre risate ndr)

R.G.: Ok, ma tu hai appena detto che rispetto all’EP dell’anno scorso siete cambiati parecchio.

S.M.: Sì siamo cambiati parecchio, era molto improntato sul rhythm’n’blues e c’è stato questo forte impatto anche perché non è facilissimo dire “cambio tutto da zero” con la stessa formazione.

A.L.: Poi il disco precedente era andato molto bene, Freaks aveva venduto circa 1.000 copie che per noi sono numeri alti, poi aveva dei pezzi tipo Keep Falling che è stato molto ascoltato, quindi in seguito siamo usciti con questo EP completamente diverso ma dichiaratamente diverso, infatti già dal titolo si intuiva un ritorno alle origini. Il prossimo disco va in quella direzione però è sicuramente un passo avanti, è più elaborato, molto analogico, molto suonato, molto di pancia.

R.G.: Quindi anche scritto e pensato per un’esecuzione live diversa?

S.M.: Avremo…posso dirlo? Avremo il quinto elemento.

A.L.: Sì possiamo dirlo anche se non possiamo dire chi ha registrato le parti in studio.

S.M.: Sì, però ti diciamo che dal nuovo disco in poi, anche in sede live, saremo in 5. Io ad esempio nel ’93 non conoscevo i Nirvana, mi flagellerete, però conoscevo i Black Crows. Allora va bene per me fare un disco con una certa sonorità…tipo Rival Sons, su quel genere lì.

R.G.: Tra l’altro sta tornando un po’ anche questa sonorità…

S.M.: Sì, fortunatamente sì, meglio quello che certe cose che si sentono e non si capiscono (risate generali ndr).

A.L.: Noi ci siamo da sempre messi nel filone del post-grunge southern alla Black Stone Cherry, con questo disco ci allontaniamo un po’ dal post-grunge per andare nell’hard blues…c’è anche del gospel che a noi piace tanto. Noi vogliamo che si dica rock.

R.G.: Al di là dell’evoluzione artistica, ormai siete in attività da parecchio, siete riusciti a fare anche un programma che vada al di là del singolo album? Tipo da qui a 5 anni?

A.L.: No, 5 anni sono tanti per una band. Il prossimo sarà comunque un disco di transizione, anche perché pensa che con l’EP precedente abbiamo fatto 56 date live e molte di queste date a parte i festival estivi sono state date da headliner. Ci siamo persi una cosa che avevamo fatto prima cioè suonare con artisti più grossi, cosa che a noi serve come a tutte le band. Adesso l’idea è quella di fare entrambe le cose, a Milano torneremo a novembre al Rock’n’Roll ma anche fare date come questa con migliaia di persone.

S.M.: Però mentre noi fino al 2016 facevamo tour anche con persone con cui non eravamo molto in linea, adesso abbiamo già rifiutato 3 tour perché ora sappiamo dove dobbiamo andare a prendere il nostro pubblico. Bisogna anche saper dire di no per crescere.

R.G.: Voi avete fatto anche delle date all’estero…qual è il vostro feedback del live all’estero, sia come risposta del pubblico sia come organizzazione?

A.L.: Sì dall’Inghilterra, alla Spagna, all’Austria, all’Ucraina, alla Lettonia. Considera che noi abbiamo fatto date molto diverse, dal locale minuscolo infrasettimanale a 6.000 persone a Kiev, la data a Londra molto difficile a quella in Austria in un club bellissimo. Molto dipende anche dal grado di promozione che tu vai a fare, oggi in Ucraina noi abbiamo una fanbase importante perché abbiamo suonato più volte, in Lettonia è andata molto bene, so che si sta parlando di alcuni nuovi live. In Germania abbiamo rifiutato un tour di 15 date perché non eravamo in linea con la proposta dell’artista a cui dovevamo aprire.

R.G.: E sull’organizzazione che tipo di professionalità o non professionalità avete trovato all’estero?

A.L.: Questo è un po’ uno di quei luoghi comuni che all’estero funziona tutto, noi abbiamo fatto circa 100 date all’estero e abbiamo trovato situazioni molto diverse. Se becchi il promoter che non lavora bene ci sono 10 persone davanti al palco.

R.G.: C’è però un’altra concezione dello show. Noi in Italia siamo abituati a piazzarci sotto il palco e assistere al live, mentre all’estero è più visto come un evento.

A.L.: Sì, ma la nostra filosofia è prendere il pubblico e scuoterlo, coinvolgerlo. Noi trasciniamo il pubblico, lo facciamo stancare quanto noi quindi per noi non cambia molto. Anche se ci sono 5 persone…Il pubblico reagisce in percentuale sempre alla stessa maniera, stasera ce ne erano 1.000 e almeno 200 sotto il palco impazziti.

R.G.: Ok quindi inizio autunno nuovo album e poi tour. Ci sono già delle date che possiamo annunciare?

A.L.: A Milano saremo il 15 novembre al Rock’n’Roll di Rho, sicuramente a fine ottobre faremo un tour italiano con una band americana grossa che non possiamo annunciare…e poi tante occasioni per vederci dal vivo.

R.G.: Ok perfetto, allora ci aggiorniamo poi per l’uscita dell’album e per il tour. Intanto grazie per la chiacchierata e complimenti per lo show.

S.M.: Ok grazie a te!

A.L.: È sempre un piacere!

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25th Lug2019

Intervista ai Ritmo Tribale

by Piero Di Battista
Poche ora prima del loro concerto, abbiamo incontrato i Ritmo Tribale nel parco di Villa Tittoni a Desio. Alex Marcheschi, batterista del gruppo, ci ha parlato di questo nuovo inizio del gruppo, del passato ma anche del futuro, e di quella scena rock italiana degli anni 90, dove, tra le tante band, c’erano anche i Ritmo Tribale.

R.G.: Ciao Alex, poco più di 2 anni fa siete tornati a suonare live, innanzitutto quali sono state le sensazioni?

