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06th Mar2022

Agape – Mind Pollution

by Marcello Zinno
Arrivano dal centro Italia ma sembra che dai loro amplificatori esca l’hard rock a stelle e strisce che ha conquistato gli anni 80. Mind Pollution è un rock dirty che sa conquistare e che è stato pensato per essere proposto (e goduto) dinanzi ad un palco: brani come Self Confidence o l’opener The Spark accendono il fuoco e fanno sentire l’irruenza del rock. Va detto che i ragazzi se la cavano egregiamente anche con brani più controllati come Gaia And Theia che sembra una ballad robusta ed elegante, ma al tempo stesso ha un intermezzo strumentale davvero affascinante. A noi piace anche Loss On Ignition un brano che nella sua parte iniziale possiede una grande irruenza live ma poi cambia corde, abbraccia la melodia e risulta orecchiabile. Praticamente ce n’è per tutti i gusti in questo album degli Agape, una rock band genuina che punta sul sapore hard per conquistare il pubblico; scelta evidente quella di registrare gli elementi musicali (soprattutto le chitarre) un passo più avanti rispetto alla voce di Alice.

Una band con un enorme potenziale di crescita, non tanto stilistica perché il loro sound è chiaro e difficilmente si evolverà, bensì in fatto di pubblico perché questo quintetto merita davvero un grande seguito.

Autore: AgapeTitolo Album: Mind Pollution
Anno: 2022Casa Discografica: Red Cat Records
Genere musicale: Hard RockVoto: 7,5
Tipo: CDSito web: www.facebook.com/mindtheagape
Membri band:
Alice Taddei – voce
Elia Giorgi – chitarra
Gabriele Coppola – chitarra
Alessia Lodde – basso
Filippo Di Martino – batteria
Tracklist:
1. The Spark
2. Mind The Gap
3. Gaia And Theia
4. Loss On Ignition
5. Self Confidence
6. Sons Of Alchemy
7. The Surgeon
8. Uranium – 238
Category : Recensioni
Tags : Hard Rock, Nuove uscite
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21st Dic2021

Dave Bolo – Musica Buona

by Cristian Danzo
Musica buona è quella che Dave Bolo, al suo esordio, evoca a piena voce. Musica Buona è anche il titolo del suo primo album. Ed è uno slogan che tutti si sentono di urlare da anni. Il motivo è molto semplice. Dalla crisi profonda del mercato musicale la musica di qualità non esce più, nemmeno nel pop più commerciale. I motivi sono molteplici e riguardano offerenti e fruitori. La maggior parte delle case discografiche ha bisogno di guadagni facili ed immediati. Per cui, accompagnare un artista in un percorso di crescita musicale e scommetterci non fa più parte della prassi dell’industria discografica. Questo porta alla sparizione di tutta una serie di figure che sono sempre state presenti in fase di produzione. Risultato: il piattume totale. I fruitori, ovvero gli ascoltatori di una certa fascia di età adulta, si sono abituati all’appiattimento dei prodotti e all’usa e getta (in generale). Per cui, se anche nel pop, fino ad una trentina di anni fa, venivano sfornate canzoni all’apparenza superficiali ma di grande spessore nella maggioranza dei casi, ora si tende al nulla più totale. La Trap? È la rivoluzione del nulla (provate ad ascoltare i Suicide o tutto il primo black metal, pensando al contesto e agli anni in cui sono nate queste due correnti, e ne riparliamo). I Maneskin? Riproposizione edulcorata che fa saltare sulle poltrone solamente chi conosce la musica degli ultimi 50 anni grazie a quattro brani.

E allora è giusto che Dave Bolo porti del sano e scalpitante rock’n’roll nel mercato attuale. Un disco spontaneo, fatto di schitarrate liberatorie e pezzi più riflessivi e blueseggianti, sentendosi completamente libero di dare forma a stati d’animo, pensieri e storie vissute. Musica Buona si incanala nella tradizione del rock italiano più puro e distinto, senza però osare troppo in termini di sperimentazioni o soluzioni alternative. È tutto lineare, seguendo un sentiero tracciato in precedenza da tutta la scena del nostro stivale nei passati decenni. E non lo diciamo con connotati negativi, tutt’altro. C’ è bisogno di opere che affermino con voce potente: ci siamo anche noi, non solo la spazzatura pompata dai media sotto ogni forma e ramificazione. E poi, qualcuno doveva pure avere il coraggio di dirlo, finalmente. Perché alcuni ne hanno piene le scatole di deliri come “portami giù dove non si tocca dove la vida è loca”, “amore e capoeira come in una favela” e “ho voglia di dare tardi la sera Karaoke Guantanamera”. Questi non sono testi ermetici o guizzi geniali. Sono parole messe lì a caso e senza senso. Lo faceva anche Ionesco, ma in lui il senso c’era eccome.

