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11th Feb2013

Pandora’s Bliss – Oh Glorious Serenity

by Rod

Nonostante siano in molti coloro i quali provano senza colpo ferire ad uccidere il rock ed a vivisezionarlo in tanti minuscoli pezzettini allo scopo di annullarne la pericolosità discografica, alcuni generi come il grunge che hanno fatto scuola e scritto per primi i dettami di uno stile che ha dominato le classifiche per decenni, resistono, loro malgrado, ancora impavidi a se stessi. È questo il primo fondamentale comandamento che si erige come un muro ascoltando Oh Glorious Serenity, l’ultimo lavoro del trio belga-tedesco Pandora’s Bliss. Appare palese sin dai primi approcci, come questo full-lenght trasudi di atmosfere made in Seattle, attingendo a piene mani dalla follia noise e dallo stereotipo furente dei Nirvana sponda Bleach (I’m Burnt, Sick Me, Hollywood Grave, Lick My Cunt), dalle atmosfere cupe e claustrofobiche degli Alice in Chains (Dear Humankind, Slove Stoned) e da una certa sfrontatezza eclettica dei primi Stone Temple Pilots (Take The Knife, Latin Beat). L’interpretazione vocale e strumentale della frontman Annie è al limite dell’incarnazione perfetta del genere, spiccando per talento in quanto a testi, personalità e grinta interpretativa. Un carisma che non passa inosservato, degno del confronto con una grande eroina del periodo d’oro del grunge come Courtney Love (Lady, Pretty Love, Candy, Hard To Explain, The Shower).

Coerente al crisma di questo genere musicale che rese Kurt Cobain e Layne Staley icone senza tempo del rock, i pezzi si presentano come composizioni molto semplici, nude e crude, con sparuti assoli minimali e privi di magie da postproduzione o di pantomime elettroniche di alcuna sorta. In Oh Glorious Serenity troverete solo chitarra elettrica in versione pulita o distorta, basso e batteria, il tutto a sostegno del talento di Annie nel pieno della sua melanconica, sfrontata e selvaggia istrionicità. Fondamentalmente questo è uno di quei prodotti discografici a cui non manca nulla: pezzi potenti, ballate e finanche un brano strumentale (Oriental Sunrise). Nonostante ciò, durante l’ascolto emergono dei passaggi e delle soluzioni vocali e strumentali che sanno di déjà vu forzato, a causa forse dell’eccessiva ricerca compositiva dello stereotipo grunge. Ad ogni modo, per i nostalgici dei 90’s, è assolutamente consigliato un approccio sonoro a questo lavoro, una di quelle produzioni che se fosse uscita nel vivo del periodo che ha fatto le fortune di Seattle, non sarebbe di certo passata inosservata.

Autore: Pandora’s Bliss Titolo Album: Oh Glorious Serenity
Anno: 2012 Casa Discografica: Comet Records
Genere musicale: Alternative Rock, Grunge Voto: 7,5
Tipo: CD Sito web: http://www.pandorasguitar.com/
Membri band:

Annie Croysh – voce, chitarra

Mia Croysh – basso

Roman Grochol – batteria

Tracklist:

  1. Take That Knife
  2. I’m Burnt
  3. Lady
  4. Sick Me
  5. Latin Beat
  6. Pretty Love
  7. Candy
  8. Hard To Explain
  9. Dear Humankind
  10. Hollywood Grave
  11. Slov Stoned
  12. Lick My Cunt
  13. The Shower
  14. Oriental Sunrise
Category : Recensioni
Tags : Grunge
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27th Gen2013

Nirvana – From The Muddy Banks Of The Wishkah

by Rod

Ultimo capitolo del breve ma intenso percorso discografico legato al mito dei Nirvana, va dedicato al live From The Muddy Banks Of The Wishkah, un album che raccoglie alcune esibizioni dal vivo della band registrate in Europa e negli Stati Uniti nel corso della loro attività tra il 1989 ed il 1994. Il titolo è altamente evocativo: Wishkah è infatti il nome del fiume che scorre nei pressi di Aberdeen, città in cui Kurt Cobain e Krist Novoselic sono praticamente cresciuti e da dove hanno mosso i primi passi verso l’olimpo delle leggende del rock. Il Muddy Banks,dopo l’MTV Unplugged in NY, rappresenta il secondo album postumo alla morte di Cobain ed è senza dubbio una raccolta che viaggia a metà tra il solito prodotto commerciale pensato per fare cassa ed un progetto musicale atto a mostrare al mondo il lato selvaggio della band palesato durante le esibizioni live. In pratica, mentre l’esibizione acustica televisiva è da considerarsi come un commiato composto alla memoria del progetto Nirvana e del suo compianto frontman, From The Muddy Banks Of The Wishkah suol essere il giusto tributo a ciò che il combo americano ha rappresentato per il suo pubblico e per l’intera iconografia del grunge. Ad eccezione di Intro (simile più ad una sorta di sound check) ed a Polly (che in questa sede viene spogliata dalle sue fattezze acustiche e presentata in una nuova veste elettrificata che degenera in un crescendo noise ad alto impatto), il resto dei brani proposti navigano scomodamente tra i grandi successi del gruppo: dal caposaldo di Nevermind Smells Like Teen Spirit, ai vagiti punk degli esordi di Bleach riscontrabili in School, fino al capolavoro Heart-Shaped Box del fenomenale In Utero.