R.T.: Guarda, è stato molto emozionante. Pensa che doveva essere una cosa diciamo estemporanea, nata dall’idea di un amico che ci aveva chiesto di fare un concerto con solo i pezzi di Bahamas (disco pubblicato nel 1999, ndr), una cosa fatta esclusivamente per amicizia. Noi ci siamo trovati da Dio, il concerto, svoltosi a Erba, è andato molto bene, c’era tantissima gente e noi abbiamo ritrovato una spinta che non immaginavamo minimamente. E da lì ne abbiamo fatto un altro, al Circolo Magnolia di Milano e così via, iniziando anche a pensare a qualcosa di nuovo.

R.G.: E vi aspettavate questo successo dopo tutti questi anni?

R.T.: Premesso che noi non ci siamo mai fatti problemi di questo tipo, neanche noi ci sapevamo cosa aspettarci. Nella nostra testa pensavamo che al massimo potevano venire dei vecchietti! Magari quelli che difficilmente escono di casa, mica i ragazzini che oggi ascoltano trap. E invece c’è stato uno strano connubio: c’erano sì i vecchietti ma anche ragazzi molto giovani, forse i nipoti! Ci siamo resi conto, in particolare nelle zone dove storicamente siamo sempre andati bene, che l’affluenza era notevole, ma allo stesso tempo avevamo comunque bisogno anche di pezzi nuovi, quindi abbiamo deciso che se dovevamo andare avanti, doveva essere anche con brani nuovi, altrimenti ce ne saremmo stati a suonare per conto nostro.

R.G.: E tra questi brani nuovi c’è anche Resurrezione Show, brano che avete pubblicato circa un mese fa, ce ne vuoi parlare?

R.T.: Sì, il brano è un riadattamento in italiano del pezzo dei Killing Joke The Death & Resurrection Show, che avevamo registrato circa un anno e mezzo fa, assieme a un altro riadattamento stavolta dei Nine Inch Nails. La nostra idea era quella di fare uscire questi 2 più altri 2 nuovi brani. Il problema è stato che non abbiamo ancora avuto l’autorizzazione riguardo quello dei Nine Inch Nails.

R.G.: Quindi la vostra strategia è quella di uscire con dei singoli una tantum?

R.T.: L’idea iniziale era quella di realizzare un EP con i 4 brani citati poco fa, ma come spiegato l’EP al momento non ci sarà. Abbiamo anche dei brani nuovi, non ancora registrati, in modo da poter aver qualcosa di più “corposo” ovvero un album, magari già in autunno.

R.G.: Voi siete figli di quella scena 90’s, scena che negli ultimi 2-3 anni, anche grazie a voi, viene rivalutata. Vi sentite parte di quel periodo? Quali sono i ricordi più belli di quegli anni?

R.T.: Noi siamo sempre stati molto trasversali, in realtà gli stessi giornalisti di quel periodo facevano fatica a catalogarci dentro una scena o un genere preciso. L’unica scena di cui possiamo dire di aver fatto parte, assieme ad altri musicisti, era quella legata al Jungle Sound Station, dove eravamo tante band di Milano, con cui si provava nello stesso studio, si facevano tour assieme, parlo di band come Casino Royale, Karma o Bluvertigo. Poi ti dirò, noi eravamo più legati al periodo di fine anni 80, più legati alla scena hardcore. La verità degli anni 90 sono state le major discografiche, che hanno investito molto, ma il fulcro vero c’era già da prima.

R.G.: E cosa ne pensate dell’attuale scena rock italiana? Ci sono artisti che ti hanno particolarmente colpito?

R.T.: Mi cogli in difficoltà! Premesso che io soffro molto l’assenza di chitarre, però una cosa interessante che ho ascoltato è Salmo coi Linea77. Guarda, ne parlavo recentemente, l’ultimo disco rock che mi è piaciuto davvero tanto è quello doppio dei Verdena, che è Wow, uscito circa 10 anni fa (2011, ndr). Della scena attuale faccio davvero fatica a trovare qualcuno che mi piace molto, perché è un linguaggio diverso, spesso sono cose che mi entrano ed escono subito. Ma non è una questione di essere chiuso anzi, ci provo davvero ad ascoltare ma non ho trovato ancora nulla che davvero mi abbia entusiasmato.

R.G.: E com’è stato rapportarsi coi nuovi canali di fruizione della musica (Spotify, social etc)?

R.T.: E’ un mezzo di comunicazione di oggi, come lo era anni fa il volantinaggio, ma molto più veloce. Sono mezzi anche molto più utili, ma allo stesso tempo molto più dispersivi. Una volta bastava mettere un manifesto in una qualsiasi piazza di Milano e col passaparola si creava automaticamente un’enorme cassa di risonanza. Sui social c’è l’enorme balla degli eventi Facebook, dove la gente è soddisfatta di sapere che c’è, di fingersi interessata perché poi realmente sono pochi quelli che vi partecipano. Logicamente sono mezzi più adatti alle nuove generazioni e non a “vecchi rockers” come noi, ma giustamente cerchiamo di approcciarci anche noi verso questo modo di comunicare.

R.G.: E a proposito di nuove generazioni, che consigli daresti a dei ragazzini che vogliono approcciarsi nella musica?

R.T.: Fregarsene di tutto, andare in sala prove e suonare, fregarsene dei social eccetera, addirittura anche di non andare troppo a lezione, suonare, suonare e suonare! Suonare intendo con altri, e non da soli davanti al computer. Trovare l’alchimia con gli altri e non intendo solo dal punto di vista artistico. Purtroppo siamo in un periodo dove l’apparire conta più dell’essere, e molti credono di essere arrivati solo grazie a un paio di foto su Instagram. Per certi versi bisognerebbe tornare alla cultura del provare “in garage”, come negli anni 70,80 e 90. Ma anche tornare a rivalutare il gusto del suono, che oggi viene percepito quasi esclusivamente attraverso gli smartphone. Me lo diceva recentemente un mio amico, che è un fonico molto conosciuto, che ormai è il telefono la prova se un brano o disco suona bene, non più le casse. E questo è assurdo!

R.G.: Siamo giunti alla conclusione, e pensa, senza aver chiesto nulla riguardo Edda! (ex-cantante della band, uscito dalla stessa più di 20 anni fa)

R.T.: Ma veramente! Non capita spesso credimi!