Autore: Dave BoloTitolo Album: Musica Buona
Anno: 2021Casa Discografica: Vrec Music Label
Genere musicale: Hard RockVoto: 6,5
Tipo: CDSito web: https://www.facebook.com/daveboloart/
Membri Band:
Dave Bolo – voce, chitarra
Tracklist:
1. Heavy Rotation
2. Cristo Moderno
3. Cambierà
4. Sheyla
5. Stato Alterato
6. Occhi E Sorrisi
7. Io (Non Mi Fermo Più)
8. Paradiso Eterno
Category : Recensioni
Tags : Hard Rock
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12th Nov2021

Royal Hunt – Paradox

by Giancarlo Amitrano
Una progressiva ed inarrestabile ascesa ai vertici quella che vede la band danese protagonista nel decennio che porta al nuovo millennio: se a questo si aggiunge che il gruppo è reduce da una sontuosa tournée in Estremo Oriente, suggellata dall’ottimo Live dell’anno precedente, si comprende come il combo sia ormai baciato dalla grazia attraverso una fase di inesauribile ispirazione tecnica e compositiva. Sull’abbrivio di quanto sopra, ecco sfornato un altro album capolavoro: con l’unica variante del nuovo drummer, la band si impegna duramente su quello che per certi versi si può ben definire un ottimo concept, che nei testi ricalca ancora una volta la predilezione del gruppo nell’affrontare tematiche di vita attuale con sfumature anche filosofiche. Si parte con la gradevole atmosfera di The Awakening che, con la sua relativa brevità, consente di preparare bene la strada alla successiva River Of Pain e la sua ottima articolazione a base di un solido riff di chitarra e sulla quale la voce superba di Cooper può elevarsi alla grande in un contesto come detto molto articolato che provvede ad offrire anche una diversità ed un cambio di tempi all’interno del brano, mantenendosi tuttavia fedele alla natura prevalentemente prog che anima il gruppo nella sua esecuzione.

Si passa quindi a Tearing Down The World ed alla sua struttura molto meno compassata che si rivela essere anzi molto accelerata nella sua impostazione, che consente di far risaltare una composizione molto orchestrale del brano, guidato ovviamente da Andersen ed i suoi tasti magici, nonché ancora dal singer sugli scudi grazie al suo duttile range vocale, vera manna dal cielo per le nuove aspettative del gruppo. Message To God è quanto di più malinconico la band possa, allo stato, offrire: già il tocco pianistico mette in risalto il mood abbastanza drammatico che si respira e se a ciò si aggiunge una ennesima prestazione vocale di Cooper colma e pregna di pathos il gioco è fatto; purtuttavia, l’atmosfera decadente che si respira non riesce ad essere oltremodo uggiosa, riuscendo anzi a coinvolgere l’uditorio in una ideale comunione di intenti che portano al crescendo finale. Con Long Way Home si torna ad un relativo addolcimento del sound, costituito in questo caso da un piacevole intro a base di acustica e tastiere che consentono alla traccia di arricchirsi con dei cori davvero notevoli, utili a riempire il brano anche di quella sana distensione che il buon Andersen intende fornire di quando in quando, salvo poi nel finale tornare a bomba con una buona ripresa del refrain principale. Si giunte al momento cardine dell’album: Time Will Tell, con la sua durata di circa 10 minuti, permette alla band di lasciarsi andare completamente alle sue inclinazioni progressive, con continui cambi di passo al cui interno è possibile spaziare a proprio piacimento tra momenti aggressivi, altri intensi ed altri ancora più meditativi, cosa di cui la band è ormai divenuta maestra, con le sue suite imponenti ed enfatizzate, sempre di livello superiore.

Silent Scream è un altro brano riuscitissimo, laddove la band prende sulle proprie spalle tutto il peso di un pezzo davvero impattante, dalla poderosa impalcatura classica, che a volte sfocia quasi nel gotico (!) anche grazie ad un refrain davvero notevole e notabile che riesce in pieno a catturare l’attenzione di chi ascolta, oramai rapito da tutta questa esposizione strumentale liricamente e tecnicamente imponente. It’s Over riesce a toccare ancora picchi elevatissimi, grazie al sapiente mix tra educazione classica del gruppo e vena mai sopita che occhieggia all’hard altrettanto classico, per un risultato finale davvero notevole che libra in altissimo la traccia, altra pietra miliare della discografia recente del combo danese. La strumentale Martial Arts, che pur nella sua breve durata tanta importanza avrà in seguito nella storia della band, scalda ancora i motori in previsione del brano finale che The Final Lullaby interpreta alla perfezione: traccia scritta dal buon Mogensen, ancora grondante lirismo e pathos a volontà che Cooper emana in modo eccellente per chiudere degnamente un altro album con cui i Royal Hunt vanno ancora una volta a bersaglio, uscendone promossi a pienissimi voti, anche se all’orizzonte si addensano le (purtroppo) immancabili novità che anche un gruppo che si rispetti deve comunque patire di quando in quando.

