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11th Dic2021

Edguy – Theater Of Salvation

by Fabio Loffredo
Vain Glory Opera è un grandissimo successo che porta gli Edguy ad un successo mondiale ed è considerato da fan e critica il loro album migliore, ma dopo solo un anno la band ha già una seria di brani che finiranno in Theater Of Salvation, forse è questo il vero capolavoro della band per arrangiamenti più curati e ricchi e per un songwriting più fantasioso e anche per una maturazione tecnico strumentale e compositiva di ogni componente della band. The Healing Vision è un breve preludio con cori maestosi che apre le porte a Babyloon, power metal song che insegue sempre i migliori Helloween, per le parti di chitarra, per la voce di Tobias Sammet che si avvicina sempre di più a quella di Michael Kiske e per quel ritornello orecchiabile; The Headless Game cambia registro ma solo in parte, alterna momenti più cadenzati con richiami più epici e il classico power metal di scuola tedesca. A seguire c’è Land Of The Miracle, ballad con pianoforte e cori, alcuni riferimenti vanno ricercati nei Queen e in Elton John e molto affascinante è la parte finale con intrecci vocali d’effetto; inoltre in Wake Up The King torna il power metal ma con forti influenze classicheggianti, forse uno dei migliori brani di tutta la storia degli Edguy.

Falling Down continua con ritmiche veloci ma la vena melodica anche qui è molto marcata e Arrows Fly ha un guitar work più ricercato e in parte anche virtuoso e ancora Holy Shadows, heavy metal più cadenzato e per certi versi vicino al sound degli Stratovarius. Ancora tre brani, Another Time, l’altra ballad, stavolta più romantica e struggente per solo voce, pianoforte e archi, The Unbeliever, song ricca di interventi di chitarra notevoli e solos di stampo neoclassico e Theater Of Salvation, la title track, lunga suite di più di 14 minuti, dalle mille sfumature, spigolosa, articolata, ricca di cori, di momenti epici e maestosi, sicuramente l’apice di tutta la storia degli Edguy, vette che ancora oggi la band non è riuscita a raggiungere nuovamente.

Con Theater Of Salvation la band diventa un punto di svolta per l’AFM Records che continuerà a supportarli e a renderli una delle migliori band di power metal dopo gli Helloween.

Autore: EdguyTitolo Album: Theater Of Salvation
Anno: 1999Casa Discografica: AFM Records
Genere musicale: Heavy Metal, Power MetalVoto: 8,5
Tipo: CDSito web: http://www.edguy.net
Membri band:
Tobias Sammet – voce, tastiere, cori
Jens Ludwig – chitarra, cori
Dirk Sauer – chitarra, cori
Felix Bohnke – batteria
Tobias “Eggi” Exxel – basso

Special Guest:
Frank Tischer – pianoforte, tastiere
Daniel Galimarini – pianoforte
Markus Schmitt – cori
Ralf Zdiarstek – cori
Mark Laukel – cori
Uwe Ruppel – cori
Timo Ruppel – cori
Norman Meiritz – cori
Tracklist:
1. The Healing Vision
2. Babylon
3. The Headless Game
4. Land Of  The Miracle
5. Wake Up The King
6. Falling Down
7. Arrows Fly
8. Holy Shadows
9. Another Time
10. The Unbeliever
11. Theater Of Salvation
Category : Recensioni
Tags : Album del passato, Edguy
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27th Nov2021

Edguy – Kingdom Of Madness

by Fabio Loffredo
A Fulda, in Germania, due ragazzi di circa 15 anni, quindi due adolescenti che hanno già le idee chiare del loro futuro, decidono di formare una band di heavy metal. I loro nomi sono Tobias Sammet e Jens Ludwig. Il primo è cantante e bassista, ma anche chitarrista, il secondo è abile chitarrista. Insieme a Dirk Sauer, altro chitarrista e a Dominik Storch, batterista, formano gli Edguy e, innamorati degli Helloween, cercano di dire la loro nel power metal. Il primo vero album del 1995 (prima due demo, Evil Minded e Children Of Steel nel 1994), è autoprodotto e si intitola Savage Poetry, ma ne parleremo più avanti per la ristampa della AFM Records del 2000. La label tedesca nota subito il potenziale dei quattro giovanissimi ragazzi e fa firmare loro un contratto che li porterà lontano. Il secondo album, ma il primo con la AFM, è Kingdom Of Madness ed esce due anni più tardi, nel 1997. L’album mette in risalto l’entusiasmo dei ragazzi, un loro sogno che si avvera, ma è ancora un po’ acerbo il sound e anche la voce di Sammet fa capire che ci sono tante idee ma c’è ancora da lavorare. Kingdom Of Madness non scopiazza affatto gli Helloween, alcune influenze si sentono, ma già la band apre a melodie sia epiche che progressive, anche se nulla aggiunge a quanto detto fino a quel periodo nell’heavy metal.

Paradise inizia con una chitarra acustica e il basso, entra poi tutta la band per un heavy metal cadenzato e la voce di Tobias Sammet è ancora aspra ma già convince per la sua potenza; Wings Of A Dream è un brano più veloce e in chiaro Helloween style, compreso il ritornello orecchiabile e fiabesco mentre Heart Of Twilight è heavy metal più cadenzato e anche molto trascinante e non mancano aperture atmosferiche e melodiche con tracce progressive. Dark Symphony è poi un breve intro strumentale, epico e maestoso che apre le porte a Deadmaker, con fulminanti riff graffianti di chitarra, ma il brano segue le coordinate di quelli precedenti senza aggiungere nulla in più. Si va avanti con Angel Rebellion, dove tornano atmosfere più epiche e magnetiche e la voce di Sammet inizia a prendere una forma più versatile e When A Hero Cries, una sofferta ballad con un pianoforte iniziale che accompagna la voce di Sammet.

Gli ultimi due brai sono Steel Church, veloce e molto trascinante e The Kingdom, una lunga suite di quasi diciotto minuti e mezzo, ma forse proprio per l’inesperienza della band, sicuramente troppo lunga per le potenzialità della band per quel periodo. Ma la crescita degli Edguy arriverà molto presto.

