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03rd Lug2013

Nhenia – Contatto

by Marcello Zinno

Il grunge di Seattle ha prodotto un’onda che ha investito le due decadi successive a tutto ciò che accade in quel periodo storico per la musica. Non ci riferiamo al solo Kurt Cobain, immolato contro la sua volontà a baluardo di un genere, ma alla direzione che il rock stava prendendo in quegli anni (Pearl Jam, Mother Love Bone, Soundgarden…). Quest’onda era talmente imponente e distruttiva che se ne ravvedono effetti ancora oggi e alcune formazioni si sentono profondamente influenzate da quello che fu definito grunge (non è un caso il successo che ottennero nel nostro Paese e che ancora detengono i Verdena). I Nhenia pescano a grandi mani da quella cultura musicale, ma c’è qualcosa che è diverso. L’intelligenza musicale, venti anni di esperienza in più, sono dei punti a favore per i Nostri rispetto agli scapestrati giovincelli con i camicioni a quadretti che muovevano i primi passi nei locali più beceri della città. Questo è innegabile e i Nhenia intelligentemente lo sfruttano a loro vantaggio: gli arrangiamenti in Imbalsamati e le sue parti più tenui, le influenze quasi stoner ravvisabili qua e là, le derive metal nell’intro di Cytherea, e un certo alternativismo (linee vocali) di sottofondo, sono tutti elementi che rendono l’album interessante.

Quindi in Contatto, primo full-lenght della band, troviamo di certo il nervosismo interiore (ascoltare Come Donne In Carriera o Distruggi per credere) e l’agitazione emotiva e razionale al tempo stesso del grunge così come lo abbiamo conosciuto tempo fa, ma si avverte una certa indole del trio di voler andare oltre questa classificazione e proporre delle idee più originali ed attuali. A noi colpiscono i vari passaggi più originali, come l’incedere di Maiali o la sperimentazione nella titletrack oltre ai momenti già citati, veri elementi di caratterizzazione di questa band che non deve correre il rischio di sentirsi prigioniera di uno stile creato da altri e puntare sempre ad una differenziazione della propria proposta musicale.

Autore: Nhenia Titolo Album: Contatto
Anno: 2013 Casa Discografica: Altipiani
Genere musicale: Rock, Grunge Voto: 6,5
Tipo: CD Sito web: http://www.nhenia.com
Membri band:

Riccardo – voce, chitarra

Massimiliano – batteria

Adriano – basso

Tracklist:

  1. Dallo Stomaco
  2. Acrilica
  3. Sei Stato Nominato
  4. Imbalsamati
  5. Cytherea
  6. Come Donne In Carriera
  7. Maiali
  8. Favola Dell’ascesi
  9. Orbite
  10. Distruggi
  11. Argilla
  12. Contatto
Category : Recensioni
Tags : Grunge
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03rd Giu2013

Three Fish – Three Fish

by Giuseppe Celano

Siamo nel 1994, anche Jeff Ament (Pearl Jam) vuole il suo meritato momento di gloria e, insieme a Robby Robb (Tribe After Tribe) voce/chitarra e Richard Stuverud alla batteria, forma i Three Fish. Due anni dopo, per la Epic, esce il loro esordio omonimo composto da 15 canzoni affette da varie influenze: il folk della ballata Solitude che fa da opener si contrappone alla muscolare disperazione della successiva Song For A Dead Girl in cui la voce stridente trova il suo contraltare nella melodia pop, nel senso meno usurpato del termine. I passaggi più vicini ai Soundgarden e Pearl Jam, se è quello che cercate, si possono facilmente rintracciare in Silence At Bottom e A Lovely Meander, dove toni acuti, chitarre ruggenti e sezione ritmica spingono a dovere. The Intelligent Fish fa parte della “trilogia del pesce” suddivisa in tre brani acustici con voce narrante. Zagreb è una chicca preziosa fatta di percussioni profonde e chitarre a 12 corde che cesellano una melodia esotica, ammaliante e temibile al tempo stesso. Di tutt’altra pasta è All Messed Up, ricca di chitarre dai riverberi psichedelici, riff granitici e pattern ritmici rocciosi su cui si staglia la voce di Robby. Sempre sullo stile ballata si pone Here In The Darkness, i Three Fish mostrano il proprio carattere forte divertendosi a condurre l’ascoltatore per piacevoli giri mai tortuosi. Build è uno dei pezzi più interessanti: un groviglio di melodia e feedback, di spunti accennati e dilatati in quattro minuti di fine grana. La band bissa il tentativo con la successiva Secret Place, meno di due minuti di lucida follia post industriale. Sulle stessa linea melodica di Zagreb si pone la conclusiva Laced che evolve in qualcosa di più corposo mutando armonia e struttura rivestita di scintillante metallo.

Three Fish è ispirato alle opere di Jalaluddin Rumi (poeta persiano) e si pone come cerniera fra Temple Of The Dog e Mad Season fondendo il vigore dei primi con la spiritualità malata dei secondi. Un’esperienza durata un quinquennio che darà alla luce anche un secondo capitolo del quale, chiaramente, ci occuperemo in occasione della prossima puntata della nostra rubrica settimanale.

