Pearl Jam – No Code
È il 1996 quando i Pearl Jam danno seguito all’ottimo Vitalogy licenziando il loro nuovo lavoro. È corretto chiarirlo da subito: No Code è un album minore che segna una battuta d’arresto significativa. Al di là delle vendite alquanto scarse e delle posizioni in classifica anche le recensioni sono spesso contrastanti, se non addirittura fredde. La copertina è un collage di 156 polaroid (2×2) apparentemente scollegate fra loro. Sul titolo del disco la band fornisce varie contrastanti versioni, quella più vicina alla realtà indicherebbe il totale fallimento del nuovo lavoro per cui la band adotta una locuzione medica per indicare l’impossibilità di recuperare un paziente che ha perso la capacità di respirare o di far battere il cuore senza l’ausilio di macchinari artificiali. La band rischia lo split e i vari side-project sono lì a testimoniarlo. McCready si dedica anima e corpo ai Mad Season, Jeff Ament dà sfogo alle sue necessità psichedelico/acustiche con i Three Fish e Stone Gossard impegna le sue energie con l’etichetta Loosegroove. Infine l’ennesimo cambio di batterista (Irons per Abruzzese) indebolisce ulteriormente una stabilità interna già seriamente minata. A complicare il tutto sottraendo altre energie c’è l’invito del mentore Neil Young che li ospita come back band per la registrazione di Mirrorball.
A differenza dei suoi predecessori molto più a fuoco e diretti il quarto album (con)vive con contrasti e incertezze che si riflettono impietosamente nella struttura dei brani. Il disco appare disomogeneo e sebbene i più ottimisti possano azzardare che la band spazi in altri generi che vanno dalla sperimentazione al punk garage, la verità è che il risultato è altalenante. No Code è un disco di transizione che rimane sospeso fra il ricordo e la voglia di esprimere un concetto molto diretto con piglio punk e la smania di ritrovare i riff granitici che hanno reso grandi i Nostri. Tutto questo si può leggere facilmente nella sommessa opener Sometimes seguita dall’urgenza accademica di Hail Hail. La possibilità di sperimentare, tanto cara al combo di Seattle, emerge chiaramente nella psichedelica e quasi tribale Who You Are, bissata a sua volta da In My Tree, una specie di figlia illegittima di W.M.A.. Bisogna attendere quota cinque per sentire qualcosa di più vicino ai classici della band, è Smile che apre un sentiero verso il ritorno al passato e ammicca lascivamente al buon vecchio Neil Young. Poi arriva Off He Goes e per un attimo fugace di sei minuti tutto sembra ritornare al proprio posto. La soluzione melodica, il ritornello accattivante, la struttura del brano e la voce suadente di Eddie rimettono in gioco tutto. Allo stesso modo agisce l’urgenza a gola rossa di Habit che si stempera nella viscerale e quasi blues Red Mosquito.
I testi riflettono le contrastanti sensazioni della band e del singer che si occupa di spiritualità, moralità e auto analisi della propria condizione psicologica. L’uso di vari strumenti non propriamente canonici, la voglia di sperimentare nuove strade sono allo stesso tempo il punto di forza e la debolezza di cui poggia l’intero album. Parlavamo di transizione all’inizio, per scoprire dove i Nostri sono andati a parare non dovrete far altro che aspettare il prossimo lunedì (perché noi non andiamo in vacanza) in cui ci occuperemo del nuovo capitolo della saga Pearl Jam.
Autore: Pearl Jam | Titolo Album: No Code |
Anno: 1996 | Casa Discografica: Epic Records |
Genere musicale: Rock | Voto: 6,5 |
Tipo: CD | Sito web: http://www.pearljam.com |
Membri band:
Eddie Vedder – voce Stone Gossard – chitarra Mick McCready – chitarra Jeff Ament – basso Jack Irons – batteria, percussioni |
Tracklist:
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