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29th Giu2018

Judas Priest – Firepower

by Giancarlo Amitrano

Judas Priest - FirepowerL’araba fenice risorge dalle proprie ceneri? Il “Prete di Giuda” fa ancora meglio: resuscita dai suoi stessi dubbi, colpevolmente generati dai suoi comportamenti musicali degli ultimi anni. Già alcune decadi or sono la band si era trovata in una situazione simile, con l’abbandono dello storico, e compianto, Dave Holland il gruppo pareva aver perso il passo dei bei tempi; l’innesto della potenza di Scott Travis, con il conseguente Painkiller, faceva ritrovare la giusta bussola, innervandola anzi con il sound moderno e compatto del nuovo drummer, rispetto al tocco più manierato del suo pur illustre predecessore. Lo stesso accade più di venticinque anni dopo: le delusioni ed incertezze che la band scatena nei fan con gli ultimi lavori possono essere spazzate via solo con un ritorno in grande stile: sembra infatti passata un’eternità dall’imbuto musicale di Angel Of Retribution e Redemeer Of Souls, con il quintetto che pareva essersi incartato su sonorità del tutto non confacenti al suo stile. Ecco che invece, clamorosamente, i vecchi leoni dimostrano di ruggire ancora con un album letteralmente spaccaossa, che si regge sulle prestazioni superbe di tutto il gruppo, pur dovendo fare i conti con il recente abbandono della storica ascia K.K. Downing e soprattutto con il maledetto morbo di Parkinson che sta portando al cedimento fisico di Glenn Tipton, qui probabilmente alla sua ultima apparizione in studio, comunque dannatamente e meravigliosamente generosa e di classe.

E’ subito la titletrack ad aprire le danze, con le sei corde che spazzano via tutti i dubbi e delineano subito il groove della traccia, con il superbo Halford nelle ringiovanite vesti di screamer a dettare tempi velocissimi; il solo di metà brano non lascia dubbi sulla classe innata ed intatta e del vecchio Tipton e del buon Faulkner, qui a guadagnarsi la meritata pagnotta. Lightning Strikes è il ruggito dei vecchi leoni: il leader maximo trascina con sé tutta la violenza della traccia, coadiuvato saggiamente dai suoi compari che menano fendenti a destra e manca. Tipton è encomiabile nel condurre le danze con la sua inconfondibile sei corde che viene gentilmente condotta a dama dalla potente sezione ritmica e dal buon Faulkner, fidato compagno di bagordi chitarristici. Con Evil Never Dies il sound non perde un’oncia di durezza, ispessito anche da un corposo refrain che consente ad Halford di ergersi ancora a potente ugola, qui tenuta un tono sotto per poter esplodere nel bridge centrale, supportato da sommessi cori che sostanziano la linea sonora della traccia, pronta a scattare nella fase di mezzo con un nitido e preciso assolo, che lascia il passo ad un intermezzo semiacustico che proietta il brano verso l’infuocato finale. La drammatizzazione iniziale che le chitarre danno di Never The Heroes lascia a bocca aperta: Travis e lo slide di ambo le asce fanno apprezzare ancor più l’entrata del “vetriolato” canto, qui non a disagio su tonalità rallentate, che anzi consentono al brano di essere maggiormente interpretato e raggiungere vette ancora sorprendenti per una band che apparentemente abbia già pagato dazio agli anni trascorsi.

