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15th Ott2012

Mother Love Bone – Apple

by Giuseppe Celano

Dopo l’EP Shine nel 1990 i Mother Love Bone si apprestano a rilasciare il loro primo (e ultimo anche se loro non lo sanno ancora) disco Apple. Registrato in California con il produttore Terry Date, la nuova release riprende il discorso lì dove si era interrotto il suo predecessore. Il sound si fa più deciso, la voce penetrante fa da apripista per le evoluzioni chitarristiche di Gossard e i suo assoli in pieno stile zeppeliniano. Tutto questo si concentra nell’opener This Is Shangrila e ancora di più nel pesante rifferama della successiva Stardog Champion, in cui anche il drumming s’ispessisce prendendo spunto da quello di Led Zeppelin IV. Molto meglio fa la ballata sghemba e psichedelica Bone China, con la sua melodia traversa e l’atmosfera ricca di pathos sprigionato dall’interpretazione di Wood che si supera in Man Of Golden Words. Questa bellissima track per voce e piano è supportata da delicate chitarre acustiche che mostrano l’anima più gentile e sognante della band. Dal suo testo è stata tratta l’ispirazione per il nome del super gruppo Temple Of The Dog, messo su in ricordo di Andrew Wood morto a soli 24 anni per overdose. A differenza delle tristi sonorità a cui ci abitueranno gli altri gruppi grunge, Apple si muove su suoni smussati, risultando anche più solare e “radio-friendly”. Il loro sound è molto lontano dal vero grunge, sono addirittura influenzati dai Guns N’Roses.

L’unico vero brano che contiene in nuce i veri semi per la fioritura del grunge è la lunga cavalcata Crown Of Thorns, già presente in Shine. Apple concilia gli ultimi strascichi dello street/hard ed il grunge che bussa pesantemente alle porte di Seattle. Rappresenta la classica pietra miliare che dà il via al rinnovamento/stravolgimento a cui la musica di qualità ci ha sempre abituato. Vario ed equilibrato, questo importante lavoro offre 13 brani in cui è possibile trovare veramente di tutto. Tutto ciò lo rende un album imperdibile per gli amanti del genere e della buona musica.

Autore: Mother Love Bone Titolo Album: Apple
Anno: 1990 Casa Discografica: Mercury Records
Genere musicale: Rock Voto: 8
Tipo: CD Sito web: http://motherlovebone.net
Membri band:

Andrew Wood – voce

Stone Gossard – chitarra

Bruce Fairweather – chitarra

Jeff Ament – basso

Greg Gilmore – batteria, percussioni

Tracklist:

  1. This Is Shangrila
  2. Stardog Champion
  3. Holy Roller
  4. Bone China
  5. Come Bite The Apple
  6. Stargazer
  7. Heartshine
  8. Captain Hi-Top
  9. Man Of Golden Words
  10. Capricorn Sister
  11. Gentle Groove
  12. Mr. Danny Boy
  13. Crown Of Thorns
  14. Lady Godiva Blues
Category : Recensioni
Tags : Grunge
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08th Ott2012

Mother Love Bone – Shine

by Giuseppe Celano

La storia dei Mother Love Bone dovremmo conoscerla un po’ tutti, addetti ai lavori e non. Ma per i più smemorati o per quelli che li hanno sinora ignorati ricapitoliamo i passaggi fondamentali di questa band seminale che, seppur fuori dal coro del grunge, aprirà le porte a uno dei movimenti musicali più fervidi degli anni novanta. Formati nel 1987 dalla costola dei dissolti Green River, i M.L.B. sono Stone Gossard, Bruce Fairweather e Jeff Ament che insieme al singer Andrew Wood e al batterista Greg Gilmore danno vita a una musica indirizzata verso un certo tipo di glam, amatissimo proprio da Wood. Shine (1989) è il loro primo lavoro, un EP che parte sulle note di Thru Fade Away dalla carica energetica prorompente. Voce penetrante, roca quanto basta, rifferama potente e sezione ritmica muscolare vanno a completare un puzzle vincente. Ma la vera anima della band emerge nella successiva Mindshaker Meltown con le soluzioni vocali appiccicose e la melodia supportata da coretti, mentre i riff diventano molto più semplici. Gli assoli di Gossard che caratterizzeranno in futuro la musica dei successivi Pearl Jam, completano con un’ottima cornice questo bel quadro.

A metà cd possiamo notare l’anima più sognante della band che si dispiega in Crown Of Thorns, otto minuti di ballata improntata su piano e voce a cui lentamente si affiancano il resto degli strumenti per trasformarsi in una cavalcata maestosa, in cui le chitarre la fanno da padrone. L’EP si chiude con Capricorn Sister, edito solo nella versione cd, che al suo interno contiene la ghost-track Zanzibar. Shine è un lavoro di buona fattura, al suo interno contiene molti degli elementi che caratterizzeranno il sound che di lì a poco invaderà Seattle. Hard rock mischiato al glam con elementi del futuro grunge condensati in venticinque minuti infuocati. A volte basta poco, si fa per dire, per scrivere una porzione di storia.

Autore: Mother Love Bone Titolo Album: Shine
Anno: 1989 Casa Discografica: Mercury Records
Genere musicale: Rock Voto: 7
Tipo: EP Sito web: http://motherlovebone.net
Membri band:

Andrew Wood – voce

Stone Gossard – chitarra

 Bruce Fairweather – chitarra

Jeff Ament – basso

Greg Gilmore – batteria, percussioni

Tracklist:

  1. Thru Fade Away
  2. Mindshaker Meltdown
  3. Half Ass Monkey Boy
  4. Chloe Dancer/Crown Of Thorns
  5. Capricorn Sister
Category : Recensioni
Tags : Grunge
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07th Ott2012

Nirvana – Nevermind

by Rod

Musicalmente parlando, Bleach, il primo lavoro discografico dei Nirvana uscito sul finire degli anni ‘80, era stato considerato da molti come un grido di disperazione lanciato al mondo intero a suon di urla laceranti e amplificatori impazziti. Con un solo disco, la band di Aberdeen riuscì ad imporsi sulle scene del rock mondiale, lanciando un chiaro segnale generazionale al mondo discografico, grazie soprattutto al fenomeno grunge che loro stessi contribuirono a valorizzare. Tale segnale fu colto con sagacia ed astuzia dalla Geffen Records, (l’etichetta californiana che già vantava nel suo rooster mostri sacri come Whitesnake, Guns N’ Roses e Aerosmith), la quale, mettendoli sotto contratto, fiutò nei Nirvana e nel suo istrionico frontman un affare da gallina dalle uova d’oro, oltre ad intravedere nel terzetto le potenzialità da fenomeno commerciale e mediatico del rock’n’roll. Dall’incontro con il talentuoso batterista e polistrumentista Dave Grohl e con l’esperto produttore/musicista Butch Vig, nacque nel 2001 il mitico Nevermind, un album con ambizioni più alternative rispetto al precedente, che prende le distanze dalle atmosfere cupe e claustrofobiche del passato mettendo al centro del progetto l’assoluta essenzialità compositiva ed esecutiva dell’insieme, risultato che conferirà al disco una freschezza ed un’immediatezza tale, da renderlo fruibile a chiunque come un qualunque altro prodotto pop o commerciale, seppur mantenendo un tratto distintivo marcatamente sporco, grezzo e contaminato: in una sola parola, grunge.

