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01st Ago2016

Uli – Black And Green

by Marcello Zinno

Uli - Black And GreenPotrebbe sembrare il nome di una band un po’ alternativa e invece il moniker Uli è proprio di Alice Protto, artista che compone e che in questo progetto discografico viene affiancata da altri musicisti; un po’ a metà strada tra band e progetto solista. Il suo è un genere che ricalca trame indubbiamente folk ma lo fa cercando di optare per delle sonorità moderne (come l’indie di From) in cui dosi elettriche corpose si accostano a melodie più sognatrici. Proprio queste melodie, anche vocali ma non solo, rendono la sua proposta molto leggera, lei preferisce chiamarla “alien folk” per sottolineare più che altro che il suo concetto di folk è molto diverso da quello inteso in senso comune e su questo noi siamo d’accordo. I synth di Emerald Dance ma anche molte linee di basso sono un ritorno al passato per il sound presentato in questo lavoro, eppure le nove tracce attecchiscono sui nuovi ascolti e su chi apprezza showgaze, folk pop e post-rock più orecchiabile. Dopo l’intermezzo blues di Nina Simone’s Back, si apre un momento interessante: il fascino e il mood di Dry River ci piacciono e aprono dei territori di livello assolutamente a portata di mano dell’artista. Sentiamo degli echi di Pink Floyd in alcuni arrangiamenti ma la portata degli Uli è ben più accessibile.

L’artwork dell’album riprende i colori citati nel suo titolo, Black And Green, scelta artistica interessante che non si avvicina molto, a nostro parere, alla musica proposta (ingrato lavoro quello di dare una veste grafica o delle parole alla musica). Venti minuti comunque di melodie e ritmiche che fanno l’amore incessantemente e che preferiscono il sole alle ambientazioni cupe.

Autore: Uli

Titolo Album: Black And Green

Anno: 2016

Casa Discografica: Wasabi Produzioni

Genere musicale: Folk

Voto: s.v.

Tipo: CD

Sito web: https://soundcloud.com/uli_alice

Membri band:

Alice Protto voce, ukulele

Domenico Finizio – chitarra

Federico Ragazzetto Branca – basso, synth

Matteo Rimoldi – batteria

Tracklist:

  1. To Live Forever In A Hidden Safe

  2. From

  3. Martial Heart

  4. Emerald Dance

  5. Black And Green

  6. Nina Simone’s Back

  7. Dry River

  8. Dark Curls And Blondie

  9. Hicks Y Z

Category : Recensioni
Tags : Folk
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23rd Lug2016

Light Lead – Randomness

by Marcello Zinno

Light Lead - RandomnessContrariamente a quanto si possa immaginare fondere due anime così diverse come la chitarra e la voce non è cosa così semplice. È l’abitudine ad ascoltare chitarristi/cantanti che ci ha inculcato l’idea che la sei corde vada a braccetto con le linee vocali, maschili o femminili che siano, ma non è compito così banale. Poi, nel caso di una voce soave come quella della singer israeliana Michal Israeli, il compito diviene facile e anche per questo le linee melodiche di Davide Panada restano ad un livello di non incisività, proprio per lasciar fare eco alla voce di Michal. Così si apre l’EP del progetto Light Lead, presentato come un lavoro dalle influenze folk ma che invece noi troviamo tremendamente contemporaneo, un art rock da camera o da concerto in cui le luci smettono di funzionare, gli arrangiamenti (pochi) si prendono i loro spazi in punta di piedi, le atmosfere fanno il resto. L’ottimo esempio è One Direction, un brano oscuro i cui giochi vocali fanno il pari con una distorsione inaspettata alla chitarra e un sapore tremendamente roots.

Potremo parlare di tempi reggae in Sun Goes Down o delle cadenze pop in You Never Know, sono solo piccoli tratti di un EP profondo, sentito prima che suonato e che presenta un progetto a parer nostro da gustare principalmente in sede live.

Autore: Light Lead

Titolo Album: Randomness

Anno: 2016

Casa Discografica: Autoproduzione

Genere musicale: Art Rock, Folk

Voto: s.v.

