Bob Dylan@Auditorium Parco della Musica – Roma
Cosa ha combinato il bardo di Duluth nella terza sera del suo tour romano? Pensavamo di trovarlo stanco e poco performante, con alle spalle già il carico delle 2 serate precedenti. E invece: effetti speciali, Signore e Signori! Non più il folksinger con il naturale corredo di chitarra acustica ed armonica, non più il rocker che dal ’65 in poi “eletrizzò” il folk fondando di fatto un nuovo genere, non più l’esecutore dalla voce stravolta ed irriconoscibile che tutti ci aspettavamo/temevamo. Il menestrello è qualcosa di più e qualcosa oltre le sterili etichette che ci ostiniamo ad attaccargli addosso da più di 50 anni, cercando di catturare e definire il suo personaggio. Quel personaggio, circondato da quella aura quasi mistica che noi pensiamo di conoscere, lui lo ribalta a suo piacimento. Nella costante demistificazione del suo mito, da cui paradossalmente, e suo malgrado, il suo mito esce rinforzato. Ieri sera all’Auditorium Parco della Musica in quelle 2 ore tiratissime di concerto Robert Zimmerman si è confermato essere un adorabile maledetto genio. Un live show elegante, raffinato e vivace. Atmosfere di un’America anni ’20, anzi di un’America timeless, tra cover di classici della canzone americana (cui ha dedicato i suoi ultimi 3 album) e riproposizione dei suoi classiconi storici in una veste nuova, meno rockeggiante ma più bluesy e jazzarola che ci ha letteralmente conquistati.
Lo abbiamo visto per quasi tutto il tempo dietro il suo piano, suonare con verve e cantare con la sua voce ormai notoriamente “diversa” da quella di un tempo ma gradevolissima, assolutamente non gracchiante come spesso gli haters sono soliti stigmatizzarla. Era in gran spolvero. Ogni tanto abbandonava la sua postazione, si alzava e, impugnata l’asta del microfono e assunta la posa di un vero crooner, dava sfogo al suo amore per quelle atmosfere antiche, fumose e rarefatte che lo hanno portato a dedicare l’ultima parte della sua carriera alla reinterpretazione del canzoniere americano pre anni ’60. Un artista raffinato, coadiuvato da una band grandiosa e spassosa. Sì, spassosa è il termine esatto. C’era un’aria frizzante, un non so che di vivace ed accattivante che aleggiava per la Sala Santa Cecilia. Ogni pezzo è stato eseguito con maestria e personalità, spaziando nella sua immensa discografia. L’apertura affidata a Things Have Changed, poi a seguire 3 pietre miliari: Don’t Think Twice, It’s All Right, Highway 61 Revisited, Simple Twist Of Fate. Diverse dalla versioni che ben conosciamo, ma assolutamente godibili. Del resto come si fa a riproporre in maniera meccanicamente identica gli stessi pezzi per ben 50 anni? Ben venga lo “stravolgimento” quando è fatto così. Quando l’artista riesce a liberare il pezzo dalla gabbia dorata della sua forma nota ed incantatrice, lo spoglia, lo veste a nuovo e riesce comunque a comunicarci la sua essenza profonda, la sua immutabile sostanza. Ed è proprio quello che Dylan ha realizzato ieri. Questa operazione di sdoganamento gli è riuscita con naturalezza. Ed ha fatto innamorare anche me, che sono una dylaniana intransigente.
Tangled Up In Blue, per esempio, era ardua da riconoscere immediatamente, così riarrangiata per il piano. Eppure quanta nuova bellezza ne è uscita. Desolation Row, invece, era già più nell’alveo della sua versione madre. Bellissima esecuzione, piena di pathos e di verve. Abbastanza fedele all’originale Sick Of Love (tratta da quell’album meraviglioso del ‘97 che è Time Out Of Mind), incantevole. Bellissima, veloce, frizzante, molto blueseggiante Thunder On The Mountain (tratta da Modern Times del 2006). E’ stato dato spazio anche al suo ultimo album di inediti, Tempest. Ben 3 pezzi da questo disco: Duquesne Whistle, Pay In Blood, Early Roman Kings. Esecuzione sempre magistrale, tra il blues ed il jazz, con il pubblico in delirio. La chiusura l’ha affidata a 2 zoccoli duri della sua discografia: una Blowin’ In The Wind messa a ferro e fuoco per come è stata rivisitata, ma ad ogni modo gradevole e funzionale a questo suo nuovo mood re-interpretativo. Quella che conosciamo come il manifesto del suo folk sognante ed impegnato, quella che conosciamo a memoria tutti, quella che più diretta, semplice e genuina non ce n’è, qui acquista un nuovo pathos e una nuova vivacità. E poi Ballad Of A Thin Man. Esecuzione epica e nei ranghi della versione studio. Pezzo emblematico. Qui Dylan faceva un’invettiva, non troppo velata, contro uno dei tanti giornalisti che si ostinavano a volerlo “capire” ed etichettare per forza. Quasi un monito a noi tutti: non statemi troppo appresso, non statemi troppo addosso, non ostinatevi a rinchiudermi in una definizione. E lo sappiamo bene, Mr. Dylan. A noi non interessa cristallizzare la tua arte e la tua essenza. Quell’ “another side of Bob Dylan” che abbiamo visto ieri sera a noi piace da morire.
Scaletta di Bob Dylan:
Things Have Changed
Don’t Think Twice, It’s All Right
Highway 61 Revisited
Simple Twist Of Fate
Duquesne Whistle
Melancholy Mood
Honest With Me
Tryin’ To GetTto Heaven
Full Moon And Empty Arms
Pay In Blood
Tangled Up In Blue
Early Roman Kings
Desolation Row
Love Sick
Autumn Leaves
Thunder On The Mountain
Soon After Midnight
Long And Wasted Years
Encore
Blowin’ In the Wind
Ballad Of a Thin Man
Live del 5 aprile 2018