L’album si apre con la memorabilia Smells Like Teen Spirit, brano considerato non solo il pezzo (e il video) in cui maggiormente si identifica lo spirito di Nevermind, ma probabilmente la composizione che meglio ha saputo fotografare la generazione che si rispecchiava nel fenomeno grunge, nonché la dimensione musicale con cui i Nirvana stessi guardavano all’intero fanatismo giovanile che li idolatrava. Il brano nasce grazie alla semplice costruzione intro+bridge+chorus, in cui il ritornello urlato a squarciagola da Kurt, sembra riprendere seppur velocizzato, il giro di accordi di More Than I Feeling dei Boston. La famosissima In Bloom, è invece una delle proposte più radiofoniche e televisive del disco. Anche stavolta la formula magica intro+bridge+chorus, riesce a trasformare in un successone da classifica, una canzone sciabordante di atmosfere made in Seattle miste a melodie pop elettrificate, valorizzate dal solito testo irriverente e decadente di Cobain e dal controcanto di Dave Grohl, a fronte di un beat che parte lento per poi aumentare cadenzato verso la fine. Come As You Are è una traccia dall’imprinting alternative, contro cui la critica si è accanita nel ricercare nel testo messaggi subliminali afferenti le intenzioni suicida del biondo leader della band. Ciò che invece di questa canzone va messo in evidenza, è ancora una volta la volontà da parte dell’autore di stupire l’ascoltatore con una composizione semplice ma efficace e ad immediata memorizzazione, che punta tutto su un giro, quello iniziale, che grifferà per sempre la riconoscibilità del pezzo tra quelli di maggiore successo dei Nirvana. Breed è pregna di quelle atmosfere sporche del periodo grezzo di Bleach, sia dal punto di vista melodico che sotto l’aspetto del groove. Le immediate ma efficaci soluzioni alle pelli di Dave contribuiscono a conferire al brano la giusta cattiveria che serve per far brillare il pezzo di luce propria.

Lithium parla della storia di un uomo che si rifugia nella religione dopo la morte della sua ragazza. Cobain decise di esprimere la somatizzazione del dolore vista attraverso la catarsi religiosa, grazie ad un arrangiamento iniziale lento, quasi sommesso, che smuove mano a mano i toni sfociando in un ritornello dilaniante e liberatorio. Polly è un brano acustico, lento e delicato, ma con un’anima dark che l’accompagna nel mentre, figlia della ennesima tematica avulsa scelta da Kurt per il testo: una minorenne stuprata dallo stesso pedofilo da cui diventa dipendente. Territorial Pissing è puro delirio punk, un brano tiratissimo di soli due minuti e mezzo, capace di irrompere con voracità nelle atmosfere rock e pop che aleggiano su Nevermind, portando un godibilissimo scompiglio noise tra le distorsioni di Cobain. Drain You, ripercorre lo spirito commerciale del disco, offrendo un’ottima parentesi grunge intervallata da una lunga sezione d’atmosfera che va a riprendere il refrain della prima parte. Lounge Act si caratterizza per l’intro di basso di Novoselic, il quale va ad introdurre un brano essenziale, fatto di pochi accordi. Nella seconda parte, identica alla prima, l’interpretazione vocale di Kurt si fa più aggressiva, conferendo al pezzo un taglio alternative decisamente avvincente. Stay Away, è uno dei brani più tosti di Nevermind, grazie soprattutto all’incessante contributo di Dave Grohl, ma anche in virtù dell’ottima prova vocale di Kurt, tormentata sino al limite dell’inquietudine, con in primo piano la sua voce contro cui ne viene messa in contrapposizione una seconda, come in un botta e risposta che svanisce sotto i colpi di urla laceranti che vanno a ripetere con ossessione il titolo della traccia, in un crescendo emotivamente coinvolgente.

On A Plain è un brano simile nella sostanza a Lithium e Come As You Are. Le soluzioni melodiche scelte ed il metodo di composizione del brano, sembrano essere pressappoco le stesse, ma l’affiatamento artistico del combo americano fa sì che il pezzo non diventi uno sterile plagio dei citati, ma un’entità propria e riconoscibile all’interno della raccolta. Something In The Way ricalca in parte le atmosfere di Polly, dalla quale si differenzia per un canto di Cobain più struggente, che lascia sull’ascoltatore aloni di solitudine miste ad aneliti di quiete, come per una candela silente che viene lasciata sola in una stanza buia. Facendola scorrere per qualche minuto, è possibile ascoltare Endless, Nameless la ghost track del disco che musicalmente si traduce in una sorta di improvvisazione noise, fatta di urla, distorsioni, percussioni impazzite e atmosfere cupe.

Parlare di Nervermind per chi scrive, è come aprire un album dei ricordi, un volume impolverato da cui far uscire tutto un mondo emotivo appartenuto ad un’epoca, l’adolescenza, in cui la musica oltre ad essere una componente fondamentale per la crescita di ogni individuo, rappresenta soprattutto un mondo fantastico in cui rifugiarsi per scappare dalle brutture del mondo. C’è chi ha avuto il White Album dei Beatles, altri The Dark Side Of The Moon dei Pink Floyd ed altri ancora Black Sabbath di Ozzy Osbourne e Tony Iommi. Per il sottoscritto e per molti altri della sua generazione, Nevermind dei Nirvana è stato senza dubbio un album fondamentale che ha praticamente scardinato gli anni ’90, sancendo definitivamente la conferma a livello mondiale dell’esplosione dell’ultimo grande fenomeno giovanile che la storia del rock moderno ricordi: il grunge.

