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08th Set2021

Black Sabbath – 13

by Giancarlo Amitrano
Ci piace introdurre questo album con due parole di premessa, dato che occorrerebbero pagine intere per descrivere queste leggende e cosa abbiano rappresentato, non solo in ambito musicale. Tuttavia, affermando inoltre che quasi certamente non occorre spendere parole che non siano già note ai più, bisogna pur dire che anche la realizzazione di questo lenght ha alle spalle un suo background non indifferente, che per compiacere chi legge (ma anche chi scrive) si cercherà di esporre in maniera sintetica e soddisfacente. Sono trascorsi 18 anni dallo scalcagnato Forbidden (e la relativa collaborazione con il rapper Ice-T!) e tantissima acqua è passata sotto i ponti del Sabba Nero: tentativi di reunion andati a vuoto, le solite beghe tra i musicisti, le rispettive carriere soliste, un nuovo monicker (Heaven And Hell), un linfoma (benigno) diagnosticato a Iommi, ma soprattutto la morte di Ronnie James Dio che mette la parola fine ad un’era. Tuttavia, già anni prima l’originale line-up si era riavvicinata per provare a tornare in studio, stoppandosi quasi subito di fronte alle summenzionate problematiche, mantenendo comunque salda l’intenzione di tentare di realizzare un nuovo album, tenendo ben presenti i tempi mutati e specialmente le esperienze trascorse dai musicisti.

Musicisti che non si scoraggiano decidendo di affidarsi alla produzione del pluripremiato Rick Rubin (reduce dai successi con Red Hot Chili Peppers e Metallica, tra gli altri), fanno capire ai fan di non voler tornare solo per ingrossare il conto in banca ma per dimostrare di poter essere ancora sulla breccia e respingere l’assalto dei tanti cosiddetti pretendenti alla loro eredità musicale. Un dazio da pagare, comunque, l’album deve necessariamente pagarlo: Bill Ward si dichiara non intenzionato a parteciparvi per “incompatibilità con un paio di membri della band” (parole sue), obbligando quindi gli altri a reclutare nientemeno che Brad Wilk, già drummer dei Rage Against The Machine ed Audioslave, quindi quanto di più lontano dalla proposta musicale dei Nostri. Eppure, udite udite, il prodotto finale non delude: risorti come l’Araba Fenice dalle proprie ceneri, i Nostri quasi settantenni ritornano alla grande con 11 tracce sontuose, che addirittura recuperano le sonorità originali dei decenni passati, oltre alla nuova linfa instillata dal nuovo drummer, che ovviamente non è Ward, Powell, Appice o Rondinelli, ma riesce comunque a dare un suo tocco personale che i più accorti certamente noteranno.

Andiamo ad aprire le danze, quindi, con End Of The Beginning e la chitarra di Iommi che si adopera molto nello slide iniziale, salvo poi virare verso un ispessimento del suono: i brani sono più lunghi nella durata e questo consente soprattutto ad Ozzy di rispettare i suoi tempi canori nella enunciazione delle strofe e del ritornello, coadiuvato in questo dal sapiente lavoro di Butler che come un orologio svizzero detta e batte i tempi con una precisione immutata e cristallina: su tutto, ovviamente, torreggia e campeggia la suprema ascia del mancino per eccellenza (sempre dopo Hendrix) che pare essere rifiorito a nuova giovinezza ed ispirazione con base ritmica ed al tempo stesso con degnissima esecuzione solista al momento giusto. God Is Dead è di altrettanto consistente durata temporale, con la sua atmosfera infernale che viene descritta in musica con una ascia ancora slide in sottofondo che consente ad Ozzy di evocare a voce alta spettri e demoni, in tema con le allegorie diaboliche dei primissimi album: pare essere tornati a 40 anni orsono con un cantato che esce direttamente dalle profondità degli Inferi, specialmente quando afferma che “Dio è morto”; eppure non riusciamo ad “odiare” la sua blasfemia, rendendosi egli stesso “ruffiano” ai nostri occhi con la sua caratteristica voce roca e a tratti sgraziata che pure sembra non risentire eccessivamente dei lustri trascorsi dal Madman (eccome, se sono trascorsi…tra pipistrelli, colombe azzannate a morte e soprattutto la scomparsa ancor oggi assurdissima di Randy Rhoads), mantenendosi sino alla fine del brano su livelli più che degni grazie all’aiuto di Iommi che lo solleva da eccessive e reiterate incombenze vocali fornendo il suo riffone utile a farlo rifiatare per portare bene a termine la traccia.

