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04th Dic2020

Quiet Riot – Hollywood Cowboys

by Giancarlo Amitrano
Parafrasando una celebre frase di Scalfaro in un suo discorso di fine anno agli italiani, viene anche a noi spontaneo dire : “Non ci sto!”. In che senso, ci si chiederà: facile a rispondere, nel senso di non accettare per nulla quella che è (al momento, e probabilmente, per sempre) l’ultima fatica del glorioso combo losangelino. Se già al precedente Road Rage i nasi si erano storti in modo considerevole, con l’odierno lenght tutte le “perplessità” vengono (s)piacevolmente spazzate via. La vexata quaestio non può che ruotare ancora e sempre attorno a James Durbin, che non solo per colpa sua non riesce nell’intento di avvicinare pur lontanamente le sonorità dell’insostituibile e beneamato Dubrow, ma di suo ci mette anche il suo timbro del tutto inadatto ad una band con i “cosiddetti”, che si ritrova così a dover rincorrere timbriche e range vocali fuori luogo. E dire che la band si mette di buzzo buono, con una buona complessiva prestazione generale, che inizia con Don’t Call It Love ed una più che discreta esibizione del quartetto, su cui svetta (per modo di dire) il cantato del tutto autonomo nel rincorrere una sua linea guida, più adatta ad un gruppo glam tutto paillettes e lustrini, come pare essere in questo frangente il gruppo, che inserisce cori per vero odiosissimi che fanno venire il desiderio di skippare in fretta, nonostante l’ennesimo buon solo di Grossi.

La buonissima doppia cassa di Banali ravviva l’esecuzione di In The Blood , altrimenti irritante il giusto: meno male che il grosso del lavoro “sporco” lo fanno gli strumentisti, mentre Durbin esegue il brano con un falsettone che userà molto in questo lenght, per la felicità di chi ascolta. Che si inerpica quindi in Heartbreak City ed il drumming sempiterno di Frankie Banali, che tenta di portare luce nell’oscurità: pare, tuttavia, che anche il songwriting sia divenuto di scarso interesse per il gruppo, che si abbandona straccamente all’esecuzione di una traccia parecchio piatta, laddove il cantato di Durbin si accosta paradossalmente meglio. The Devil That You Know non si discosta da quanto sinora ascoltato, con il singer che vaga per la sua strada e per giunta coinvolgendo la band in un rincorrerlo attraverso linee sonore stavolta leggermente più aggressive ma al tempo stesso rovinate dai soliti background vocali che non si comprende chi abbia spinto per inserirli a piacimento. Change Or Die ha il “merito” di essere la traccia peggiore dell’album: dispiace stangare così, ma la realtà sonora ed uditiva ci fa quasi dubitare di stare ascoltando uno dei gruppi più famosi della scena losangelina: anche la batteria si appiattisce sulle trame imbastite dal singer, che a quanto pare si bea dei cori che paiono rafforzarne la prestazione. Grossi ci mette del suo per mandare avanti la baracca, ma il sound risulta senza mordente e svanisce per fortuna in fretta.

Roll On appare un bluesaccione (ebbene sì), sul quale il buon Durbin può non sforzare soverchiamente l’ugola delicata, magari più adatta ad esecuzioni simili, che la band forse non si sarebbe sognata alcune decadi addietro, ma tant’è, e quindi avanti su questa stregua che pare essere gradita a tutto il quartetto (o forse no…). Insanity torna a ruggire con un furioso drumming ed una ascia infuocata, che conducono velocemente le danze e lasciano ben sperare in un colpo di coda: in effetti, il ritmo è certamente più veloce e la prestazione è nel complesso discreta, salvo tornare alla nota stonata del cantato, che stavolta viene fortunatamente messo leggermente in disparte dalla preminenza della sei corde che tiene per sé la parte principale. Hellbender ha un altro buon incipit, che viene puntualmente disatteso dall’esecuzione delle parti cantate: voi direte, “ma forse ce l’hai con il cantante?” la risposta non può che essere che sì, sfortunatamente, se il risultato deve essere un’accozzaglia di note che non fa onore ad una band capace di ben altri ruggiti. Wild Horses è una cavalcata leggermente hard’n’roll, sulla quale Durbin si trova forse a suo agio e meglio incardinato nella parte; il divenire della traccia gli consente di cantare stavolta dritto per dritto senza infingimenti e soprattutto cori, naturalmente sempre nell’ambito delle coordinate di cui in premessa, con in più un buon solo di Grossi a chiudere.

Holding On passa via in fretta con un midtempo che sorprende come il momento blues di cui sopra: nonostante questo, anche in questo brano il singer riesce a fornire una discreta prestazione grazie alla struttura del brano che gli consente diverse pause tra una strofa e l’altra, consentendogli di restare sul pezzo in senso letterale arrivando senza “incidenti” alla fine del pezzo. Ci si avvicina alla fine: Last Outcast spara fendenti veloci con un drumming ancora esplosivo, un basso rutilante ed un James Durbin che per una volta si decide ad indossare i panni di un cantante hard che si rispetti, con inattesi buoni vocalizzi che l’assolo di Grossi fa finalmente risaltare nei circa tre minuti del brano, che spiana la strada alla conclusione affidata ad Arrows & Angels che vede una buona batteria in primo piano e la voce di Durbin che si barcamena ancora su di evoluzioni non del tutto soddisfacenti che confermano in pieno tutte le perplessità provate ed il dispiacere intenso nell’ascoltare un album che non doveva essere assolutamente il canto del cigno (almeno sinora) di una band gloriosa e storica.

Autore: Quiet Riot Titolo Album: Hollywood Cowboys
Anno: 2019 Casa Discografica: Frontiers Records
Genere musicale: Hard Rock Voto: 5
Tipo: CD Sito web: www.quietriot.band
Membri Band:
James Durbin – voce
Alex Grossi – chitarra
Chuck Wright – basso
Frankie Banali – batteria
Tracklist:
1. Don’t Call It Love
2. In The Blood
3. Heartbreak City
4. The Devil That You Know
5. Change Or Die
6. Roll On
7. Insanity
8. Hellbender
9. Wild Horses
10. Holding On
11. Last Outcast
12. Arrows And Angels
Category : Recensioni
Tags : Quiet Riot
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