Autore: Three Fish Titolo Album: Three Fish
Anno: 1996 Casa Discografica: Epic
Genere musicale: Grunge Voto: 8
Tipo: CD Sito web: http://www.myspace.com/threefishband
Membri band:

Jeff Ament – basso

Robby Robb – chitarra

Richard Stuverud  – batteria, percussioni

Tracklist:

  1. Solitude
  2. Song For A Dead Girl
  3. Silence At The Bottom
  4. The Intelligent Fish
  5. Zagreb
  6. All Messed Up
  7. Here In The Darkness
  8. The Half Intelligent Fish
  9. Strangers In My Head
  10. A Lovely Meander
  11. Build
  12. Stupid Fish
  13. Secret Place
  14. Evulsive Ones
  15. Laced
Category : Recensioni
Tags : Grunge
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27th Mag2013

Mad Season – Above

by Giuseppe Celano

“Layne Staley è uno che soffre”, si apriva così la recensione di un famoso giornalista rock in merito all’unplugged degli Alice In Chains. Quale miglior disco di Above per consolidare questa tesi? L’esordio discografico dei Mad Season nasce da un incontro casuale dentro una clinica di recupero per tossicodipendenti. 2/3 dei membri coinvolti nel progetto avevano seri problemi di droga, l’idea di McCready, tanto nobile quanto fallace, era di tirare in ballo Layne che ritrovatosi in mezzo a musicisti ripuliti sarebbe dovuto rimanere sobrio. La storia purtroppo è andata diversamente: a quattro anni di distanza il loro bassista morirà di overdose di eroina, anche Staley nel 2002 verrà ritrovato senza vita nel suo condominio, stroncato da un mix di eroina e cocaina. Ma tornando alla musica, è l’anno di grazia 1994, la band non ha un singolo e neanche un nome (Drugs Addicts And Alcoholics dapprima) ma è già in giro per alcuni concerti come lo storico Crocodile Cafè di Seattle in cui suona Lifeless Dead e River Of Deceit. Il moniker deriva da un fungo allucinogeno che in un determinato periodo dell’anno esplode in tutto il suo vigore. L’album registrato a Seattle in soli sette giorni, qualcuno in più per Layne, è coprodotto dai Pearl Jam e vanta la presenza di Mark Lanegan degli Screaming Trees. Musicalmente siamo di fronte a una cerniera fra gli Alice In Chains e i Pearl Jam, impreziosita dall’inimitabile voce di Layne che svetta scegliendo soluzioni melodiche intraprendenti.

Il disco decolla agilmente sulle note di Wake Up, opener delicata che esplode la sua rabbia a metà per poi ritornare quietamente al suo carattere introspettivo, quasi timido. Le liriche sono l’analisi della propria condizione di user (“Slow suicide’s no way to go, oh blue, clouded grey you’re not a crack up, dizzy and weakened by the haze”). Più aggressiva è X-ray Mind, ricca di chitarre corpose e pattern ritmici tribali. Il chorus è molto vicino ai Pearl Jam ma è l’ugola impagabile, di quello che è stato senza ombra di dubbio il cantante più rappresentativo e meno idolatrato del grunge, a renderla davvero unica (“Hire a spy and bug me, pimp your friends for money, rich and growing sicker sell the dead ones quicker”). A quota tre il singolo River Of Deceit è una ballata classica ma efficace, la sua forza sta nella disperazione della voce di Staley che, per la prima volta, ammette in modo inequivocabile la propria responsabilità nella sua tossicodipendenza (“My pain is self-chosen, at least, so The Prophet says I could either burn or cut off my pride and buy some time, a head full of lies is the weight, tied to my waist”). Il gioco di chiaroscuri si ripete nella successiva I’m Above, lenta e maestosa all’inizio fino alla deflagrazione in coda (“So you rely on my faith in your kind, or rather continue to pretend that I’m blind, You say I made your life a living hell, and yet still let me pay you when I fell”).

Inaspettatamente è il blues Artificial Red a risultare uno dei pezzi più interessanti del disco. Laido e intriso di un fumo porpora mostra un carattere lascivo e perverso. La luce che illumina la stanza in cui tutto è permesso è di un rosso “artificiale”, il wah-wah scorre sinuoso mentre la voce s’incrina e per poi tornare morbida, appare e si ritrae (“On a cloud of pink has to grey and I’m alone again, yeah someone to hold against my own, alone, untouched is what I crave”). Diretti da una sezione ritmica lineare che ha lo stesso coefficiente di penetrazione della goccia cinese, i Mad Season scardinano le difese dell’ascoltatore con Lifeless Dead, brano in cui le chitarre ricche di wah-wah s’intrecciano preparando il terreno per l’ottima prova di Layne (“And although he’d not accept, she was gone and so he wept, then a demon came to him: “You must know I’m gonna win“). Lo scontro fra titani avviene a quota otto: Lanegan sfida in casa il leader in una ballata dai profumi esotici, fatta di chitarre morbide, percussioni appena accennate e toni dimessi che s’intensificano in un brano senza tempo (“Lord there’s a storm in my head and if all these sins are mine and I’ve done wrong, I want you to, Oh I just want you to come on down”). November Hotel è uno strumentale in distorsione ricco di feedback in pieno stile seventies. Sembra più un divertissement in studio per allentare la tensione incamerata in quei sette frenetici giorni. Chiude la preziosa All Alone, perla melodica di arpeggi soffici, basso leggero e percussioni sfiorate delicatamente (“All Alone, We’re All Alone”).