Tipo: EP

Sito web: https://www.bandpage.com/LightLead

Membri band:

Michal Israeli – voce

Davide Panada – chitarra, basso

Beppe Mondini – batteria

Tracklist:

  1. We Won’t Get Lost

  2. Disconnect

  3. Sun Goes Down

  4. You Never Know

  5. One Direction

Category : Recensioni
Tags : Folk
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22nd Lug2016

Meneguinness – A Chi Non Dorme

by Marcello Zinno

Meneguinness - A Chi Non DormeL’atmosfera che la musica irlandese riesce a creare è impossibile da descrivere ad una persona che non ha mai frequentato un pub di Dublino (e non un irish pub qui in Italia). La gioia e l’allegria sono nel dna della ritmica e gli strumenti usati sono l’ulteriore caratteristica, una ricetta che molte band hanno cercato di portare in giro per il mondo ciascuna con una sua caratterizzazione. I Meneguinness ci mettono il loro cuore e lo fanno con questo A Chi Non Dorme che pur restano fedele alla tradizione irlandese (ascoltare Titanic (John Ryan’s Polka) per credere) presenta molti elementi personalizzanti. Innanzitutto le liriche in italiano, perché sarebbe una sterile imitazione collocare liriche in inglese, magari con l’accento irlandese, per sembrare una band estera; inoltre in queste tracce si sente un radicato animo cantautorale che li rende “più vicini” a molti ascolti tipici della nostra tradizione, uno spirito molto vicino ai Modena City Ramblers con cui hanno condiviso il palco e probabilmente più di un’idea. Bergamo ed È Tardi sono l’emblema di questa inclinazione cantautorale tanto che potrebbero essere apprezzate anche in contesti più folk e meno irish, ma anche il prosieguo dell’album resta fedele a questa impostazione.

Belli i passaggi in cui i tempi si fanno più veloci (come in Danny Del Nord o Donna Manager) e che sicuramente creano delle ottime cornici ballabili dal vivo, ma ciò che anche ci colpisce dei Meneguinness è la scelta dei temi trattati, fedeli ad uno spirito di musica impegnata. Si parla di povertà (Dolce Signora), di arrivismo e perdita di umanità (Donna Manager), di emigrazione (Felix Pedro) e chiaramente del cielo d’Irlanda a cui viene dedicato il penultimo brano autoesplicativo fin dal suo titolo e in cui sentiamo echi di un Francesco Baccini dei tempi di Le Donne Di Modena. Una buona prova che omaggia una scena ma lo fa con personalità e sentimento e a loro vanno i nostri complimenti.

Autore: Meneguinness

Titolo Album: A Chi Non Dorme

Anno: 2016

Casa Discografica: Maninalto!

Genere musicale: Folk, Irish Rock, Cantautorale

Voto: 7

Tipo: CD

Sito web: http://www.meneguinness.com

Membri band:

Daniele – voce, chitarra, banjo, armonica a bocca

Jan – fisarmonica

Lorenzo – chitarra

Fabio – basso, cori

Mauricio – violino

Davide – batteria

Fabio – tin whistle

Tracklist:

  1. Bergamo

  2. Titanic (John Ryan’s Polka)

  3. È Tardi

  4. Felix Pedro

  5. Pietrino

  6. Danny Del Nord

  7. Crandall Canyon

  8. Donna Manager

  9. Dolce Signora

  10. Il Cielo D’Irlanda

  11. Buonanotte A Chi Non Dorme

Category : Recensioni
Tags : Cantautorale, Folk
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14th Giu2016

Epitaph – Fire From The Soul

by Trevor dei Sadist

Epitaph - Fire From The SoulGli Epitaph, rock band tedesca, nascono nel 1969. Mi trovo emozionato a dover recensire il loro nuovo album, anche perché, musicisti di tale spessore, vanno rispettati e stimati, in primis per la carriera, per la dedizione e per la passione. Nonostante ormai, non siano certo più dei ragazzini, questi terribili rockers continuano a picchiare duro, specie in sede live. Perdonatemi se mi sono lasciato andare con questa introduzione, tuttavia, credo fosse doveroso. Veniamo al disco, Fire From The Soul è il loro ultimo studio album, la band è rimasta ancorata al sound dei tempi, non manca di certo la vena artistica, la classe non è acqua, come si suol dire. Fin dalle prime note di Nightmare, apripista di questo full lenght, la band ci dice molte cose, il sound, come detto è ovviamente accostabile agli anni settanta, e così dev’essere, Nightmare è un brano british, qualcosa di Deep Purple, primi Whitesnake; con la successiva The Way It Used To Be si resta in Europa, un riff di risposta, mi rimanda a Hysteria dei Def Leppard. Si combatte duro in strada, Fighting In The Street, mi fa apprezzare le tre voci, i cori e le armonizzazioni, sono davvero eseguiti in maniera impeccabile, mentre le due chitarre si districano, tra solos trademark e cavalcate imponenti.