Autore: EdguyTitolo Album: Kingdom Of Madness
Anno: 1997Casa Discografica: AFM Records
Genere musicale: Heavy Metal, Power MetalVoto: 6,5
Tipo: CDSito web: http://www.edguy.net
Membri band:
Tobias Sammet – voce, basso, chitarra
Jens Ludwig – chitarra
Dirk Sauer – chitarra
Dominik Storch – batteria  
Tracklist:
1. Paradise
2. Wings Of A Dream
3. Heart Of Twiligh
4. Dark Symphony
5. Deadmaker
6. Angel Rebellion
7. When A Heroes Cries
8. Steel Church
9. The Kingdom
Category : Recensioni
Tags : Album del passato, Edguy
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22nd Ott2021

Royal Hunt – Land Of Broken Hearts

by Giancarlo Amitrano
Questa volta l’avventura inizia da lontano, molto lontano. Ad incrociare i destini di una tra le più influenti band prog metal sono la polare Danimarca e l’altrettanto gelida Unione Sovietica, che danno i natali rispettivamente alla band ed al suo fondatore. Tastierista e polistrumentista, infatti, Andrè Andersen crea dal nulla un gruppo di affiatatissimi musicisti che in fretta legherà il suo nome ad alcune delle più belle pagine del genere con una naturalezza inconsueta la quale, unita ad una tecnica individuale non indifferente, contribuirà a sfornare album quasi mai al di sotto di una più che ampia sufficienza. Al disco di debutto, il leader si circonda di una schiera di più che validi compagni di viaggio, che contribuiscono non poco alla buona riuscita del prodotto: è un prog metal apparentemente di difficile interpretazione, ma che viene facilmente proposto (come detto) dalla band attraverso sonorità molto gradevoli che si uniscono all’abilità tecnica dei musicisti coinvolti. Si inizia, dunque, con Running Wild e la bella contrapposizione (che sarà molto presente nel disco) tra la voce imponente di Brockmann e la melodia imperante della traccia, connotata da ampie tastiere ed asce dalla delicatezza inconsueta e pur pronte a farsi sentire quando necessario il tutto, al servizio dell’esito finale del brano che mette subito in risalto il refrain ampiamente ripetuto e comunque di una orecchiabilità piacevolmente intrigante che fa risaltare il buon intento del gruppo.

Easy Rider mette in luce l’abilità di Andersen nel rendere gradevole all’ascolto anche una traccia dalla struttura elementare come questa che consente al tastierista di estrapolare dei significati musicali anche in un brano ruvido in alcuni passaggi, ma sempre orientato ad una melodia non indifferente e di livello piacevolmente alto. Se l’ascoltatore dell’epoca avesse avuto ancora qualche remora ad approcciarsi a siffatto sound, ecco che l’ardita esecuzione di Flight spazza via tutti i dubbi: un drumming infuocato viene pure messo in secondo piano dalle gagliarde voci di coro che rafforzano potentemente un brano di proporzioni davvero notevoli ed ancora oggi cavallo di battaglia live della band, che ci mette davvero tutto per realizzare già un piccolo gioiello all’epoca colpevolmente misconosciuto, ma che ad ascoltarlo oggi fa venire i brividi per l’abilità di incrociare alla perfezione gli assoli e le alte evoluzioni tastieristiche di Andersen. Il gruppo sta ingranando la quarta, perché con Age Gone Wild si mette il turbo con una ottima esecuzione di Brockmann che si eleva all’interno di un brano dal pathos elevatissimo, a tratti intimista che via via degrada verso sua Maestà la melodia ad intersecarsi con un crescendo di asce infuocate cui i cori notabili donano ulteriore linfa vitale alla parte finale.

Non contenti, eppure siamo solo a metà album, ecco un’altra perla da esibire agli stavolta (si spera) colpiti ascoltatori: la strumentale e superiore Martial Arts che diventa campo di battaglia per un infuocato duello tra Andersen e la chitarra come altri giganti del passato hanno già messo in atto; in questo caso è una cavalcata quasi progressiva (appunto) che i due strumenti mettono in scena per tenere chi ascolta incollato sino all’ultimo secondo per sapere come finirà. Nella fattispecie, in un tripudio dei due strumenti che ancora oggi dal vivo e senza esclusione di colpi raggelano il pubblico per la bellezza della traccia. Con One By One è la batteria a ritagliarsi un posto al sole: infatti, la preparazione del brano è molto indaginosa con una ampia introduzione strumentale che conduce al cuore del brano, in seguito adagiatosi appunto sul lavoro di Olsen che quasi circonda la traccia con i suoi pattern molto ben assestati, per far respirare quasi un’aria di mistero e di intrigo che la struttura stessa del brano riveste in più di un passaggio. Heart Of The City è un altro momento clou del disco: le atmosfere divengono quasi oscure, tra luci ed ombre sia nelle strofe che nei ritornelli, mentre i background vocali fanno improvvisamente capolino con la loro vena triste ed intima all’interno di una struttura i cui testi sono anch’essi degni di menzione e non rivolti solo alla platea più melodica, che qui può apprezzare ancora la bravura dei Nostri alle prese con una traccia diversa dalle altre.

Giungiamo allora alla titletrack ed esaminiamola per la sua molteplice caratura: il titolo paventa una landa (appunto) di desolazione, di guerra e marzialità totale, aspetto che il gruppo riprende alla grande con una esecuzione potente ed intensa, in cui anche strofa e ritornello debbono essere allungate con enfasi per strizzare l’occhio sia al prog che (in alcuni tratti) all’AOR, per poi dirigersi verso un finale ricco di pathos persino nei cori che in fretta si fanno da parte per lasciare la scena all’intenso e finale confronto-scontro tra singer e tastiere in cui (non) ne resterà soltanto uno. C’è il secondo momento strumentale cui indulgere: Freeway Jam è ancora tempio per la eterna battaglia tra chitarra e tastiere, la cui staffetta stavolta provoca più di un piacevole capogiro per i repentini cambi di marcia che incalzano all’interno della pur relativa brevità del brano. Kingdom Dark, traccia finale nella normale edizione, chiude l’album mostrando l’animo più ingenuo della band che qui si balocca nella pomposità delle tastiere, nella ruffianeria dei cori pur ammalianti e nella a tratti vena danzante che chiude il brano, che si contorna al suo interno di una sezione fiati che allarga ulteriormente questa parentesi multiforme del gruppo che chiude così un album oggi da rivalutare più che appieno.

Come detto, poiché la band ha il culto dell’eccesso, ecco che l’edizione deluxe si compiace di due tracce extra affatto trascurabili: la infatti monumentale Stranded con il sound epico e coinvolgente e di cui ci si dovrà necessariamente (ri)occupare tra qualche tempo per la sua bellezza variopinta tutta tendente all’AOR stavolta smaccatissimo eppure di pregio; l’incalzante e conclusiva Day In Day Out dal ritmo straripante che all’epoca indusse chi di dovere a ricavarne anche una gradevole clip, che certo non toglie e non mette al valore già indiscusso di un album troppo sottovalutato all’epoca, che comunque ha avuto il merito di introdurre il gruppo ai futuri ed imminenti e meritati fasti.