Se le chitarre scapigliate di MacCready mostrano il lato più impertinente della band, il lavoro della sezione ritmica di Sounders, impegnato al basso, tiene saldamente in mano le redini improntando tutto il lavoro su una chiara matrice blues. Infine Layne Staley libera la sua voce capace d’emozionare, colorire e armonizzare perfettamente il tutto. Sospeso fra sfuriate stridenti e momenti di delicato ardore che trova la sua massima espressione nella 6 corde, Above cita e omaggia gli Zeppelin e Hendrix esaltando l’uso della chitarra come mezzo definitivo per l’espressione del rock. Capolavoro? Sì, senza ombra di dubbio.

Autore: Mad Season Titolo Album: Above
Anno: 1995 Casa Discografica: Columbia Records
Genere musicale: Rock, Grunge Voto: 9
Tipo: CD Sito web: http://www.myspace.com/madseasonabove
Membri band:

Layne Staley – voce

Mark Lanegan – voce

Mick McCready – chitarra

John Philip Saunders – basso

Barret Martin – batteria, percussioni

Tracklist:

  1. Wake Up
  2. X-Ray Mind
  3. River Of Deceit
  4. I’m Above
  5. Artificial Red
  6. Lifeless Dead
  7. I Don’t Know Anything
  8. Long Gone Day
  9. November Hotel
  10. All Alone
Category : Recensioni
Tags : Album del passato, Grunge
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17th Apr2013

Morod – 20

by Carlo A. Giardina

I cagliaritani Morod, con 20, presentano un disco d’esordio che sta al confine tra grunge ed heavy metal. Così come stanno al confine le impressioni di chi ascolta il loro album: pollice all’insù o all’ingiù? In tutto vi sono otto brani. I primi quattro presentano sottili differenze che movimentano il tutto. Si apre con la potente e cadenzata My Heart proseguendo, sulla stessa scia, con Sickness, leggermente più attivo. Si continua con Sei acceso? (finalmente un testo in italiano, dopo spiegheremo il perché) influenzato senz’altro dall’alternative rock/grunge italiano dei primi anni ‘90 (ovviamente Verdena su tutti). La prima parte si conclude con la title track 20, una lenta ballata grunge molto piacevole. La seconda parte continua con gli altri quattro brani: poco originali, all’apparenza messi lì giusto per fare numero. Alcune domande sorgono spontanee: perché? Perché allungare un brodo già leggermente annacquato di suo? Se si fossero fermati ai primi quattro? Cosa sarebbe successo? Beh, di sicuro avrebbero evitato di lasciare gli ascoltatori in un limbo dal quale, però, sembra molto semplice uscire: premere stop.

Altra nota di demerito é l’inglese: non siamo i soliti anglofili che se la tirano per la pronuncia da “Sir” di turno, però, i brani, musicalmente ricchi, studiati e sentiti, perdono di qualità e di molto: sentire la classica cadenza italo-americana, per lo più stonata, disturba parecchio. Le stonature ci stanno (Cobain insegna, per non parlare dei Sex Pistols), ma l’accostamento a quel l’inglese raffazzonato non ci sta. Probabilmente, ascoltando 20, il vostro pollice rimarrebbe a metà.

Autore: Morod Titolo Album: 20
Anno: 2012 Casa Discografica: Green Studio Productions
Genere musicale: Grunge Voto: 4
Tipo: CD Sito web: http://www.morodproject.com
Membri band:

Tiziano Piu – voce, chitarra

Alberto Pisanu – basso

Fabio Muscas – batteria

Tracklist:

  1. My Heart
  2. Sickness
  3. Sei Acceso?
  4. 20
  5. Shattered By Myself
  6. Tired
  7. The Truth
  8. I’m Losing In UK
Category : Recensioni
Tags : Grunge
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11th Feb2013

Pandora’s Bliss – Oh Glorious Serenity

by Rod

Nonostante siano in molti coloro i quali provano senza colpo ferire ad uccidere il rock ed a vivisezionarlo in tanti minuscoli pezzettini allo scopo di annullarne la pericolosità discografica, alcuni generi come il grunge che hanno fatto scuola e scritto per primi i dettami di uno stile che ha dominato le classifiche per decenni, resistono, loro malgrado, ancora impavidi a se stessi. È questo il primo fondamentale comandamento che si erige come un muro ascoltando Oh Glorious Serenity, l’ultimo lavoro del trio belga-tedesco Pandora’s Bliss. Appare palese sin dai primi approcci, come questo full-lenght trasudi di atmosfere made in Seattle, attingendo a piene mani dalla follia noise e dallo stereotipo furente dei Nirvana sponda Bleach (I’m Burnt, Sick Me, Hollywood Grave, Lick My Cunt), dalle atmosfere cupe e claustrofobiche degli Alice in Chains (Dear Humankind, Slove Stoned) e da una certa sfrontatezza eclettica dei primi Stone Temple Pilots (Take The Knife, Latin Beat). L’interpretazione vocale e strumentale della frontman Annie è al limite dell’incarnazione perfetta del genere, spiccando per talento in quanto a testi, personalità e grinta interpretativa. Un carisma che non passa inosservato, degno del confronto con una grande eroina del periodo d’oro del grunge come Courtney Love (Lady, Pretty Love, Candy, Hard To Explain, The Shower).

