Metallica – Hardwired…To Self-Destruct
La storia della musica rock è piena di esempi di artisti a cui critica e fan non hanno mai concesso (e perdonato) il beneficio dell’errore. Dischi troppo sperimentali, sound omologati al mercato o errate strategie di marketing, per molti di questi, si sono rivelate scelte fatali, percepite all’esterno come flop o tradimenti; passi falsi che ne hanno ben presto causato lo spodestamento dall’ “Olimpo del Rock” per mano dello stesso endorsement mediatico che li aveva sempre sostenuti, con conseguente perenne castigo degli interessati, nell’affollato e silenzioso regno delle meteore dello show-biz. Esiste però al mondo una sola eccezione a tutta questa articolata premessa, una sola prova provata che non sia vero, un solo nome a cui noi tutti, dal Manzanarre al Reno, abbiamo concesso e perdonato tutto, il meglio ed il peggio della loro carriera. Questa eccezione alla regola, questo fervido timore reverenziale, porta il nome della più grande corazzata heavy metal che il pianeta Terra abbia mai potuto conoscere: stiamo ovviamente parlando degli immortali Metallica. Da qualche giorno il mondo post-Trump pare si sia risvegliato dallo shock grazie ai potenti vagiti di Hardwired… To Self-Destruct, il nuovo potente lavoro fresco di stampa della band californiana. Ovviamente noi di RockGarage ci siamo fiondati come molti altri ad ascoltarlo, per scoprire e riscoprire, quanto, quando, ma soprattutto dove, il pianeta Four Horseman sia andato a collidere nell’anno di grazia 2016.
Inutile dire che tutta la curiosità della stampa e (soprattutto) dei fan di vecchia data, si sia subito esercitata nel solito cliché del ricercare talloni d’Achille e parallelismi tra questo lavoro e la migliore produzione della band di Hetfield, Ulrich e soci. E allora mettiamo in chiaro sin d’ora le cose e togliamoci subito lo sfizio: l’undicesimo album studio dei Metallica, è un prodotto maturo, convincente e con un sound originale. A differenza dei precedenti Death Magnetic e Saint Anger, si presenta con canzoni maggiormente curate e rispettose del glorioso passato di una band che ha scritto pagine epiche della storia della musica moderna. Intendiamoci, non stiamo di certo parlando di un capolavoro da dieci in pagella paragonabile a quelli editi nei gloriosi anni ’80, ma siamo sicuri di trovarci di fronte ad una produzione onesta ed azzeccata che, perlomeno, a differenza dei due recenti predecessori, non sembra peccare di quelle sbavature stilistiche che ad ogni ascolto lasciano in bocca quell’amaro gusto da opera incompiuta (o volutamente non curata). Ai più timorosi (o per i soliti trolls preconcetti ed haters della band), segnaliamo che non sono presenti abusi di wah-wah, batterie che suonano come pentolacce o vocalizzi forzatissimi conditi dai soliti copiosi “yeah”. Anzi. In questo episodio discografico si avverte sin da subito una sensazione diametralmente opposta al recente passato, tanto che molte di quelle intuizioni stilistiche originali entrate a far parte del riconoscibilissimo sound Metallica, (gli assoli di Kirk, gli attacchi tellurici del combo Lars & Rob ed il gusto per le scale pentatoniche e per l’armonia di James), emergono all’orecchio mano a mano, salendo d’intensità ogni qualvolta l’ascolto si ripete, tanto che, per farla breve, a forza di metterlo su, Hardwired… To Self-Destruct a noi è piaciuto davvero tanto!