R.G.: Sinceramente, quanto, e se, vi infastidiscono le domande su Edda?

R.T.: No, guarda, ci infastidiva la solita cosa tipo “sì bravi i Ritmo Tribale, ma quando torna Edda?”, a me fa solo piacere parlare di lui anche se ci sentiamo poco. Ma poi ragazzi…sono vent’anni che suoniamo senza Edda! Te lo dico: c’è stato anche un breve periodo dove si era pensato di tornare assieme, è venuto anche a provare, ma attualmente non ci sono le condizioni, e poi lui ha la sua storia, fa le sue cose che restano quanto di più lontano possiamo fare noi. Ormai noi, da anni, abbiamo la nostra identità con Andrea (Scaglia, ndr) alla voce.

R.G.: Grazie dell’intervista Alex!

R.T.: Grazie a te e a RockGarage! A presto!

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23rd Lug2019

Intervista ai Sonata Arctica

by Cristian Danzo
Al Rock ‘N Roll di Milano abbiamo scambiato due chiacchiere con Elias Viljanen, chitarrista dei Sonata Arctica, band che vedrà uscire il nuovo album Talviyö il 6 settembre prossimo. Sentiamo cosa ha avuto da dirci sulla nuova opera e su altri temi.

R.G.: Ciao Elias e benvenuto a Milano e su RockGarage. Parliamo del vostro nuovo album che uscirà a settembre. Come è stato il processo di registrazione e composizione?

E.V.: Tony (Kakko, cantante dei Sonata Arctica, nda) ha composto tutto il materiale, come di consuetudine giusto un anno fa. Poi tutto il resto della band ha ascoltato i suoi demo registrati nello studio casalingo. Di solito non tutto il materiale viene approvato dal resto di noi e qualcosa non si sposa bene con il sound dei Sonata, ma stavolta eravamo tutti convinti che Tony avesse tirato fuori composizioni totalmente giuste, su cui poi abbiamo lavorato ed ognuno ha portato il suo contributo. Siamo entrati in studio lo scorso settembre. Per sei settimane abbiamo lavorato alla registrazione delle tracce base che comprendevano batteria, basso ed alcune linee di chitarra, il tutto eseguito live in studio. E’ la prima volta che registriamo simultaneamente come suonassimo dal vivo. Ovviamente se commettevamo degli errori il tutto veniva sistemato con il mix ed una nuova registrazione della porzione contenente l’errore. Penso che il risultato di questo processo sia molto più naturale e spero che giunga all’ascolto dell’album. Il produttore è stato Mikko Tegelman, che è anche il nostro ingegnere del suono sia in studio che in sede live, che ci ha posto la seguente domanda : “Come mai suonate così diversi quando siete in studio e sul palco? Perché durante i concerti siete molto più potenti”. E così, seguendo le sue osservazioni, abbiamo deciso di dare al nuovo prodotto un’impronta che riproducesse le sensazioni che diamo durante i nostri concerti. Dopo questa prima fase siamo partiti per una tournée di spettacoli acustici in giro per l’Europa, cosa che per i nostri fan era assolutamente una novità. Ed anche per noi visto che l’esperienza era stata fatta solamente in Finlandia. Uno show acustico è completamente differente dalla nostra solita dimensione dal vivo, ma è andato tutto bene ed è stata un successo, almeno nella mia opinione. Dopo questa piccola pausa siamo tornati in studio per registrare le voci di Tony, e tra mix e mastering ci è voluto poco più di un mese e l’album era pronto.

R.G.: Ci puoi dire qualcosa in merito all’artwork?

E.V.: Tony da tempo proponeva di usare una fotografia reale per una copertina piuttosto che un’immagine artificiale. Ha scoperto questo ragazzo finlandese che si chiama Onni Wiljami e che sta diventando abbastanza noto da noi come fotografo e grafico. Abbiamo trovato questa foto invernale e l’abbiamo contattato ed è stato molto contento di collaborare con noi. Dal suo portfolio abbiamo scelto dieci foto da cui poi è stata tratta quella di copertina. Originalmente lo scatto era di giorno e non notturno come lo vedete ora, con l’aggiunta della luna e delle stelle cadenti.

R.G.: Qual é il significato di “Talviyö”?

E.V.: Tradotto significa “notte d’inverno”.

R.G.: Quindi ti chiedo se il nuovo album è una sorta di concept oppure tutto è legato, copertina compresa, solamente ad un aspetto di sonorità e mood complessivo.

E.V.: Non è un concept sicuramente ma il mood complessivo lega il tutto. Soprattutto per quanto riguarda i testi molte canzoni affrontano temi veramente simili tra loro. La prima canzone (Message From The Sun, nda) è quella che riflette maggiormente lo spirito della copertina perché riguarda l’aurora boreale, le luci del Nordeuropa e tutto ciò che concerne l’inverno come tematiche.

R.G.: La sensazione che suscita il nuovo lavoro (noi lo abbiamo ascoltato in anteprima ndr) è qualcosa di veramente calmo e pacifico, che riflette l’interiorità e si distacca abbastanza dalle vostre precedenti produzioni ed il genere che proponete.

E.V.: Si, lo confermo ed è una sensazione che ho avuto anche io soprattutto all’inizio delle registrazioni. Sicuramente ci sono influenze diverse e nuove in questo lavoro, e come musicisti abbiamo trasferito questa sensazione e queste atmosfere “calme” in musica. Probabilmente sai è anche un fatto di età, siamo diventati solo più vecchi (risate,nda).

R.G.: Guardando la copertina e conoscendo il significato del titolo, abbinandolo alle sensazioni di pace che le canzoni suscitano, è davvero un prodotto completamente azzeccato.

E.V.: Si. Quando è inverno è tutto molto calmo e pacifico. Guardando la copertina hai la sensazione del silenzio. Con questo ambiente praticamente non senti alcun rumore quando la neve ha ricoperto tutto.

R.G.: Ci sarà un tour a supporto dell’album?