Questo episodio discografico mostra senza fronzoli quanto le esecuzioni on stage riescano a spogliare il repertorio della band da tutti quegli accorgimenti frutto della post produzione, contribuendo a compattare ed uniformare quel suono che tante diversità d’intenti aveva riscontrato nelle raccolte studio, in un unico grezzo e potente momento sonoro, ovvero niente di più di quanto vicino e tangibile al concetto stesso di “grunge”. La rabbia vocale di Cobain ed il suo essenziale quanto potente apporto chitarristico, uniti alla compattezza ritmica di Novoselic e Grohl, svelano la semplicissima formula che riusciva a catturare l’attenzione delle folle oceaniche occorse a contemplare la cerimonia live dei taumaturghi del movimento made in Seattle come in una sorta di enorme e rumorosa sala prove mostratasi al mondo in tutta la sua primordialità. Chi scrive, non può non esimersi dal dedicare una menzione speciale ad Aneurysm, un pezzo già di per se straordinario e reso ancor più sensazionale nella versione presente in questo full-lenght.

Giù il cappello quindi di fronte a questa opera che sa di sudore e sangue, di tour massacranti e di noiose interviste, di strumenti sfasciati e di stage diving, di flash fotografici e di grupies che si infilavano di nascosto in quei camerini già infestati da alcoolici, barbiturici e stupefacenti. A dimostrazione della unicità di questa band, proprio in occasione dell’uscita di From The Muddy Banks Of The Wishkah, la nota rivista di settore Rolling Stone osò chiosare “c’è da domandarsi come diamine abbia fatto a diventare celebre un gruppo così rumoroso…”.

Autore: Nirvana Titolo Album: From The Muddy Banks Of The Wishkah
Anno: 1996 Casa Discografica: Geffen Records
Genere musicale: Grunge Voto: 9
Tipo: CD Sito web: http://www.nirvana.com
Membri band:

Kurt Cobain – voce, chitarra

Krist Novoselic – basso

Dave Grohl – batteria

Chad   Channig – batteria in Polly e Breed

Tracklist:

  1. Intro
  2. School
  3. Drain You
  4. Aneurysm
  5. Smells Like Teen Spirit
  6. Been A Son
  7. Lithium
  8. Sliver
  9. Spank Thru
  10. Scentless Apprentice
  11. Heart-Shaped Box
  12. Milk It
  13. Negative Creep
  14. Polly
  15. Breed
  16. Tourette’s
  17. Blew
Category : Recensioni
Tags : Grunge
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27th Dic2012

Nirvana – MTV Unplugged In New York

by Rod

La seppur breve ma multiplatinata discografia dei Nirvana annovera un album che ha fatto epoca negli anni ‘90 pur essendo una produzione molto comune nel suo genere a tante altre venute alla luce in quel periodo: un disco acustico intitolato MTV Unplugged In New York, registrato il 18 novembre 1993 negli studi newyorkesi di MTV (che tirò fuori da questo show low budget e da quelli di altri artisti, una lunga serie di esibizioni divenute di culto). Nell’atmosfera intima e soffusa dello stage essenziale preparato dal noto network americano, i Nirvana riuscirono a tirar fuori uno spettacolo che oseremmo definire scheletrico, nel quale i membri della band, messi da parte gli abiti trasandati, le distorsioni cupe, gli stage diving e le urla laceranti dei loro turbolenti live, riuscirono in questa chiave acustica a tirar fuori tutta l’emotività artistica, l’espressività melodica e le sfumature malinconiche facenti parte del loro sound grezzo, proponendo rivisitazioni e riarrangiamenti sia di brani tratti dai precedenti album Bleach, Nevermind ed In Utero (About A Girl, Come As You Are, Polly, Dumb, On A Plain, Pennyroyal Tea, Something In The Way, All Apologies) che di composizioni scelte dal repertorio di altri musicisti stimati soprattutto da Cobain. Non a caso Plateau, Oh Me e Lake Of Fire, sono pezzi dei Meat Puppets, alla cui esecuzione partecipano in veste di musicisti aggiunti gli stessi membri fondatori, i fratelli Curt e Cris Kirkwood. I Nirvana realizzarono inoltre una rivisitazione del brano folk Black Girl del bluesman Leadbelly intitolandola Where Did You Sleep Last Night ed una cover del successo del duca bianco David Bowie, dal titolo The Man Who Sold The World. Infine Jesus Don’t Want Me For A Sunbeam è la riproposizione di un brano di quei Vaselines già tributati da Cobain e soci in occasione della raccolta Incesticide del 1992.

Nel disco, ma soprattutto nel DVD che ripercorre l’intero storico show della band di Aberdeen, sono assolutamente tangibili la partecipazione e l’incredibile impatto emotivo che ebbe sul pubblico lo spettacolo messo in scena dai Nirvana. La performance unplugged, con i suoi arrangiamenti essenziali e gli accompagnamenti di violoncello e fisarmonica, svelò al mondo un lato intimo, diretto e più normale del trio, ben al di fuori dal solito clichè di band spericolata e ai più conosciuta come un rumoroso fenomeno da baraccone capace di trascinarsi dietro a suon di bigliettoni, le anime di milioni di adolescenti sbandati. Nulla di più irriguardoso. Negli occhi ma soprattutto nella voce di un Cobain sereno, ispirato e padrone assoluto della scena, sono invece palpabili le intense venature melodiche di un mostro sacro della musica rock a cui questa esibizione ha senza dubbio contribuito ad accrescerne il prestigio e a consacrarne definitivamente il talento assoluto. Una volta spente le morbide e platinate luci delle candele dell’MTV Unplugged In New York, poco rimase alla scena grunge e rock degli anno ’90. Nel fugace sguardo, dai toni intensi, quasi impaurito e attonito che Kurt assunse per pochi istanti nel finale di Where Did You Sleep Last Night, brano di chiusura dello show, sembra racchiuso tutto il mondo controverso del leader della band; lo specchio di uno stato d’animo fugace in cui sembra destarsi per l’ultima volta dal dorato palcoscenico del successo prima di intravedere l’ombra del suo imminente fatal commiato.

