Ufo – You Are Here
Alla fine del proprio percorso musicale, una band di solito si volta indietro a riflettere su quanto prodotto onde ricavarne eventuali nuovi spunti e stimoli. Molte band non ne hanno trovati e si sono incartate: questo non è avvenuto per l’Astronave che dopo oltre tre decadi trova nuovo slancio per ripartire, ricompattandosi con 3/5 del combo storico (Mogg,Way e Raymond) cui si uniscono altri due nomi (ed un cognome) pesantissimi. Con il genio di Vinnie Moore all’ascia e la potenza “ereditaria” di Jason Bonham alle pelli, You Are Here è servito. Dodici tracce di energia pura ed ancora cariche di elettricità. When Daylight Goes To Town serve subito il destro: riff solido e deciso su cui la voce di Mogg torna a ruggire da par suo grazie alla immediatamente affiatata sezione ritmica. Gli interventi dell’axeman si propongono maggiormente con fraseggi ben ritmati, invece che prodursi subito nei solos, in seguito distribuiti a piene mani. La scarica delle percussioni introduce Black Cold Coffee, già più sostenuto nell’impostazione e nelle sonorità: il refrain è semplice ma diretto grazie al basso devastante di Way che amplifica di molto le note qui molto distorte e tuttavia ben orecchiabili, grazie anche alla sapiente svisata finale dell’ascia. Con The Wild One si torna ad un approccio più classico del brano: il riffing solido e tecnicamente ineccepibile di Moore permette a Mogg di giostrare con disinvoltura nell’esposizione delle strofe, mentre un buon gioco di pedali e rullanti amplifica le battute del drumming, già riconoscibile come marchio di famiglia nel suo incedere, il tutto mentre il buon Moore ci delizia con un interludio acustico di rara intensità e coinvolgimento.
Give It Up è la classica hit da 4 minuti in cui si snoda tutto il campionario della classicità degli anni ‘80: le tonalità sono molto accentuate, il cantato è di conseguenza aggressivo il giusto, mentre i nuovi arrivati pompano a iosa note da iniettare nell’economia del pezzo. Ottimo l’intro di Call Me, su cui il work chitarristico diviene molto insinuante nel suo raggiungere le note con facilità. Senza far sfoggio di tecnicismi fini a se stessi, il nostro axeman dipinge un tapping molto delicato e di facile ascolto, mentre Mogg continua ad essere il leone di sempre, con gorgheggi e note rilasciate quasi tra i denti, per meglio comprenderne la portata che qui viene potenziata dai buoni cori. La riflessione di Slipping Away è dovuta all’approccio molto soft che la band propone: molto rilassata e nella esposizione dei testi e nella proposizione delle musiche, qui davvero serene. La semiacustica, tratto portante del brano, dona quel quid in più alla traccia grazie alla voce quasi sognante del singer, assecondato in pieno dalla band che stavolta rema senza preoccupazioni. Si passa quindi alla drammatizzazione delle atmosfere con The Spark That Is Us, dove alla band interessa principalmente coinvolgerci nella sua ricerca di intimismo, qui molto accentuato. Ne risente anche il lavoro vocale che appare molto preso dal fornire un’immagine molto “impegnata”, quando anche nella produzione del refrain centrale sarebbe forse occorso uno stacco che conducesse il brano verso una conclusione più serrata ed in antitesi al suo svolgimento.
L’approccio molto ammiccante di Sympathy ci fa comprendere che la traccia sarà quasi un viaggio nell’incanto: grazie alle tastiere di Raymond, il sound diviene terreno ideale per le esibizioni molto “ottantiane” del singer, che coglie al balzo la direzione molto venata di riflessioni intimiste. Analogo solco pare seguire Mr.Freeze che tuttavia si distingue dalla setlist per una vena dinamica che la melodia della acustica non attenua. Anzi, con il bridge centrale, il brano diviene via via ben consistente nella sua offerta sonora, grazie anche alla magia che anche in questo frangente Moore riesce a sfornare con il probabile miglior solo dell’album. Il top lo troviamo alla decima traccia: Jelloman ci dona una performance stellare di Mogg in primis, cui non pare vero di deliziare la platea su di una linea melodica molto sentita e tuttavia non priva di una certa originalità compositiva. Il refrain è coinvolgente il giusto ed ancora note su note si accumulano per la gestione di un altro brano da menzionare. Ancora una trama acustica ad introdurci Baby Blue: la vena tecnica di Vinnie Moore pare essere presente da tempo nell’economia della band, grazie anche al sapiente lavoro di Tommy Newton alla consolle, che non manca di infarcire la traccia di effetti romantici, ma di impatto sonoro garantito. La seconda fase del brano ripercorre i tratti somatici della band, qui nuovamente risoluti ed aggressivi, ma memori di quanto sinora seminato, il tutto senza mancare di menzione al solido lavoro di Bonzo jr, sin qui ottimamente svolto (ovviamente).
Degna conclusione con Swallow, ideale metro di paragone tra i vari stili che all’interno del brano si susseguono: abbiamo la semiacustica concettualmente seguita dall’ispessirsi del sound, cui segue ancora il momento riflessivo e di ispirazione prettamente tecnica, che si nota particolarmente nel gioco dell’ascia, riflessiva ed a briglia sciolta al tempo stesso, per donarci il solo finale ben scandito e marcato in ogni suo passaggio. Miglior (ennesimo) come back la band non poteva donarci.
Autore: Ufo | Titolo Album: You Are Here |
Anno: 2004 | Casa Discografica: Spv/Steamhammer |
Genere musicale: Hard Rock | Voto: 7 |
Tipo: CD | Sito web: http://www.ufo-music.info |
Membri band:
Phil Mogg – voce Vinnie Moore – chitarra Pete Way – basso Jason Bonham – batteria Paul Raymond – tastiere |
Tracklist:
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