Autore: Royal HuntTitolo Album: Land Of Broken Hearts
Anno: 1992Casa Discografica: Rondel Records
Genere musicale: Prog MetalVoto: 7
Tipo: CDSito web: www.royalhunt.com
Membri Band:
Andrè Andersen – tastiere, chitarre
Henrik Brockmann – voce
Steen Mogensen – basso
Kenneth Olsen – batteria
Henrik Johannessen – chitarra su traccia 12
Jacob Kjaer – chitarra su tracce 4, 9 e 11
Mac Guanaa – chitarra
Maria Mc Turk – cori
Maria Norfelt – cori
Carsten Olsen – cori
Tracklist:
1. Running Wild
2. Easy Rider
3. Flight
4. Age Gone Wild
5. Martial Arts
6. One By One
7. Heart Of The City
8. Land Of Broken Hearts
9. Freeway Jam
10. Kingdom Dark
11. Stranded (bonus track)
12. Day In Day Out (bonus track)
Category : Recensioni
Tags : Album del passato, Progressive
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14th Ago2021

Angra – Holy Land

by Fabio Loffredo
Con Angels Cry di cui avevamo parlato qui gli Angra riescono a ricevere consensi un po’ ovunque, ma è con il successive Holy Land che raggiungono vette forse impensabili e irraggiungibili. Holy Land è un concept album sulla scoperta del Sud America e la band brasiliana ne crea una colonna sonora ineccepibile e i vari brani si arricchiscono sempre di più di contaminazioni sinfoniche e della cultura musicale brasiliana creando un caleidoscopio di suoni e di colori. Crossing è un intro sinfonico di Giovanni Pierluigi Da Palestrina, organista e compositore del Rinascimento, che apre le danze con ammalianti cori e tra onde del mare e un forte temporale arriva su un prorompente e tribale lavoro ritmico Nothing To Say, brano strepitoso tra ritmiche della cultura brasiliana e un potente power metal a cui si aggiungono meravigliose linee melodiche e sinfoniche e parti vocali da parte di Matos che hanno quasi dell’incredibile e non da meno sono gli interventi delle chitarre di Loureiro e Bittencourt tra riff virtuosi e solos e ampie parti orchestrali. Questo è solo l’inizio, l’apice per la band brasiliana e un pianoforte e le emozionanti linee vocali di Matos introducono Silence And Distance, affascinante gioiello progressive metal con tempi dispari e nel corso del brano i riff di chitarra e la voce di Matos che si inseguono con le parti orchestrali e il ritornello orecchiabile tra operetta e musical e le parti chitarristiche eccezionali.

Arriva poi Carolina IV, altra splendida song, piccola suite di quasi 11 minuti con forti influenze del folk brasiliano, musica classica e progressive e sfuriate speed/thrash metal ma sempre con marcate melodie armoniose e una parte da brividi con pianoforte, violoncello e orchestra. Holy Land è la title track, tra progressive e world music con percussioni brasiliane, un pianoforte che invita a ballare, qui la cultura brasiliana è fortemente accentuata così come lo è la vena sinfonica e progressiva e The Shaman, dove ancora una volta il sound volta la faccia verso il progressive metal e molto affascinanti sono gli intrecci vocali che accompagnano la voce di Matos. Ancora 4 brani, Make Believe, dalle influenze molto anni 70, una ballad sinfonica molto avvolgente e con interventi anche di chitarra acustica, Z.I.T.O., dove torna il power metal di matrice Helloween più energico e trascinante ma con intermezzo sinfonico con archi e clavicembalo e guitar solo in stile neoclassico, Deep Blue, song che fa rabbrividire per la performance vocale di Matos accompagnata da pianoforte, violini e viole ed entrano poi gli altri strumenti compreso un organo a canne, trombe, tromboni e canti gregoriani,  per quello che è sicuramente il brano più progressive dell’intera storia degli Angra e infine Lullaby For Lucifer, delicata ballad acustica accompagnata dal suono delle onde del mare e canti di gabbiani.

Holy Land rimane il capolavoro degli Angra, un album a cui la band non è riuscita più ad eguagliare, anzi subito dopo inizia la fase discendente.

Autore: Angra Titolo Album: Holy Land
Anno: 1996 Casa Discografica: LMP Records, Lucretia Records
Genere musicale: Power Metal, Progressive Metral Voto: 10
Tipo: CD Sito web: http://www.angra.net
Membri band:
Andre Matos – voce, pianoforte, tastiere, arrangiamenti orchestrali
Kiko Loureiro – chitarra
Rafael Bittencourt – chitarra
Luìs Marìutti – basso
Ricardo Confessori – batteria
Tracklist:
1.Crossing
2. Nothing To Say
3. Silence And Distance
4. Carolina IV
5. Holy Land
6. The Shaman
7. Make Believe
8. Z.I.T.O.
9. Deep Blue
10. Lullaby For Lucifer
Category : Recensioni
Tags : Album del passato, Angra
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06th Ago2021

Blackfoot – Flyin’ High

by Giancarlo Amitrano
Il più che valido disco di esordio segna per la band un “classico” punto di partenza: incoraggiata dal buon riscontro di vendite, pur non eccelso, il combo “indiano” si mette subito al lavoro per sfornare un degno successore del primo lenght. Con la formazione immutata, il gruppo si sente sicuro di poter offrire altra degna prova, mantenendo in linea di massima le sonorità tipiche del debutto ed occorre dire che con l’attacco di Feelin’Good si va subito a dama, con una traccia che scorre via davvero veloce grazie ad un bel drumming di Spires che fornisce la giusta direttiva al cantato di Medlocke, la cui chitarra si unisce all’ascia di Hargrett per costruire un buon tappeto sonoro pur nell’ambito della relativa brevità del brano. Si passa subito alla titletrack, al cui interno il sound si ispessisce con le sei corde che tengono bene i tempi ed al tempo stesso riescono a dettare la loro linea sonora molto intensa, sulla quale ovviamente il canto del “leader maximo” riesce ad ottenere la partecipazione di chi ascolta grazie alla timbrica molto aggressiva e alla caratteristica tendenza ad allungare le note, tra l’altro molto ben riuscendovi. Da sottolineare anche il buon lavoro delle coriste che forniscono alla traccia il giusto “destro” per incamminarsi verso una buona conclusione, tenendo sempre in evidenza il solido lavoro della sezione rimica che qui tratteggia bene ottime atmosfere sempre “virili” senza distaccarsi dal sano hard’n’roll con tipiche venature sudiste al suo interno.

