Pearl Jam – Pearl Jam Twenty
Nel 2010 Cameron Crowe decide di girare un documentario sul mondo dei Pearl Jam. Muovendosi agilmente fra oltre 12.000 ore di filmati, Cameron racconta in modo chirurgico ma non asettico la nascita, l’ascesa e la consolidazione di una delle più importanti formazioni che il grunge vanta tutt’ora nel proprio giardino sonoro. Sono i protagonisti dai volti noti, Chris Cornell e Stone Gossard tanto per citarne alcuni, a raccontare questa rinascita del rock le cui radici sono saldamente affondate a Seattle. Con poche parole il regista racconta il suo primo impatto con la fredda e siderurgica città, l’immediatezza con cui la scena musicale e i giovani voraci di concerti di ogni tipo lo colpirono da subito. Su una cosa Cameron e tutti i protagonisti sono d’accordo: il fermento musicale di Seattle era completamente diverso da quello di Los Angeles e di qualunque altro posto. La brulicante scena di Seattle funge da prologo per il racconto di Cameron che sceglie liberamente, e per fortuna, di non procede in modo didascalico né cronologico, impastando presente e passato, privato e pubblico in un modo, passateci l’azzardo, vicino a David Lynch. Le immagini parlano più forte di qualunque verbo, vedere i primi passi dei Soundgarden che supportano i Green River (solo successivamente Pearl Jam) in un ambiente di sana competizione e cameratismo fanno davvero sognare. Possiamo affermare che è Andrew Wood a dar fuoco alle polveri. Il leader dei Mother Love Bone è un ragazzo pieno di energia vitale, pieno di carica positiva, istrionico e unico nel suo modo di incitare il pubblico. PJ20 è la storia di una grande famiglia, fatta di momenti indimenticabili e di dolorosi ricordi legati alla morte di amici fra cui lo stesso Wood. Lo shock provocato dalla sua morte per overdose ha messo in discussione la nascita stessa dei P.J.
Attraverso questa retrospettiva, forte di un montaggio efficace, Cameron ripercorre tutti i passaggi salienti della loro carriera. Dalla consegna del demo, su cui Eddie registrò la voce rispedendolo agli altri il giorno stesso, al consolidamento del loro status di band indi(e)pendente, prima che questo termine fosse violentato e privato della sua vera essenza. Si passa dalla battaglia contro il leviatano Ticketmaster per l’abbassamento dei costi dei biglietti al tristemente noto episodio di Roskilde (2000). Nove fan persero la vita, forse la tragedia personale più devastante che la band abbia mai dovuto affrontare. In mezzo scorrono i ricordi di vent’anni: dalla parentesi Temple Of The Dog, in memoria di Andrew Wood, all’incontro con il mentore Young che Eddie definisce simpaticamente zio Neil. Non mancano i dissapori, poi risolti, con il portavoce del grunge Kurt Cobain. A detta della stessa band le sue critiche li ha aiutati a non perdere di vista la propria meta, mantenendoli sulla retta via.
Quello che emerge da questo rockumentary è l’ingigantirsi della figura di Eddie. Vedder è un uomo (in)sofferente, incapace di “sedersi”, sempre pronto a mettersi in discussione, tanto da risultare molto scomodo per alcune sue uscite dure sul music-biz (MTV Awards). Il suo rapporto con la musica e i testi è una sfida continua, una lotta fra bene e male che non prevede un vero vincitore. Il continuo arrampicarsi su tutte le impalcature dei concerti è una metafora: raggiungere vette diverse, sempre più difficili, con lo stesso atteggiamento cristallino degli esordi, senza artifici né trucchi in quella sfida che è la (sua) vita. Il senso di appartenenza a una piccola famiglia, in continua crescita, è uno dei punti inamovibili della sua filosofia. La fama, il successo improvviso, l’arrivo di proposte commerciali ricche di trappole l’hanno messo sempre costretto alla virata inaspettata, a volte anche controproducente. Da qui il suo allontanamento emozionale e fisico dai compagni di viaggio che scelgono l’aereo per spostarsi mentre Eddie continua a mantenere un profilo basso, preferendo macinare chilometri su un furgone e tenendo un programma in radio. Nonostante la macchina dello star system li aveva puntati, ingoiandoli loro malgrado, i Pearl Jam l’hanno combattuta dall’interno come un virus sano. No Code e Vitalogy sono figli di tutto ciò. Eddie si apre completamente nelle liriche, le dinamiche interne cambiano e se dapprima era Gossard a comandare ora è il titano Vedder a prendere per mano la band portandola su lidi altri.
E così dopo due ore, in cui non appare un minuto di stanca, suddivisi in modo magistrale fra spezzoni di live più o meno conosciuti, interviste e interventi del pubblico, il DVD si chiude sulle note di Better Man (New York Maggio 2010) prima e Alive (Philadelphia, 30 ottobre 2009) . Mick McCready sfoggia l’assolo che è la quintessenza dell’hard rock seventies da cui la band proviene. Chitarra dietro la schiena nella migliore tradizione hendrixiana, wah-wah come se non ci fosse un domani e occhi chiusi impegnato a tradurre in note il dialogo con il dio della sei corde. Di contro i riff zeppeliniani forgiati da Gossard si ergono protesi verso una battaglia epica in cui gli astanti sono totalmente travolti (al minuto 4.42 la faccia di uno dei ragazzi ne è la prova fumante). Il caleidoscopico mondo creato da questa magica alchimia, i numerosi saliscendi emozionali da cardiopalmo, i pattern ritmici mutuati da John Bonham e gli attacchi al fulmicotone della voce di Vedder impongono una vittoria schiacciante dell’arte su tutte le polemiche dei detrattori più miopi. Un orizzonte non basta, ne servono cinque per deliziare le anime affamate che accorrono a ogni chiamata dei Pearl Jam.
Autore: Pearl Jam | Titolo Album: Pearl Jam Twenty |
Anno: 2011 | Casa Discografica: Columbia Records |
Genere musicale: Rock | Voto: 8 |
Tipo: CD | Sito web: http://www.pearljam.com |
Membri band:
Eddie Vedder – voce Stone Gossard – chitarra Mick McCready – chitarra Jeff Ament – basso Matt Cameron – batteria, percussioni |
Tracklist:Documentario |