No One Can Save Me, non mi spiazza affatto, nonostante i riflessi siano folk e assolutamente meno vicini a quanto detto in precedenza. Mi trovo a metà album, soddisfatto pienamente, ancora una volta mi rendo conto di come la musica può essere comunicativa, questo è il caso degli Epitaph, Any Day, è una bellissima ballad seventeen, che saprà portarvi lontano. Si ritorna al rock che fa male, i Nostri ci danno dentro, attraverso i temi epici di Man Without A Face, mentre con la successiva Fire From The Soul, c’è ancora spazio per il folk rock, ho apprezzato questo repentino sali/scendi, il tutto impreziosito dalla tecnica di ognuno dei musicisti ma soprattutto dalla loro vena artistica. Spark To Start A Fire è un’allegra song, di chiaro stampo rock americano, così come la successiva, Love Child che esce dalle mura amiche e va ad accasarsi nell’AOR d’oltreoceano. E’ il momento di riflettere, gli Epitaph, scelgono di farlo, tramite le note emotive di Sooner Or Later.

Sono sempre più certo, questo è un disco davvero molto bello, sotto ogni punto di vista, suonato con cuore e passione. Ormai giunto quasi al termine dell’album, le note di Mozart mi fanno alzare dalla sedia, un breve omaggio a chi ha fatto la storia della musica. Si chiude con One Of These Days, brano che trasmette energia allo stato brado, proprio come per i loro conterranei Scorpions. Ero certo che questi veterani non mi avrebbero deluso e così è stato. Finché c’è la voglia, lo spirito di sacrificio, c’è tutto, band di questo spessore sono da prendere come esempio, nonostante le primavere hanno ancora molto da dire. In alto il nostro saluto!

Autore: Epitaph

Titolo Album: Fire From The Soul

Anno: 2016

Casa Discografica: MIG

Genere musicale: Rock, Folk

Voto: 8,5

Tipo: CD

Sito web: http://www.epitaph-band.de

Membri band:

Cliff Jackson – chitarra, voce

Bernd Kolbe – basso, voce

Heinz Glass – chitarra, dobro, voce

Jim Mcgillivray – batteria, percussioni

Tracklist:

  1. Nightmare

  2. The Way It Used To Be

  3. Fighting In The Street

  4. No One Can Save Me

  5. Any Day

  6. Man Without A Face

  7. Fire From The Soul

  8. Spark To Start A Fire

  9. Love Child (bonus track)

  10. Sooner Or Later

  11. Rondo Alla Turca (Mozart / arr. Glass)

  12. One Of These Days

Category : Recensioni
Tags : Folk
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15th Apr2016

Little Creatures – Some New Species

by Sara Fabrizi

Little Creatures - Some New SpeciesUn alternative folk dolce, scanzonato, colorato, saltellante. Queste le mie prime sensazioni all’ascolto di Some New Species, ultimo nato in casa Little Creatures. Un duo che nasce nel 2012 sulle sponde del Lago Maggiore dove Nathalie e Marta, rispettivamente ukulele e tastiera, iniziano a dar vita ad arpeggi veloci e saltellanti su ritmiche elettroniche per narrare storie, desideri e viaggi fantastici. Successivamente il duo diventa quartetto con l’arrivo di Simone al basso e di Luca il polistrumentista. Si espandono dunque suggestioni e sonorità per narrare il piccolo e sconfinato/fantastico mondo oggetto della loro musica. E arrivano i primi frutti. Nell’autunno del 2013 esce il loro primo, omonimo, EP che viene accolto con favore dalla critica. Nell’estate del 2014 iniziano a registrare Some News Species che vedrà la luce il 24 novembre 2015. La scelta del nome del disco è assolutamente emblematica e caratterizzante. Infatti in questo album figurano alcune diverse specie sotto cui raggruppare le canzoni. Ci sono le specie solari, Machu Picchu, Home, Summer. Ci sono le specie più introspettive e profonde, C’est La Vie. Ci sono le specie nomadi, Esperanto. Ci sono le specie d’acqua dolce, Form e PJ River. E infine le specie coloratissime e psichedeliche, Inno.