Da lì a breve Cobain passerà tragicamente nel “Club 27”, condannando l’intera scena musicale mondiale a rimanere orfana di uno dei suoi più grandi esponenti di sempre, nonché i rimanenti due membri dei Nirvana a reinventarsi carriere parallele dalle diverse ed altalenanti fortune.

Autore: Nirvana Titolo Album: MTV Unplugged In New York
Anno: 1994 Casa Discografica: Geffen Records
Genere musicale: Grunge Voto: 10
Tipo: CD Sito web: http://www.nirvana.com
Membri band:

Kurt Cobain – chitarra e voce

Krist Novoselic – basso, fisarmonica

Dave Grohl – batteria, basso

Pat Smear   – chitarra

Curt   Kirkwood – chitarra

Cris   Kirkwood – basso

Lori   Goldston – violoncello

Tracklist:

  1. About A Girl
  2. Come As You Are
  3. Jesus Don’t Want Me For A Sunbeam
  4. The Man Who Sold The World
  5. Pennyroyal Tea
  6. Dumb
  7. Polly
  8. On A Plain
  9. Something In The Way
  10. Plateau
  11. Oh Me
  12. Lake of Fire
  13. All Apologies
  14. Where Did You Sleep Last Night?
Category : Recensioni
Tags : Grunge
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19th Nov2012

Temple Of The Dog – Temple Of The Dog

by Giuseppe Celano

La storia la conoscono un po’ tutti. Come molte cose che gravitano attorno a Seattle, e al mondo del grunge, anche questo disco nasce da una storia triste. Adrian Wood, leader dei Mother Love Bone, muore di overdose ancora prima che la sua band possa riscuotere il meritato successo. Chris Cornell, e altri membri dei futuri Pearl Jam, decidono di formare una band e incidere un unico disco che prenderà il nome da Man Of The Golden Garden dei Mother Love Bone. Temple Of The Dog vede la luce nel 1991 e i suoi due primi vagiti sono Say Hello 2 Heaven e la lunga cavalcata Reach Down in cui Cornell raggiunge vette vocali davvero micidiali. I brani furono scritti da Chris mentre era in tour, ancor prima della morte di Adrian. L’idea di usare anche del materiale inedito dello stesso Wood dapprima presa in considerazione è scartata successivamente. L’album fu registrato in soli quindici giorni e come ammisero i membri della band l’atmosfera era molto distesa, senza pressioni esterne o aspettative. Il sound meno aggressivo e potente dei Soundgarden possiede una vena melodica istintiva e una freschezza invidiabile. Il solo duetto fra Vedder e Cornell in Hunger Strike è da brividi che s’intensificano con la successiva ballad Call Me A Dog, portata dal vivo anche negli ultimi tour dello stesso singer dei Soundgarden. Temple Of The Dog è un piccolo grande gioiello senza tempo, contiene molti brani che da soli sono dei potenziali singoli ma funzionano perfettamente anche come ingranaggi di uno scoppiettante motore nuovo di zecca (Pushing Forward Back).

La musica è scritta e registrata come un ponte immaginario fra la freschezza dei Mother Love Bone e la solennità dei Pearl Jam passando per qualche pattern più robusto dei Soundgarden. Testimone insindacabile di tutto ciò è Four Walled World, muscolare cavalcata in cui Cornell esibisce una superiorità vocale schiacciante producendosi in una prova di forza ricca di saliscendi armonici che lasciano a bocca aperta. Le chitarre in acido costruiscono un’atmosfera psichedelica da manuale senza cadere nel manierismo e mantenendo un istinto viscerale che la rende vera e credibile. Chiude la super ballata per piano e voce All Night Thing in cui lentamente s’insinuano i rimanenti della band per chiudere su toni soffici e smorzati un grande disco di rock sanguigno. In una parola: imperdibile.

Autore: Temple Of The Dog Titolo Album: Temple Of The Dog
Anno: 1991 Casa Discografica: A&M
Genere musicale: Rock Voto: 8
Tipo: CD Sito web: http://it.myspace.com/templeofthedog6969
Membri band:

Chris Cornell – voce

Eddie Vedder – voce

Mike McCready – chitarra

Stone Gossard – chitarra

Jeff Ament – basso

Matt Cameron – batteria, percussioni

Tracklist:

  1. Say Hello 2 Heaven
  2. Reach Down
  3. Hunger Strike
  4. Pushing Forward Back
  5. Call Me A Dog
  6. Times Of Trouble
  7. Wooden Jesus
  8. Your Saviour
  9. Four Walled World
  10. All Night Thing
Category : Recensioni
Tags : Grunge
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12th Nov2012