E.V.: Si. Inizieremo a settembre dall’America del Nord una tournée con i Kamelot ed i Battle Beast. Dopo sei settimane inizierà il tour europeo in novembre che durerà fino a dicembre inoltrato, le cui date saranno annunciate a breve. Inizierà da casa nostra per proseguire in Germania e poi le altre nazioni.

R.G.: Saranno previste anche date in Asia ed Oceania?

E.V.: L’anno prossimo avremo sicuramente delle date anche in queste location.

R.G.: Ci sarà una edizione di “Talviyö” anche in vinile e vinile limited edition?

E.V.: Si. Uscirà anche in vinile. Penso che la limited edition sarà realizzata in diverse colorazioni. Ne stiamo ancora parlando.

R.G.: Prima parlavi degli show acustici. Quanto è difficile trasferire la vostra musica in questa dimensione?

E.V.: Abbiamo dovuto cambiare parecchio gli arrangiamenti delle canzoni proposte ma non è stato un processo così complicato, è avvenuto tutto molto spontaneamente ed in maniera naturale. Quando abbiamo iniziato le prove per questi spettacoli poi sono venute fuori altre idee su come cambiare e riarrangiare e devo dire che è stato molto divertente. Di sicuro ci siamo trovati davanti ad un modo di suonare completamente differente da quando hai la spina attaccata. Mi sono molto divertito.

R.G.: Preferisci questa dimensione più intima oppure quella dei grandi palcoscenici?

E.V.: Sai, lo show acustico è molto più intimo, quando tutti sono seduti ad ascoltare le canzoni, e diventa molto più sentimentale, ad un livello emozionale differente. Se però diventa troppo intimo può diventare abbastanza terrorizzante (risate,nda) perché inizi a pensare che ogni errore viene ascoltato e capito dall’audience. Mi piace leggermente di più suonare davanti ad un pubblico vasto perché ti dà anche più adrenalina, che è fondamentalmente la droga di ogni musicista. Ma forse è solo perché sono molto timido (risate,nda).

R.G.: Sei entrato nella band nel 2007 ed i Sonata Arctica avevano già una lunga carriera alle spalle. Come ti sei trovato nell’amalgamarti con gli altri? E qual è stato il tuo approccio stilistico? Hai cambiato qualcosa?

E.V.: All’inizio ho cercato di avere uno stile il più possibile in linea con le sonorità della band, perché non volevo deludere i fan e proporre un qualcosa che non cambiasse completamente lo stile dei Sonata. Non volevo proprio creare casini (risate,nda). I ragazzi sono sempre stati, fin dall’inizio, davvero di supporto nei miei confronti. Il mio stile personale l’ho messo negli assoli, reinterpretandoli secondo il mio gusto e su questo sono stato sempre completamente libero. Ora non penso più a ciò che i fan possono dire o pensare. Anche con il resto dei ragazzi la linea di pensiero è questa: in primis deve esserci la nostra soddisfazione per quello che facciamo.

R.G.: Quali sono stati gli artisti che più ti hanno influenzato?

E.V.: Quando ero un adolescente ero un fan scatenato dei Metallica. Prima ancora impazzivo per i Kiss, ovviamente. Ho iniziato ad ascoltarli quando avevo 7 anni. Sono un’influenza importante per me a tutt’oggi. Ho sempre ascoltato diversi tipi di metal: Danzig, Morbid Angel, Joe Satriani, Steve Vai, Dream Theater. Adesso sono un grande ascoltatore di hard rock classico: AcDc, Rainbow. Li trovo molto familiari in questa fase della mia età.

R.G.: Chi ti ha spinto a suonare la chitarra?

E.V.: Mio padre. Non avevo nessun hobby quando avevo nove anni, passavo il tempo seduto in casa. Mio padre aveva questa chitarra acustica e tutti i tutorial in cassetta e su carta. Fondamentalmente mi ha obbligato a prendere in mano la chitarra anche se io non ne avevo voglia. Quando ho imparato le prime canzoni molto semplici, ho capito che avevo bisogno di una chitarra tutta mia. Poi già ascoltavo i Kiss e mi resi conto che se volevo essere quel tipo di supereroe come Gene Simmons o Paul Stanley dovevo suonare la chitarra visto che loro lo facevano. Era l’unico modo per essere come loro. E parzialmente ci sono riuscito (risate,nda).

R.G.: Ti faccio una domanda che mi assilla da anni. Come è possibile che in Scandinavia ci siano queste due anime musicali completamente opposte. Ci sono musicisti come voi o gli Stratovarius, tanto per citare un altro gruppo, che propongono musica positiva ed energica. E poi c’é il black metal, che è completamente negativo ed è come se fosse l’altra faccia della medaglia.

E.V.: Questa è una buona domanda, davvero interessante, visto che sono due stili che vengono dallo stesso posto. Penso che il primo fattore siano i lunghi inverni senza luce che ti costringono a stare in casa ed allora può scattare davvero una forte depressione. La musica diventa allora una sorta di sfogo a queste sensazioni. E’ davvero difficile rispondere a questa domanda perché poi alla fine siamo tutti uomini fatti dalle stesse sensazioni… le tematiche del black metal irritano parecchio molte persone e forse molti lo usano come stile per raggiungere attenzione. Ti dico che noi finlandesi come popolo siamo molto positivi ed ottimisti ma magari qualcuno pensa che lo siamo per finta visto dove abitiamo ed il clima che c’è. Posso dirti che molte band black metal che abbiamo incontrato durante i festival che abbiamo fatto sono persone gentili e con cui ci siamo trovati molto bene.

R.G.: Quindi pensi che quando tutto è partito alla base c’era uno spirito di ribellione punk piuttosto che la malvagità incarnata…

E.V.: Si. Sottoscrivo questa interpretazione.

R.G.: State per compiere il ventennale della carriera. Come vedi i Sonata Arctica nei prossimi vent’anni, soprattutto in un mercato discografico che sembra cambiare ogni giorno in maniera totale?

E.V.: Penso che l’unico modo di sopravvivere sia quello di fare album e tour e pensare a nuovi canali di distribuzione e comunicazione. Mi auguro tra vent’anni di essere dove sono ora. Mi accontento di questo.