L’ascolto di quest’album diventa davvero un’esperienza multisensoriale. Non solo, semplicemente suoni. Ma rumori, mormorii provenienti dalla natura. E colori a tratti tenui a tratti vivaci che sembrano si associno perfettamente al sound. Ascolti, vedi, immagini. Ti lasci beatamente trasportare in terre incontaminate e magiche, abitate magari solo da animali e piccoli folletti, quella roba lì. Al crocevia tra influenze celtiche e richiami al folk americano (a tratti mi pare di cogliere le sonorità di Joni Mitchell). Atmosfere antiche e senza tempo, riproposte in una veste elettronica che le modernizza e attualizza. Come a dire che un mondo fatato, incantato e gioioso ancora può esistere ma deve necessariamente inserirsi nella nostra modernità.

Positività, gioco e gioia è ciò che (mi) comunica prepotentemente Some Little Species. Un ascolto per viaggi interiori. Per riscoprire una serena e naturale realtà.

Autore: Little Creatures

Titolo Album: Some New Species

Anno: 2015

Casa Discografica: Autoproduzione

Genere musicale: Alternative Folk

Voto:

Tipo: CD

Sito web: http://2littlecreatures.bandcamp.com

Membri band:

Nathalie Carlesso – voce, chitarra, ukulele

Luca Gambacorta – toy piano, violoncello, chitarra, xilofono

Simone Berrini – basso

Marta Caviglia – batteria elettronica, tastiere

Tracklist:

  1. Machu Picchu

  2. C’est La Vie

  3. Esperanto

  4. Form

  5. Home

  6. PJ River

  7. Summer

  8. Inno

Category : Recensioni
Tags : Folk
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05th Apr2016

Med In Itali – Si Scrive Med In Itali

by Marcello Zinno

Med In Itali - Si Scrive Med In ItaliI Med In Italy li avevamo scoperti già con il precedente Coltivare Piante Grasse e ci avevano stupiti per la loro capacità di fondere generi diversi, attitudine che mantengono con il nuovo Si Scrive Med In Itali. Si passa dal folk, a sonorità legale all’America latina, dal rock al contrabasso…una parola: crossover. A volte sembra quasi di ascoltare l’immensa preparazione musicale degli Elio E Le Storie Tese messa in chiave più stilosa e meno sarcastica. C’è da dire che nella scena moderna molte sono le formazioni che cercano di trovare l’ingrediente segreto facendo tentativi su sonorità differenti, sembra che il nuovo mantra sia proprio il dover miscelare contesti musicali differenti al fine di trovare la ricetta ideale; in questo i Med In Itali si muovono molto bene ma soprattutto lo fanno con un’agiatezza che pochi musicisti posseggono. Le dodici tracce sono intricate, sia dal punto di vista ideativo che produttivo, ma a noi anche al primo ascolto risultano spontanee e genuine come se fossero “sentite e suonate”; probabilmente il minor tempo richiesto per la gestazione di quest’album (due anni) rispetto al precedente (cinque anni) avrà influenzato il loro stile di scrittura ma noi vi assicuriamo che i nuovi inediti prodotti dalla mente degli otto musicisti non sono per nulla banali.

E così si alternano attimi seri e intimi come Sola ad altri molto più leggeri come Difetto Genetico che comunque propone dei tempi dispari mai comuni; in alcuni momenti si nota una predominanza della chitarra (acustica), soprattutto nella seconda parte dell’album ma, alla luce anche del precedente Coltivare Piante Grasse possiamo vedere questo elemento non come una critica bensì come un marchio di fabbrica. I Med In Itali, al di là di come si scriva il moniker, confermano il loro talento e il grande spessore rappresentato dal loro essere una band completa, in cui tutti insieme raggiungono vette di gran lunga superiori alla somma delle singole parti.