Coerente al crisma di questo genere musicale che rese Kurt Cobain e Layne Staley icone senza tempo del rock, i pezzi si presentano come composizioni molto semplici, nude e crude, con sparuti assoli minimali e privi di magie da postproduzione o di pantomime elettroniche di alcuna sorta. In Oh Glorious Serenity troverete solo chitarra elettrica in versione pulita o distorta, basso e batteria, il tutto a sostegno del talento di Annie nel pieno della sua melanconica, sfrontata e selvaggia istrionicità. Fondamentalmente questo è uno di quei prodotti discografici a cui non manca nulla: pezzi potenti, ballate e finanche un brano strumentale (Oriental Sunrise). Nonostante ciò, durante l’ascolto emergono dei passaggi e delle soluzioni vocali e strumentali che sanno di déjà vu forzato, a causa forse dell’eccessiva ricerca compositiva dello stereotipo grunge. Ad ogni modo, per i nostalgici dei 90’s, è assolutamente consigliato un approccio sonoro a questo lavoro, una di quelle produzioni che se fosse uscita nel vivo del periodo che ha fatto le fortune di Seattle, non sarebbe di certo passata inosservata.

Autore: Pandora’s Bliss Titolo Album: Oh Glorious Serenity
Anno: 2012 Casa Discografica: Comet Records
Genere musicale: Alternative Rock, Grunge Voto: 7,5
Tipo: CD Sito web: http://www.pandorasguitar.com/
Membri band:

Annie Croysh – voce, chitarra

Mia Croysh – basso

Roman Grochol – batteria

Tracklist:

  1. Take That Knife
  2. I’m Burnt
  3. Lady
  4. Sick Me
  5. Latin Beat
  6. Pretty Love
  7. Candy
  8. Hard To Explain
  9. Dear Humankind
  10. Hollywood Grave
  11. Slov Stoned
  12. Lick My Cunt
  13. The Shower
  14. Oriental Sunrise
Category : Recensioni
Tags : Grunge
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27th Gen2013

Nirvana – From The Muddy Banks Of The Wishkah

by Rod

Ultimo capitolo del breve ma intenso percorso discografico legato al mito dei Nirvana, va dedicato al live From The Muddy Banks Of The Wishkah, un album che raccoglie alcune esibizioni dal vivo della band registrate in Europa e negli Stati Uniti nel corso della loro attività tra il 1989 ed il 1994. Il titolo è altamente evocativo: Wishkah è infatti il nome del fiume che scorre nei pressi di Aberdeen, città in cui Kurt Cobain e Krist Novoselic sono praticamente cresciuti e da dove hanno mosso i primi passi verso l’olimpo delle leggende del rock. Il Muddy Banks,dopo l’MTV Unplugged in NY, rappresenta il secondo album postumo alla morte di Cobain ed è senza dubbio una raccolta che viaggia a metà tra il solito prodotto commerciale pensato per fare cassa ed un progetto musicale atto a mostrare al mondo il lato selvaggio della band palesato durante le esibizioni live. In pratica, mentre l’esibizione acustica televisiva è da considerarsi come un commiato composto alla memoria del progetto Nirvana e del suo compianto frontman, From The Muddy Banks Of The Wishkah suol essere il giusto tributo a ciò che il combo americano ha rappresentato per il suo pubblico e per l’intera iconografia del grunge. Ad eccezione di Intro (simile più ad una sorta di sound check) ed a Polly (che in questa sede viene spogliata dalle sue fattezze acustiche e presentata in una nuova veste elettrificata che degenera in un crescendo noise ad alto impatto), il resto dei brani proposti navigano scomodamente tra i grandi successi del gruppo: dal caposaldo di Nevermind Smells Like Teen Spirit, ai vagiti punk degli esordi di Bleach riscontrabili in School, fino al capolavoro Heart-Shaped Box del fenomenale In Utero.

Questo episodio discografico mostra senza fronzoli quanto le esecuzioni on stage riescano a spogliare il repertorio della band da tutti quegli accorgimenti frutto della post produzione, contribuendo a compattare ed uniformare quel suono che tante diversità d’intenti aveva riscontrato nelle raccolte studio, in un unico grezzo e potente momento sonoro, ovvero niente di più di quanto vicino e tangibile al concetto stesso di “grunge”. La rabbia vocale di Cobain ed il suo essenziale quanto potente apporto chitarristico, uniti alla compattezza ritmica di Novoselic e Grohl, svelano la semplicissima formula che riusciva a catturare l’attenzione delle folle oceaniche occorse a contemplare la cerimonia live dei taumaturghi del movimento made in Seattle come in una sorta di enorme e rumorosa sala prove mostratasi al mondo in tutta la sua primordialità. Chi scrive, non può non esimersi dal dedicare una menzione speciale ad Aneurysm, un pezzo già di per se straordinario e reso ancor più sensazionale nella versione presente in questo full-lenght.