Try A Little Harder consta di un buon arpeggio iniziale semiacustico, su cui presto si innestano i crash della batteria ed una solida linea sonora della sei corde del duo Medlocke/Hargrett, molto ben assortita ed assolutamente funzionale alle intenzioni del gruppo, ovvero di fornire una solida prova d’autore anche su tempi leggermente più rilassati che tuttavia non inficiano il prodotto finale, pur risultando di fondo una certa semplicità nell’esecuzione, pur di spessore e non tediosa. Con Stranger On The Road si torna a viaggiare veloci, con la linea sonora subito delineata verso un hard abbastanza ritmato e di sicuro spessore, che vede la band incamminarsi verso una cavalcata spensierata in cui fanno capolino anche delle intriganti tastiere: ma è il momento delle asce ad attrarre i maggiori consensi con un solo a doppia chitarra che lascia piacevolmente colpiti chi ascolta, mentre Medlocke si destreggia più che degnamente nella doppia veste di canto e chitarra, mantenendo sempre ben presenti le sue origini. Save Your Time ha un intro davvero intrigante, in cui Medlocke pare essersi reincarnato addirittura nell’alter ego di Alex Harvey e della sua Sensational Band: è infatti il suo tono a farcelo apparire come un intrattenitore perfetto, dal cantato pulito e da una chitarra in sottofondo che pare strappata con destrezza alle dita magiche di Zal Cleminson, ma sono i nostri “pellerossa” ad assicurarsi la scena in solitario senza dover ricorrere ad emulazioni di sorta, riuscendo a sfornare una traccia davvero notevole, con la sei corde che domina incontrastata in un lungo ed interminabile solo finale che pare non dover aver mai fine.

Dancin’Man inizia con un “complesso” arpeggio tra il drumming di Spires ed il cantato infuocato di Medlocke, su cui si inserisce una chitarra dai tempi molto dimezzati e degli acuti piazzati al momento giusto, sui quali sa ben come inserire il suo vocione intenso il buon singer: nel complesso del brano si nota la tendenza dei singoli membri di saper (giustamente) prevedere in anticipo come annunciare il proprio momento di celebrità personale, riuscendovi ampiamente senza soverchia fatica. Island Of Life è il brano più articolato del disco: non si notano momenti di stanca, con ogni singolo strumento inserito al momento giusto con una abilità ormai riconosciuta; siamo in compagnia di una solidissima prestazione vocale, una sezione ritmica davvero intrigante e con le chitarre ad essere sempre protagoniste, non solo al momento degli assoli, il tutto con la deliziosa voce di Medlocke a condire le atmosfere sudiste ma non per questo remissive. Junkie’s Dream è un “semi lento” che la voce di Medlocke riesce comunque ad addomesticare da par suo, con gli accorgimenti vocali di cui sopra abbiamo già discusso: la traccia è comunque più che valida, con le chitarre che ci accompagnano lungo l’esecuzione del brano, inframmezzato da assoli brevi ma possenti che fanno risaltare maggiormente il cantato stavolta colmo anche di gorgheggi sapientemente azzeccati.

Madness si dà da fare subito con il drumming stavolta complesso nel suo pattern, che funge anche da solido accompagnamento ai vocalizzi del singer, che torna a ruggire con la voce graffiante che gli si riconosce: il refrain è molto azzeccato, così come il preciso e ricorrente ritorno della batteria ad una sonorità ritmica che fa molto uso della grancassa quasi a far da eco ai controcampi vocali che sono anch’essi molto ben accetti, come del resto il solidissimo assolo a sei corde. Si chiude con una spagnoleggiante Mother, dove l’atmosfera totalmente rilassata del brano consente una conseguenziale esecuzione molto tranquilla, con Walker che stavolta smette il basso e sforna una prestazione maiuscola con la chitarra “tiple” per donare al brano quel tocco sognante e molto gitano che la stessa linea vocale mette in risalto, tanto per chiudere come si deve anche la seconda fatica dei “piedi neri”.

Autore: Blackfoot Titolo Album: Flyin’ High
Anno: 1976 Casa Discografica: Epic
Genere musicale: Hard Rock Voto: 6
Tipo: CD Sito web: www.blackfootband.com
Membri Band:
Rick Medlocke  – voce, chitarra
Charlie Hargrett – chitarra
Greg Walker – basso
Jakson Spires – batteria
Suzy Storm – cori
Laura Struzick – cori
Tracklist:
1. Feelin’ Good
2. Flyin’ High
3. Try A Little Harder
4. Stranger On The Road
5. Save Your Time
6. Dancin’ Man
7. Island Of Life
8. Junkie’s Dream
9. Madness
10. Mother
Category : Recensioni
Tags : Album del passato
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30th Lug2021

Blackfoot – No Reservations

by Giancarlo Amitrano
Gradevolissimo, a volte, allontanarsi, di poco, dalle coordinate classiche dell’hard’n’heavy, pur restando nelle sue immediate vicinanze: sono , infatti, talmente tante le sfaccettature musicali che il genere ha prodotto da restare stupefatti di quanti “familiari” sia composta la stessa galassia. Uno di essi, sicuramente, è tutto quel movimento cosiddetto “southern” che ha fatto la fortuna di tante band e soprattutto dei cosiddetti Stati del Sud americano: gruppi di estrazione a volte anche non proprio a stelle e strisce, ma così contigui alla patria dello zio Sam da potersene a ragione dichiarare gloriosi discendenti. Una delle band sicuramente più in voga ed in prima fila nel portarne il vessillo è certamente quella capitanata da Rick Medlocke, il cui sangue indiano scorre orgogliosamente nelle sue vene, che già ben prima di giungere al debutto con il suo gruppo è attivo sulla scena statunitense con vari gruppi che però non giungono ancora alla ribalta. Finalmente si giunge al debutto a metà degli anni 70 con un album che mostra sin da subito quelle che saranno le caratteristiche della band, fieramente “sudista” e con un valido bagaglio tecnico che la voce speciale del leader renderanno unica nel suo settore.