Nirvana – In Utero

by Rod

Incesticide del 1992 non era riuscito nei fatti a placare la fame di Nirvana in coloro che si sentivano ancora sotto l’effetto dell’orgasmo grunge di Nevermind. L’uscita del terzo album studio dei Nirvana fu un parto lento e faticoso, rallentato ulteriormente dalla consapevolezza di non aver ancora espresso il vero dark side artistico della band seguita da una certa malcelata insoddisfazione legata al suono dell’album di Smells Like Teen Spirit, considerato come troppo pulito e con una scarsa attitudine punk per i gusti di Cobain e soci che non concessero il bis al connubio artistico con Butch Vig sfoderando nell’occasione un clamoroso quanto irriconoscente due di picche. Al suo posto spinse fortissimamente per avere in cabina di regia il carismatico (quanto supponente) Steve Albini, già produttore di alcune band molto apprezzate dallo stesso Kurt. Albini, famoso soprattutto nell’ambiente noise, era conosciuto per la maniacalità con la quale piazzava in sala di registrazione microfoni in ogni dove, allo scopo di captare sonorità e suoni sempre diversi ed originali. Dal punto di vista artistico, Kurt prese materialmente per mano il momento creativo della band nella sua fase ancora embrionale, provando a spingere tutto oltre, in una direzione più emotiva da far confluire nel disco, come se fosse una creatura tutta sua, dai testi alle musiche, dall’artwork alla produzione, dal suono al suo emblematico titolo. Lo staff al completo, si mise a lavoro alacremente e terminate le registrazioni, il risultato fu In Utero (originariamente pensato come I Hate Myself And I Want To Die), un album bellissimo, vicinissimo al suono grunge che avevano in mente i tre Nirvana, una raccolta che rappresentava al meglio la band e che fotografava il miglior momento personale ed artistico di Cobain, Novoselic e Grohl.

Serve The Servants è la traccia che apre questo nuovo capitolo discografico con il suo primo simbolico verso“… La rabbia dei giovani ha pagato bene…ora sono annoiato e vecchio…”. Ma il vero ricongiungimento con le sonorità tipiche del grunge, avviene con Scentless Apprentice, un brano che nella sostanza richiama le atmosfere cupe e claustrofobiche di Bleach ma con un arrangiamento più alternative rispetto al passato. A seguire ci si imbatte in Heart-Shaped Box, primo singolo estratto da In Utero. Portato in auge da un video tanto geniale quanto blasfemo, è uno dei capolavori dell’album, un pezzo in cui Cobain riesce grazie alla sua interpretazione rauca e malinconica, ai suoi testi intrisi di surreale nonsense ed alla sua chitarra distorta, a concedere un’atmosfera del tutto onirica al brano, consegnandolo per sempre nell’olimpo dei classici della musica rock di sempre. Rape Me mette in evidenza una delle caratteristiche vincenti della band: la sconcertante quanto selvaggia semplicità compositiva e strumentale del trio, un dna vincente che valorizza già di per sé un pezzo tostissimo in cui è la sfacciata violenza del testo picchiata dai ritmi altalenanti di Dave a fare il resto. Frances Farmer Will Have Her Revenge On Seattle è un brano tanto orecchiabile quanto stracolmo di carica punk, perfettamente in linea con lo schema melodico dell’intero full lenght. Dumb e Pennyroyal Tea sono brani allineati alle atmosfere nostalgiche e quasi malinconiche dei precedenti brani semiacustici del passato come About A Girl e Polly. Anche in questo caso, Kurt riesce a scoprire il suo lato più delicato che quasi mai nelle liriche appare naturale ma perennemente infettato da un onnipresente alone di profondo malessere che contamina un po’ tutto il suo universo poetico.

In Dumb per esempio, il biondo singer prova a parlare di felicità considerandola come stupidità “…Non sono come loro, ma posso fingere… Il sole se ne è andato, ma io ho la luce… Il giorno se ne è andato, ma mi sto divertendo… Penso di essere ottuso, o forse solo felice…”. Very Ape si palesa come uno dei brani più anonimi del disco nonostante l’immediatezza del chours ed il vestito punk cucitogli addosso dalla band. Discorso diverso per Milk It, uno dei classici made in Nirvana, probabilmente la canzone che meglio esprime il lato più estremo della band attraverso l’attitudine noise delle origini e l’inquietudine melodica dei tempi dorati di Nevermind. Radio Friendly Unit Shifter è l’ennesimo esempio di connubio tra noise, punk e grunge, in cui la fanno da padrone distorsioni graffianti, effetti squarcianti ed amplificatori impazziti. Tourette’s è pura follia e Cobain la interpreta al limite delle sue possibilità vocali, sputando nel microfono veleno e rabbia spinta al limite, tra le raffiche di basso di Chris e le scariche di batteria di Dave. L’ultima posizione del disco la occupa All Apologies, l’ennesimo episodio melodico di In Utero, uno dei pezzi dei Nirvana più conosciuti e riproposti in assoluto, grazie ad un mood rock e ad un sound quasi mainstream arricchito da un breve assolo che va lentamente a sfumare nel mantra finale di “…all in all is all we are…”.

Facendo scorrere i secondi che seguono il termine dell’ultimo brano, è possibile ascoltare Gallons Of Rubbing Alcohol Flow Through The Strip, l’ennesima traccia fantasma inserita in fondo al disco che, come nel caso di Endless, Nameless, rappresenta più una sorta di cazzeggio insignificante e delirante da sala prove che ad un vero brano con una struttura impostata ed un testo definito. Riesce comunque ad incuriosire per lo spirito naif dell’insieme e per il simpatico “dietro le quinte” che la band concede all’ascoltatore e che dà l’esatta dimensione del progetto Nirvana: non una macchina da soldi con i riflettori puntati addosso ed in tasca le anime di milioni di adolescenti smarriti, ma una normale band di ragazzi come tanti accomunati dall’esigenza di esprimere se stessi attraverso l’arte ed il suo canale sonoro maggiormente rappresentativo, la musica rock.