Autore: Med In Itali

Titolo Album: Si Scrive Med In Itali

Anno: 2016

Casa Discografica: Ala Bianca

Genere musicale: Folk, Crossover

Voto: 7

Tipo: CD

Sito web: http://www.medinitaly.info

Membri band:

Niccolò Maffei – voce, chitarra

Matteo Bessone – batteria

Dario Scopesi – basso, contrabasso

Nicolò Bottasso – tromba, flicorno, violino

Ariel Verosto – flauto, tastiere

Riccardo Sala – sax tenore

Elia Zortea – trombone

Elena Pyera Frezet – percussioni

Tracklist:

  1. Cumal’è

  2. Med In Itali

  3. Maledetta Primavera

  4. Eroi

  5. Lei

  6. Difetto Congenito

  7. Tranquillità

  8. Sola

  9. Comico

  10. La Nonna

  11. Statue Di Vetro

  12. Ninna Nanna

Category : Recensioni
Tags : Folk
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28th Mar2016

Cirque des Reves – Mirabilia

by Amleto Gramegna

Cirque des Reves - MirabiliaPrimo full leght per i campani Cirque des Rèves, band fondata nel 2013, già autrice di un buon EP di esordio. Dopo una intensa attività live arriva il loro primo lavoro, in grado di fondere il folk europeo con il pop rock mediterraneo, cosa non semplicissima, in quanto pensi al folk e ti vengono in mente quelle maledette marcette, e ora la pizzica e ora la musica dei balcani e ora primo maggio… Ehm, dicevamo. Nota di merito alla band per aver coinvolto nella produzione e negli arrangiamenti Maartin Allcock che, per chi non lo sapesse, era l’uomo dietro il mixer nei lavori di Jethro Tull, Cat Stevens, Robert Plant e sopratutto Fairport Convention, quindi i ragazzi hanno lavorato con chi ha prodotto, suonato e sopratutto ascoltato Sandy Danny (che Dio la abbia sempre in gloria…ma sempre!). Chiusa la parentesi nostalgica, ascoltando le tracce notiamo da subito un ottimo lavoro di produzione aspersa con grande sapienza nei brani proposti. La Storia Dei Perché apre il lavoro e veniamo accolti dalla bellissima voce di Lisa Starnini, in grado di duettare con il nervoso violino di Edo Notalberti. Notevole il lavoro degli arrangiamenti sia vocali che strumentali con la sezione ritmica in grado di rimarcare gli arrangiamenti vocali pur mantenendo una propria identità (Cucire Una Favola), pur non disdegnando le scosse delle chitarre elettriche (Specchio), in grado di infondere umori retrò anni ’80.

Il brano Polvere già presente nel primo EP è molto più malinconica e “vissuta”: qui la polvere te la senti dentro e non te la riesci a scrollare di dosso in nessun modo, dando anche la chiave di volta a tutta l’opera. Le emozioni, la malinconia, sono loro che cantano, guidano, suonano tutto l’album lasciando all’ascoltatore il duro compito di decifrare, di capire, di immergersi in ciò che i ragazzi hanno creato. Ed ancora i mille violini suonati dal vento di Notte d’Aprile, il pianoforte notturno di La Candela e il vento, quell’eco di Wim Wenders di Tramonti di Stelle e quella voce di Lisa che vorresti sentire sempre nelle orecchie e ti accompagnasse ovunque, maledicendo la fine del CD e rimettendolo di nuovo e poi di nuovo, e magari ne uscissero di album così. E poi basta, vi dobbiamo ancora dire che è un fottuto capolavoro?

Autore: Cirque des Reves

Titolo Album: Mirabilia

Anno: 2015

Casa Discografica: Autoproduzione

Genere musicale: Folk, Rock

Voto: 8

Tipo: CD

Sito web: https://www.cirquedesreves.it

Membri band:

Lisa Starnini – voce

Giovanni Ilardo – chitarre

Corrado Calignano – basso

Gianni Bruno – tastiere

Alessio Sica – batteria

Edo Notarloberti – violino

Tracklist:

  1. La Storia Dei Perché

  2. Cucire Una Favola

  3. Specchio

  4. Polvere

  5. Cabaret

  6. La Candela E Il Vento

  7. L’infinito Labirinto

  8. Notte D’aprile

  9. Tramonti Di Stelle

  10. Ca Arrive Parfois

  11. Mirabilia

Category : Recensioni
Tags : Folk
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23rd Mar2016