R.G.: Grazie Elias della chiaccherata. I migliori auguri per la vostra carriera ed il nuovo album.

E.V.: Grazie a voi ed a tutti quelli che leggeranno questa intervista.

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26th Giu2019

Intervista ai Madden

by Sara Fabrizi
Abbiamo intervistato Madden di Isola del Liri (FR). In autunno uscirà il loro debut album che promette di essere una vera bomba e nel frattempo ne abbiamo approfittato per fare quattro chiacchiere e scoprire qualcosa di ciò che dovremo attenderci. Ecco cosa ci hanno raccontato.

R.G.: Che cosa significa il nome della vostra band?

M.: Madden è letteralmente “impazzire”. Una scelta di impatto perché è un nome che colpisce e suona bene ma che, al contempo, fa riferimento al nostro caos, all’amalgama dei nostri diversi stili e suggestioni musicali da cui è nata una nuova unica strada. Un po’ la storia del caos interiore che genera una stella danzante. Non esiste metafora più valida per la nostra band.

R.G.: Quali sono i vostri generi di riferimento e le vostre influenze musicali?

M.: Ci collochiamo nell’alveo di 3 generi essenzialmente: industrial rock, electro techno e alternative. Le band cui facciamo riferimento e che influenzano il nostro songwriting sono Rammstein, Nine Inch Nails, Linkin Park, Marylin Manson.

R.G.: Qual è lo scopo del vostro progetto? Perché vi siete messi in gioco?

M.: La molla principale che ci ha portati a scrivere canzoni è stata soddisfare la nostra voglia di esprimerci, di comunicare all’esterno, al pubblico, il nostro mondo interiore, la nostra energia, i nostri messaggi fatti di rock’n’roll all’ennesima potenza. E la pubblicazione del disco, che avverrà in autunno, sarà il coronamento di questo nostro mood già ben tangibile nei live che facciamo e intriso di un forte “voyeurismo musicale” che ci porta a volerci esporre al pubblico ogni qual volta sia possibile. Amiamo stare sul palco, dire la nostra, cercare un contatto continuo con chi ascolta, renderlo partecipe e farlo fondere con la nostra arte. Crediamo che la presenza del pubblico sia enormemente importante per la piena realizzazione della nostra musica. Abbiamo già all’attivo diversi live nei music club della zona e ne abbiamo in programma altri nei festival estivi che si terranno in Ciociaria. Ma la nostra vocazione è chiaramente internazionale. Infatti nello scorso aprile, dal 18 al 24, siamo stati protagonisti di un tour promozionale in Inghilterra che ci ha portati dal Galles a Londra facendo tappa in svariati music club. Un vero e proprio viaggio on the road, con tanto di pulmino, reso possibile da un tour manager inglese che ci ha invitati dopo aver ascoltato il materiale che gli avevamo mandato. E’ stata un’esperienza galvanizzante con un’accoglienza e calore di pubblico oltre le nostre aspettative. Abbiamo avuto modo di suonare in situazioni molto stimolanti, in particolare 2 live molto significativi li abbiamo fatti al Palladium vicino Londra e al The Pier Club situato a Ilfracombe. Abbiamo suonato, oltre ai nostri inediti, anche delle cover di Rammstein, Prodigy e Linkin Park. Dalla risposta del pubblico sembra che abbiamo convinto molto e la cosa ci ha caricati moltissimo. Ci hanno persino affibbiato un nomignolo “Punky Rammstein”.

R.G.: C’è per voi un brano emblematico? Una sorta di manifesto programmatico dell’album che sta per uscire?

M.: Di sicuro un ruolo cruciale nell’architettura dell’album è svolto da Enemy Machine Gun. Probabile title track, si presenta come una fusione di generi ed è intrisa di enfasi, rabbia e malinconia. Un pezzo che definiamo esplosivo e che abbiamo intenzione di far uscire come singolo. L’album è chiuso, ma dato il nostro continuo songwriting potremmo anche inserire altri pezzi.

R.G.:Chi è il leader della band? I ruoli e le sinergie?

M.: In realtà non c’è un vero e proprio leader. Siamo una sorta di famiglia con rapporti paritari e non gerarchici. Tutti scriviamo i pezzi, tutti diamo il nostro apporto al processo creativo. La creatività e il songwriting sono diffusi ed orizzontali. La nostra sinergia sta proprio in questo. Per quanto riguarda i ruoli specifici, alla voce c’è Joshua Raven, Lu Sardellitti al sintetizzatore, Lorenzo Mastracci al basso, Davide Giona alla chitarra e Manuel Bianchi alla batteria.

R.G.: Grazie ragazzi per questa chiacchierata ed in bocca al lupo per l’imminente album.

M.: Grazie a voi.

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18th Giu2019

Intervista ai Neshamà

by Marcello Zinno
Interessante chiacchierata quella che abbiamo fatto con Carlo, mente, chitarra e voce dei Neshamà, una band che punta su tematiche e messaggi difficili da trovare in altri progetti musicali. La loro ispirazione è la spiritualità che viene messa in musica usando il rock ma anche tantissime altre sfumature. Ecco cosa ci hanno raccontato i Neshamà.

R.G.: Ciao Carlo, ti chiedo di presentarci i Neshamà. Parlaci del perché è nata questa band e cosa avevate in mente di comunicare.

N.: I Neshamà sono un power trio, difficile da definire a livello musicale, ultimamente ci presentiamo come una band dark prog rock. Siamo un trio, basso, batteria e chitarra, io suono la chitarra e canto. Il progetto nasce con ‘urgenza di esprimere concetti essenzialmente spirituali, il nostro motto è “tutto è uno” che è un motto esoterico e che riassume il senso dei Neshamà; noi approfondiamo tutte le dottrine sacre e vogliamo dimostrare il fatto che tutte le dottrine sacre trattano lo stesso argomento anche se con parole diverse in base al periodo storico, alle persone a cui si propongono.

R.G.: Un’ambizione forte…

N.: Diciamo che è velleitaria…c’è un motto indiano che diceva “tira la freccia, tirala verso il cielo, sicuramente non arriverà al cielo ma almeno supererà il cespuglio”. Me lo ricordo da quando ero piccolino e mi è rimasto in testa. E questa è l’idea, il nostro cammino.