Autore: Nirvana Titolo Album: In Utero
Anno: 1993 Casa Discografica: Geffen Records
Genere musicale: Grunge Voto: 9,5
Tipo: CD Sito web: http://www.nirvana.com
Membri band:

Kurt Cobain – voce, chitarra

Chris Novoselic – basso

Dave Grohl – batteria

 

Tracklist:

  1. Serve the Servants 
  2. Scentless Apprentice 
  3. Heart-Shaped Box
  4. Rape Me
  5. Frances Farmer Will Have Her Revenge On Seattle 
  6. Dumb 
  7. Very Ape 
  8. Milk It 
  9. Pennyroyal Tea
  10. Radio Friendly Unit Shifter 
  11. Tourette’s 
  12. All Apologies
  13. Gallons Of Rubbing Alcohol Flow Through The Strip (ghost track)
Category : Recensioni
Tags : Grunge
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02nd Nov2012

Nirvana – Incesticide

by Rod

Dopo l’enorme successo di Nevermind che catapultò i Nirvana dalla realtà underground di Seattle ai primi posti delle più importanti classifiche del globo, tutti si aspettavano da parte del trio americano un ritorno discografico di forma e sostanza in linea con il loro secondo portentoso lavoro. La band dal canto suo, decise nel 1992 di far uscire Incesticide, una raccolta di singoli, di nuove versioni di vecchi brani, di cover, di inediti e di b-sides, nella quale Cobain e Novoselic rappresentavano la sola costante, a fronte di una folta schiera di nomi inclusi nel progetto suddivisi tra batteristi, produttori ed etichette. Per molti addetti ai lavori che in quegli anni ebbero modo di assistere da vicino alla nascita, alla crescita e all’esplosione del fenomeno Nirvana, tutto il successo ottenuto con Nevermind era apparso a tratti inopportuno, o per meglio dire contestualizzato al solo movimento grunge e mainstream, considerata invece l’estrazione tipicamente punk del background artistico di tutti i musicisti che facevano parte in pianta stabile del combo, ma anche di quelli che a vario titolo avevano contribuito al suo consolidamento. Una premessa questa, probabilmente condivisa anche dallo stesso Kurt e dal resto del suo entourage, considerato che Incesticide piombò sulle scene come un messaggio di rivendicazione di quelle radici, palesato soprattutto in un brano, (New Wave) Polly, unico ripescaggio estratto da Nevermind e qui riproposto in versione ruvida, elettrificata e suonata a velocità triplicata: in una sola parola, il punk.

Gli fanno eco le cover Molly’s Lips e Son Of A Gun dei The Vaselines (tra le band più amate da Cobain) e Turnaround dei Devo, versioni queste, anch’esse graffiate e riverniciate dall’immediatezza del punk. Tutte e tre le tracce, erano già state inserite in Hormoaning, un EP esclusivo che uscì durante il tour di Nevermind per il mercato del Giappone e dell’Australia. Per gli aficionados del grunge, ci sono Beeswax e Downer (nella versione bonus-track della riedizione di Bleach), ma soprattutto Aero Zeppelin, Hairspray Queen e Mexican Seafood, tre brani risalenti al 1988 ed intrisi del tipico dna cupo e claustrofobico degli esordi. Della stessa pasta sonora, è fatto l’interessante Big Long Now, unico inedito inserito nella raccolta.

Incesticide è stato per pubblico e critica (in particolar modo dopo la sua uscita) un album che ha risentito in maniera significativa delle aspettative post-Nevermind, e che per questo motivo una volta giunto nei negozi, fece gran fatica ad imporsi a livello di consensi, non raggiungendo nei fatti il tripudio commerciale del suo famoso predecessore. Oggi invece questo lavoro incontra in maniera accrescente i favori dei cultori della band di Aberdeen, che grazie alle 15 tracce contenute, hanno potuto somatizzare al meglio la lezione del grunge, un movimento ed un genere che assimilò in fretta la linea sonora del punk, appesantedola ed estremizzandola con la potenza e la cattiveria del metal.

Autore: Nirvana Titolo Album: Incesticide
Anno: 1992 Casa Discografica: DGC/Sub Pop
Genere musicale: Grunge, Punk Voto: 8
Tipo: CD Sito web: http://www.nirvana.com
Membri band:Kurt Cobain – voce, chitarraKrist Novoselic – basso, coriDave Grohl – batteria, coriChad Channing – batteria nelle tracce 1, 3 e 14Dan Peters – batteria nella traccia 2Dale Crover – batteria nelle tracce 9, 10, 11, 12 e 13 Tracklist:

  1. Dive
  2. Sliver
  3. Stain
  4. Been A Son
  5. Turnaround
  6. Molly’s Lips
  7. Son of A Gun
  8. (New Wave) Polly
  9. Beeswax
  10. Downer
  11. Mexican Seafood
  12. Hairspray Queen
  13. Aero Zeppelin
  14. Big Long Now
  15. Aneurysm
Category : Recensioni
Tags : Grunge
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15th Ott2012

Mother Love Bone – Apple

by Giuseppe Celano

Dopo l’EP Shine nel 1990 i Mother Love Bone si apprestano a rilasciare il loro primo (e ultimo anche se loro non lo sanno ancora) disco Apple. Registrato in California con il produttore Terry Date, la nuova release riprende il discorso lì dove si era interrotto il suo predecessore. Il sound si fa più deciso, la voce penetrante fa da apripista per le evoluzioni chitarristiche di Gossard e i suo assoli in pieno stile zeppeliniano. Tutto questo si concentra nell’opener This Is Shangrila e ancora di più nel pesante rifferama della successiva Stardog Champion, in cui anche il drumming s’ispessisce prendendo spunto da quello di Led Zeppelin IV. Molto meglio fa la ballata sghemba e psichedelica Bone China, con la sua melodia traversa e l’atmosfera ricca di pathos sprigionato dall’interpretazione di Wood che si supera in Man Of Golden Words. Questa bellissima track per voce e piano è supportata da delicate chitarre acustiche che mostrano l’anima più gentile e sognante della band. Dal suo testo è stata tratta l’ispirazione per il nome del super gruppo Temple Of The Dog, messo su in ricordo di Andrew Wood morto a soli 24 anni per overdose. A differenza delle tristi sonorità a cui ci abitueranno gli altri gruppi grunge, Apple si muove su suoni smussati, risultando anche più solare e “radio-friendly”. Il loro sound è molto lontano dal vero grunge, sono addirittura influenzati dai Guns N’Roses.