Clawed Forehead – My Domain

by Cristian Danzo

Clawed Forehead - My DomainBand proveniente da Brno, i Clawed Forehead sono diretti discepoli degli Apocalyptica. Il loro sound si basa soprattutto sulla presenza di violini e violoncelli, e propone un folk metal composto da varie sfumature, che vanno dal rock al thrash nei riff e nelle costruzioni musicali proposte. Il loro nuovo lavoro si intitola My Domain ed è il quarto di una carriera iniziata nel 2007. La cosa strana è che sul sito e sul foglio promozionale che accompagna il CD, risultano membri della band che poi non compaiono nell’album e, purtroppo, non c’è verso di scoprirne il motivo, fuorviando di non poco la comprensione della line up. Al di là di questo, comunque, l’etichetta affibbiata alla band è il doom e a noi calza in maniera poco consona. Almeno per My Domain le caratteristiche di questo genere non si trovano a meno di usare non poca fantasia durante l’ascolto. Comunque sia, il disco che viene proposto dall’ensemble affronta, come dicevamo sopra, vari generi che vengono reinventati ed adattati alla strumentazione utilizzata ed ad un dominante contesto folk, con rimandi alla musica soprattutto celtica. Ed infatti, in molti passaggi delle linee vocali, il cantato ricorda tantissimo i primissimi Clannad, storico gruppo irlandese che portò la musica tradizionale di quelle terre e la lingua gaelica nelle classifiche di tutto il mondo.

Una produzione più aggressiva e meglio equilibrata forse avrebbe giovato molto di più alla resa sonora di questo album. Di certo, possiamo dire che la musica proposta è particolare, ma nulla di nuovo sotto il sole ed i riflettori della scena rock internazionale. I ragazzi (e ragazze), comunque, si difendono molto bene. Se dovessimo scegliere due canzoni top per questo album, i titoli selezionati sarebbero Inferno (notevole prova di matrice thrash “da camera”) e Phlegmatic State.

Autore: Clawed Forehead

Titolo Album: My Domain

Anno: 2015

Casa Discografica: Metal Age Productions

Genere musicale: Folk, Sperimentale

Voto: 6

Tipo: CD

Sito web: http://www.clawedforehead.com

Membri band:

Tereza Malà – voce, chitarra, basso

Michael Tucek – violoncello, viola da gamba

Lukas Marecek – violoncello

Jakub Spirìk – vatteria, percussioni, Flauto irlandese, chitarra

Lenka Barotkovà – contrabbasso

Gabriela Povraznikovà – violino

Tracklist:

  1. Shattered

  2. My Domain

  3. Ničím

  4. Sounds Of Silence

  5. Inferno

  6. Natural Order

  7. Falcon

  8. Solitude

  9. Dead City

  10. Harrowing

  11. Awakening

  12. Phlegmatic State

Category : Recensioni
Tags : Folk
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23rd Feb2016

Jack Thunder Band – What The Thunder Said

by Sara Fabrizi

Jack Thunder Band - What The Thunder Said 2Metti quattro ragazzi che nella provincia al confine fra Lombardia e Piemonte, nel 2015, decidono di trasportarci in centro America. E lo fanno scrivendo, suonando ed autoproducendo un album dal titolo eloquente, What The Thunder Said. Più che un viaggio, una vera e propria telecinesi che annulla in un attimo le distanze spaziali ma anche quelle temporali. Non solo veniamo catapultati fra montagne rocciose e mitici rivers, ci ritroviamo anche in una dimensione quasi a-temporale. Echi decisi di anni ’70 o di decenni ed epoche ancora precedenti, comunque di tempi in cui l’aspetto geografico e morfologico degli States è divenuto prepotente metafora della condizione e della psicologia umana. E la musica d’oltreoceano, dalla tradizione popolare americana fino al cantauotorato recente, ha sempre indagato e cantato i legami fra natura ed uomo. Insolito e soprendente che sia una band italiana di recente formazione a cimentarsi in un questo ambito. Forse a testimonianza che alcuni miti e universi di significati trascendono davvero le barriere spazio-temporali. E forse proprio il legame con il territorio, l’osservare la natura selvaggia delle valli del Piemonte orientale e del fiume Ticino avrà condotto i quattro musicisti sulle sponde del Colorado River. E li avrà invogliati a scrivere e cantare storie che ruotano attorno al tema del river e della sua simbologia. Quasi come fossimo dentro un fumetto di Tex Willer. E proprio da uno dei personaggi apparsi in Tex la band mutua il suo nome: Jack Thunder Band.