Giù il cappello quindi di fronte a questa opera che sa di sudore e sangue, di tour massacranti e di noiose interviste, di strumenti sfasciati e di stage diving, di flash fotografici e di grupies che si infilavano di nascosto in quei camerini già infestati da alcoolici, barbiturici e stupefacenti. A dimostrazione della unicità di questa band, proprio in occasione dell’uscita di From The Muddy Banks Of The Wishkah, la nota rivista di settore Rolling Stone osò chiosare “c’è da domandarsi come diamine abbia fatto a diventare celebre un gruppo così rumoroso…”.

Autore: Nirvana Titolo Album: From The Muddy Banks Of The Wishkah
Anno: 1996 Casa Discografica: Geffen Records
Genere musicale: Grunge Voto: 9
Tipo: CD Sito web: http://www.nirvana.com
Membri band:

Kurt Cobain – voce, chitarra

Krist Novoselic – basso

Dave Grohl – batteria

Chad   Channig – batteria in Polly e Breed

Tracklist:

  1. Intro
  2. School
  3. Drain You
  4. Aneurysm
  5. Smells Like Teen Spirit
  6. Been A Son
  7. Lithium
  8. Sliver
  9. Spank Thru
  10. Scentless Apprentice
  11. Heart-Shaped Box
  12. Milk It
  13. Negative Creep
  14. Polly
  15. Breed
  16. Tourette’s
  17. Blew
Category : Recensioni
Tags : Grunge
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27th Dic2012

Nirvana – MTV Unplugged In New York

by Rod

La seppur breve ma multiplatinata discografia dei Nirvana annovera un album che ha fatto epoca negli anni ‘90 pur essendo una produzione molto comune nel suo genere a tante altre venute alla luce in quel periodo: un disco acustico intitolato MTV Unplugged In New York, registrato il 18 novembre 1993 negli studi newyorkesi di MTV (che tirò fuori da questo show low budget e da quelli di altri artisti, una lunga serie di esibizioni divenute di culto). Nell’atmosfera intima e soffusa dello stage essenziale preparato dal noto network americano, i Nirvana riuscirono a tirar fuori uno spettacolo che oseremmo definire scheletrico, nel quale i membri della band, messi da parte gli abiti trasandati, le distorsioni cupe, gli stage diving e le urla laceranti dei loro turbolenti live, riuscirono in questa chiave acustica a tirar fuori tutta l’emotività artistica, l’espressività melodica e le sfumature malinconiche facenti parte del loro sound grezzo, proponendo rivisitazioni e riarrangiamenti sia di brani tratti dai precedenti album Bleach, Nevermind ed In Utero (About A Girl, Come As You Are, Polly, Dumb, On A Plain, Pennyroyal Tea, Something In The Way, All Apologies) che di composizioni scelte dal repertorio di altri musicisti stimati soprattutto da Cobain. Non a caso Plateau, Oh Me e Lake Of Fire, sono pezzi dei Meat Puppets, alla cui esecuzione partecipano in veste di musicisti aggiunti gli stessi membri fondatori, i fratelli Curt e Cris Kirkwood. I Nirvana realizzarono inoltre una rivisitazione del brano folk Black Girl del bluesman Leadbelly intitolandola Where Did You Sleep Last Night ed una cover del successo del duca bianco David Bowie, dal titolo The Man Who Sold The World. Infine Jesus Don’t Want Me For A Sunbeam è la riproposizione di un brano di quei Vaselines già tributati da Cobain e soci in occasione della raccolta Incesticide del 1992.

Nel disco, ma soprattutto nel DVD che ripercorre l’intero storico show della band di Aberdeen, sono assolutamente tangibili la partecipazione e l’incredibile impatto emotivo che ebbe sul pubblico lo spettacolo messo in scena dai Nirvana. La performance unplugged, con i suoi arrangiamenti essenziali e gli accompagnamenti di violoncello e fisarmonica, svelò al mondo un lato intimo, diretto e più normale del trio, ben al di fuori dal solito clichè di band spericolata e ai più conosciuta come un rumoroso fenomeno da baraccone capace di trascinarsi dietro a suon di bigliettoni, le anime di milioni di adolescenti sbandati. Nulla di più irriguardoso. Negli occhi ma soprattutto nella voce di un Cobain sereno, ispirato e padrone assoluto della scena, sono invece palpabili le intense venature melodiche di un mostro sacro della musica rock a cui questa esibizione ha senza dubbio contribuito ad accrescerne il prestigio e a consacrarne definitivamente il talento assoluto. Una volta spente le morbide e platinate luci delle candele dell’MTV Unplugged In New York, poco rimase alla scena grunge e rock degli anno ’90. Nel fugace sguardo, dai toni intensi, quasi impaurito e attonito che Kurt assunse per pochi istanti nel finale di Where Did You Sleep Last Night, brano di chiusura dello show, sembra racchiuso tutto il mondo controverso del leader della band; lo specchio di uno stato d’animo fugace in cui sembra destarsi per l’ultima volta dal dorato palcoscenico del successo prima di intravedere l’ombra del suo imminente fatal commiato.