L’unico vero brano che contiene in nuce i veri semi per la fioritura del grunge è la lunga cavalcata Crown Of Thorns, già presente in Shine. Apple concilia gli ultimi strascichi dello street/hard ed il grunge che bussa pesantemente alle porte di Seattle. Rappresenta la classica pietra miliare che dà il via al rinnovamento/stravolgimento a cui la musica di qualità ci ha sempre abituato. Vario ed equilibrato, questo importante lavoro offre 13 brani in cui è possibile trovare veramente di tutto. Tutto ciò lo rende un album imperdibile per gli amanti del genere e della buona musica.

Autore: Mother Love Bone Titolo Album: Apple
Anno: 1990 Casa Discografica: Mercury Records
Genere musicale: Rock Voto: 8
Tipo: CD Sito web: http://motherlovebone.net
Membri band:

Andrew Wood – voce

Stone Gossard – chitarra

Bruce Fairweather – chitarra

Jeff Ament – basso

Greg Gilmore – batteria, percussioni

Tracklist:

  1. This Is Shangrila
  2. Stardog Champion
  3. Holy Roller
  4. Bone China
  5. Come Bite The Apple
  6. Stargazer
  7. Heartshine
  8. Captain Hi-Top
  9. Man Of Golden Words
  10. Capricorn Sister
  11. Gentle Groove
  12. Mr. Danny Boy
  13. Crown Of Thorns
  14. Lady Godiva Blues
Category : Recensioni
Tags : Grunge
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08th Ott2012

Mother Love Bone – Shine

by Giuseppe Celano

La storia dei Mother Love Bone dovremmo conoscerla un po’ tutti, addetti ai lavori e non. Ma per i più smemorati o per quelli che li hanno sinora ignorati ricapitoliamo i passaggi fondamentali di questa band seminale che, seppur fuori dal coro del grunge, aprirà le porte a uno dei movimenti musicali più fervidi degli anni novanta. Formati nel 1987 dalla costola dei dissolti Green River, i M.L.B. sono Stone Gossard, Bruce Fairweather e Jeff Ament che insieme al singer Andrew Wood e al batterista Greg Gilmore danno vita a una musica indirizzata verso un certo tipo di glam, amatissimo proprio da Wood. Shine (1989) è il loro primo lavoro, un EP che parte sulle note di Thru Fade Away dalla carica energetica prorompente. Voce penetrante, roca quanto basta, rifferama potente e sezione ritmica muscolare vanno a completare un puzzle vincente. Ma la vera anima della band emerge nella successiva Mindshaker Meltown con le soluzioni vocali appiccicose e la melodia supportata da coretti, mentre i riff diventano molto più semplici. Gli assoli di Gossard che caratterizzeranno in futuro la musica dei successivi Pearl Jam, completano con un’ottima cornice questo bel quadro.

A metà cd possiamo notare l’anima più sognante della band che si dispiega in Crown Of Thorns, otto minuti di ballata improntata su piano e voce a cui lentamente si affiancano il resto degli strumenti per trasformarsi in una cavalcata maestosa, in cui le chitarre la fanno da padrone. L’EP si chiude con Capricorn Sister, edito solo nella versione cd, che al suo interno contiene la ghost-track Zanzibar. Shine è un lavoro di buona fattura, al suo interno contiene molti degli elementi che caratterizzeranno il sound che di lì a poco invaderà Seattle. Hard rock mischiato al glam con elementi del futuro grunge condensati in venticinque minuti infuocati. A volte basta poco, si fa per dire, per scrivere una porzione di storia.

Autore: Mother Love Bone Titolo Album: Shine
Anno: 1989 Casa Discografica: Mercury Records
Genere musicale: Rock Voto: 7
Tipo: EP Sito web: http://motherlovebone.net
Membri band:

Andrew Wood – voce

Stone Gossard – chitarra

 Bruce Fairweather – chitarra

Jeff Ament – basso

Greg Gilmore – batteria, percussioni

Tracklist:

  1. Thru Fade Away
  2. Mindshaker Meltdown
  3. Half Ass Monkey Boy
  4. Chloe Dancer/Crown Of Thorns
  5. Capricorn Sister
Category : Recensioni
Tags : Grunge
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07th Ott2012

Nirvana – Nevermind

by Rod

Musicalmente parlando, Bleach, il primo lavoro discografico dei Nirvana uscito sul finire degli anni ‘80, era stato considerato da molti come un grido di disperazione lanciato al mondo intero a suon di urla laceranti e amplificatori impazziti. Con un solo disco, la band di Aberdeen riuscì ad imporsi sulle scene del rock mondiale, lanciando un chiaro segnale generazionale al mondo discografico, grazie soprattutto al fenomeno grunge che loro stessi contribuirono a valorizzare. Tale segnale fu colto con sagacia ed astuzia dalla Geffen Records, (l’etichetta californiana che già vantava nel suo rooster mostri sacri come Whitesnake, Guns N’ Roses e Aerosmith), la quale, mettendoli sotto contratto, fiutò nei Nirvana e nel suo istrionico frontman un affare da gallina dalle uova d’oro, oltre ad intravedere nel terzetto le potenzialità da fenomeno commerciale e mediatico del rock’n’roll. Dall’incontro con il talentuoso batterista e polistrumentista Dave Grohl e con l’esperto produttore/musicista Butch Vig, nacque nel 2001 il mitico Nevermind, un album con ambizioni più alternative rispetto al precedente, che prende le distanze dalle atmosfere cupe e claustrofobiche del passato mettendo al centro del progetto l’assoluta essenzialità compositiva ed esecutiva dell’insieme, risultato che conferirà al disco una freschezza ed un’immediatezza tale, da renderlo fruibile a chiunque come un qualunque altro prodotto pop o commerciale, seppur mantenendo un tratto distintivo marcatamente sporco, grezzo e contaminato: in una sola parola, grunge.