Autore: Royal HuntTitolo Album: Paradox
Anno: 1997Casa Discografica: Magna Carta
Genere musicale: Hard RockVoto: 7
Tipo: CDSito web: www.royalhunt.com
Membri Band:
Andre’ Andersen – tastiere
D.C. Cooper – voce
Steen Mogensen – basso
Jacob Kjaer – chitarra
Allan Sorensen – batteria
Maria Mc Turk – cori
Lise Hansen – cori
Tracklist:
1. The Awakening
2. River Of Pain
3. Tearing Down The World
4. Message To God
5. Long Way Home
6. Time Will Tell
7. Silent Scream
8. It’s Over
9. Martial Arts
10. The Final Lullaby
Category : Recensioni
Tags : Hard Rock
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26th Set2021

Rocking Corpses – Death Blues

by Cristian Danzo
Le contaminazioni sono ciò, che almeno da un ventennio, la fanno da padrone nella musica. Non perché ci sia mancanza di idee ma perché nulla di nuovo oramai si può inventare (anche il silenzio, che è il contrario completo della musica, è stato esplorato a fondo). Per cui, per ottenere un sound aggiornato, la giusta tendenza è quella di miscelare varie correnti e varie cose. I Rocking Corpses rispondono perfettamente al concetto sopra esposto: mischiare le tematiche horror e gore che appartengono, solitamente, al death e al grind, con il blues ed il rock anni 50. Praticamente è come se i Volbeat si fossero mischiati a Non Aprite Quella Porta. Provenienti dalla Finlandia, nel loro nuovo lavoro Death Blues (preceduto nel 2012 da Rock ‘N Rott) condensano influenze vintage, thrashcore ed a tratti stoner per dare vita ad un percorso artistico davvero personale ed originale. La voce di Leper Laze (tutti i componenti hanno nomi d’arte che rimandano alla putrescenza ed al disfacimento post mortem) si combina con quella di Tony Decay  usando stili diversi a seconda della canzone. Se nell’opener There Will Be Death(Intro) si ha un lamento oltretombale, nel resto dell’album si vira dai toni clean a quelli growl senza troppa soluzione di continuità. Un po’ più di organizzazione ed ordine nell’applicazione delle linee vocali sarebbe apprezzabile e darebbe più coesione al prodotto, ma capiamo che il caos di una apocalisse zombie sia letteralmente più apprezzabile dai quattro.

Suonato molto bene e prodotto in maniera egregia, di certo Death Blues non porta niente di nuovo alla musica in senso lato. Ma è una release davvero apprezzabile e godibile per chi bazzica ambienti rock e metal, che fa passare un’ora piacevole svaccati sul divano con in mano un bicchiere di whisky di pregio. Oppure in sede live, dove questo stile, secondo noi, è davvero pieno di verve scatenante.

Autore: Rocking Corpses Titolo Album: Death Blues
Anno: 2021 Casa Discografica: Inverse Records
Genere musicale: Hard Rock, Hard Blues Voto: 6,5
Tipo: CD Sito web: https://www.facebook.com/RockingCorpses
Membri Band:
Leper Laze  – voce
Tony Decay – chitarra, voce
Pestilence Pete – chitarra
Maggot Mike – basso
Tom Bones – batteria
Tracklist:
1. There Will Be Death (Intro)
2. Body
3. Buried
4. As High As You Can Get
5. Rocking Corpses Part II
6. Derailed
7. Drinking With The Dead
8. Another Day In Casket
9. Losing Day
10. Necrophilove
11. Death Is Something To Die For
12. War For Doom
Category : Recensioni
Tags : Hard Rock
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30th Lug2021

Blackfoot – No Reservations

by Giancarlo Amitrano
Gradevolissimo, a volte, allontanarsi, di poco, dalle coordinate classiche dell’hard’n’heavy, pur restando nelle sue immediate vicinanze: sono , infatti, talmente tante le sfaccettature musicali che il genere ha prodotto da restare stupefatti di quanti “familiari” sia composta la stessa galassia. Uno di essi, sicuramente, è tutto quel movimento cosiddetto “southern” che ha fatto la fortuna di tante band e soprattutto dei cosiddetti Stati del Sud americano: gruppi di estrazione a volte anche non proprio a stelle e strisce, ma così contigui alla patria dello zio Sam da potersene a ragione dichiarare gloriosi discendenti. Una delle band sicuramente più in voga ed in prima fila nel portarne il vessillo è certamente quella capitanata da Rick Medlocke, il cui sangue indiano scorre orgogliosamente nelle sue vene, che già ben prima di giungere al debutto con il suo gruppo è attivo sulla scena statunitense con vari gruppi che però non giungono ancora alla ribalta. Finalmente si giunge al debutto a metà degli anni 70 con un album che mostra sin da subito quelle che saranno le caratteristiche della band, fieramente “sudista” e con un valido bagaglio tecnico che la voce speciale del leader renderanno unica nel suo settore.