Si parte allora con l’allegria di Railroad Man che Medlocke fa risaltare con un cantato aggressivo ma calmo al tempo stesso, con la band che lo segue pedissequamente con una prestazione già di spessore specialmente nel drumming intenso del fido Spires, preciso e tagliente in primis nei crash di cui fa largo e gradevole uso. Indian World è un midtempo molto accattivante, dominato dall’intensità del cantato di Medlocke, su cui ben si innestano buone tastiere di sottofondo ed una sezione ritmica già affiatata, mentre la coppia di asce appare ben amalgamata, riuscendo bene ad accompagnare le evoluzioni vocali del singer, aggressivo e dal cipiglio molto “pellerossa”, appunto. Si passa a Stars con la quale ci immergiamo a pieni padiglioni auricolari nei gloriosi anni 70, con Medlocke a tratteggiare una ballad che pare essere uscita dalle corde dei migliori cantastorie, con una produzione molto pompata che mette in risalto l’atmosfera calda ed attraente della traccia, in uno con il solidissimo lavoro delle asce che si prendono le luci della ribalta assieme al singer. Not Another Maker è un brano molto ben scritto, con una apprezzabile ed inattesa attenzione ai dettagli ed agli arrangiamenti che ben si dipanano lungo i 5 minuti della durata, all’interno dei quali le chitarre sono molto attraenti con il loro lavoro morbido ed intrigante, che prepara la strada al ritornello molto ben congegnato e rafforzato dai cori femminili che certo non guastano, per poi tornare il tutto a bomba con un solo ad effetto che riempie degnamente il brano.

Born To Rock & Roll è un brano che potremmo definire “catchy”, ossia coinvolgente e trascinante, sempre basandosi sulla relativa brevità della traccia: ancora Medlocke ad imperversare con la sua voce tipicamente “indiana” e da ideale capotribù che tenga unita la tribù pronta all’assalto musicale con un semplice ma avvincente refrain cui segue un assolo poderoso pur nella sua apparente elementarità. La stessa falsariga si propone con l’esecuzione di Take A Train, vero e proprio inno southern inframezzato da una combinazione di “smooth rock” ed hard classico, cui dona il proprio valente contributo il lavoro azzeccato di Spires con il suo drumming effervescente e sbarazzino, mentre le asce sono libere di esibirsi in un mix di ritmica e solismi non disprezzabili. Big Wheels vede un ottimo intro del basso di Walker, potente e profondo che ben si unisce al drumming veloce di Spires; subentra quindi il singer che evidenzia anche una buona capacità di tenere bene ed allo stesso modo toni alti e bassi, salvo poi elevarsi di range con un paio di screaming non indifferenti, che tacciono al momento di cedere il passo alle tonanti chitarre, che con il loro midtempo (anche qui) rendono intrigante la traccia.

I Stand Alone ha tutto il suo momento slow, con un giro molto rilassato che mette in evidenza la già alta abilità dei chitarristi, cui la lunghezza del brano non risulta indigesta per poter piazzare i loro soli al momento opportuno, rafforzati anche in questo caso da cori femminili assolutamente azzeccati ed alla bisogna. Si chiude con Railroad Man 2, composta nientemeno che dal nonno di Medlocke, il cui nipote ascolta il longevo antenato esibirsi al banjo in una esecuzione davvero calda ed emozionante quasi da vero apache, nel senso più bello del termine per chiudere nella maniera più simpatica possibile un album che promette avere più che degni successori.

Autore: Blackfoot Titolo Album: No Reservations
Anno: 1975 Casa Discografica: Island Records
Genere musicale: Hard Rock Voto: 6
Tipo: CD Sito web: www.blackfootband.com
Membri Band:
Rick Medlocke – voce, chitarra
Jakson Spires – batteria
Charlie Hargrett – chitarra
Greg Walker – basso, tastiere
Shorty Medlocke – banjo, voce su traccia 9
Suzy Storm – cori
Barbara Wyrick – cori
Laura Struzick – cori
Tracklist:
1. Railroad Man
2. Indian World
3. Stars
4. Not Another Maker
5. Born To Rock & Roll
6. Take A Train
7. Big Wheels
8. I Stand Alone
9. Railroad Man 2
Category : Recensioni
Tags : Album del passato, Hard Rock
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12th Feb2021

Saxon – Strong Arm Of The Law

by Giancarlo Amitrano
È al terzo album che i Saxon raggiungono la gloria assoluta: se con i primi due lavori la band aveva già lasciato intravvedere le enormi potenzialità in suo possesso, in attesa di esplodere completamente, con la sua terza fatica il quintetto valica le porte dell’olimpo e della leggenda. Rilasciato a pochi mesi di distanza dal già enorme Wheels Of Steel, l’odierno lenght tocca la perfezione sonora ed artistica, cogliendo vette certamente mapi più in futuro raggiunte: al massimo della sua forma fisica e tecnica, la band sforna 8 tracce al fulmicotone che non lasciano prigionieri sul campo e mettono a dura prova amplificatori di marca preclara che tutti ben conosciamo. La compattezza della band è granitica, ogni parte musicale è perfetta e suonata con precisione svizzera e potenza teutonica, mentre il cantato di Byff è fresso, metallico e squillante. Si parte con effetti che simulano una tempesta tropicale, un Heavy Metal Thunder con lampi e tuoni che appunto vengono ben presto “corroborati” da una micidiale coppia di asce, le quali delineano un drumming aggressivo e micidiale cui è difficile stare dietro. Il singer sa il fatto suo e non lesina acuti e note ampiamente trattenute ed allungate che consentono una chiara enunciazione del ritornello, risuonante come proprio il tuono metallico del titolo, per un inizio che già promette sfracelli.

Figurarsi, quindi, se possa “spaventare” il successivo attacco a sei corde di To Hell And Back Again che si incammina verso una potentissima cavalcata metal che mette a dura prova le corde vocali del Nostro, il quale, tuttavia, non se ne dà per inteso e sfoggia tutto il repertorio classico di uno screamer che si rispetti. Iil quartetto alle sue spalle non è da meno, offrendo un’ampia panoramica di potenti assoli ed altrettanto azzeccate melodie sempre a sei corde, con la sezione ritmica che sforna battute a centinaia facendo ritrovare l’ascoltatore in un uragano sonoro che il riffone centrale sublima alla perfezione con il conseguente “piacevole” sanguinamento uditivo. Al terzo solco troviamo la title track, su cui si erge un iniziale e superbo giro di basso che resta scolpito nei cuori e nella mente, mentre gli altri iniziano il loro solido “lavoro” con una traccia che riesce ad entusiasmare anche facendo largo uso di una tempistica stavolta molto rallentata, che tuttavia riesce a donare emozioni a iosa, sia per il testo che ovviamente per l’esecuzione: non compaiono tempi morti anche in momenti leggermente più “rilassati” all’interno del brano, che comunque si contraddistingue anche per un maestoso assolo centrale in cui le due chitarre si intersecano alla perfezione senza sovrapporsi e con una perfetta udibilità di ambo le asce, per un’ altra perla di questa mirabolante band.