Non mancano però le note dolenti. A dirla tutta, il primo pelo nell’uovo lo abbiamo trovato confrontando il timing della tracklist con la materiale ossatura dei pezzi: come già accaduto per i due lavori precedenti, i brani migliori risultano senza dubbio quelli che si attestano sui cinque minuti di durata, poiché quelli più lunghi spesso vengono infarciti con degli ostentati intermezzi che appesantiscono sia l’attenzione dell’ascoltatore che la godibilità dei brani stessi. Altro punto critico è senza dubbio l’artwork del cofanetto, una scelta discutibile che sta spaccando pubblico e fan, sia per la grafica che per lo stile utilizzato che lascia – soprattutto chi vi scrive – molto, ma molto perplessi, se lo si confronta con le bellissime copertine sfoggiate nella loro pluritrentennale discografia. Fateci sapere cosa ne pensate. Proseguendo nella disamina con un doveroso check track-by-track, partiamo dalla (semi) title track Hardwired, che apre l’album con una pura e diretta celebrazione del genere che li ha consacrati nel mondo della musica heavy: il thrash metal. Un biglietto da visita, questo, non di poco conto, fatto di cavalcate elettriche serratissime, accentuate da scariche in doppio pedale. Un brivido di tre minuti abbondanti fatto di malinconici revivals che strizzano l’occhio ad un masterpiece come Ride The Lightning. Atlas, Rise! è un brano potente e veloce che sa attingere anch’esso a piene mani dal passato, soprattutto negli intermezzi strumentali e nell’inciso, dove troviamo una strofa in cui si rispecchia tutto lo stile lirico di Hetfiled diventando un passaggio che infuocherà i prossimi live del combo: “…How does it feel on your own? … Bound by the world all alone … Crushed under heavy skies… Atlas, rise!…”.
Proseguendo, ci si imbatte in Now That We’re Dead, una traccia dal tratto più figlio dell’hard rock che del furente metal. Qui tornano le doti mainstream della band saggiate negli anni ’90, grazie soprattutto a Load e Reload gli episodi commerciali senza dubbio più discussi della loro produzione. Con Moth Into Flame, ci si imbatte senza dubbio nel primo vero pezzo con i “controcoglioni” sfornato dai Metallica negli ultimi venti anni! Finalmente in questi cinque minuti e mezzo, i nostri metallers sono riusciti a infondere quanto di più godurioso ci si possa aspettare da una band del loro calibro: bicordoni aggressivi, assoli portentosi, atmosfere heavy e tutta la grinta di un Hetfield in grande, grandissimo spolvero. Qui tutto sembra essere al posto giusto. Pompatela nel vostro impianto a 10/10: siamo certi che vi ringrazierà! Dream No More, soprattutto nel chorus, è un rimando chiaro, anzi, un eco fortissimo, a Leper Messiah, (giusto per farvi capire di cosa stiamo parlando…), anche se la chiave di lettura più corretta per l’ascolto, deve essere inquadrata in una visione moderna e maggiorente vicina alle recenti produzioni del combo, poiché questo brano, rispetto a quello citato e tratto da Master Of Puppets, è meno scheletrico, più corposo e sicuramente meno nervoso. Procedendo si arriva ad Halo On Fire, un brano più semplice rispetto ai precedenti, forse penalizzato dai suoi oltre otto minuti di durata, in cui però è presente una delle ossature sonore più interessanti dell’album, ovvero un imprinting tutto hard rock ed una prevalente linea melodica lenta e pulita che gradualmente si innervosisce, esplodendo in uno dei migliori ritornelli del disco.