Si parte allora con l’allegria di Railroad Man che Medlocke fa risaltare con un cantato aggressivo ma calmo al tempo stesso, con la band che lo segue pedissequamente con una prestazione già di spessore specialmente nel drumming intenso del fido Spires, preciso e tagliente in primis nei crash di cui fa largo e gradevole uso. Indian World è un midtempo molto accattivante, dominato dall’intensità del cantato di Medlocke, su cui ben si innestano buone tastiere di sottofondo ed una sezione ritmica già affiatata, mentre la coppia di asce appare ben amalgamata, riuscendo bene ad accompagnare le evoluzioni vocali del singer, aggressivo e dal cipiglio molto “pellerossa”, appunto. Si passa a Stars con la quale ci immergiamo a pieni padiglioni auricolari nei gloriosi anni 70, con Medlocke a tratteggiare una ballad che pare essere uscita dalle corde dei migliori cantastorie, con una produzione molto pompata che mette in risalto l’atmosfera calda ed attraente della traccia, in uno con il solidissimo lavoro delle asce che si prendono le luci della ribalta assieme al singer. Not Another Maker è un brano molto ben scritto, con una apprezzabile ed inattesa attenzione ai dettagli ed agli arrangiamenti che ben si dipanano lungo i 5 minuti della durata, all’interno dei quali le chitarre sono molto attraenti con il loro lavoro morbido ed intrigante, che prepara la strada al ritornello molto ben congegnato e rafforzato dai cori femminili che certo non guastano, per poi tornare il tutto a bomba con un solo ad effetto che riempie degnamente il brano.

Born To Rock & Roll è un brano che potremmo definire “catchy”, ossia coinvolgente e trascinante, sempre basandosi sulla relativa brevità della traccia: ancora Medlocke ad imperversare con la sua voce tipicamente “indiana” e da ideale capotribù che tenga unita la tribù pronta all’assalto musicale con un semplice ma avvincente refrain cui segue un assolo poderoso pur nella sua apparente elementarità. La stessa falsariga si propone con l’esecuzione di Take A Train, vero e proprio inno southern inframezzato da una combinazione di “smooth rock” ed hard classico, cui dona il proprio valente contributo il lavoro azzeccato di Spires con il suo drumming effervescente e sbarazzino, mentre le asce sono libere di esibirsi in un mix di ritmica e solismi non disprezzabili. Big Wheels vede un ottimo intro del basso di Walker, potente e profondo che ben si unisce al drumming veloce di Spires; subentra quindi il singer che evidenzia anche una buona capacità di tenere bene ed allo stesso modo toni alti e bassi, salvo poi elevarsi di range con un paio di screaming non indifferenti, che tacciono al momento di cedere il passo alle tonanti chitarre, che con il loro midtempo (anche qui) rendono intrigante la traccia.

I Stand Alone ha tutto il suo momento slow, con un giro molto rilassato che mette in evidenza la già alta abilità dei chitarristi, cui la lunghezza del brano non risulta indigesta per poter piazzare i loro soli al momento opportuno, rafforzati anche in questo caso da cori femminili assolutamente azzeccati ed alla bisogna. Si chiude con Railroad Man 2, composta nientemeno che dal nonno di Medlocke, il cui nipote ascolta il longevo antenato esibirsi al banjo in una esecuzione davvero calda ed emozionante quasi da vero apache, nel senso più bello del termine per chiudere nella maniera più simpatica possibile un album che promette avere più che degni successori.

Autore: Blackfoot Titolo Album: No Reservations
Anno: 1975 Casa Discografica: Island Records
Genere musicale: Hard Rock Voto: 6
Tipo: CD Sito web: www.blackfootband.com
Membri Band:
Rick Medlocke – voce, chitarra
Jakson Spires – batteria
Charlie Hargrett – chitarra
Greg Walker – basso, tastiere
Shorty Medlocke – banjo, voce su traccia 9
Suzy Storm – cori
Barbara Wyrick – cori
Laura Struzick – cori
Tracklist:
1. Railroad Man
2. Indian World
3. Stars
4. Not Another Maker
5. Born To Rock & Roll
6. Take A Train
7. Big Wheels
8. I Stand Alone
9. Railroad Man 2
Category : Recensioni
Tags : Album del passato, Hard Rock
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17th Lug2021

NIna – Revenge

by Cristian Danzo
Valentina Attanasio si presenta con il nome d’arte NIna e ci presenta il suo esordio discografico, Revenge, fatto di un hard rock energico, senza troppi fronzoli e diretto. È un disco a due facce quello della cantante italiana: se da una parte ci sono pezzi palesemente di respiro internazionale (e non per la lingua del cantato, ma per le costruzioni e gli arrangiamenti) dall’altra ha i piedi ancorati e ben saldi nella tradizione del genere italiano. L’opener Look @ Yourself è il manifesto della prima affermazione sopra esposta: costruita su più strutture, non scade mai nell’ovvio e mette in luce il range vocale della cantante fin da subito. Via è invece il contraltare perfetto e la nemesi del pezzo battistrada. E non in una accezione negativa, tutt’altro. Sono solamente due mondi e due stili che si guardano in faccia e ci mostrano quali sono i background di questa artista che vanno a costruire il suo mondo musicale. Ci troviamo così di fronte ad un album vario e variegato che non mantiene mai uno stile completamente definito.