Si abbatte su noi un’altra orda barbarica con l’ascolto di Taking Your Chances ed il suo ennesimo ritmico duo di chitarre che costruisce un vero muro del suono per introdurre il brano: le pareti paiono crollare da un momento all’altro, attendendo solo l’entrata in scena del singer che stavolta parte in quarta in una narrazione furiosa che ben si sposa con l’aggressività della traccia, muscolare e veloce quanto si vuole, ma al tempo stesso tecnica e superbamente incrociata in un vortice di note che sfociano in un maiuscolo assolo centrale che è la cornice del pezzo. Uno dei brani più violenti dell’intera discografia del gruppo è senz’altro 20,000 Feet: sin dal micidiale attacco del duo Oliver/Quinn sarà difficile tenere il passo della traccia. Impazzisce subito anche il drumming di Gill che sale pazzescamente di giri in un vorticoso ritmo di battute e crash tutti ravvicinatissimi, mentre le quattro corde di Dawson martellano in sottofondo: paradossalmente, il “meno impegnato” è proprio Byff (si fa per dire) che non deve fare altro che gridare a più non posso le potenti note del pezzo, giusto per accompagnare ancora una volta i due chitarristi in un rutilante asolo mozzafiato, che non chiude il pezzo come al solito, ma che lo proietta tra effetti vari ed aerei in sottofondo alla successiva Hungry Years. Con una partenza in surplace, il brano pare incamminarsi verso un inatteso mid tempo, che effettivamente pervade tutto il brano, ma che al tempo stesso si fonda sulla consueta linea aggressiva che non perde di intensità anche grazie al buonissimo cantato di Byff, che qui si industria a fare l’intrattenitore vocale di pregio, declamando chiaramente ogni singola nota che contribuisca alla riuscita del brano.

Sixth Form Girls inizia con una gagliarda giravolta delle chitarre che creano il consueto tappeto sonoro sul quale giostra da par suo l’indiavolato Gill che con un drumming tutt’altro che compassato tiene testa al “proprietario” del microfono che a sua volta si inerpica in un chiassoso arcobaleno di note tutte perfettamente scandite: è di certo il brano “relativamente” meno riuscito dell’album, ma non per questo non riesce a ritagliarsi il suo spazio grazie ai ripetuti brevi ma intensi assoli delle chitarre. È, dunque, con sommo piacere che introduciamo la traccia probabilmente più bella e più tecnica non solo dell’album, ma di tutta la produzione della band: Dallas 1 Pm è il tributo che il gruppo paga al ricordo di Jfk, probabilmente il più amato Presidente degli Stati Uniti d’America. Per fare questo, il quintetto mette in scena una vera e propria rappresentazione sonora di quanto accadde il famigerato 22 novembre 1963 che vide nella città texana l’assassinio di John Kennedy. La traccia è intensa e drammatica, con Byff che si “atteggia” a testimone oculare degli avvenimenti con il suo scandire intenso e partecipato degli ultimi istanti di vita del Presidente, mentre il restante quartetto impersona da par suo l’uditorio mondiale che attonito assiste: la fase centrale è memorabile, con gli spari  inseriti magistralmente ad introdurre una coppia di chitarre che qui si fa visivamente partecipe con una slide ed una elettrica ad accompagnare la reale voce dello speaker che annuncia la tragedia in diretta. Ed è questo punto che le asce decidono di reagire a modo loro sfoderando un assolo memorabile, che pare non voler avere mai fine, come se le stesse sei corde stessero partecipando il loro dolore con un uragano di note che si placa solo quando Byff decide di riprendere le fila del discorso, accompagnando (purtroppo) il brano verso la fine ricordando con la sua voce quanto accaduto, sino a quando un crash finale di Gill pone fine ad un autentico capolavoro, ancora oggi vessillo e stendardo di tutta la NWOBHM!

Autore: Saxon Titolo Album: Strong Arm Of The Law
Anno: 1980 Casa Discografica: Carrere
Genere musicale: Heavy Metal Voto: 8
Tipo: CD Sito web:  www.saxon747.com
Membri Band:
Byff – voce
Graham Oliver – chitarra
Paul Quinn – chitarra
Steve Dawson – basso
Pete Gill – batteria
Tracklist:
1. Heavy Metal Thunder
2. To Hell And Back Again
3. Strong Arm Of The Law
4. Taking Your Chances
5. 20, 000 Feet
6. Hungry Years
7. Sixth Form Girls
8. Dallas 1 PM
Category : Recensioni
Tags : Album del passato, Heavy Metal, Saxon
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05th Feb2021

Saxon – Wheels Of Steel

by Giancarlo Amitrano
L’album di debutto ha suscitato unanimi consensi per la band inglese che ha già lasciato intravvedere le sue enormi potenzialità: tutti si attendono la conferma ad una maggiore maturazione tecnica e compositiva, che viene non solo acclarata ma addirittura clamorosamente enfatizzata con il secondo album, che lascia tutti di stucco e resta ancora oggi uno dei capisaldi di tutta la NWOBHM albionica. Ed è proprio il secondo lenght a tratteggiare i primi aloni di celebrità metallica sul combo britannico, che sembra già maturo per sferrare il suo potente attacco alle vette di tutte le chart: i 9 brani che compongono l’album sono potenti, veloci e ritmicamente impeccabili, autentici cavalli di battaglia ancora oggi, a quattro decenni di distanza! Si parte , dunque, con il rombo potentissimo di una due ruote che scalda a ripetizione il motore: ecco che le asce sono subito mortifere, la sezione ritmica aggressiva e le battute della stessa batteria sono clave che mulinano palate in tutte le direzioni; nondimeno, il cantato di Byff e già superbamente metallico, stridulo il giusto tanto per dare la corretta e virile immagine al tarantolato Motorcycle Man del titolo, al cui interno troviamo uno dei (tanti) super assoli al fulmicotone.