What The Thunder Said è il secondo album autoprodotto della band. Già dal primo brano, Rolling Thunder, emergono le influenze country-blues e il tema del “River” che diventa minimo comun denominatore dell’intero disco rendendolo una sorta di concept album. Il fiume, quindi, alimentato dal temporale, dalla pioggia che viene giù con impeto e che crea un cerimoniale di purificazione, di rinascita, di novità. Il tuono ha parlato: è tempo di cambiare, di aprirsi al nuovo, di abbandonare le zavorre e danzare sotto la pioggia. Brano molto bluesy, alla Creedence maniera. Il secondo brano è una ballad. Take These Hands Of Mine, stringi le mie mani. Il tema dell’amore attraverso il tema del fiume, dell’acqua che fluisce e cancella le tracce della propria identità e della propria anima. Quindi l’invito ad aggrapparsi all’amore per trattenere il momento e un sentimento che potrebbe andar perso. “Take this love of mine, bared in the sunshine, take it before it melts like dew…”. Una melodia dolce e leggermente malinconica. Un riff che ti entra subito nelle orecchie e nel cuore: “There is gold in the river, there are diamonds in the rain, but my soul is drawn with charcoal and I’ll fear it’ll wash away”. Un’impostazione vocale che ci ricorda Elvis, e Johnny Cash. Brano molto country, molto bello. Il terzo pezzo è The Great Train Robbery. Un bell’incipit blues, deciso. Un’armonica alla Canned Heat. Un ritmo incalzante, ben scandito da una chitarra quasi alla Clapton (del resto è un brano fortemente bluesy). Questo sound ci veicola un testo che parla ancora d’amore, di treni da prendere, di una donna che ci deruba di tutto sotto la falsa promessa di un viaggio e poi sparisce. La delusione quindi ed il raggiro. Sullo sfondo un treno che, indifferente ai drammi sentimentali umani, fa il suo percorso… “Roll on train, on down the line, through wind and rain, mile after mile”.

Ed il tema del viaggio ricorre anche nel quarto brano, Into The Flow. Il fluire del fiume inteso come continuo, incessante, divenire. Anche qui una forte impronta blues, una parte iniziale solo strumentale che mi ricorda i Doors. E con l’inizio del cantato ne trovo conferma. Il quinto brano è Workingman Blues. Il blues del lavoratore, appunto. Pezzo in cui la vena bluesy si fonde con un accattivante e veloce rock’n’roll. Il tema del lavoro come necessità contrapposta al desiderio di correre, di fuggire via, di prendere il treno che ci riporti a casa dalla persona amata. Il quinto pezzo è interamente strumentale, Song For Charlie. Decisamente country, il banjo la fa da padrone. Una melodia che da dolce diventa man mano più decisa ed incalzante. Come collocarlo nell’architettura dell’album? Esercizio stilistico? Momento di relax? Di sicuro introduce un momento di svuotamento della mente, facendoci divagare dai temi del disco ma anche rafforzandoli in qualche modo, affidandosi totalmente all’evocatività dei suoni. Il sesto brano è The Deer, il cervo. Si gioca sulla simbologia dell’animale, notoriamente conosciuto come totemico. E sulla necessità di sacrificarlo, di versare il suo sangue nel fiume, come rito di purificazione e di maggiore presa di coscienza. Il cervo, e il suo sacrificio, diventano infatti metafora di un rito di passaggio che comporta il sacrificio di una parte di noi stessi per poterci trovare veramente. Una dolorosa ma ineluttabile necessità: versare il sangue e raccogliere le lacrime per superare la paura. Capire che ogni strada percorsa, ogni gioia e dolore, sono stati necessari perchè ci hanno portato verso la nostra meta che altro non è che la nostra coscienza.