Autore: Nirvana Titolo Album: Nevermind
Anno: 1991 Casa Discografica: Geffen Records
Genere musicale: Grunge, Alternative Rock Voto: 10
Tipo: CD Sito web:  http://www.nirvana.com
Membri band:

Kurt Cobain – voce, chitarra

Chris Novoselic – basso

Dave Grohl – batteria

Tracklist:

  1. Smells Like Teen Spirit
  2. In Bloom
  3. Come As You Are
  4. Breed
  5. Lithium
  6. Polly
  7. Territorial Pissings
  8. Drain You
  9. Lounge Act
  10. Stay Away
  11. On A Plain
  12. Something In The Way
  13. Endless, Nameless (ghost track)
Category : Recensioni
Tags : Grunge
3 Comm
17th Set2012

Pearl Jam – Backspacer

by Giuseppe Celano

Per un attimo il disco comunemente denominato Avocado ci aveva fatto sperare in un moto di stizza, in un colpo di reni, in un ritorno d’orgoglio e vena creativa di questa grande band che sta inesorabilmente invecchiando. Come? Purtroppo né bene né male, lentamente si però. A differenza del precedente capitolo questo nono figlio di Vedder e soci risulta più classico e altrettanto prevedibile. Cosa manca? Le grandi canzoni, la forza prorompente e dirompente di quel rock che li ha resi grandi. Anche l’opener Amongst The Waves stenta a decollare, le manca la forza dei predecessori. Prima di sentire un po’ di elettricità, per altro abbastanza telefonata, bisogna attendere Gonna See My Friend, terza traccia dal piglio punk che nell’inciso muta verso qualcosa di strano, come un esperimento genetico mal riuscito. Il senso di stranimento è forte, non si capisce cosa passi per la testa dei cinque musicisti né dove si vuole collocare questo lavoro rispetto alla loro discografia. Ma su tutto non è chiara quale sia la loro direzione. Come sempre immaginiamo che dal vivo alcuni di questi pezzi perderanno la pettinatura da studio diventando nuovi cavalli di battaglia su cui la potenza di fuoco incrociata delle due asce incontrerà il favore della sezione ritmica scatenandosi come la furia degli elementi (Got Some). I Pearl Jam oggi sono immobili, “nessuna nuova buona nuova” direte voi, dipende dai punti di vista ma in questo caso non è cosi. Se il rock è sangue e muscoli, nervi tesi e affanno, se deve lacerare e dilaniare, se soprattutto deve portare con sé nuova linfa compositiva, che senso ha costruire un album così conservativo?

Conservazione di cosa poi? Non di certo del fulgido passato, perché siamo lontani anni luce dai tempo di VS e Vitalogy. Non basta ammiccare a sonorità accomodanti, tanto furbe da non farsi mollare dai vecchi fan e altrettanto buone da usare in tournée, per poter affermare che i Pearl Jam siano ancora nella ionosfera del rock. Backspacer culla invece di aggredire, allenta invece di stringere la morsa intorno al songwriting più tranquillo, pacifico oseremmo dire. Certo non si può rimanere incazzati tutta la vita, ma si può scegliere il silenzio optando per una produzione parca e ponderosa. Per quanto la matematica e le statistiche centrino poco con il rock e l’ispirazione, potremmo affermare che con la sommatoria dei brani migliori di quest’ultimo lavoro, insieme a Riot Act e Binaural, potremmo ottenere un solo disco decente.

In soldoni Backspacer contiene tutti gli elementi che hanno caratterizzato la carriera del combo di Seattle, ma tutti così bene allineati e sistemati al loro posto da far pensare a un disegno ben preciso, una fotocopia sbiadita a dire il vero. Quindi troviamo il pathos di Just Breathe, la ballata topica Speed Of Sound e il classico impeto punk, ma senza colpo ferire, di Supersonic. Meglio fa The End ma è davvero ben povera medicina se paragonata al resto delle track. A vederli oggi sembrano dei felici quarantenni che cercano di superare, in un terreno di gioco che non è più loro, Usain Bolt e il suo record da centometrista, un’impresa chiaramente impossibile. Hanno le idee e i mezzi tecnici ma non la forza né la fame per portarli a compimento. Il nostro augurio, nei loro confronti, è di riprendere il timone della loro produzione ormai saldamente nelle mani dell’impietoso tempo. Noi ci auguriamo di vederli dal vivo, unica dimensione in cui la band riesce a ottenere livelli d’eccellenza lontani anni luce per molti e irraggiungibili per altri.

Autore: Pearl Jam Titolo Album: Backspacer
Anno: 2009 Casa Discografica: Universal
Genere musicale: Rock Voto: 5,5
Tipo: CD Sito web: http://www.pearljam.com
Membri band:

Eddie Vedder – voce

Stone Gossard – chitarra

Mick McCready – chitarra

Jeff Ament – basso

Matt Cameron – batteria, percussioni

Tracklist:

  1. Gonna See My Friend
  2. Got Some
  3. The Fixer
  4. Johnny Guitar
  5. Just Breathe
  6. Amongst The Waves
  7. Unthought Known
  8. Supersonic
  9. Speed Of Sound
  10. Force Of Nature
  11. The End
Category : Recensioni
Tags : Grunge, Pearl Jam
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15th Set2012

Nirvana – Bleach

by Rod

Negli anni a cavallo tra la fine degli 80 e l’inizio dei 90, il bello dell’essere nati nell’hinterland di Seattle e di trovarsi in una cantina con un paio di amici strafatti ed ubriachi a fare musica, poteva significare contribuire a scrivere senza saperlo una delle pagine più importanti della storia del rock. Il fermento di quegli anni che ebbe come epicentro l’umida cittadina dello Stato di Washington, passò alla storia come “grunge” ed abbracciava un movimento musicale vastissimo, a cui appartenevano una serie di gruppi che nonostante le differenti esperienze ed influenze, si ritrovarono nel medesimo periodo a vestire i panni di maitre-à-penser di un’intera generazione. Per i Nirvana, band con base ad Aberdeen, città di nascita del tormentato frontman e chitarrista Kurt Cobain, il grunge era soprattutto un sound grezzo, cupo e claustrofobico, nato dalla commistione di vari elementi: l’immediatezza del punk rock, l’essenzialità dell’alternative, la crudezza del noise e l’aggressività dell’heavy metal. Il resto della band vedeva al basso Krist “Chris” Novoselic, musicista non molto dotato tecnicamente ma di ottima presenza scenica, ed alla batteria Chad Channing, elemento mai in linea con gli altri due membri e per questo spesso sostituito da un certo Dale Crover. Con Channig i Nirvana incideranno soltanto il debut album del 1989 di cui andremo a parlarvi: il pluriosannato Bleach.