Si prosegue con Stand Up And Be Counted con una già diversa intonazione vocale del singer, che qui usa a volte il falsetto ma solo per preparare la voce ai possenti gorgheggi che specialmente nel refrain sono particolarmente intensi: la coppia Quinn/Oliver gode di ottima salute e fa a gara nello sfoggiare ritmiche pesanti ed altrettanto intriganti brevi assoli che ben si sposano con la traccia, per renderla ancor più incandescente. Ecco giungere in fretta uno dei capolavori della band: Strangers In The Night ed il suo incedere maestoso la rendono traccia sempiterna, autentico manifesto di tutto il genere: le due chitarre avanzano come carri armati, mentre la ritmata voce di Byford intona alla perfezione ogni singola strofa, che non perde un’oncia di pulizia e precisione, con la ritmica che torna precisa e puntuale ad ogni fine strofa, per rendere il tutto maestoso soprattutto negli assoli ripetuti ed intervallati appunto dal cantato, solido ed accattivante. Altro giro, altra gemma: è la titletrack a prendersi il suo quarto d’ora di celebrità, preannunciata da un solidissimo giro di chitarre che si intersecano a creare la melodia su cui il cantato opera da par suo: brano molto incline ad essere “narrato” nella sua struttura, con la sua apparente semplicità porge invece il destro alla band per sfornare una prestazione super che viene immortalata dall’ossessivo e potente ritornello, ormai oggi nella leggenda anche grazie alle innumerevoli esibizioni dal vivo con cui la traccia è stata proposta.

Analizzandola con la nostalgia del glorioso LP, la seconda facciata si apre con l’ipertecnica e velocissima Freeway Mad, che in alcuni passaggi rievoca gloriosissimi screamer d’oltreoceano, di fronte ai quali il vocione di Byff non sfigura: supportato alla grande dalla band, il cantato è veloce, potente ed aggressivo, con un drumming feroce che Gill offre alla lacerazione dei timpani pur nella sua relativa breve durata, cosa che quindi non fa altro che accrescere il potenziale enorme del brano. Ancora, a piacimento di chi ascolta, arriviamo a See The Light Shining ed alla sua inattesa ma altrettanto piacevole drammatizzazione che il cantato porta ad evidenziare; dedicata all’altrettanto leggendario “Fast” Eddie Clark, la traccia onora il chitarrista dell’amico Lemmy con una prestazione altrettanto intensa ed altamente tecnica della coppia di asce Oliver/Quinn, che qui raggiungono vette artistiche elevatissime, oltre alla super prestazione al microfono di Byff. Street Fighting Gang prosegue alla grande ciò che sinora è stato proposto: le asce fanno a gara nell’introdurre una potentissima battuta di grancassa, su cui Byff si getta come un avvoltoio della savana. Il gruppo va subito al sodo, mettendo il singer nelle condizioni di enunciare subito il ritornello in una tempesta sonora di rara potenza: un basso martellante cui è difficile stare dietro tiene a bada la “incontinenza” sonora delle chitarre, che seguono pedissequamente il cantato con una precisione rara ad ascoltarsi, con un finale rovente in cui si intersecano asce, basso, voce e batteria, tutti scatenati.

Suzie Hold On ed il basso di Dawson rendono ancora onore a tutto il gruppo, stavolta grazie ad una metronoma batteria ed alla voce di Byford, che rivela anche una inaspettata vena semi melodica nell’enunciazione delle strofe. Ma l’anima metallica ha sempre la prevalenza, che stavolta si mette al servizio della traccia, che qui risulta precisa e puntuale nella sua esecuzione, pur essendo (solo un tantino) inferiore agli altri brani in scaletta. Si chiude con Machine Gun, altro brano di discreta lunghezza che consente ai Nostri di terminare degnamente l’album con una traccia molto ben articolata, tale da consentire al suo interno evoluzioni a ripetizione soprattutto delle dodici corde divise tra Graham Oliver e Paul Quinn: l’uragano sonoro, che al centro della traccia sfonderebbe anche i migliori impianti stereo, vale da solo l’ascolto del brano, che tuttavia è nel complesso cavallone di battaglia per il vocione da middle-class di Byff, che qui si agita come uno sciamano in attesa della pioggia e che puntualmente giunge nel finale sotto forma di riffoni e tornado autenticamente riprodotto con gli effetti sonori che chiudono superbamente uno dei “disconi” degli anni 80.

Autore: Saxon Titolo Album: Wheels Of Steel
Anno: 1980 Casa Discografica: Carrere
Genere musicale: Heavy Metal Voto: 8
Tipo: CD Sito web: www.saxon747.com
Membri Band:
Byff – voce
Graham Oliver – chitarra
Paul Quinn – chitarra
Steve Dawson – basso
Pete Gill – batteria
Tracklist:
1. Motorcycle Man
2. Stand Up And Be Counted
3. 747 (Strangers In The Night)
4. Wheels Of Steel
5. Freeway Mad
6. See The Light Shining
7. Street Fighting Man
8. Suzie Hold On
9. Machine Gun
Category : Recensioni
Tags : Album del passato, Saxon
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17th Gen2021

Voodoo Glow Skulls – Firme

by Marco Pisano
Tra gli esponenti più influenti e rappresentativi della scena ska punk californiana sorta tra la fine degli anni 80 e gli inizi dei 90, (o third wave of ska che dir si voglia) che lancerà sulla scena internazionale gruppi del calibro di Rancid, Mighty Mighty Bosstones, No Doubt, Goldfinger, Sublime, ecc., meritano un posto d’onore anche i Voodoo Glow Skulls. Nati nel 1988 grazie a Frank, Jorge e Eddie Casillas e al loro amico Jerry O’Neill, a cui in seguito si aggiungerà anche la sezione dei fiati, fonde magistralmente la furia, la velocità e l’aggressività dell’hardcore punk, con l’allegria e la leggerezza dello ska, sull’onda della lezione proveniente dai gruppi d’oltremanica appartenenti alla second wave of ska quali The Madness, The Specials, The Selecters e altri. I Voodoo Glow Skulls forniscono la loro personale interpretazione di questa unione creando un sound immediatamente riconoscibile e decisamente d’impatto, che difficilmente può passare inosservato e lasciare indifferenti; Firme, il primo album che incidono con la major Epitaph, è un perfetto esempio di quanto detto poco sopra; violente sfuriate e accelerazioni in puro stile HC si alternano, e più spesso, si fondono con la sezione fiati in perfetto stile ska, dando vita ad un sound piuttosto strambo, fino al punto di risultare a tratti quasi comico e paradossale, ma che funziona proprio per questo, per questa sua capacità di unire e far convivere alla perfezione due stili che di per sé, si prenderebbero più volentieri a pugni piuttosto che andare d’accordo.