R.G.: Sì, già ascoltando l’album, “Animante”, questo arriva. Chiaramente arriva molto di più in sede live, noi abbiamo potuto sperimentare, però la vena spirituale è molto evidente anche già solo ascoltando i brani. Questa è una caratteristica che vi distingue dalle altre band, come mai sentite questa necessità di usare la musica per trasmettere messaggi di spiritualità.

N.: La musica è un veicolo, è un veicolo emozionale principe. La musica è condivisione perché alla fine l’emozionalità porta a creare empatia tra persone e condividere. Lo scopo della spiritualità è la condivisione, l’unione e la relazione tra le persone, come dicono i pellerossa, infatti noi bruciamo la salvia sacra sul palco apposta per richiamare anche questi spiriti. A me sembrava naturalissimo legare la musica e la spiritualità.

R.G.: Va detto che non tutte le spiritualità o le religioni sono condivisione. Vi sono alcune fedi che sono vissute in maniera molto individuale. Tu dici che tutte le dottrine bene o male hanno un messaggio univoco ma come si incontra questo con il fatto che vi sono delle religioni molto individualiste ed altre protese alla condivisione?

N.: Ma in realtà l’eremita è la persona che più in assoluto a livello spirituale si dedica agli altri. È una persona che si isola dal mondo secondo l’esoterismo è colui che investe tutte le proprie energie per il mondo, perché per assurdo più sei vicino ad una persona e più ti vai a scontrare con dei meccanismi come le abitudini, i preconcetti, che ci portano a non comunicare. Quindi l’eremita si stacca da tutto per trovare la sorgente e si relaziona con il mondo senza nessuna barriera. È un compito difficile e profondo, l’asceta per assurdo è il massimo della relazione, può sembrare un controsenso ma è così. Non è un discorso di relazione tra persone, ma di energia.

R.G.: Però in quel caso, l’eremita in realtà ha come obiettivo quello di trascendere il sé, non come persona fisica ma come spirito. Quindi l’obiettivo è comunque legato a se stesso.

N.: Le nostre idee, i nostri pensieri non sono nostri. Già il linguaggio non è nostro, non lo abbiamo creato noi, è la parola che è il pensiero. Quindi se la parola non l’abbiamo creata noi, il pensiero non è il mio ma di qualcun altro. L’essere umano è come un’antenna, le persone ricevono in base al livello di vibrazione che scegliamo di adottare e percepiamo certe cose. Quindi più ti “alzi” e più percepisci certe cose. Si parlava prima dell’intervista di coincidenze, la coincidenza non esiste perché è un collegamento extra ordinario, più ti alzi ad un livello vibrazionale più vai a connetterti a qualcosa di più universale. L’asceta è colui che arriva a vibrare ad un livello molto elevato e si collega alla sorgente, alla origine e a tutto ciò che c’è dietro di noi. Io sono arrivato anche a rivalutare il cristianesimo che fin da fanciullo ho rinnegato, perché anche il cristianesimo si fonda su dei principi molto elevati; le suore di clausura lavorano nella loro idea proprio nella direzione dell’evoluzione della spiritualità intesa come spirito comune, cioè per gli altri.

R.G.: Torniamo al concetto che dicevi tu prima del “tutto è uno” indipendentemente dal tipo di religione. Puoi spiegarcelo maggiormente, anche magari per qualcuno che è lontano da queste tematiche?

N.: Bella domanda, cioè spiegarla non in termini spirituali. Tra due persone estranee è il limite, adesso c’è la cultura molto sportiva del “supera i tuoi limiti”, anche molto capitalista, del vincere, della competizione…”no limits” secondo me è un po’ una cagata perché non devi superare i limiti per diventare il superuomo di Nietzsche, ma è disinnescare i propri limiti. Se tu disinneschi un tuo limite, che è un confine, tu vai oltre e scopri cose nuove ciò che prima era estraneo da te ora diventa confidenziale, è empatia; più vado avanti in questa direzione, più abbatto confini e più mi convinco che le persone sono simili. Io sono convinto che se vai in quella direzione ti rendi conto che l’unica soluzione per il benessere è l’empatia, la condivisione.

R.G.: Un’altra cosa che ci incuriosiva era approfondire questo concetto del “tutto è uno”: come si differenzia tra la visione puramente occidentale del nostro credo e quella orientale?

N.: Il messaggio è lo stesso. Tu pensa agli indiani, secondo cui si crede al dahara, che è un puntino piccolissimo che all’interno del tuo cuore riesce ad entrare in una porticina microscopica che ti ricorda un po’ l’idea della cruna del lago, se ci pensi. Quella roba lì vale universalmente, come la tua anima che si può collegare con tutti. Lo stesso Cristo cercava di riunire il più possibile le persone…

R.G.: Be’ per certi versi anche dividere. Lui non portava un messaggio semplice, piuttosto un messaggio che avrebbe diviso. La parola che Lui ha portato non era sempre una parola di unione, a volte la parola creava dei nemici.

N.: Quello è fondamentale, distruggere per far spazio, l’unione non viene mai in pace e amore, infatti il nostro brani XI è anche distruzione, perché per creare prima dei fare spazio, quindi prima devi distruggere ed è fondamentale. Io lo trovo ad esempio nell’Islam che parla di guerra santa; Guénon, un grande studioso dell’Islam parla di “piccola guerra santa” che è quella che combatti fuori poi c’è la “grande guerra santa” che è quella che combatti contro te stesso. Comunque è sempre una guerra per arrivare a pulirti e poi…Cristo diceva tornate ad essere bambini, non diceva i bambini verranno a me, quindi vuol dire che tu devi fare il tuo percorso, poi devi distruggere tutto quello che hai fatto.

R.G.: In realtà questo è un messaggio anche orientale.

N.: Sì esatto, identico.

R.G.: Tu scrivi e canti “Tutto quello che so non lo so, ho tutti i vizi di Dio, ogni virtù uccide l’io, capire è morire“. Puoi spiegarci questo passaggio?