Il primo disco del combo americano, uscì per la Sub Pop, mitica etichetta indipendente di Seattle, artefice della valorizzazione del fenomeno grunge grazie all’inserimento nel suo rooster di importanti band al centro di quel fermento, come Soungarden e Melvins. Il disco fu prodotto da Jack Endino, che contribuì a gettare le basi sonore di quel sound sporco che farà la fortuna del trio americano. Bleach, contiene dei caratteri psicosomatici forti, fuori dal comune rispetto al solito cliché che preannunciava ai tempi le uscite delle band del filone rock: ruvido, graffiante e violento, ma al tempo stesso semplice, immediato ed istintivo; privo di tecnicismi, ma pieno di soluzioni melodiche interessanti, incentrato su testi intrisi di paranoia, alienazione e nonsense, alternati ad ironia, surrealismo e malinconia. L’alchimia sonora che muove questo lavoro, sta nella costruzione dei brani: tutte le tracce sono realizzate partendo da un riff, da un giro di accordi o semplicemente da una melodia che fa da perno all’intero brano, magari anche ripetuta più volte all’interno della struttura compositiva intro-verso-ritornello-intermezzo. Al centro del progetto album, c’è la controversa figura di Kurt Cobain, un introverso loser che per presenza scenica, background, carisma, lifestyle e soprattutto talento, sembrava disegnato apposta per scrivere nel mito la sua storia, quella della band e delle sue canzoni. Cobain non era né un grande cantante, né un eccelso chitarrista, ma aveva un fortissimo appeal punk ed una grande capacità compositiva che gli derivava dal bagaglio musicale che aveva accresciuto sin da bambino, ascoltando varie formazioni stilisticamente diverse tra loro, partendo dai Beatles, passando per Led Zeppelin ed AC/DC, fino ai Melvins ed alle altre band che gravitavano in quella cerchia artistica.

In Bleach, in cui Cobain firma sia i testi che le musiche, viene fuori tutto l’introspetto del giovane frontman che prova ad esorcizzare i suoi fantasmi attraverso brani come Blew, una composizione abbastanza lineare ma efficace, costruita su un cantato che segue di pari passo un semplice riff di chitarra. Floyd The Barber, è una storia surreale ai limiti dell’horror, in cui Kurt racconta di un tizio che viene rasato a zero e seviziato in un salone di barberia. L’intero brano si poggia su un tempo di batteria lento ma efficace, su cui basso e chitarra plettrano all’unisono accordi in scale minori. In About A Girl, le distorsioni si ammorbidiscono per dare spazio ad un sound pop rock. Il brano contiene un giro di accordi semplicissimo e nel suo insieme sembra voler esprimere verosimilmente l’approccio timido ed impaurito di Cobain al mondo femminile. Dal punto di vista radiofonico, School è uno dei migliori brani di Bleach. Cattivo, distorto, urlato ma al tempo stesso orecchiabile e di grande impatto (ne fecero una interessante cover anche i Fear Factory). Il brevissimo testo sconfusionato e disorientante, recita per intero“Won’t you believe it, It’s just my luck… No recess… You’re in high school again…”. Con Love Buzz, si compie l’ennesimo salto nel vuoto del paranoico universo emozionale di Cobain. Anche in questo episodio, il testo è composto solo da un’unica quartina, a fronte di una struttura musicale decisamente accattivante, completamente imperniata su un giro dalle sonorità mediorientali, su cui l’interpretazione disperata e sofferente di Kurt, riuscirà ad imprimergli una sfumatura molto punk.

Paper Cuts, ha un’atmosfera claustrofobica e tetra, dal ritmo sincopato, su sui si erge il lamento inquietante dei versi deliranti di Cobain e della sua chitarra, capace di maltrattare il suono con grevissimi passaggi di bicordo. L’utilizzo della doppia voce su alcuni intermezzi, richiama una soluzione molto spesso utilizzata da un’altra band figlia del movimento grunge, gli Alice in Chains. Negative Creep, uno dei brani più veloci di questo album, sa di spirito adolescenziale ed esprime il disagio sociale di un giovane che prova un forte senso di frustrazione, di abbandono e di inutilità nei confronti del mondo che lo circonda. Una sorta di somatizzazione dell’emarginazione che giustifica, suo malgrado, l’utilizzo delle droghe come unica alternativa, come testimoniano i versi “…I’m a negative creep and I’m stoned! Fuck! Yeah! Drone! Stone!”. Scoff  parte da una struttura simile a quella usata in Floyd The Barber e ripropone le già citate tematiche relative al malessere interiore, con inoltre un altro chiaro riferimento a quelle dipendenze abusate consapevolmente per sfuggire alla realtà, come raccontato nei versi “Gimme back my alcohol… it heal a milion, kill a milion…”. Swap Meet ha un groove punk sulla quale Cobain scrive di una storia d’amore metropolitana raccontata in salsa grunge. Mr. Moustache è un brano in cui il nonsense la fa da padrone, poggiato su un giro di chitarra che accompagna un cantato del tutto simile ad una filastrocca. In Sifting, i tempi si rallentano, dando vita ad un pezzo tra i più orecchiabili ed alternative dell’album, in cui si possono intravedere alcuni rimandi riscontrabili nei lavori successivi a Bleach.

Anche in Big Cheese, i Nirvana sembrano utilizzare certi elementi stilistici familiari ad altre grunge band, dando prova di volersi allineare, anche se episodicamente, allo spirito e allo stile musicale stereotipato del fenomeno. Per il resto, al di là di un accattivante ritornello, non possiamo di certo parlare di Big Cheese come di uno dei brani più esaltanti di questo debutto. In chiusura troviamo Downer, un pezzo realizzato su un giro di accordi veloci e graffianti ed intriso di sfaccettature punk ed alternative che ubriacano l’ascoltatore fino a stordirlo in chiusura. Lo smarrimento discografico che ha accompagnato l’intera scena musicale rock alla fine degli anni ’80 ha fatto si che il grunge e i Nirvana, attirassero su di sé le attenzioni di milioni di adolescenti, assetati di un fenomeno che li rappresentasse sia sociologicamente che musicalmente. In questo contesto, Bleach consegna alla storia la radiografia completa dei dolori del giovane Kurt, ponendo le basi per un sound che fa dell’essenzialità e della crudezza il suo punto di forza, capace proprio per questo di rappresentare al meglio i sentimenti di rabbia e di disagio interiore dei giovani di quei tempi, sottoforma di grida disperate e di distorsioni affilate. Le strutture semplici dei brani unite al loro incredibile potere liberatorio, ispireranno molti di quegli stessi giovani disillusi ad imbracciare uno strumento, imparare qualche accordo, formare una band e provare a riproporre in qualche umida e buia cantina, il ruvido stile grunge portato in auge dall’acclamato fenomeno Nirvana.