Se la personalità vocale di NIna appare fin da subito sicura e decisa, così non è per lo stile musicale che accompagna Revenge per tutta la sua durata. Se a qualcuno questo ventaglio potrebbe dare fastidio (non siamo tutti così aperti e disancorati da un punto fermo) noi lo abbiamo apprezzato molto, visto che si tratta anche di un esordio e si sa benissimo che i debutti non sono mai così perfettamente definiti, anche in quegli artisti che hanno fatto la storia.

Prodotto da Marco D’Andrea dei Planethard, Revenge è un album che mostra, insieme a tante altre produzioni, quanto l’Italia ed i giovani musicisti non siano solo trap e prodotti che cercano il successo facile e l’ammiccamento della hit estiva.

Autore: NIna Titolo Album: Revenge
Anno: 2021 Casa Discografica: Volcano Records
Genere musicale: Hard Rock Voto: 6,5
Tipo: CD Sito web: www.facebook.com/ninamusiqueartist
Membri Band:
Valentina Attanasio NIna – voce
Marco D’Andrea – chitarra, basso, pianoforte, synth
Alessandro Degiorgio – batteria
Stefano Arrigoni – batteria in Making Mistakes
Tracklist:
1. Look @ Yourself
2. I Want It Now
3. Another Heart
4. Via
5. Why Do You Like?
6. Ballad In Love
7. Cry Me A River
8. Belong
9. My Tattooed Heart
10. Sedile Passeggero
11. Making Mistakes

Category : Recensioni
Tags : Hard Rock
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09th Lug2021

Brazen Abbot – Bad Religion

by Giancarlo Amitrano
“Squadra che vince non si cambia”. Il collaudato assioma sportivo si sposa bene con la terza fatica della creatura del bulgaro Kotzev: mantenendo in primis la batteria dei cantanti, oltre che quella dei musicisti, non ci si poteva attendere che un altro lenght di spessore, del tutto inserito nel contesto piacevolmente visionario del leader, tanto desideroso di pagare pegno ai gruppi fonte di ispirazione per lui, Purple e Rainbow in primis. Ecco, dunque, 11 tracce nuovamente intrise di suoni settantiani, le cui esecuzioni rispecchiano appunto le intenzioni del multistrumentista e musicalmente e tecnicamente, riuscendo in pieno nell’obiettivo finale. Si parte allora con la tiratissima The Whole World’s Crazy ed il suono vagamente ispirato a “certi” Sassoni già imperversanti da alcune decadi; il ritmo è ampiamente tirato e Turner veste bene i panni di un “urlatore” classico su un brano del genere, mentre sezione ritmica & Co. fanno ampiamente il proprio dovere con una saggia distribuzione di battute e stacchi, del tutto funzionali alla traccia, cui segue con Nightmares un altro velato omaggio alla band di cui sopra, pur con i distinguo del caso; il principale di essi, infatti, sta proprio nella esecuzione del brano che non è un vero e proprio anthem metallico, ma piuttosto potrebbe in esso riscontrarsi la famosa vena melodica a tutto tondo che permea la pur energica interpretazione stavolta affidata all’ex Candlemass Vikstrom.

Tocca ora a Edman esibirsi al microfono e dobbiamo dire che l’esecuzione di Two Of A Kind tocca davvero le corde di chi ascolta, trattandosi di traccia al limite di un blues davvero emotivamente coinvolgente, con i musicisti che arrivano ad eseguire il brano con passione e trasporto, coadiuvati in questo da un saggio e sapiente uso delle tastiere che oltre a strabordare piacevolmente risultano del tutto addentro alla mole di impatto emotivo inserito nel contesto, già tra i migliori dell’intero album. Torna Turner in I Will Rise Again ed ascoltiamo un tripudio di chitarre molto melodiche che sono pienamente aderenti all’impianto che l’ugola d’oro di JLT fornisce alla traccia: ottima nel complesso la prestazione di tutti i musicisti che sono uniti nel mostrare compattezza e unità d’intenti per arrivare al bersaglio grosso di un brano potente e delicato al tempo stesso. Day Of The Eagle ed Edman formano un duo di non indifferente spessore, si respira una pulizia di fondo nell’esecuzione del brano ed anche degli arrangiamenti, come se ci trovassimo di fronte ad una “green economy” che la band mette qui in atto, senza tuttavia perdere un grammo di tecnica ed energia, davvero notevole ed intensa. We Don’t Talk Anymore è senza meno la ballad dell’album e quindi vi sono tutti i canoni classici atti a renderne un piccolo gioiello, con l’esecuzione di Vikstrom che stavolta non mostra i muscoli come uso fare nel suo doom stile Candlemass, risulta anzi aggraziato il giusto nel tenere bordone alle strofe morbide e liriche della traccia.

