Pearl Jam – Backspacer
Per un attimo il disco comunemente denominato Avocado ci aveva fatto sperare in un moto di stizza, in un colpo di reni, in un ritorno d’orgoglio e vena creativa di questa grande band che sta inesorabilmente invecchiando. Come? Purtroppo né bene né male, lentamente si però. A differenza del precedente capitolo questo nono figlio di Vedder e soci risulta più classico e altrettanto prevedibile. Cosa manca? Le grandi canzoni, la forza prorompente e dirompente di quel rock che li ha resi grandi. Anche l’opener Amongst The Waves stenta a decollare, le manca la forza dei predecessori. Prima di sentire un po’ di elettricità, per altro abbastanza telefonata, bisogna attendere Gonna See My Friend, terza traccia dal piglio punk che nell’inciso muta verso qualcosa di strano, come un esperimento genetico mal riuscito. Il senso di stranimento è forte, non si capisce cosa passi per la testa dei cinque musicisti né dove si vuole collocare questo lavoro rispetto alla loro discografia. Ma su tutto non è chiara quale sia la loro direzione. Come sempre immaginiamo che dal vivo alcuni di questi pezzi perderanno la pettinatura da studio diventando nuovi cavalli di battaglia su cui la potenza di fuoco incrociata delle due asce incontrerà il favore della sezione ritmica scatenandosi come la furia degli elementi (Got Some). I Pearl Jam oggi sono immobili, “nessuna nuova buona nuova” direte voi, dipende dai punti di vista ma in questo caso non è cosi. Se il rock è sangue e muscoli, nervi tesi e affanno, se deve lacerare e dilaniare, se soprattutto deve portare con sé nuova linfa compositiva, che senso ha costruire un album così conservativo?
Conservazione di cosa poi? Non di certo del fulgido passato, perché siamo lontani anni luce dai tempo di VS e Vitalogy. Non basta ammiccare a sonorità accomodanti, tanto furbe da non farsi mollare dai vecchi fan e altrettanto buone da usare in tournée, per poter affermare che i Pearl Jam siano ancora nella ionosfera del rock. Backspacer culla invece di aggredire, allenta invece di stringere la morsa intorno al songwriting più tranquillo, pacifico oseremmo dire. Certo non si può rimanere incazzati tutta la vita, ma si può scegliere il silenzio optando per una produzione parca e ponderosa. Per quanto la matematica e le statistiche centrino poco con il rock e l’ispirazione, potremmo affermare che con la sommatoria dei brani migliori di quest’ultimo lavoro, insieme a Riot Act e Binaural, potremmo ottenere un solo disco decente.
In soldoni Backspacer contiene tutti gli elementi che hanno caratterizzato la carriera del combo di Seattle, ma tutti così bene allineati e sistemati al loro posto da far pensare a un disegno ben preciso, una fotocopia sbiadita a dire il vero. Quindi troviamo il pathos di Just Breathe, la ballata topica Speed Of Sound e il classico impeto punk, ma senza colpo ferire, di Supersonic. Meglio fa The End ma è davvero ben povera medicina se paragonata al resto delle track. A vederli oggi sembrano dei felici quarantenni che cercano di superare, in un terreno di gioco che non è più loro, Usain Bolt e il suo record da centometrista, un’impresa chiaramente impossibile. Hanno le idee e i mezzi tecnici ma non la forza né la fame per portarli a compimento. Il nostro augurio, nei loro confronti, è di riprendere il timone della loro produzione ormai saldamente nelle mani dell’impietoso tempo. Noi ci auguriamo di vederli dal vivo, unica dimensione in cui la band riesce a ottenere livelli d’eccellenza lontani anni luce per molti e irraggiungibili per altri.
Autore: Pearl Jam | Titolo Album: Backspacer |
Anno: 2009 | Casa Discografica: Universal |
Genere musicale: Rock | Voto: 5,5 |
Tipo: CD | Sito web: http://www.pearljam.com |
Membri band:
Eddie Vedder – voce Stone Gossard – chitarra Mick McCready – chitarra Jeff Ament – basso Matt Cameron – batteria, percussioni |
Tracklist:
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