Autore: Nirvana Titolo Album: Bleach
Anno: 1989 Casa Discografica: Sub Pop
Genere musicale: Grunge Voto: 9
Tipo: CD Sito web: http://www.nirvana.com
Membri band:

Kurt Cobain – voce, chitarra

Chris Novoselic – basso

Chad Channing – batteria

Dale Crover – batteria (in Floyd the Barber, Paper Cuts e Downer)

Tracklist:

  1. Blew
  2. Floyd The Barber
  3. About A Girl
  4. School
  5. Love Buzz
  6. Paper Cuts
  7. Negative Creep
  8. Scoff
  9. Swap Meet
  10. Mr. Moustache
  11. Sifting
  12. Big Cheese
  13. Downer
Category : Recensioni
Tags : Grunge
2 Comm
10th Set2012

Pearl Jam – Pearl Jam

by Giuseppe Celano

Meglio. Sì, decisamente meglio delle loro ultime sfornate in studio. Ma potrebbero fare di più, lo sappiamo tutti, anche loro. Inutile recriminare sulla parabola discendente degli ultimi Pearl Jam, sarebbe troppo facile e scontato. A tre anni abbondanti dall’operazione Lost Dogs, i Nostri ci riprovano con l’ottavo album fatto di tredici brani nuovi di zecca. Cosa potremmo dire di una band che ha indelebilmente segnato gli anni novanta? Su che punti potremmo apostrofarli negativamente e su quali altri decantare le loro lodi? Sarebbe un’impresa impossibile da eseguire senza cadere nel banale o comunque senza dimostrarsi di parte. Ci limiteremo ai fatti o alla musica se preferite. I nuovi PJ suonano viscerali, sono ritornati a una dimensione cavernicola e primitiva. Via gli orpelli, solo punk e rock, sudore e sangue, polvere e macerie da cui probabilmente ricostruiranno la loro fortezza, o forse no, ma questo non importa ora. Non c’è più spazio, stavolta, per le sperimentazioni, la band opta per l’uso muscolare delle chitarre, riffano e arraffano i nuovi Pearl Jam. Si riempiono la bocca di assoli potenti e veloci (Life Wasted), ritirano fuori la melodia (Severed Hand). Con molta probabilità Vedder e soci hanno sentito la necessità di scrollarsi di dosso il tanfo di stantio, quell’odore rancido delle loro ultime produzioni. Di colpo, come per magia, si sono risentiti vivi e giovani, forti e spregiudicati. Pearl Jam è un disco sanguigno, nervoso e feroce. È in gioco il loro futuro, e quando il gioco si fa duro…ci siamo capiti.

Non mancano i riferimenti alla politica espressi caldamente nel passato ma senza quella giusta dose d’esperienza e nervi tesi che oggi il combo ha profondamente assimilato e risputato fuori con rabbia. Si schierano apertamente con l’America ferita nel suo ego, messa in ginocchio da un attacco durissimo del 2011 e ridicolizzata dalle successive scelte politiche dell’amministrazione Bush. In questo disco potrete trovare piccole lezioni di classe, guide all’uso malsano del riff penetrante e spezza ossa mutuate dagli Who prima e dagli Zeppelin dopo. Le due “asce” portanti non dimenticano gli insegnamenti, in acido, del loro mentore Jimi Hendrix, si dissetano nel punk malsano e sconnesso dei Dead Kennedys e scelgono qualche strana svisata pop, testimoniata dalla sghemba ballata Parachutes. In Unemployable , non proprio un pezzo riuscitissimo, la testa corre al “Boss” mentre in altri casi l’uso del rifferama marmoreo scomoda perfino gli Ac/Dc. Ottima la performance di Vedder che ha ritrovato la sua solita vena polemica, le sue ferite sanguinano e il suo urlo si fa più vero e credibile. Superata la metà dell’album, l’iniziale urgenza di comunicare un disagio arrivato al limite lascia il posto a atmosfere più strane e complesse, rese intriganti da arrangiamenti più curati.

Ma niente paura perché appena sembra che la band abbia abbassato la guardia ci pensa Big Wave a ristabilire l’ordine delle cose. Quale ordine vi starete chiedendo? Quello di distruggere tutto ciò che non permette il raggiungimento della libertà tanto decantata (spesso a suon di guerre mai del tutto vinte) dal popolo americano. Della stessa pasta sono fatte Worldwide Suicide e Comatose, veri e propri montanti rilasciati di Mike Tyson in persona. Della serie “nelle ballate non ci supera nessuno” arriva Gone, modello Better Man ma senza la stessa classe, che parte con la chitarra arpeggiata per poi confluire nella classica cavalcata in cui tutti i membri della band ci mettono del proprio. Sorvolando su Wasted Reprise e Army Reserve ci si avvia verso il finale che viaggia sulle note di Come Back, una ballata triste e malinconica molto sentita da Eddie, la cui voce sembra tremare visibilmente in ogni sua deliziosa mutazione. Sigilla il tutto Inside Job, una lunga ed elegante crociata rock con tanto di pianoforte, crescendo mozzafiato e finale in classico stile Pearl Jam. Che volete di più da una delle formazioni più importanti degli ultimi vent’anni, che si avvia (non proprio mestamente verso i quarant’anni) e che dal vivo ha ancora la potenza distruttiva dell’eruzione del Krakatoa?

Nessuna band è mai riuscita a mantenere a livelli altissimi tutta la loro produzione: l’età avanza, i tempi cambiano, le mode influiscono e questa regola vale anche per Vedder e soci che di certo hanno visto tempi migliori, ma in confronto ai loro ultimi due sufficienti e sconnessi lavoretti questo sembra davvero un piccolo faro in un mare di mediocrità altrui. I Pearl Jam hanno ritrovato, non sappiamo per quanto ancora, una vena forte e credibile. Non serve altro, almeno a noi.