Turner torna sulle scene con un hard che più classico non si può: Wings Of Dream omaggia alla grande i maestri del genere, con ritmi potenti ed incalzanti che sono sempre manna dal cielo quando bene eseguiti e fortunatamente è questo il caso dei Nostri, con il gran cerimoniere alla voce che rimanda ad epopee in cui imperava un certo “arcobaleno” sempre grazie alle sue corde vocali. Siamo arrivati alla titletrack ed ecco che Kotzev si libera di tutti gli “artifizi” sin qui adoperati per esplodere finalmente in una esecuzione da tastierista super, che permette anche l’inserimento di coralità di sottofondo senza lesinare atmosfere di lucida visione romantica della vita, grazie anche all’esecuzione vocale di Edman, qui davvero lontano dai momenti a dir poco concitati vissuti in precedenza con Yngwie Malmsteen, fornendo anzi una prestazione chiara e netta. Father To Child torna a percorrere sentieri molto classici che a volte sfiorano quasi il barocco se non addirittura il prog tanto caro a gruppi quali ad esempio Dream Theater, cui i Nostri paiono devotamente ispirarsi nella ricerca degli arpeggi e degli arrangiamenti, sempre difficili da raggiungere specie in ambito prog metal, pur se questo non è il caso, trattandosi invece di un sano hard con venature “classiche”.

La collaborazione di Turner al disco si chiude con Love Is On Our Side ed è un altro momento di grande partecipazione emotiva nell’ambito di una traccia altrimenti molto pacata proprio per l’interpretazione che l’ex Rainbow ne fornisce: il resto della band non è da meno, elevandosi anzi al rango di coprotagonista in tutte le sue sfaccettature, dai tasti al drumming e via dicendo. Cala il sipario con il brano probabilmente più ad effetto e ricercato: Empire Of The Sun, affidato ancora ad un grande Goran Edman, si destreggia bene attraverso le fonti di ispirazione che Kotzev trae a piene note dai giganti del passato. Echi “porpora” nella voce, vagheggiamenti alla Rainbow nelle tastiere e negli arpeggi generali fanno di questo brano la chiusura ideale di un altro album di assoluto valore che il buon Kotzev porta orgogliosamente a casa, prima di dedicarsi ad un altro colossale progetto che gli porterà via alcuni anni prima di riproporsi sulle scene con la sua creatura, ovvero un album sulla vita di Nostradamus e magari un bel dì potremmo anche occuparcene.

Autore: Brazen Abbot Titolo Album: Bad Religion
Anno: 1997 Casa Discografica: Spv
Genere musicale: Hard Rock Voto: 7
Tipo: CD Sito web: www.brazenabbot.nostramusic.com
Membri Band:
Nikolo Kotzev – chitarra, violino, tastiere, percussioni
Mic Michaeli – organo
John Leven – basso
Ian Haugland – batteria
Joe Lynn Turner – voce su tracce 1, 4, 7, 10
Goran Edman – voce su tracce 3, 5, 8, 11
Thomas Vikstrom – voce su tracce 2, 6, 9
Tracklist:
1. The Whole World’s Crazy
2. Nightmares
3. Two Of A Kind
4. I Will Rise Again
5. Day Of The Eagle
6. We Don’t Talk Anymore
7. Wings Of A Dream
8. Bad Religion
9. Father To Child
10. Love Is On Our Side
11. Empire Of The Sun
Category : Recensioni
Tags : Hard Rock
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25th Giu2021

Brazen Abbot – Live And Learn

by Giancarlo Amitrano
La galassia hard’n’heavy è più sterminata di quelle realmente presenti nel sistema solare. Davvero non si contano le più o meno ufficiali band satellite di gruppi da cui originano. Un eventuale albero genealogico sarebbe sterminato nella sua elencazione, tante e tali sono le derivazioni che, alla fine, inevitabilmente portano quasi sempre ad un combo originale da cui poi fuoriescono tanti “eredi”, pretendenti al vecchio trono o successori in un ideale passaggio di consegne musicali. Nel caso dei Brazen Abbot, dovremmo scomodare diversi numi tutelari e padri putativi del genere: il fondatore ed assoluto monarca del gruppo, il bulgaro Nikolo Kotzev, con un già discreto passato da turnista di livello e proveniente da una band all’epoca misconosciuta quali i Baltimoore, ha sin dall’inizio dichiarato di avere come modello di riferimento nientemeno che Ritchie Blackmore ed il suo variegato mondo chitarristico ormai leggendario. Ne consegue l’ovvia scelta di indirizzare il suo gruppo verso sonorità assolutamente settantiane, dove gli strumenti principali non possono che essere una solida ascia ed una altrettanto importante sezione tastieristica, strumenti che, guarda caso, il Nostro padroneggia più che degnamente. Altrettanto scontata, la scelta di circondarsi di un’ugola di livello superiore: al debutto discografico, ne troviamo addirittura tre, di cui uno leggendario quale “The Voice” Glenn Hughes ed altri due di più che sicuro affidamento quali il già ex Malmsteen, Goran Edman, e l’altrettanto bravo Thomas Wikstrom appena fuoriuscito nientemeno che dai doomsters Candlemass.