Da lì a breve Cobain passerà tragicamente nel “Club 27”, condannando l’intera scena musicale mondiale a rimanere orfana di uno dei suoi più grandi esponenti di sempre, nonché i rimanenti due membri dei Nirvana a reinventarsi carriere parallele dalle diverse ed altalenanti fortune.

Autore: Nirvana Titolo Album: MTV Unplugged In New York
Anno: 1994 Casa Discografica: Geffen Records
Genere musicale: Grunge Voto: 10
Tipo: CD Sito web: http://www.nirvana.com
Membri band:

Kurt Cobain – chitarra e voce

Krist Novoselic – basso, fisarmonica

Dave Grohl – batteria, basso

Pat Smear   – chitarra

Curt   Kirkwood – chitarra

Cris   Kirkwood – basso

Lori   Goldston – violoncello

Tracklist:

  1. About A Girl
  2. Come As You Are
  3. Jesus Don’t Want Me For A Sunbeam
  4. The Man Who Sold The World
  5. Pennyroyal Tea
  6. Dumb
  7. Polly
  8. On A Plain
  9. Something In The Way
  10. Plateau
  11. Oh Me
  12. Lake of Fire
  13. All Apologies
  14. Where Did You Sleep Last Night?
Category : Recensioni
Tags : Grunge
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19th Nov2012

Temple Of The Dog – Temple Of The Dog

by Giuseppe Celano

La storia la conoscono un po’ tutti. Come molte cose che gravitano attorno a Seattle, e al mondo del grunge, anche questo disco nasce da una storia triste. Adrian Wood, leader dei Mother Love Bone, muore di overdose ancora prima che la sua band possa riscuotere il meritato successo. Chris Cornell, e altri membri dei futuri Pearl Jam, decidono di formare una band e incidere un unico disco che prenderà il nome da Man Of The Golden Garden dei Mother Love Bone. Temple Of The Dog vede la luce nel 1991 e i suoi due primi vagiti sono Say Hello 2 Heaven e la lunga cavalcata Reach Down in cui Cornell raggiunge vette vocali davvero micidiali. I brani furono scritti da Chris mentre era in tour, ancor prima della morte di Adrian. L’idea di usare anche del materiale inedito dello stesso Wood dapprima presa in considerazione è scartata successivamente. L’album fu registrato in soli quindici giorni e come ammisero i membri della band l’atmosfera era molto distesa, senza pressioni esterne o aspettative. Il sound meno aggressivo e potente dei Soundgarden possiede una vena melodica istintiva e una freschezza invidiabile. Il solo duetto fra Vedder e Cornell in Hunger Strike è da brividi che s’intensificano con la successiva ballad Call Me A Dog, portata dal vivo anche negli ultimi tour dello stesso singer dei Soundgarden. Temple Of The Dog è un piccolo grande gioiello senza tempo, contiene molti brani che da soli sono dei potenziali singoli ma funzionano perfettamente anche come ingranaggi di uno scoppiettante motore nuovo di zecca (Pushing Forward Back).

La musica è scritta e registrata come un ponte immaginario fra la freschezza dei Mother Love Bone e la solennità dei Pearl Jam passando per qualche pattern più robusto dei Soundgarden. Testimone insindacabile di tutto ciò è Four Walled World, muscolare cavalcata in cui Cornell esibisce una superiorità vocale schiacciante producendosi in una prova di forza ricca di saliscendi armonici che lasciano a bocca aperta. Le chitarre in acido costruiscono un’atmosfera psichedelica da manuale senza cadere nel manierismo e mantenendo un istinto viscerale che la rende vera e credibile. Chiude la super ballata per piano e voce All Night Thing in cui lentamente s’insinuano i rimanenti della band per chiudere su toni soffici e smorzati un grande disco di rock sanguigno. In una parola: imperdibile.

Autore: Temple Of The Dog Titolo Album: Temple Of The Dog
Anno: 1991 Casa Discografica: A&M
Genere musicale: Rock Voto: 8
Tipo: CD Sito web: http://it.myspace.com/templeofthedog6969
Membri band:

Chris Cornell – voce

Eddie Vedder – voce

Mike McCready – chitarra

Stone Gossard – chitarra

Jeff Ament – basso

Matt Cameron – batteria, percussioni

Tracklist:

  1. Say Hello 2 Heaven
  2. Reach Down
  3. Hunger Strike
  4. Pushing Forward Back
  5. Call Me A Dog
  6. Times Of Trouble
  7. Wooden Jesus
  8. Your Saviour
  9. Four Walled World
  10. All Night Thing
Category : Recensioni
Tags : Grunge
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12th Nov2012