L’album si apre con la memorabilia Smells Like Teen Spirit, brano considerato non solo il pezzo (e il video) in cui maggiormente si identifica lo spirito di Nevermind, ma probabilmente la composizione che meglio ha saputo fotografare la generazione che si rispecchiava nel fenomeno grunge, nonché la dimensione musicale con cui i Nirvana stessi guardavano all’intero fanatismo giovanile che li idolatrava. Il brano nasce grazie alla semplice costruzione intro+bridge+chorus, in cui il ritornello urlato a squarciagola da Kurt, sembra riprendere seppur velocizzato, il giro di accordi di More Than I Feeling dei Boston. La famosissima In Bloom, è invece una delle proposte più radiofoniche e televisive del disco. Anche stavolta la formula magica intro+bridge+chorus, riesce a trasformare in un successone da classifica, una canzone sciabordante di atmosfere made in Seattle miste a melodie pop elettrificate, valorizzate dal solito testo irriverente e decadente di Cobain e dal controcanto di Dave Grohl, a fronte di un beat che parte lento per poi aumentare cadenzato verso la fine. Come As You Are è una traccia dall’imprinting alternative, contro cui la critica si è accanita nel ricercare nel testo messaggi subliminali afferenti le intenzioni suicida del biondo leader della band. Ciò che invece di questa canzone va messo in evidenza, è ancora una volta la volontà da parte dell’autore di stupire l’ascoltatore con una composizione semplice ma efficace e ad immediata memorizzazione, che punta tutto su un giro, quello iniziale, che grifferà per sempre la riconoscibilità del pezzo tra quelli di maggiore successo dei Nirvana. Breed è pregna di quelle atmosfere sporche del periodo grezzo di Bleach, sia dal punto di vista melodico che sotto l’aspetto del groove. Le immediate ma efficaci soluzioni alle pelli di Dave contribuiscono a conferire al brano la giusta cattiveria che serve per far brillare il pezzo di luce propria.

Lithium parla della storia di un uomo che si rifugia nella religione dopo la morte della sua ragazza. Cobain decise di esprimere la somatizzazione del dolore vista attraverso la catarsi religiosa, grazie ad un arrangiamento iniziale lento, quasi sommesso, che smuove mano a mano i toni sfociando in un ritornello dilaniante e liberatorio. Polly è un brano acustico, lento e delicato, ma con un’anima dark che l’accompagna nel mentre, figlia della ennesima tematica avulsa scelta da Kurt per il testo: una minorenne stuprata dallo stesso pedofilo da cui diventa dipendente. Territorial Pissing è puro delirio punk, un brano tiratissimo di soli due minuti e mezzo, capace di irrompere con voracità nelle atmosfere rock e pop che aleggiano su Nevermind, portando un godibilissimo scompiglio noise tra le distorsioni di Cobain. Drain You, ripercorre lo spirito commerciale del disco, offrendo un’ottima parentesi grunge intervallata da una lunga sezione d’atmosfera che va a riprendere il refrain della prima parte. Lounge Act si caratterizza per l’intro di basso di Novoselic, il quale va ad introdurre un brano essenziale, fatto di pochi accordi. Nella seconda parte, identica alla prima, l’interpretazione vocale di Kurt si fa più aggressiva, conferendo al pezzo un taglio alternative decisamente avvincente. Stay Away, è uno dei brani più tosti di Nevermind, grazie soprattutto all’incessante contributo di Dave Grohl, ma anche in virtù dell’ottima prova vocale di Kurt, tormentata sino al limite dell’inquietudine, con in primo piano la sua voce contro cui ne viene messa in contrapposizione una seconda, come in un botta e risposta che svanisce sotto i colpi di urla laceranti che vanno a ripetere con ossessione il titolo della traccia, in un crescendo emotivamente coinvolgente.

On A Plain è un brano simile nella sostanza a Lithium e Come As You Are. Le soluzioni melodiche scelte ed il metodo di composizione del brano, sembrano essere pressappoco le stesse, ma l’affiatamento artistico del combo americano fa sì che il pezzo non diventi uno sterile plagio dei citati, ma un’entità propria e riconoscibile all’interno della raccolta. Something In The Way ricalca in parte le atmosfere di Polly, dalla quale si differenzia per un canto di Cobain più struggente, che lascia sull’ascoltatore aloni di solitudine miste ad aneliti di quiete, come per una candela silente che viene lasciata sola in una stanza buia. Facendola scorrere per qualche minuto, è possibile ascoltare Endless, Nameless la ghost track del disco che musicalmente si traduce in una sorta di improvvisazione noise, fatta di urla, distorsioni, percussioni impazzite e atmosfere cupe.

Parlare di Nervermind per chi scrive, è come aprire un album dei ricordi, un volume impolverato da cui far uscire tutto un mondo emotivo appartenuto ad un’epoca, l’adolescenza, in cui la musica oltre ad essere una componente fondamentale per la crescita di ogni individuo, rappresenta soprattutto un mondo fantastico in cui rifugiarsi per scappare dalle brutture del mondo. C’è chi ha avuto il White Album dei Beatles, altri The Dark Side Of The Moon dei Pink Floyd ed altri ancora Black Sabbath di Ozzy Osbourne e Tony Iommi. Per il sottoscritto e per molti altri della sua generazione, Nevermind dei Nirvana è stato senza dubbio un album fondamentale che ha praticamente scardinato gli anni ’90, sancendo definitivamente la conferma a livello mondiale dell’esplosione dell’ultimo grande fenomeno giovanile che la storia del rock moderno ricordi: il grunge.