Con un’ “accozzaglia” simile di musicisti, il risultato poteva essere o un flop clamoroso o un altrettanto “crack” notabile: fortunatamente, il pollice non può che essere verso l’alto. Trattasi, infatti, di album in cui le più belle influenze del genere fanno capolino ed insieme vi stanno con giocondità, spaziando dai Purple ai Whitesnake e via dicendo. Si inizia con Extraordinary Child e la voce graffiante di Goran Edman, che mette al servizio del brano i suoi trascorsi furiosi con Malmsteen che conseguentemente donano quel quid di anni 70 che più classico non si può, mentre Kotzev ben si destreggia con le sue corde magari non di professionista scafatissimo, ma di sicuro impatto mediatico, grazie anche ai cori di indubbio valore che connotano la traccia. No Way Out Of Nowhere evidenzia in primis il glorioso Hammond che geni della tastiera hanno in passato elevato al rango di protagonista: ecco che i parallelismi con la band di Blackmore tornano possenti, grazie all’enfasi che l’organo dona al pezzo, cui la voce del buon Vikstrom fornisce quel passo in più di energia e trascinamento, nell’ambito di una traccia già coinvolgente. La titketrack non poteva che essere di appannaggio del grande Hughes: una ballad classica, sensuale e coinvolgente nella sua totalità grazie all’esecuzione melodica e potente del singer, che attende il momento giusto per salire di tono ed intensità assieme agli strumenti, che specialmente nella fase finale si elevano in un picco di pathos, drammatizzazione ed intensità non indifferente, sempre tenendo ben presenti le coordinate che muovono l’album, ovvero quelle classiche di alcune decadi addietro e pur mai dimenticate dai musicisti.

Torna Vikstrom a cantare con Russian Roulette, con cui vengono adombrate sonorità molto “porpora” che si esaltano nel rincorrere immagini fantastiche attraverso un cantato non sopra le righe ma anzi attento a seguire con precisione lo svolgimento della traccia, che pur sembra non eccellere del tutto. Meglio tornare, allora, alla melodica voce di Hughes che con Clean Up Man fornisce una ennesima prova maiuscola nell’esecuzione di un brano che trasuda energia e voglia di comunicare la propria felicità: ogni singola nota viene scandita con enfasi, mentre gli strumenti sono al servizio della melodia, qui fatta persona in ogni nota, mai banale e soprattutto funzionale. When November Reigns sa tanto di momento “ridanciano” che la band intende gradire: una traccia che avrebbe fatto la fortuna delle chart americane degli anni 80, quando gruppi come ad esempio i Bon Jovi si beavano di eseguire brani come questo, che viene eseguito con la massima rilassatezza e senza soverchi squilli di tromba, pur nell’ambito di una più che degna sufficienza. Torna Hughes con Miracle ed è un altro momento topico: atmosfere pregne della sua voce possente, che all’epoca di questa release è ancora nel pieno delle sue potenzialità tecniche e squillante come non mai; la guida di Kotzev è quella del “pater familias” che bonariamente guarda all’esecuzione della traccia, magari passando sopra a qualche momento morto della stessa.

Big Time Blues è, appunto, una valida e solida trasposizione delle venature blues di cui la band è permeata e si sente la presenza delle voci “nere” dei primi anni del Novecento, quando calde voci di colore davano ritmo e gioia alle istanze antirazziali dell’epoca; il tutto, viene attualizzato ai giorni nostri con la esecuzione ritmata e precisa di queste stesse atmosfere, ancora attuali e comunque generatrici delle successive evoluzioni musicali. Feeling Like A Rolling Stones si pregia di una ottima interpretazione di Edman, che qui sveste i panni dell’incallito screamer per forgiarsi una immagine di countryman (?!): è tutto il brano, infatti ad essere intriso di venature quasi western, cui il cantato dona il giusto feeling (appunto) che fa ritrovare tutti gli amici attorno ad un ideale tavolo da bar e berci su…sempre all’insegna di un sano e robusto rock stradaiolo! Children Of Today è forse il momento più debole dell’album, grazie (si fa per dire) ad una stracca esecuzione di Vikstrom, che probabilmente ha già dato al microfono: eppure, si intuisce ancora qualcosa di buono nei fraseggi che la traccia offre, pur non avvicinandosi a quanto sinora ascoltato. Intendiamoci, le esecuzioni sono sempre più che degne, ma stavolta manca la zampata decisiva, che invece e per fortuna troviamo nella conclusiva Shadows Of The Moon con ancora Vikstrom al canto, qui maggiormente sentito e con un trasporto che coinvolge anche il resto del gruppo, con il buon bulgaro a tenere salde le redini di una creatura a sua immagine e somiglianza, ma anche con una propria identità singola e collettiva, che ben promette per il prosieguo.

Autore: Brazen Abbot Titolo Album: Live And Learn
Anno: 1995 Casa Discografica: Spv
Genere musicale: Hard Rock Voto: 7
Tipo: CD Sito web: www.brazenabbot.nostramusic.com
Membri Band:
Nikolo Kotzev – violino, tastiere, chitarra, percussioni
Mic Michaeli – organo
Ian Haughland – batteria
Svante Henryson – basso
Glenn Hughes – voce su tracce 3, 5 e 7
Goran Edman – voce su tracce 1 e 9
Thomas Vikstrom – voce su tracce 2, 4, 6, 8 10 e 11
Tracklist:
1. Extraordinary Child
2. No Way Out Of Nowhere
3. Live And Learn
4. Russian Roulette
5. Clean Up Man
6. When November Reigns
7. Miracle
8. Big Time Blues
9. Feeling Like A Rolling Stones
10. Children Of Today
11. Shadows Of The Moon
Category : Recensioni
Tags : Hard Rock
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26th Mag2021