Brano denso di simboli e metafore comunicate da una melodia un pò amara e solenne, con un’impronta alla Bruce Springsteen. Soprattutto nell’uso dell’armonica sembra di sentire The River o The Ghost Of Tom Joad. Quanta America in questo album.. A chiuderlo è When The Song Is Over. Ci si pone l’interrogativo di cosa rimarrà di noi dopo che avremo percorso il viaggio interiore, dopo che la canzone sarà finita. Resterà la canzone stessa, la voglia di cantarla, di ricordarla. E finchè ci sarà qualcuno che la canterà tutto ciò non sarà stato uno spreco di tempo. In fin dei conti noi siamo qualcosa di labile e transitorio, mentre la canzone resta. L’arte, dunque, che ci consola, che ci sprona ad abbandonare le nostre paure nel viaggio che ci aspetta e che ci consegna all’eternità. Tutto questo reso da un trascinante blues. Un album per viaggiare dentro e fuori di noi.

Autore: Jack Thunder Band

Titolo Album: What The Thunder Said

Anno: 2015

Casa Discografica: Rockin’ Chair Records

Genere musicale: Folk, Blues

Voto: 8

Tipo: CD

Sito web: http://www.jackthunderband.it

Membri band:

Paolo Brunini – voce, basso

Dario Simontacchi – chitarra, mandolino

Andrea Merlo – voce, chitarra, banjo, armonica

Stefano Brusatori – batteria, percussioni

Tracklist:

  1. Rolling Thunder

  2. These Hands Of Mine

  3. The Great Train Robbery

  4. Into The Flow

  5. Workingman Blues

  6. Song For Charlie

  7. The Deer

  8. When The Song Is Over

Category : Recensioni
Tags : Folk
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15th Feb2016

Lucio Leoni – Lorem Ipsum

by Marcello Zinno

Lucio Leoni - Lorem IpsumPer individuare il genere di riferimento dell’album di Lucio Leoni, in arte Bu Cho, si dovrebbe organizzare una conference call con gli scienziati di mezzo mondo attrezzati di strumenti per guardare nel lontano universo, magari puntando alla Luna, opener di questo Lorem Ipsum. Le nove tracce non sono cantautorali, non sono folk, non sono indie, non sono rap, o forse sono tutto questo sezionato in momenti diversi. La poetica e la parlata veloce (molto teatrale) dell’opener (ripresa poi con un sapore più amaro in Na Bucia) prepara un ascolto impegnato che poi viene storpiato piacevolmente dalla combat folk A Me Mi e dalla ballata romana (e “caciara”) dal titolo Tavolino che presto sfocia in un lo-fi che più emergente non si può. Il rap si presenta con Prima Campanella in cui ci si cala nei panni di un bambino della prima elementare al suo primo giorno di scuola, quando ormai siamo pronti ad aspettarci di tutto. Poi esce quello che a nostro parere è il lato più vicino alla natura dell’artista, più lontano dallo spirito umorale e più compositivo: su questo fronte prima Domenica e poi Fuori Da Qui dimostrano la particolarità e lo spessore dell’offerta musicale che, seppur non apporti nulla di particolarmente innovativo, tocca le corde giuste e muove quel bisogno emotivo di essere affascinati da brani semplici ma intimi.

L’uso del latino, sia nel titolo che nei testi scritti (ma non in quelli usati), c’entra poco ma d’altra parte l’intero album non va letto con un’eccessiva vena razionale perché si troverebbe ben poco da analizzare. Difficile avere un’opinione univoca su questo lavoro, molto eterogeneo, nove tracce e nove viaggi differenti che posso avere come unico fattore comune l’idea della ricerca di un sapore artistico non alla portata di tutti, a patto di ragionare senza schemi.

Autore: Lucio Leoni

Titolo Album: Lorem Ipsum

Anno: 2015

Casa Discografica: Lapidarie Incisioni

Genere musicale: Folk, Cantautorale, Crossover

Voto: 6

Tipo: CD

Sito web: http://www.facebook.com/baraccaeburattini

Membri band:

Lucio Leoni – voce, chitarra

Daniele Borsato – chitarra

Laura Piccinetti – basso

Alessandro Accardi – batteria

Giulio Marino – chitarra

Filippo Rea – tastiere

Tracklist:

  1. Luna

  2. A Me Mi

  3. Domenica

  4. Tavolino

  5. Fuori Da Qui

  6. Prima Campanella

  7. Guardami

  8. Na Bucia

  9. Amami

Category : Recensioni
Tags : Folk
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