Autore: Pearl Jam Titolo Album: Pearl Jam
Anno: 2006 Casa Discografica: J. Records
Genere musicale: Rock Voto: 7
Tipo: CD Sito web: http://www.pearljam.com
Membri band:

Eddie Vedder – voce

Stone Gossard – chitarra

Mick McCready – chitarra

Jeff Ament – basso

Matt Cameron – batteria, percussioni

Tracklist:

  1. Life Wasted
  2. World Wide Suicide
  3. Comatose
  4. Severed Hand
  5. Marker In The Sand
  6. Parachutes
  7. Unemployable
  8. Big Wave
  9. Gone
  10. Wasted Reprise
  11. Army Reserve
  12. Come Back
  13. Inside Job
Category : Recensioni
Tags : Grunge, Pearl Jam
0 Comm
03rd Set2012

Pearl Jam – Lost Dogs

by Giuseppe Celano

Dopo il fiacco Riot Act i Pearl Jam danno in pasto ai fan un doppio cd di outtakes, versioni alternative, inediti regali natalizi e ghost track, che nella prima settimana vende novantamila copie. Stiamo parlando di Lost Dogs considerato dai maligni come un’operazione commerciale che lascia trasparire un impoverimento ormai inarrestabile della loro vena creativa, mentre per i fan diventa una chicca imperdibile. La verità sta in mezzo, quest’uscita del 2003 vive di luci e ombre mostrando ancora qualche vibrazione positiva e fascicolazioni muscolari degne di un passato splendente ma offuscato da ciò di cui abbiamo ampiamente parlato nelle recensioni dei loro due ultimi lavori. Sarebbe impossibile, e altrettanto noioso, parlare singolarmente dei trenta brani, ci limiteremo a segnalarvi le cose più importanti, a nostro avviso, evitando la classica e pedante elencazione. In pezzi come Alone si ritorna a respirare il profumo che da sempre ha contraddistinto le pietanze servite da questa band. Non mancano passaggi a nervi scoperti come Leaving Here o sciccherie come Gremmie Out Of Control. Dei singoli natalizi citiamo solo Last Kiss diventato suo malgrado un hit radiofonico trasmesso dalle radio tanto da costringere il gruppo a pubblicarla per beneficenza. Infine vi segnaliamo Don’t Gimme No Lip (Stone Gossard alla voce), Sad Education e Fatal.

Lost Dogs è un buon lavoro che per forza di cose soffre di disomogeneità, gap colmato dalla certosina pazienza, professionalità e ricerca di perle “perse” dentro una discografia di un certo spessore. Di tutto questo ne è testimone Yellow Ledbetter classica perla eseguita dal vivo e mai incisa su cd. Non potete mancare la stranezza psichedelica di Whale Song o il pop wannabe di Down. Non mancano i riferimenti al blues in Footsteps e le ballate come Hard To Imagine. 4/20/2002, che chiude il secondo album, è dedicata a Layne Stailey morto durante le registrazioni di Riot Act. Ma è anche doveroso, e necessario, elencare le imperdonabili e incomprensibili, se non a livello di marketing futuro, le grandi assenti fra cui svettano le due canzoni incise con il loro mentore Neil Young, I Got ID e Long Road, tratte dal singolo Merkinball che i più fortunati hanno ascoltato occasionalmente nei live della band. Sono altrettante le cose che mancano, ad esempio i singoli con Beck, i pezzi della colonna sonora di Singles e i vari duetti con Ben Harper senza tralasciare Happy When I’m Crying scritto a quattro mani i R.E.M.

Non è in questo disco che troverete l’anima dei cinque cavalieri di Seattle, ma di certo all’interno di quest’onesto lavoro potrete trovare qualcosa di inaspettato e piacevole che lascia trasparire l’altra faccia della medaglia di questa grande rock band.

Autore: Pearl Jam Titolo Album: Lost Dogs
Anno: 2003 Casa Discografica: Epic Records
Genere musicale: Rock Voto: 7
Tipo: CD Sito web: http://www.pearljam.com
Membri band:

Eddie Vedder – voce

Stone Gossard – chitarra

Mick McCready – chitarra

Jeff Ament – basso

Matt Cameron – batteria, percussioni

Tracklist:

Disc 1

  1. All Night
  2. Sad
  3. Down
  4. In The Moonlight
  5. Hitchhiker
  6. Don’t Gimme No Lip
  7. Alone
  8. Education
  9. U
  10. Black, Red, Yellow
  11. Leaving Here
  12. Gremmie Out Of Control
  13. Whale Song
  14. Undone
  15. Hold On
  16. Yellow Ledbetter

Disc 2

  1. Fatal
  2. Other Side
  3. Hard To Imagine
  4. Footsteps
  5. Wash
  6. Dead Man
  7. Strangest Tribe
  8. Drifting
  9. Let Me Sleep
  10. Angel
  11. Last Kiss
  12. Sweet Lew
  13. Dirty Frank
  14. Brother- instrumental
  15. Bee Girl
  16. Untitled
Category : Recensioni
Tags : Grunge, Pearl Jam
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19th Ago2012

Nolatzco – Assalto Alla Luna

by Giancarlo Amitrano

Quanta fatica dietro la realizzazione di un prodotto discografico: dalle band più affermate, a quelle che ancora odorano di garage, non v’è differenza di sudore ed energia impegnata. La  radice è la stessa, la voglia di musica e di espressione artistica ad ogni latitudine. Ed è esattamente ciò che promana da questa ennesima buona produzione nostrana dei Nolatzco. Con alla consolle il leggendario Giorgio Canali (vi dice nulla l’acronimo CCCP/CSI/PGR?), il quartetto in questione sfodera un lavoro che lascia quasi afasici, per la potenza in esso contenuta. Grazie alla sagacia nella scelta dei testi ed alle tematiche graffianti, il gruppo sfodera gli artigli sin da Babyrivoluzione in cui la voce di Fanelli mette subito in chiaro le cose: adrenalina allo stato puro, corroborata da una sezione ritmica davvero notevole e da un basso rutilante. Tutto Svanisce resta, invece, ben stampato nelle nostre orecchie, il movimento slide che all’inizio sembra proporci la band svanisce appunto nel solidissimo refrain centrale, in cui un potente ma delicato accompagnamento chitarristico rende la fase di mezzo davvero ben orchestrata, anche grazie alle atmosfere disincantate che il brano regala. Grunge allo stato puro in Educati Al Successo: martellante, la voce di Fanelli gradualmente sale di tono per pervenire con sicurezza al riff centrale, che non pare nemmeno appartenere al solo brano in questione, ma bensì pervadere l’intero lavoro, stante l’oscenità gridata a squarciagola verso una platea che a questo punto sarà sempre più coinvolta nell’ideale scenario di disastri dalla band allegramente prospettato e propinato.