Loner va subito al sodo: il titolo viene subito posto in evidenza, con una esecuzione abbastanza buona che si porta dietro l’intenzione del singer di voler rallentare a dovere il cantato perché ogni singola nota esca chiara e pulita: Wilk è preciso nel suo compito, mentre Iommi si destreggia bene tra le varie anime del pezzo, che da un iniziale mid tempo passa ad un successivo ed energico hard’n’roll su cui si erge sempre l’estro del chitarrista che qui sfoggia un assolo come ai bei tempi. La risata luciferina che Ozzy introduce a Zeitgeist rimanda all’epoca più “demoniaca” della band: le atmosfere decadenti che la valida slide di Iommi propone in sottofondo sono l’ideale per declamare note oscure ed infernali con le quali il singer può trovare la sua giusta collocazione a metà tra il doom ed il dark metal, ovviamente di gran classe, che le percussioni appena accennate contribuiscono ad accentuare e a rendere molto coinvolgenti e drammatiche le evoluzioni del duo Ozzy/Iommi che non lesina il suo sentito assolo pur contenuto nel finale. Age Of Reason è un brano lungo che consente al gruppo di cambiate tempi e battute diverse volte, sia pure con l’eccezione del cantato che prosegue senza strappi lungo l’evolversi della traccia, che vede una buona collaborazione della sezione ritmica: la fase centrale del brano vede un evolversi del sound verso un ispessimento del medesimo, con atmosfere sulfuree che le continue rullate di Wilk contribuiscono ad indirizzare verso la successiva fase, ovvero quella in cui il canto diviene quasi narrativo fino al momento dell’entrata in scena dell’ascia del “mustacchio” per eccellenza che qui sfodera un altro dei suoi soli enormi.

Con Live Forever la velocità resta costante, attraverso crash e drumming intenso di Wilk che ben si inserisce nei condotti principali dettati da Butler ed Iommi: non si candiderà ad essere tra le tracce più memorabili della band, ma di certo non manca l’energia giusta che i Nostri riescono ancora ad indirizzare nella corretta direzione, con il “cacofonico” Ozzy che non ha perso un’oncia della sua caratteristica voce e che si unisce alla ennesima buona prova all’ascia del “leader maximo”. Ancora una traccia a lunga gittata e l’atmosfera che al suo interno vi regna non lascia presagire nulla di scontato, tanto che il Damaged Soul di cui al titolo è del tutto azzeccato nella sua intensità; le tempistiche sono leggermente più rilassate, pur tenendosi sempre nell’ambito di una buona e valida riuscita musicale, che sia il cantato di Ozzy che l’ascia di Iommi contribuiscono a tenere sempre attente e sul pezzo nel vero senso del termine, grazie anche al signor assolo del Mancino per eccellenza dei nostri tempi. Dear Father è anch’esso brano lungo ed intenso: Ozzy non si avventura su scale vocali che potrebbero oggi risultargli ostiche e dunque si tiene saggiamente su timbriche più consone e maggiormente stridule, probabilmente per consentirgli di meglio enunciare il refrain che risulta gradevole e per nulla scontato, con un sottofondo di basso che pare rimbombare nelle casse, tanto per non scordare chi sia sempre l’altra mente pensante del gruppo.

Che bello, l’intro acustico di Methademic: lo rende più intrigante all’ascolto della fase successiva quando il suono si indurisce e pare di trovarsi di fronte ad una “qualunque” metal band; solo che i Nostri hanno alle spalle oltre 4 decadi di legna pregiata e dunque possono ben permettersi di spaziare come desiderano all’interno di uno stesso brano. Ed è quindi doveroso che l’assolo di Iommi sia fresso ed incandescente con la sua magica mano sinistra a dettare tempi che gran parte dei virgulti odierni può solo sognarsi. Peace Of Mind si tiene su livelli più che degni, pur essendo il ritmo stavolta molto compassato; è Ozzy a portare il peso del brano con una interpretazione molto piacevole, che vede ancora una validissima sezione ritmica a menare fendenti a 360 gradi e con Iommi che ben si districa nella difficile veste di chitarra anche ritmica, oltre che al gioiello solista immancabile e deciso oltre che preciso e pulito. Le danze si chiudono con l’esecuzione liricamente impeccabile di Pariah: ci si trova di fronte ad una brano ancora tecnicamente integerrimo che risulta essere attualissimo nel suono per provenire da un gruppo come il nostro che continua a mantenersi su livelli di quasi eccellenza grazie ad Ozzy ed alla sua voce, alla coppia dei grandi baffoni Butler/Iommi e, perché no, alla potenza e all’esuberanza giovanile del buon Wilk che sa bene quando menare fendenti e quando tenere il ritmo sostenuto che i suoi “superiori” spesso ordinano. Il risultato non può essere che un giudizio finale di più che ampia soddisfazione, tenendo presenti i tempi in cui il lenght matura e soprattutto l’età anagraficamente attendibile ma di garanzia sicura di successo.

Autore: Black Sabbath Titolo Album: 13
Anno: 2013 Casa Discografica: Vertigo
Genere musicale: Hard Rock Voto: 7
Tipo: CD Sito web: www.black-sabbath.com
Membri Band:
Tony Iommi – chitarra
Ozzy Osbourne – voce
Geezer Butler – basso
Brad Wilk – batteria
Tracklist:
1. End Of The Beginning
2. God Is Dead
3. Loner
4. Zeitgeist
5. Age Of Reason
6. Live Forever
7. Damaged Soul
8. Dear Father
9. Methademic
10. Peace Of Mind
11. Pariah
Category : Recensioni
Tags : Black Sabbath
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