Confusion si apre e si chiude con un frame che pare ispirato ai Black Sabbath e che prosegue col solito sound granitico che anima Hardwired… To Self-Destruct. Un brano senza infamia e senza lode, per gente a caccia di matasse di potenti bicordoni che possano soddisfare le esigenze dei loro affamati timpani. A seguire troviamo ManUNkind, un pezzo che si apre con una bella strumentale che finalmente ci rivela (seppur per pochi secondi) le doti del buon Trujillo. In questa traccia, ci aspetta un accattivante giro di chitarra condito da battute in controtempo su cui si muove l’intero brano sino all’ennesimo ottimo ritornello griffato Hetfielf. Here Comes Revenge, è un’altra ottima prova del disco, un episodio di oltre sette minuti in cui la band sa tenere il sound in perfetto equilibrio tra melodia e rabbia, tra vecchio background e nuove sonorità. Se ascoltandolo doveste percepire molto forte la sensazione del deja-vù con altri brani dei Metallica, ma non riuscite a capire quali, non preoccupatevi… è successo anche a noi! Andando avanti, tocca ad Am I Savage? un altro pezzo che ripropone elementi dei tempi Load/Reload, un ennesimo tuffo nel passato mainstream del combo fatto di sonorità lente e grevi che grazie ad Hammett, strizzano l’occhio – seppur lontanamente – a un mood tipicamente blues. N.B. Kirk esegue in questa traccia, uno degli assoli più interessanti dell’album. Penultimo brano proposto, è Murder One, un tributo alla grande leggenda dei Motorhead Lemmy Kilmister, una composizione che proprio come l’attitudine del compianto autore di Ace Of Spades, viaggia lento come una vecchia e sconquassata locomotiva a vapore che procede inarrestabile sui dei malandati binari arrugginiti. Nonostante l’intro che strizza l’occhio a Fade To Black, questa traccia sembra essere stata scritta ai tempi di Saint Anger, per la forte assonanza con l’atmosfera nevrotica che si respira in quel particolare disco. Una serratissima scarica di batteria mista a taglienti bicordoni, ci introduce infine a Spit Out The Bone, ultimo brano del full lenght, un pezzo tiratissimo che chiude in bellezza il disco, così come Hardwired lo aveva aperto, ovvero con un ottimo mood thrash metal, suonato dai Nostri in tempi al fulmicotone. Traccia promossa a pieni voti, sicuramente da mettere tra le vette più alte di Hardwired… To Self-Destruct, a dimostrazione di come i Four Horseman sanno essere molto più convincenti nelle esecuzioni veloci, rispetto a quelle ad indole più lenta e pesante.
Dalla deflagrazione sul mondo discografico e terrestre del Black Album negli anni 90 ad oggi, i Nostri hanno impiegato ben oltre 25 anni per riannodare i fili del tempo alla loro discografia migliore, per ricomporre i pezzi del loro passato e per ritrovare finalmente la strada maestra. Tutto ciò ha comportato vari risciacquamenti di stile nelle acque torbide del rock, una decina di album tutti diversi tra loro, cover, svariate collaborazioni, decine di anni luce di chilometri percorsi in tour girovagando il globo ed almeno tre generazioni di fan conquistate e poi mandate dritte a puttane. Non è nulla, è solo una parte di vita di ognuno noi che si è consumata insieme alla loro. Ma ai Metallica si può – e si deve – perdonare tutto, perché sarebbe impossibile per chiunque provare a spodestare dall’Olimpo del Rock, gli Dei del Metal. E sapete perché? Perché quel regno fatuo, fatto di fango e dolore, di cattiveria e successi, di ascese e cadute, di aspettative e disillusioni, di capolavori e miscredenza, lo hanno semplicemente creato dal nulla loro.
Autore: Metallica | Titolo Album: Hardwired… To Self-Destruct |
Anno: 2016 | Casa Discografica: Blackened Records |
Genere musicale: Heavy Metal, Thrash Metal, Hard Rock | Voto: 8 |
Tipo: CD | Sito web: http://www.metallica.com |
Membri band:
James Hetfield – voce, chitarra Kirk Hammett- chitarra Robert Trujillo – basso Lars Ulrich – batteria |
Tracklist:
CD 1
CD 2
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Sono molto d’accordo con Rod su molti aspetti: Hetfield è il vero protagonista, i rimandi a Ride The Lightning sono forti, spesso escono fuori riff rotondi/blues da Load/Reload.
Brevemente la mia opinione è la seguente:
Sound: periodo Kill ‘Em All/Ride The Lightning
Produzione: periodo Death Magnetic
Idee: Death Magnetic + Load (in alcuni punti)
Stacchi e variazioni strumentali: …And Justice For All
Punti di forza:
Attitudine Hetfield
Ritornelli da paura
Intermezzi strumentali e stacchi
Punti di debolezza:
Assoli: troppo wah-wah (un chitarrista del calibro di Kirk potrebbe giocare con 1.000 effetti diversi)
Alcuni brani troppo lunghi (Now That We’re Dead può durare tranquillamente 1 minuto in meno se non 2)
Artwork e grafica inguardabili (bravo Rod!)
Perché non fare uscire un solo CD? 77 minuti ci sarebbero stati.
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