La band vuol farci intendere di essere provvista anche di un solido bagaglio tecnico in particolare con Abusivisness, probabilmente tra i migliori episodi del disco. Il terzetto al completo, con l’aiuto graditissimo di Giammetta alla sei corde, percorre in pochi minuti tutti gli stilemi del genere, con bombardamenti di percussioni e basso ossessivo che non perde una nota, rendendo la performance di Fanelli davvero notevole e “sgolata” al punto giusto. Siamo alla title-track: bella, davvero bella l’impostazione del brano fuori dagli schemi. L’intro è leggero, morbido, decisamente slide, ma solo per pochi momenti l’illusione di un attimo di debolezza resiste: la fase centrale è elettrica alla grande, fungendo anche da ritmica che non sopravanza il lavoro del gruppo, in una ideale simbiosi di perfezione sonora che rende il brano un altro must dell’intero lavoro, già a questo punto su livelli di eccellenza. Speed calca la mano: i testi allucinati, la devastazione raccontata e l’orrore cui la società va incontro, causano una sospensione dell’incredulità, quasi come se il gruppo volesse accompagnarci con potenza ed energia all’annientamento finale, grazie anche alla sei corde sporca e graffiante, che trova anche il tempo di indulgere ad un giro “romantico” di assolo leggero, ma solo per pochi secondi, dato che la devastante sonorità che la caratterizza si snoda decisa sino alla fine del brano.

Le percussioni decise di Artioli rendono Lullabymoon un brano da ideale colonna sonora “pulp”. La melanconia di cui è pervaso il brano è comunque cornice ideale per declamare ancora di drammi e tragedie interiori: la sei corde si defila da par suo, rendendosi ideale partecipe del cantato davvero quasi tombale. L’ennesimo intervento a sorpresa del buon Giammetta eleva ancora qualitativamente l’idea quasi progressiva che via via ci siam fatti su alcuni passaggi dell’intero disco, a conferma degli elevati mezzi tecnici di cui il gruppo dispone. Signorina Diesel si incammina come un vero veicolo non a scoppio: dopo pochi secondi di cantato sotto le righe, si scatena un vero terremoto di oscenità vocali che conferiscono al pezzo una venatura quasi hard…nei testi. La voce di Fanelli si snoda lasciva, come un Coverdale in piena ispirazione sessista: ma la lezione di Kurt Cobain ritorna alla mente del gruppo nella fase centrale quando il gruppo intero si scavalla in una ideale jam session, addizionata addirittura da un giro di armonica di Canali stesso. Un disordine sonoro che tuttavia pare ben organizzato: Un Caos Che Ti Assomiglia ci propone il gruppo in pieno trip mentale. In puro stile declamante, Fanelli ci addentra nei meandri delle personalità più oscure, con la sei corde che drammaticamente e ritmica accompagna il racconto. Ancora salda sino alla fine, la base sonora si dipana attraverso atmosfere che delicatamente si evolvono su viluppi industriali saggiamente descritti nei testi.

Un’ultima ballad stavolta con i controfiocchi, La Ballata Dei Cuori Intermittenti è il testamento del gruppo nella sua interezza. La vera natura del loro sound è quella intimista che dai solchi del brano promana, grazie al solido lavoro ancora slide di Giammetta ed al cantato ‘rockeggiante’ ma non ‘rockeristico’ di Fanelli. È l’apripista per il lungo solo finale, che idealmente ci consegna il manifesto artistico-tecnico della band e che conclude il lavoro con una lunga atmosfera tastieristica che non pare volerci abbandonare. Ancora ideali paladini della fertile scena musicale nostrana, che grazie a lavori come Assalto Alla Luna potrà continuare a dormire sonni tranquilli.

Autore: Nolatzco Titolo Album: Assalto Alla Luna
Anno: 2012 Casa Discografica: Psicolabel
Genere musicale: Grunge Voto: 7
Tipo: CD Sito web: http://www.nolatzco.it
Membri band:

Giovanni Fanelli – voce, basso

Ivo Giammetta – chitarra

Stefania Orioli – basso

Diego Artioli – batteria, voce

Tracklist:

  1. Babyrivoluzione
  2. Tutto Svanisce
  3. Educati Al Successo
  4. Abusivisness
  5. Assalto Alla Luna
  6. Speed
  7. Lullabymoon
  8. Signorina Diesel
  9. Un Caos Che Ti Assomiglia
  10. La Ballata Dei Cuori Intermittenti
Category : Recensioni
Tags : Grunge
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13th Ago2012

Pearl Jam – Riot Act

by Giuseppe Celano

Sette è un numero importante, soprattutto quando hai un onore da difendere e una carriera da portare avanti, ma non è sempre semplice risucire a superare questa prova. Riot Act è il settimo album dei Pearl Jam che stavolta, per la registrazione, si affidano alle sapienti mani di Adam Kasper ed esce nel 2002. Registrato in due tronconi e missato da Brendan O’Brien, il nuovo lavoro della band è un art rock particolare e ricco di accordature diverse. I nuovi pezzi sono un continuo richiamo al loro passato ma proprio per questo nascondono una serie di insidie da cui è praticamente impossibile fuggire. Sebbene si regga sulle proprie gambe emerge chiaramente un senso di conservazione misto alla polvere che lentamente si deposita fra i solchi di questo lavoro. Le liriche sono pienamente influenzate dall’attacco alle torri gemelle e parlano apertamente di dolore, perdita, disagio e paura. Molti dei brani presenti in questo lavoro sono stati scritti a più mani da Eddie e soci, ma è nel canto che il disco sembra diverso. Vedder lo affronta con meno impostazione tecnica, sembra orientarsi verso un aproccio istintivo e senza fronzoli. La musica è molto meno cerebrale e più diretta, punk se preferite. La risposta alla violenza sul territorio americano prevede una forma di ottimismo disilluso, mascherato da un invito all’azione anarchica. Eddie s’interroga sugli effetti di quel patriottismo tipico della società americana, spazzato via in pochi minuti da una furia cieca e brutale.