Eppure la maestria della band ispano-californiana sta proprio nel dare vita ad un sound frenetico, dinamico, aggressivo e tosto, ma allo stesso tempo scanzonato, ironico, divertente e festaiolo, che di tutto ha voglia tranne che di prendersi sul serio. La furia, la rabbia e l’aggressività tipiche dell’HC vengono stemperate e alleggerite dal tocco scanzonato, giocoso e festaiolo dello ska e dei fiati. Come se al bullo della compagnia, metteste in testa il più buffo cappellino da festa che trovate e improvvisamente si trasformasse nel più feroce e incallito festaiolo. Lo spirito che contraddistingue quest’album è profondamente adolescenziale, festaiolo, allegro, goliardico, ironico e paradossale e, anche a giudicare da alcuni titoli quali Empty Bottles e Drunk Tank, molto alcolico. L’album, che fila via come un razzo, dato che le 16 tracce durano in totale appena 40 minuti, non risulta mai noioso, al contrario la sua velocità estrema non vi concederà mai un attimo di tregua e di riposo, vi terrà sempre sull’attenti e vi metterà addosso un’allegria e un’energia incredibili.

Da gustare tutto d’un fiato senza mai mettere in pausa e senza prendere fiato. Forse alla fine sarete un po’ stanchi, ma quasi sicuramente, molto più felici e allegri di prima. Altamente consigliato durante questo periodo di quarantena per tirarsi su il morale, per chi avesse voglia di fare un salto indietro nel tempo, tornando per un po’ alle sensazioni e alla libertà tipiche dell’adolescenza e sentirsi nuovamente adolescente e libero.

Autore: Voodoo Glow Skulls Titolo Album: Firme
Anno: 1995 Casa Discografica: Epitaph
Genere musicale: Ska, Hardcore Voto: 7,5
Tipo: CD Sito web: https://www.voodooglowskullsofficial.com/
Membri band:
Frank Casillas – voce
Eddie Casillas – chitarra
Jorge Casillas – basso
Jarry O’Neill – batteria
Joey Hernandez – sassofono
Brodie Johnson – trombone
John McNally – tromba
Tracklist:
1. Shoot The Moon
2. Closet Monster
3. Charlie Brown
4. Drunk Tank
5. Jocks From Hell
6. Trouble Walking
7. Give Me Someone I Can Trust
8. Empty Bottles
9. Fat Randy
10. Thrift Shop Junkie
11. El Coo Cooi
12. Method To This Madness
13. Construction
14. Malas Palabras
15. Nicotine Fit
16. Land Of Misfit Toys
Category : Recensioni
Tags : Album del passato, Ska
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13th Dic2020

Fu Manchu – California Crossing

by Marco Pisano
California Crossing, settimo album in studio della stoner band statunitense Fu Manchu, come facilmente prevedibile dal nome e dalla copertina, contiene fortissimi richiami musicali, visuali e culturali alla California. Ascoltandolo, è praticamente impossibile non pensare alle vastissime e aride aree desertiche del Mojave e della Death Valley, o alle spiagge super affollate di surfisti e alle passeggiate di Santa Monica e Malibù, o alla sfavillante e seducente Los Angeles, o al meraviglioso Golden Gate di San Francisco. Non a caso, la California è uno dei luoghi natii della controcultura americana degli anni 60, patria della Silicon Valley e della rivoluzione digitale degli anni 70-80, di moltissimi gruppi musicali rock e non solo, che grande hanno reso l’America e la sua cultura musicale per buona parte del Novecento. E molte correnti del rock qui sono nate o hanno trovato terreno fertile per potersi sviluppare, crescere e diventare mature, si pensi alla psichedelia negli anni 60. Tra queste, c’è ovviamente lo stoner rock, nato nel torrido e polveroso contesto di Palm Desert.

E i Fu Manchu non perdono l’occasione, anche in questo lavoro, di ricordare al mondo che le loro radici musicali e geografiche appartengono indiscutibilmente alla California, ai suoi deserti e alle sue spiagge. Un groviglio di elementi surf, psichedelici, metal e hard sono il dna sonoro di questo album; i riff di chitarra, iper aggressivi, distorti e super fuzzosi, non tradiscono le attese, lasciando trasparire qua e là per gli orecchi più allenati anche influenze surf rock, oltre ai cari e vecchi riff ipnotici, monolitici e lisergici tanto cari allo stoner classico anni 90. Dietro le pelli, per l’ultima volta con la formazione dei Fu Manchu un vero e proprio monumento del panorama stoner, Brant Bjork, che, conclusa l’esperienza con i Kyuss qualche anno prima, ha nel frattempo trovato agevolmente una nuova sistemazione nei Fu Manchu, e credeteci, la sua impronta su quest’album si sente e come. Un drumming mai banale e scontato, sempre in grado di dare la giusta dose di cattiveria e di grinta a tutti i brani, sapendo essere monolitico e granitico quando occorre e morbido e delicato quando necessario. Veramente un gigante e un maestro. Anche la sezione di basso è all’altezza della situazione, una garanzia, una base compatta e solida su cui poter costruire un edificio sonoro di qualità.

Quest’album è un ideale compagno di viaggio, che vi invita a inforcarvi il casco o a salire in macchina e mordere l’asfalto, trasformandovi in viaggiatori in men che non si dica e dandovi il giusto spirito per divorare chilometri dopo chilometri senza sforzo alcuno. California Crossing, rispetto ad altri album classici dello stoner, risulta meno “duro e puro”, presenta un sound a tratti più orecchiabile e ammiccante ai passaggi radiofonici, o a sfumature surf- rock e rock’n’roll, oltre che psichedeliche e hard’n’heavy. Il risultato però è di assoluta qualità, non si corre mai il rischio di annoiarsi e non si può certo accusare quest’album di essere troppo piatto o scontato. In definitiva, i Fu Manchu hanno fatto centro, unendo la loro anima polverosa, lisergica e torrida dello stoner ad altre influenze e sonorità più da spiaggia e stradaiole, come il surf, il rock’n’roll e l’hard rock. Un mix frizzante, divertente e vivace, che vi terrà compagnia sia in viaggio che a casa, e vi farà sentire il profumo e l’odore della California.

Autore: Fu Manchu Titolo Album: California Crossing
Anno: 2002 Casa Discografica: Mammoth Records
Genere musicale: Stoner, Hard Rock Voto: 7,5
Tipo: CD Sito web: https://www.facebook.com/FuManchuBand
Membri band:
Scott Hill – voce, chitarra
Bob Balch – chitarra
Brad Davis – basso
Brant Bjork – batteria
Tracklist:
1. Separate Kingdom
2. Hang On
3. Mongoose
4. Thinkin’ Out Loud
5. California Crossing
6.Wiz Kid
7. Squash That Fly
8. Ampn’
9. Bultaco
10. Downtown In Dogtown
11. The Wasteoid
Category : Recensioni
Tags : Album del passato, Stoner
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