N.: Be’ le mie influenze sono socratiche, e questo mi sembra abbastanza palese, poi c’è molto di Jung in questa canzone. Ho voluto lanciare questa provocazione, “ho tutti i vizi di Dio”, perché noi vediamo i vizi come negazione e le virtù come positivo, ho fatto questo gioco…immagina Brama, che sarebbe la divinità massima, di lui non puoi dire nulla puoi solo negare Brama, tutte le negazioni sono Brama, sembra una follia. Questo serve semplicemente a scombussolare la razionalità, perché è fondamentale ingannare la nostra razionalità.

R.G.: Quindi nel discorso dei vizi è come se dicessi due negazioni che diventano un’affermazione…

N.: Sì, poi infatti dico “capire è morire” che è tratto proprio da Jung, lui alla fine era uno psicanalista che ha scritto un libro molto ambiguo, un po’ eretico, e in questo libro spara massime esoteriche che trascendono la spiritualità. Quindi in realtà arriverai a capire quanto morirai, questo è il primo senso. L’idea è che tutti pensiamo di morire, questa è una cosa che penso da tempo ma che forse non ho mai detto: secondo me la gente non muore ma si spegne pian piano o si spegne di colpo ma non muore. Morire è qualcosa di molto più nobile. Morire vuol dire chiudere un cerchio e io ho paura di spegnermi prima di morire, io devo morire. Perché chiudo il cerchio e questo si collega anche a Socrate e alla filosofia antica che era molto legata alla spiritualità degli orientali che hanno mantenuto. Noi l’abbiamo persa, noi la filosofia la studiamo ad un livello teorico e infatti si contraddicevano i filosofi di una volta perché erano degli esercizi spirituali che servivano ad aprire la mente, quindi a distruggere alcuni concetti, ed era il procediamo che era importante, non le massime.

R.G.: Questo però era un approccio filosofico più greco, più basato su meccanismi matematici, mentre invece la filosofia orientale è sempre stata meno legata alle logiche e più alla spiritualità.

N.: L’esercizio più pieno della filosofia tu sai che era esercitarsi alla morte, si doveva comunque arrivare a delle massime ma che contenevano tutto un mondo dietro. Le massime erano un simbolo, erano tue quando richiamavano tutto il lavoro che avevi fatto tu a livello iniziatico. Perché in realtà la filosofia orientale che sembra più sempliciotta è molto più complicata della nostra sotto certi aspetti perché hanno tantissime divinità, loro sono molto più celebrali, però la differenza è che noi siamo molto legati alla logica, i greci hanno sempre un esercizio mentale, mentre loro lavorano anche a livello fisico. Nel momento in cui concepiscono i chakra, cominciano ad usare l’energia del corpo e la mente non è più sovrana, iniziano a lavorare con gli stadi extra ordinari utilizzando il corpo. Se tu ci pensi tutte le tribù e le religioni un tempo si basavano sulle droghe, le droghe in fondo erano lo stordimento della razionalità affinché qualcosa che c’era dietro si rivelasse.

R.G.: Diciamo che erano un facilitatore per raggiungere dei concetti a cui la logica non ti permetteva di arrivare.

N.: Sì, diciamo per viverli. A me piace la meditazione, medito, ma l’idea è che quando arrivi a vivere una certa cosa è una figata. L’estasi arriva proprio quando arrivi a vivere una certa cosa. Gli orientali invece, anche usavano le droghe, ma lavoravano molto con il corpo e con il respiro perché è con il respiro che si può fare tutto, è questo il gioco. Ma è difficile arrivare a questi risultati per cui a volte serve una scorciatoia.

R.G.: Infatti la maggior parte delle sedute che vengono praticate per vivere delle esperienze legate alle proprie vite precedenti sono attivate da appositi esercizi di respirazione.

N.: Sì, è verissimo.

R.G.: Tu parli del Gesù che verrà e dici che sarà donna. Perché lo vedi come una donna?

N.: La nostra società si basa su un’idea capitalistica, l’uomo è il simbolo del costruire, del fare. Costruire significa che prendi una cosa, la distruggi e la trasformi in qualche altra cosa e questo creare in maniera materiale si basa sulla distruzione. Parte la competizione e tutto ciò che è negativo adesso. In questo momento invece l’idea deve essere conservativa, protettiva. Io non parlo di donna intesa come sesso femminile ma come energia femminile.

R.G.: L’energia femminile la vedi quindi come qualcosa protesa al conservare?

N.: Sì perché è l’energia passiva mentre l’energia maschile è quella attiva, esotericamente parlando. Poi nella materialità è diverso. Quindi l’energia femminile frenerà la smania attiva…noi siamo un missile che siamo arrivati in alto ma alla fine continui a spingere ma ad un punto dovremo iniziare a scendere; in questa discesa se lasciamo le redini all’energia maschile, cadiamo e non scendiamo mentre l’energia femminile conserva e protegge lungo la discesa. L’energia femminile ci rende anche più empatici, mentre l’energia maschile è incentrata sulla competizione.

R.G.: Be’ anche molte donne puntano alla competizione (risate generali ndr)…ma capisco cosa vuoi dire, parli di energia non di sesso. Un uomo può usare energia femminile e viceversa.

N.: Sì infatti l’emancipazione femminile le sta portando paradossalmente ad usare l’energia maschile. Questo è peggio perché quando la donna è spinta ad usare la sua energia maschile, contro la sua natura, diventa un mostro se ci pensi, diventa il grottesco dell’uomo. Come il transessuale che vuole essere donna, diventa una donna per eccesso, diventa eccessiva.

R.G.: Ok, adesso passiamo a parlare di musica. Parliamo delle esperienze che avete vissuto come band. È mai capitato che qualche altra band o qualcuno che lavora nella musica vi abbia un po’, come dire, bullizzati o sottovalutati per i temi che trattate?