Riot Act è l’album in cui il leader della band sfoggia le sue opinioni politiche diventando un Bono più credibile e meno spocchioso ma nel complesso, e sulla lunga distanza, è la musica a soffrire seriamente di nuove formule vincenti. Mancano quelle grandi canzoni che hanno reso immortali i Pearl Jam. Latitano le grandi cavalcate, le ballate sofferenti e soprattutto non c’è il benchè minimo spunto per un rinnovamento necessario e dovuto dopo oltre dieci anni di carriera. I Pearl Jam insistono nel ripetersi, come degli ottimi falsari alle prese con le loro stesse opere. Musicalmente parlando tutto questo si traduce nella furba apertura di Can’t Keep, potente ed energica come ogni opener della band, e nella ballatona triste Love Boat Captain (dedicata ai morti di Roskilde). Neanche l’immancabile singolo I Am Mine, la buona Get Right e l’invettiva contro Bush (Bu$hleaguer) bastano a rialzare le sorti di un disco condannato ad un palese anonimato.

Bisogna coraggiosamente affermare che i Pearl Jam hanno perso i punti di riferimento che caratterizzarono il loro esordio, optando per facili scorciatoie. Non basta sfornare triti riff poderosi con chitarre distorte e sparare a zero sulla politica per guadagnarsi una forma di credibilità e lo status di duri e puri del rock. Insomma Rioct Act tradisce il proprio scopo, sin dal titolo, rimanendo imprigionato nel passato, lo stesso passato che la band vorrebbe teoricamente distruggere con un messaggio di cambiamento (interno) non ancora avvenuto. I Pearl Jam di oggi sono i peggiori nemici che possano incontrare sulla loro strada, la cristallizazzione di una formula funzionante, ma prevedibile come una somma algebrica, li fa sembrare come un transatlantico splendente incapace di prendere il largo perchè ancora saldamente ancorato al proprio passato.

Autore: Pearl Jam Titolo Album: Riot Act
Anno: 2002 Casa Discografica: Epic Records
Genere musicale: Rock Voto: 6
Tipo: CD Sito web: http://www.pearljam.com
Membri band:

Eddie Vedder – voce

Stone Gossard – chitarra

Mick McCready – chitarra

Jeff Ament – basso

Matt Cameron – batteria, percussioni

Tracklist:

  1. Can’t Keep
  2. Save You
  3. Love Boat Captain
  4. Cropduster
  5. Ghost
  6. I Am Mine
  7. Thumbing My Way
  8. You Are
  9. Get Right
  10. Green Disease
  11. Help Help
  12. Bushleaguer
  13. 1/2 Full
  14. Arc
  15. All Or None
Category : Recensioni
Tags : Grunge, Pearl Jam
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06th Ago2012

Pearl Jam – Binaural

by Giuseppe Celano

Il sesto disco dei Pearl Jam, all’indomani del successo mondiale di Yield, è caratterizzato da seri problemi di riabilitazione da droghe per il chitarrista Mike MaCready e con il blocco dello scrittore per Eddie che, per la prima volta nella sua carriera, si trova impegnato a fronteggiare la sindrome del foglio bianco. Nel frattempo qualcos’altro è cambiato, Brendan O’Brien è stato rimpiazzato, almeno in parte, da Tchad Blake, famoso per l’utilizzo del doppio microfono per un effetto 3D. E non solo, anche la struttura fondamentale della sezione ritmica cambia con l’ingresso di Matt Cameron al posto di Jack Irons. Come per l’album precedente, anche queste sessioni sono il frutto di un lavoro individuale che poi confluisce in studio pronto per essere missato. Binaural risulta un album meno rock e decisamente orientato verso sperimentazioni dal piglio punk. I Pearl Jam cercano brani più complessi e meno facili da assimilare costringendo i loro ascoltatori ad un approccio più difficoltoso che richiede molta concentrazione. E con l’arrivo di Cameron anche la sezione ritmica assume un’altra forma, più stratificata e stabile. Il disco si avvita su cambi di tempo, atmosfere riflessive, virate postpunk, code psichedeliche e ballate quasi al limite del folk. Il nuovo lavoro è più rilassato, libero insomma dalla morsa del grunge, i brani sono eterogenei, il suono secco sembra urlare a chiare note la voglia di distaccarsi da un genere che loro malgrado li ha fagocitati.

Nessun antagonismo con i Nirvana, basta gare per il podio e pochi ammiccamenti al pubblico i cinque cavalieri di Seattle scelgono di suonare ciò che amano attraverso uno stile ormai consolidato. Nessun brano sembra un vero e proprio singolo, il senso di omogeneità prevale su tutto, Binaural è un album più pacato ma non domo. La guardia è sempre alta, come maestri di arti marziali, riflessivi e letali come l’attacco di un cobra reale. Se nel precedente lavoro avevamo citato Neil Young come maggiore influenza oggi possiamo dire che Vedder e soci guardano con più attenzione al suono che ha reso grandi gli The Who. È Breakerfall con i suoi due minuti a violare il silenzio affettandolo chirugicamente nota dopo nota. God’s Dice e Grievance sono il piglio punk di cui sopra che, mischiato all’indomabile gene dell’hard rock, danno vita a un connubbio vincente e incendiario, modello MC5 tanto per capirsi. I testi spaziano dall’onnipresente disagio di Eddie alla critica sociale contro eventi come la strage della Colombine High School. Non mancano i momenti di romanticismo, e i primi segnali d’innamoramento per l’ukulele in Soon Forget.

Binaural è un album basico, forse scontenterà molti fan di vecchia data abituati a riff granitici e brani spaccaossa, ma sarebbe un errore considerarlo un album figlio di dei minori.

Autore: Pearl Jam Titolo Album: Binaural
Anno: 2000 Casa Discografica: Epic Records
Genere musicale: Rock Voto: 7,5
Tipo: CD Sito web: http://www.pearljam.com
Membri band:

Eddie Vedder – voce

Stone Gossard – chitarra

Mick McCready – chitarra

Jeff Ament – basso

Matt Cameron – batteria, percussioni

Tracklist:

  1. Breakerfall
  2. God’s Dice
  3. Evacuation
  4. Light Years
  5. Nothing As It Seems
  6. Thin Air
  7. Insignificance
  8. Of The Girl
  9. Grievance
  10. Rival
  11. Sleight Of Hand
  12. Soon Forget
  13. Parting Ways
Category : Recensioni
Tags : Grunge, Pearl Jam
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