Nirvana – In Utero

by Rod

Incesticide del 1992 non era riuscito nei fatti a placare la fame di Nirvana in coloro che si sentivano ancora sotto l’effetto dell’orgasmo grunge di Nevermind. L’uscita del terzo album studio dei Nirvana fu un parto lento e faticoso, rallentato ulteriormente dalla consapevolezza di non aver ancora espresso il vero dark side artistico della band seguita da una certa malcelata insoddisfazione legata al suono dell’album di Smells Like Teen Spirit, considerato come troppo pulito e con una scarsa attitudine punk per i gusti di Cobain e soci che non concessero il bis al connubio artistico con Butch Vig sfoderando nell’occasione un clamoroso quanto irriconoscente due di picche. Al suo posto spinse fortissimamente per avere in cabina di regia il carismatico (quanto supponente) Steve Albini, già produttore di alcune band molto apprezzate dallo stesso Kurt. Albini, famoso soprattutto nell’ambiente noise, era conosciuto per la maniacalità con la quale piazzava in sala di registrazione microfoni in ogni dove, allo scopo di captare sonorità e suoni sempre diversi ed originali. Dal punto di vista artistico, Kurt prese materialmente per mano il momento creativo della band nella sua fase ancora embrionale, provando a spingere tutto oltre, in una direzione più emotiva da far confluire nel disco, come se fosse una creatura tutta sua, dai testi alle musiche, dall’artwork alla produzione, dal suono al suo emblematico titolo. Lo staff al completo, si mise a lavoro alacremente e terminate le registrazioni, il risultato fu In Utero (originariamente pensato come I Hate Myself And I Want To Die), un album bellissimo, vicinissimo al suono grunge che avevano in mente i tre Nirvana, una raccolta che rappresentava al meglio la band e che fotografava il miglior momento personale ed artistico di Cobain, Novoselic e Grohl.

Serve The Servants è la traccia che apre questo nuovo capitolo discografico con il suo primo simbolico verso“… La rabbia dei giovani ha pagato bene…ora sono annoiato e vecchio…”. Ma il vero ricongiungimento con le sonorità tipiche del grunge, avviene con Scentless Apprentice, un brano che nella sostanza richiama le atmosfere cupe e claustrofobiche di Bleach ma con un arrangiamento più alternative rispetto al passato. A seguire ci si imbatte in Heart-Shaped Box, primo singolo estratto da In Utero. Portato in auge da un video tanto geniale quanto blasfemo, è uno dei capolavori dell’album, un pezzo in cui Cobain riesce grazie alla sua interpretazione rauca e malinconica, ai suoi testi intrisi di surreale nonsense ed alla sua chitarra distorta, a concedere un’atmosfera del tutto onirica al brano, consegnandolo per sempre nell’olimpo dei classici della musica rock di sempre. Rape Me mette in evidenza una delle caratteristiche vincenti della band: la sconcertante quanto selvaggia semplicità compositiva e strumentale del trio, un dna vincente che valorizza già di per sé un pezzo tostissimo in cui è la sfacciata violenza del testo picchiata dai ritmi altalenanti di Dave a fare il resto. Frances Farmer Will Have Her Revenge On Seattle è un brano tanto orecchiabile quanto stracolmo di carica punk, perfettamente in linea con lo schema melodico dell’intero full lenght. Dumb e Pennyroyal Tea sono brani allineati alle atmosfere nostalgiche e quasi malinconiche dei precedenti brani semiacustici del passato come About A Girl e Polly. Anche in questo caso, Kurt riesce a scoprire il suo lato più delicato che quasi mai nelle liriche appare naturale ma perennemente infettato da un onnipresente alone di profondo malessere che contamina un po’ tutto il suo universo poetico.

In Dumb per esempio, il biondo singer prova a parlare di felicità considerandola come stupidità “…Non sono come loro, ma posso fingere… Il sole se ne è andato, ma io ho la luce… Il giorno se ne è andato, ma mi sto divertendo… Penso di essere ottuso, o forse solo felice…”. Very Ape si palesa come uno dei brani più anonimi del disco nonostante l’immediatezza del chours ed il vestito punk cucitogli addosso dalla band. Discorso diverso per Milk It, uno dei classici made in Nirvana, probabilmente la canzone che meglio esprime il lato più estremo della band attraverso l’attitudine noise delle origini e l’inquietudine melodica dei tempi dorati di Nevermind. Radio Friendly Unit Shifter è l’ennesimo esempio di connubio tra noise, punk e grunge, in cui la fanno da padrone distorsioni graffianti, effetti squarcianti ed amplificatori impazziti. Tourette’s è pura follia e Cobain la interpreta al limite delle sue possibilità vocali, sputando nel microfono veleno e rabbia spinta al limite, tra le raffiche di basso di Chris e le scariche di batteria di Dave. L’ultima posizione del disco la occupa All Apologies, l’ennesimo episodio melodico di In Utero, uno dei pezzi dei Nirvana più conosciuti e riproposti in assoluto, grazie ad un mood rock e ad un sound quasi mainstream arricchito da un breve assolo che va lentamente a sfumare nel mantra finale di “…all in all is all we are…”.

Facendo scorrere i secondi che seguono il termine dell’ultimo brano, è possibile ascoltare Gallons Of Rubbing Alcohol Flow Through The Strip, l’ennesima traccia fantasma inserita in fondo al disco che, come nel caso di Endless, Nameless, rappresenta più una sorta di cazzeggio insignificante e delirante da sala prove che ad un vero brano con una struttura impostata ed un testo definito. Riesce comunque ad incuriosire per lo spirito naif dell’insieme e per il simpatico “dietro le quinte” che la band concede all’ascoltatore e che dà l’esatta dimensione del progetto Nirvana: non una macchina da soldi con i riflettori puntati addosso ed in tasca le anime di milioni di adolescenti smarriti, ma una normale band di ragazzi come tanti accomunati dall’esigenza di esprimere se stessi attraverso l’arte ed il suo canale sonoro maggiormente rappresentativo, la musica rock.