La potenza di Necromancer è paragonabile ai primi lavori del “Prete”, quando il brano veniva letteralmente aperto in due e portato in salvo attraverso tutti gli artifici della band: quintetto assolutamente compatto anche in questa sede, con singer a lacerare orecchie, asce a menare fendenti e la coppia Hill/Travis a preparare il terreno per la furia centrale del brano, stavolta “canonico” nello strutturarsi nell’arco dei classici 3-minuti-3. Epico, l’intro di Children Of The Sun ed è proprio l’incedere del brano che lo rende degno di entrare in una ipotetica chart del genere tanto caro ai Manowar: ovviamente, il falso metal è qui tenuto a debita distanza anche dai nostri di Birmingham, che nella fase centrale tornano a calcare le vie del nostro amato genere, gestendo alla perfezione l’entrata a cappella del duo Tipton/Faulkner, ormai consolidato anche nei passaggi più arditi. Superbo, l’intro pianistico (?!) di Guardians, che con la sei corde in sottofondo funge da ideale palcoscenico in apertura per la successiva Rising From Ruins, candidandosi da subito a divenire tra le gemme del disco, grazie ad una sentita e toccante interpretazione di Halford, qui autentico mattatore come ai bei tempi di Out In The Cold; gli anni sono ormai trascorsi, a decadi, da quelle vette, pur non sembrando per nulla. Grande il sottofondo slide delle chitarre, oltre al ritornello davvero apocalittico che lascia campo libero all’articolato solo delle medesime, allungato anche sulle corde roventi.

Flame Thrower è un bel districarsi tra intrecci chitarristici e cantato molto aggressivo, che tuttavia non tralascia parentesi anche leggermente melodiche, specialmente nell’enunciazione del ritornello, che resta stampato in mente per la sua facilità ed immediatezza, che caratterizza anche il solido assolo centrale. Il lato oscuro della band fa ancora capolino nell’esecuzione di Spectre: molto dark l’intro delle sei corde, che consente ad Halford di destreggiarsi attraverso un groove molto coinvolgente, attorno al quale il duo di asce articola un intenso arpeggio molto tecnico, pur nella sua apparente semplicità, che invece torna ad essere di livello superiore nell’articolato bridge di metà brano. Ottima la slide che introduce Traitors Gate, brano di assoluta potenza ed energia nel quale ritroviamo specialmente il graffio dei bei tempi da parte del buon Travis: Halford, dal suo canto, prende la situazione in mano e ci conduce attraverso la palude infuocata del metallo più rovente con la voce che non appare intaccata dagli anni (67!!). No Surrender pare desiderare che il nostro stereo ruoti vorticosamente su sé stesso, squassato dalla doppia cassa imperante e dal cantato violento come ai bei tempi di Unleashed In The East: le asce continuano a compiere appieno il loro dovere, mentre Halford non lascia che la cerimonia si addormenti su ritmi non metallici, che anzi divengono ancor più aggressivi.

Chitarra quasi synth che introduce Lone Wolf, che vede ancora Halford raggiungere range vocali piacevolmente elevati, mantenendo dritta la barra di una esibizione davvero potente, con gli acuti che non scarseggiano; mentre gli altri musicisti continuano a pestare di brutto, il singer non lesina un grammo di screaming nemmeno alla fine dell’album, dopo una cavalcata modernissima di metal classico, che si chiude con l’epicità di Sea Of Red e la sua slide che pare proprio aprire in due l’omonimo mare a mo’ di miracolo. Lo stesso Mosé sotto sotto avrebbe gradito la voce messianica di Halford che conduce i discepoli attraverso il porto sicuro della musica del “Prete di Giuda”, solo in questo caso “perdonato” dal Salvatore dell’umanità per aver sfornato un album ancora leggendario e storicamente rilevante.

Autore: Judas Priest

Titolo Album: Firepower

Anno: 2018

Casa Discografica: Epic

Genere musicale: Heavy Metal

Voto: 8

Tipo: CD

Sito web: www.judaspriest.com

Membri band:

Rob Halford – voce

Glenn Tipton – chitarra

Ritchie Faulkner – chitarra

Ian Hill – basso

Scott Travis – batteria

Tracklist:

  1. Firepower

  2. Lightning Strikes

  3. Evil Never Dies

  4. Never The Heroes

  5. Necromancer

  6. Children Of The Sun

  7. Guardians

  8. Rising From Ruins

  9. Flame Thrower

  10. Spectre

  11. Traitors Gate

  12. No Surrender

  13. Lone Wolf

  14. Sea Of Red

Category : Recensioni
Tags : Judas Priest
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