Autore: Nirvana Titolo Album: Nevermind
Anno: 1991 Casa Discografica: Geffen Records
Genere musicale: Grunge, Alternative Rock Voto: 10
Tipo: CD Sito web:  http://www.nirvana.com
Membri band:

Kurt Cobain – voce, chitarra

Chris Novoselic – basso

Dave Grohl – batteria

Tracklist:

  1. Smells Like Teen Spirit
  2. In Bloom
  3. Come As You Are
  4. Breed
  5. Lithium
  6. Polly
  7. Territorial Pissings
  8. Drain You
  9. Lounge Act
  10. Stay Away
  11. On A Plain
  12. Something In The Way
  13. Endless, Nameless (ghost track)
Category : Recensioni
Tags : Grunge
3 Comm
17th Set2012

Pearl Jam – Backspacer

by Giuseppe Celano

Per un attimo il disco comunemente denominato Avocado ci aveva fatto sperare in un moto di stizza, in un colpo di reni, in un ritorno d’orgoglio e vena creativa di questa grande band che sta inesorabilmente invecchiando. Come? Purtroppo né bene né male, lentamente si però. A differenza del precedente capitolo questo nono figlio di Vedder e soci risulta più classico e altrettanto prevedibile. Cosa manca? Le grandi canzoni, la forza prorompente e dirompente di quel rock che li ha resi grandi. Anche l’opener Amongst The Waves stenta a decollare, le manca la forza dei predecessori. Prima di sentire un po’ di elettricità, per altro abbastanza telefonata, bisogna attendere Gonna See My Friend, terza traccia dal piglio punk che nell’inciso muta verso qualcosa di strano, come un esperimento genetico mal riuscito. Il senso di stranimento è forte, non si capisce cosa passi per la testa dei cinque musicisti né dove si vuole collocare questo lavoro rispetto alla loro discografia. Ma su tutto non è chiara quale sia la loro direzione. Come sempre immaginiamo che dal vivo alcuni di questi pezzi perderanno la pettinatura da studio diventando nuovi cavalli di battaglia su cui la potenza di fuoco incrociata delle due asce incontrerà il favore della sezione ritmica scatenandosi come la furia degli elementi (Got Some). I Pearl Jam oggi sono immobili, “nessuna nuova buona nuova” direte voi, dipende dai punti di vista ma in questo caso non è cosi. Se il rock è sangue e muscoli, nervi tesi e affanno, se deve lacerare e dilaniare, se soprattutto deve portare con sé nuova linfa compositiva, che senso ha costruire un album così conservativo?

Conservazione di cosa poi? Non di certo del fulgido passato, perché siamo lontani anni luce dai tempo di VS e Vitalogy. Non basta ammiccare a sonorità accomodanti, tanto furbe da non farsi mollare dai vecchi fan e altrettanto buone da usare in tournée, per poter affermare che i Pearl Jam siano ancora nella ionosfera del rock. Backspacer culla invece di aggredire, allenta invece di stringere la morsa intorno al songwriting più tranquillo, pacifico oseremmo dire. Certo non si può rimanere incazzati tutta la vita, ma si può scegliere il silenzio optando per una produzione parca e ponderosa. Per quanto la matematica e le statistiche centrino poco con il rock e l’ispirazione, potremmo affermare che con la sommatoria dei brani migliori di quest’ultimo lavoro, insieme a Riot Act e Binaural, potremmo ottenere un solo disco decente.

In soldoni Backspacer contiene tutti gli elementi che hanno caratterizzato la carriera del combo di Seattle, ma tutti così bene allineati e sistemati al loro posto da far pensare a un disegno ben preciso, una fotocopia sbiadita a dire il vero. Quindi troviamo il pathos di Just Breathe, la ballata topica Speed Of Sound e il classico impeto punk, ma senza colpo ferire, di Supersonic. Meglio fa The End ma è davvero ben povera medicina se paragonata al resto delle track. A vederli oggi sembrano dei felici quarantenni che cercano di superare, in un terreno di gioco che non è più loro, Usain Bolt e il suo record da centometrista, un’impresa chiaramente impossibile. Hanno le idee e i mezzi tecnici ma non la forza né la fame per portarli a compimento. Il nostro augurio, nei loro confronti, è di riprendere il timone della loro produzione ormai saldamente nelle mani dell’impietoso tempo. Noi ci auguriamo di vederli dal vivo, unica dimensione in cui la band riesce a ottenere livelli d’eccellenza lontani anni luce per molti e irraggiungibili per altri.

Autore: Pearl Jam Titolo Album: Backspacer
Anno: 2009 Casa Discografica: Universal
Genere musicale: Rock Voto: 5,5
Tipo: CD Sito web: http://www.pearljam.com
Membri band:

Eddie Vedder – voce

Stone Gossard – chitarra

Mick McCready – chitarra

Jeff Ament – basso

Matt Cameron – batteria, percussioni

Tracklist:

  1. Gonna See My Friend
  2. Got Some
  3. The Fixer
  4. Johnny Guitar
  5. Just Breathe
  6. Amongst The Waves
  7. Unthought Known
  8. Supersonic
  9. Speed Of Sound
  10. Force Of Nature
  11. The End
Category : Recensioni
Tags : Grunge, Pearl Jam
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