Autore: Nirvana Titolo Album: In Utero
Anno: 1993 Casa Discografica: Geffen Records
Genere musicale: Grunge Voto: 9,5
Tipo: CD Sito web: http://www.nirvana.com
Membri band:

Kurt Cobain – voce, chitarra

Chris Novoselic – basso

Dave Grohl – batteria

 

Tracklist:

  1. Serve the Servants 
  2. Scentless Apprentice 
  3. Heart-Shaped Box
  4. Rape Me
  5. Frances Farmer Will Have Her Revenge On Seattle 
  6. Dumb 
  7. Very Ape 
  8. Milk It 
  9. Pennyroyal Tea
  10. Radio Friendly Unit Shifter 
  11. Tourette’s 
  12. All Apologies
  13. Gallons Of Rubbing Alcohol Flow Through The Strip (ghost track)
Category : Recensioni
Tags : Grunge
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02nd Nov2012

Nirvana – Incesticide

by Rod

Dopo l’enorme successo di Nevermind che catapultò i Nirvana dalla realtà underground di Seattle ai primi posti delle più importanti classifiche del globo, tutti si aspettavano da parte del trio americano un ritorno discografico di forma e sostanza in linea con il loro secondo portentoso lavoro. La band dal canto suo, decise nel 1992 di far uscire Incesticide, una raccolta di singoli, di nuove versioni di vecchi brani, di cover, di inediti e di b-sides, nella quale Cobain e Novoselic rappresentavano la sola costante, a fronte di una folta schiera di nomi inclusi nel progetto suddivisi tra batteristi, produttori ed etichette. Per molti addetti ai lavori che in quegli anni ebbero modo di assistere da vicino alla nascita, alla crescita e all’esplosione del fenomeno Nirvana, tutto il successo ottenuto con Nevermind era apparso a tratti inopportuno, o per meglio dire contestualizzato al solo movimento grunge e mainstream, considerata invece l’estrazione tipicamente punk del background artistico di tutti i musicisti che facevano parte in pianta stabile del combo, ma anche di quelli che a vario titolo avevano contribuito al suo consolidamento. Una premessa questa, probabilmente condivisa anche dallo stesso Kurt e dal resto del suo entourage, considerato che Incesticide piombò sulle scene come un messaggio di rivendicazione di quelle radici, palesato soprattutto in un brano, (New Wave) Polly, unico ripescaggio estratto da Nevermind e qui riproposto in versione ruvida, elettrificata e suonata a velocità triplicata: in una sola parola, il punk.

Gli fanno eco le cover Molly’s Lips e Son Of A Gun dei The Vaselines (tra le band più amate da Cobain) e Turnaround dei Devo, versioni queste, anch’esse graffiate e riverniciate dall’immediatezza del punk. Tutte e tre le tracce, erano già state inserite in Hormoaning, un EP esclusivo che uscì durante il tour di Nevermind per il mercato del Giappone e dell’Australia. Per gli aficionados del grunge, ci sono Beeswax e Downer (nella versione bonus-track della riedizione di Bleach), ma soprattutto Aero Zeppelin, Hairspray Queen e Mexican Seafood, tre brani risalenti al 1988 ed intrisi del tipico dna cupo e claustrofobico degli esordi. Della stessa pasta sonora, è fatto l’interessante Big Long Now, unico inedito inserito nella raccolta.

Incesticide è stato per pubblico e critica (in particolar modo dopo la sua uscita) un album che ha risentito in maniera significativa delle aspettative post-Nevermind, e che per questo motivo una volta giunto nei negozi, fece gran fatica ad imporsi a livello di consensi, non raggiungendo nei fatti il tripudio commerciale del suo famoso predecessore. Oggi invece questo lavoro incontra in maniera accrescente i favori dei cultori della band di Aberdeen, che grazie alle 15 tracce contenute, hanno potuto somatizzare al meglio la lezione del grunge, un movimento ed un genere che assimilò in fretta la linea sonora del punk, appesantedola ed estremizzandola con la potenza e la cattiveria del metal.

Autore: Nirvana Titolo Album: Incesticide
Anno: 1992 Casa Discografica: DGC/Sub Pop
Genere musicale: Grunge, Punk Voto: 8
Tipo: CD Sito web: http://www.nirvana.com
Membri band:Kurt Cobain – voce, chitarraKrist Novoselic – basso, coriDave Grohl – batteria, coriChad Channing – batteria nelle tracce 1, 3 e 14Dan Peters – batteria nella traccia 2Dale Crover – batteria nelle tracce 9, 10, 11, 12 e 13 Tracklist:

  1. Dive
  2. Sliver
  3. Stain
  4. Been A Son
  5. Turnaround
  6. Molly’s Lips
  7. Son of A Gun
  8. (New Wave) Polly
  9. Beeswax
  10. Downer
  11. Mexican Seafood
  12. Hairspray Queen
  13. Aero Zeppelin
  14. Big Long Now
  15. Aneurysm
Category : Recensioni
Tags : Grunge
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