N.: Di primo acchitto quando ti presenti alle band rimangono sempre un po’ straniti, però in realtà è il clima che si viene a creare. Abbiamo avuto sempre ottimi rapporti, gente che ci apprezza a livello umano e gente che capisce anche il nostro messaggio, ostacoli non ne ho mai avuti. Da dietro so che qualcuno ha detto qualcosa, io nei live arrivo vestito da prete e quindi qualcuno abbastanza bigotto ha detto qualcosa. Anni fa suonavamo al Legend e un ragazzo, secondo me un po’ bigotto, ha detto che non dovevo permettermi di vestirmi da prete…mi voleva menare anche se me l’hanno raccontato dopo.

R.G.: Avevi dato un brutto esempio da prete.

N.: Sì (risate generali ndr). Comunque va detto che non passiamo inosservati. O ci sono gli esaltati metallari che si esaltano ma travisano l’idea, o altri che capiscono l’idea e con loro si instaura un dialogo. Ci sono poi quelli che si divertono a livello goliardico e non interessa approfondire.

R.G.: Quindi il messaggio arriva.

N.: Sì arriva. I miei compagni di band all’inizio erano un po’ terrorizzati, mi dicevano “Carlo non puoi fare queste cose…rischiamo grosso…”. Anche perché noi solitamente distribuiamo le ostie, ripercorriamo il rito della comunione come rito della condivisione…ma quando lo abbiamo ripetuto un po’ di volte e abbiamo visto che andava e che funzionava allora si sono convinti. Poi dipende come lo fai, io lo faccio in maniera giocosa non in maniera seriosa. Una volta ad un concerto dopo che avevo spiegato diverse idee che sono alla base della nostra musica uno ha urlato “Dio Cane” ma alla fine ci abbiamo riso, io ho detto ben venga, noi accogliamo tutte le religioni, se il tuo Dio è un cane ben venga il tuo Dio Cane.

R.G.: Ma lì non è cane nell’accezione animale…

N.: Certo (risate ndr).

R.G.: Ma non potevi dire altro, altrimenti ti beccavi un secondo urlo con un altro animale, tipo il porco…

N.: Eh sì (altre risate ndr).

R.G.: Ma a livello musicale tu hai presentato la band come un progetto dark prog rock, ma quali sono le radici che hanno formato te e i musicisti della band? Perché noi abbiamo sentito alcune partiture progressive ma dire che siete una band progressive rock potrebbe essere fuorviante.

N.: Musicalmente è un gran casino. Sì non siamo assolutamente una band progressive rock, noi veniamo dal metal, il metal c’è, ma siamo prog anche perché ci piacciono i tempi dispari, ci piace spezzare le misure. Io ho studiato chitarra classica e principalmente ascolto musica classica, quindi risulta difficile dirti i generi che più ci influenzano tutti…per me Bach, Vivaldi sono i capisaldi del mio passato a livello emozionale anche se sono un chitarrista elettrico. Il batterista della band è mio fratello, siamo cresciuti insieme, il bassista viene da un passato punk…da ragazzini abbiamo avuto anche una band pop rock.

R.G.: Noi solitamente quando recensiamo un album cerchiamo sempre di coglierne la chiave di lettura; io personalmente cerco di fare anche un ulteriore esercizio per capire o ipotizzare una possibile evoluzione stilistica o concettuale della band, a volte ci becco altre volte no. Nel vostro caso è molto più difficile anche per la sostanza del messaggio di cui siete portatori. La domanda è se l’evoluzione del vostro progetto artistico sia anche legata all’evoluzione spirituale di cui voi state facendo esperienza e non solo all’evoluzione di voi come musicisti.

N.: Sì, il messaggio sarà comunque lo stesso anche in futuro. L’autenticità è importante, al di là delle cazzate per fare successo o non successo, alla fine io sono autentico, io dico quello che faccio, è il vestito che volente o nolente mi si addice. Poi sicuramente si possono usare parole più efficaci, quello potrebbe essere un punto di arrivo, essere più universali, più semplici ma profondi. E’ un ulteriore passo.

R.G.: Be’ il messaggio di base vostro è già universale.

N.: Sì però riuscire ad essere in termini di comunicazione più diretti…essere più universale. Questo è un obiettivo. E poi anche essere più teatrali. Noi abbiamo già collaborato con artisti, giocolieri…l’idea è spingerci molto di più verso la teatralità per riuscire ad essere…

R.G.: …diciamo unire una parte più visuale al vostro modo musicale di esprimervi?

N.: Sì, noi cerchiamo di mettere dei rituali in scena ma riuscire ad inserirli sempre di più, rituali che sono collegati all’energia, questo è un obiettivo.

R.G.: Ecco sul rituale io volevo chiederti di spiegarci il concetto da voi citato di “concerto-messa”.

N.: E’ proprio questo, secondo noi le canzoni sono i salmi, ci sono le omelie che sono certe cose che diciamo tra un brano e l’altro, dei messaggi, e poi ci sono dei rituali che sono dei gesti semplici che richiamo certe cose.

R.G.: Questi aspetti, secondo te, non potrebbero essere limitativi nel momento in cui tu pensi ad un album successivo? Cioè, il vostro album è un concept album che in versione live rappresenta una messa, un altro album futuro dovrebbe essere una messa diversa?!

N.: Tu pensa a quante maniere possono essere usate per esprimere lo stesso concetto. Yahweh aveva 72 nomi!! Il bello è quello, poi al di là della forma il concetto resta lo stesso. E’ una sfida, sicuramente.

R.G.: Avete già pensato quindi al nuovo album e al messaggio “nuovo”?

N.: Abbiamo già parecchi brani nuovi che hanno delle venature un po’ più…non commerciali…abbiamo smussato certe ruvidità. In passato l’urgenza di dire era poco filtrata, troppo ruvida, mentre adesso stiamo cercando di essere, appunto, più universali, per entrare con più dolcezza.

R.G.: E sarà sempre un concept album?

N.: Chissà quali di questi brani…poi anche l’idea dell’album…magari ci verrà in mente qualcosa di diverso…sarebbe bellissimo collaborare con qualcuno nel teatro che sposa le medesime intenzioni nostre. Le idee sono relative, ma alla fine le intenzioni possono unire.

R.G.: Bene dai, ti ringrazio Carlo per la disponibilità e la chiacchierata davvero molto interessante.

N.: Grazie a te!

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