Zero 2 Nothing – Limits Of Temptation

by Fabio Loffredo
Album d’esordio per gli Zero 2 Nothing, band greca che ha nelle vene l’hard rock e l’alternative rock. Vengono considerati anche progressive rock, ma solo per alcune partiture tastieristiche e niente più, loro suonano hard rock ispirato ai seventies ma anche alla sua rivisitazione degli anni 90, alternative rock e aggiungiamo grunge. Limits Of Temptation è un album trascinante anche se a volte sembra non sapere quale strada percorrere. Zero 2 Nothing è hard rock coinvolgente, i riff di chitarra sono aggressivi e graffianti e la voce è potente e Run Away From U ha ritmiche più lineari ma che con i riff di chitarra rendono il tutto sempre hard rock, ma stavolta più moderno e ottimo è anche il guitar solo. C’è anche In God’s Will song più ruvida e dalle tinte blues, da segnalare è anche Dreaming Awake, dai colori più progressivi grazie agli ottimi interventi pianistici e tastieristici di Ourania Vlachouli nonché Feel My Sorrow che cambia sound, si sposta verso il grunge e l’alternative e assomiglia ad una versione più hard rock dei Pearl Jam.

La title track, Limits Of Temptation, ha un vago sapore blues e southern rock, arrivano le conclusive Running Deep In Me, trascinante e aggressiva e Bloody Mary, con un sound più atmosferico anche se sorretto da ritmiche e riff di chitarra più potenti. Spesso come ogni primo album ci si accorge di qualche sfumatura che potrebbe essere differente e i Zero 2 Nothing smusseranno sicuramente qualche angolo già dal prossimo album, ne siamo sicuri.

Autore: Zero 2 Nothing Titolo Album: Limits Of Temptation
Anno: 2021 Casa Discografica: Art Gates Records
Genere musicale: Hard Rock, Alternative Rock Voto: 6,5
Tipo: CD Sito web: https://zero2nothing.com
Membri band:
Thodoris Tsouanatos – voce
Vasilis Kouvelis – chitarra
Christos Peveretos – basso
Ourania Vlachouli – pianoforte, synth
Tracklist:
1. Zero 2 Nothing
2. Run Away From U
3. In God’s Will
4. Dreaming Awake
5. Feel My Sorrow
6. Limits Of Temptation
7. Closer
8. Running Deep In Me
9. Bloody Mary
Category : Recensioni
Tags : Hard Rock
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19th Mag2021

Captain Naysayer – Captain Naysayer

by Marcello Zinno
Sembrano provenire da un’altra epoca i Captain Naysayer, band proveniente per una parte dal Belgio e per l’altra dal Brasile. Un’epoca fortemente legata agli anni 70, per sound, per sezione ritmica impostata e per quel pizzico di sapore psichedelico e blues che inseriscono nella loro ricetta. Ad ascoltare la prima parte del loro EP ci sono tornati in mente i Rainbow del mai compianto Ronnie James Dio: attenzione, non prendete in considerazione gli estri tecnici che erano presenti a iosa in quel progetto, piuttosto le ambientazioni, i suoni. Ecco, l’opener Black Silhouette ci ha rimandati a quelle canzoni senza tempo, anche se l’EP non viaggia a senso unico: un po’ di Black Crows (ma più morbidi) un po’ Led Zep (ma meno immortali) si percepiscono nella pacata e orecchiabile Changes, di cui si segnala l’assolo che ci riporta proprio a quelle lande hard’n’blues che infiammano i cuori.

Un genere quindi che vince a mani basse nella battaglia contro il tempo e che per certi versi è “facile” riproporre, ma questo quintetto lo fa con personalità. Ciò non significa che la loro proposta sia innovativa, ma solo che i ragazzi si mettono in gioco, inseriscono variazioni e piazzano delle idee davvero originali: impossibile non percepire la carica emotiva di un brano come I See Danger, che potrebbe conquistare i cuori di chi possiede a casa almeno 20 dischi della nostrana Frontiers Records, o ancora la morbidezza e la maturità di un brano come Blue-eyed Mask che lascia a bocca aperta. Una bella prova per chi pensa che quel decennio, quello degli anni 70, sia stato stratosferico. Bravi Captain Naysayer.

Autore: Captain Naysayer Titolo Album: Captain Naysayer
Anno: 2020 Casa Discografica: Autoproduzione
Genere musicale: Hard’N’Blues, Hard Rock, Rock Voto: s.v.
Tipo: EP Sito web: http://www.captainnaysayer.com
Membri band:
Arthus – voce
Daan – chitarra
Tom – tastiere
Bert – basso
Evert – batteria
Tracklist:
1. Black Silhouette
2. Changes
3. Voodoo Lovin’
4. I See Danger
5. Blue-eyed Mask
6. Living Again
Category : Recensioni
Tags : Hard Rock
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