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12th Dic2012

Beverly Killz – Gasoline & Broken Hearts

by Gianluca Scala

I Beverly Killz sono uno dei pochi gruppi rock’n’roll italiani in grado di farvi sentire l’adrenalina scorrere a fiumi nelle vene. Gasoline & Broken Hearts è il titolo scelto per il loro debut album sulle scene, si sono prodotti il disco da soli e lo hanno fatto mixare in Germania da sua maestà Dennis Ward dopo averlo registrato quasi dietro casa loro a Monza. Loro sono di Milano, ma le loro principali influenze arrivano tutte dall’America: nel loro personalissimo sound racchiuso in questi undici brani inediti che abbiamo ascoltato ci troverete piccole o grandi reminescenze di band che hanno fatto la storia del glam/rock’n’roll, gente come Motley Crue, Guns n’ Roses e pochi altri. La forza dei BK sta nell’aver creato dei brani di forte appeal musicale, molto orecchiabili con dei ritornelli che si memorizzano con estrema facilità, il tutto condito con gli assoli di chitarra che pervadono qua e là nell’album ad opera del chitarrista Mak, possessore di un tocco non indifferente. Sono molti i brani che ci hanno ben impressionato sin dal primo ascolto, l’iniziale Never Back Down è l’ideale biglietto da visita che la band milanese spara dagli amplificatori, messa in diffusione nei circuiti dei locali rock di mezza lombardia farebbe sicuramente la sua porca figura. Dello stesso livello sono anche le seguenti Away From Danger, piccolo gioiello hard rock, e la lanciatissima Baby You’re On Target capace di farti evadere dalla realtà circostante per quanto è bella.

Dark Lady parte con un giro di chitarra che ti prende letteralmente l’anima e che ti rapisce irrimediabilmente con quel suo ritmo sanguigno, con tanto di ennesimo assolo di chitarra che Mak ci spara dritto nelle orecchie, e che chorus ragazzi! Ad inizio brano gli intenti dei BK sono ben chiari: farci sballare con un brano esplosivo. E che dire di Livin’ And Dyin’, così radiofonica e bella da mozzare il fiato. Praticamente non hanno sbagliato un colpo i Beverly Killz ed hanno tutte le carte in regola per fare molta strada, e poi con un cantante come Vince che possiede una voce incredibile in grado di cantare qualsiasi cosa non faranno sicuramente fatica a farsi conoscere anche al di fuori dei loro confini geografici. Cercatevi una copia di questo grande album e sarete nel paradiso dell’hard rock in men che non si dica, ma sopratutto stampatevi bene in mente il loro nome. Perchè i Beverly Killz faranno strada, parola di RockGarage.

Autore: Beverly Killz Titolo Album: Gasoline & Broken Hearts
Anno: 2012 Casa Discografica: Perris Records
Genere musicale: Hard Rock Voto: 8
Tipo: CD Sito web: http://www.beverlykillz.com
Membri band:

Vince – voce, tastiere, percussioni

Mak – chitarra

John – chitarra

Andrea – basso

Fabio – batteria

Tracklist:

  1. Never Back Down
  2. Away From Danger
  3. Baby You’re On Target
  4. Dark Lady
  5. Livin’ And Dyin’
  6. Riding Alone
  7. For Love
  8. Power Of Your Sex
  9. Sin City
  10. In Sorrow
  11. What Is Love
Category : Recensioni
Tags : Hard Rock
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06th Dic2012

L.A. Guns – L.A. Guns

by Francesco Damiano

“Quando passa il treno giusto, bisogna salire a bordo”. “Certe occasioni capitano una sola volta nella vita”. Ecco due frasi che tutti almeno una volta nella vita abbiamo pronunciato. Provate ora ad immaginare cosa voglia dire avere la certezza che quella occasione, quel treno è ormai passato, e sapere di non poter mai più salirci a bordo. Peggio ancora, sapere che su quel treno tu c’eri a bordo, ma hai scelto liberamente di scendere. Panico. Roba da tenerti una vita intera attaccato al rimpianto. Provate ora a trasporre quanto sopra nell’ambito rock-metal, e troverete due personaggi che sopra ogni cosa hanno vissuto tale esperienza. Uno è senza dubbio John Bush, singer degli Armored Saint che agli inizi degli anni ’80 ebbe la brillante idea di rifiutare il ruolo di vocalist di una giovane band emergente…i Metallica! L’altro è Traci Guns, che decise di fuoriuscire dalla band che aveva contribuito a far nascere assieme ad un certo William Bruce Rose (futuro Axl Rose), e lasciare il ruolo di chitarrista solista ad un allora sconosciuto Saul Hudson (futuro Slash)…per i pochi che non avessero capito, trattasi dei Guns’n Roses. Non si può prescindere da questa semplice considerazione per introdurci all’analisi di questo fantastico primo album degli L.A. Guns, band la cui storia ai più è nota, ma val la pena comunque di essere ripercorsa. Il primo embrione della band, infatti, si fonde nel lontano 1985 con un’altra band allora emergente, gli Hollywod Rose: da tale fusione nacquero, per l’appunto, i Guns’n Roses. Dopo pochi mesi Traci Guns decide però di lasciare la nuova band, e di tornare al primo amore, per l’appunto gli L.A. Guns. Recluta alla voce Phil Lewis (già singer dei glamsters Girl) ed un anno dopo l’uscita di Appetite For Destruction dei Guns’n Roses, esce sul mercato con quello che è considerato il “disco gemello” di Appetite…, questo fantastico L.A.Guns: uno dei tre dischi (assieme all’esordio proprio dei Gun’n Roses ed all’esordio degli Skid Row) imprescindibili, a parere di chi scrive,  per conoscere e capire cosa è stato lo sleaze/street rock negli anni ‘80.

Se le categorie musicali hanno mai avuto un senso, dall’ascolto di questo seminale album si capisce la differenza tra lo sleaze/street rock suonato dai nostri e il glam dei Poison, Ratt, Dokken, Warrant et similia, ai quali erroneamente spesso vengono accostati gli L.A. Guns. Qui c’è del puro hard rock, imbastardito da suoni veloci e cattivi; dall’altro lato spesso melodie semplici e melense, per quanto ben suonate. Gli L.A. Guns con questo fenomenale esordio sputano fuori tutta la loro rabbia, la loro esistenza da outsiders perenni, la loro vita vissuta da emarginati sempre ai limiti. Non bellocci, non giovanissimi, non particolarmente fighi insomma, con un’immagine da sbandati più realistica rispetto alle band iper patinate degli anni ’80. Questi sono stati gli L.A. Guns. Rispetto allo stesso Appetite For Destruction, L.A.Guns appare un disco ancora più rozzo, più grezzo nel suo incedere assassino. No Mercy  apre le danze in maniera inequivocabile: nessuna pietà chiede Phil Lewis alla sua donna, e nessuna pietà ci sarà per l’ascoltatore travolto dalla rabbia autentica dei Nostri. Sex Action è una chiara dichiarazione d’intenti da parte dei nostri galantuomini, che decisamente ritengono ci sia di meglio da fare che “ talk about love”!!! Siamo solo al secondo pezzo e l’ascolto è già incendiario. Ma il meglio arriva con le successive due tracce.

Se nutrite ancora qualche pregiudizio nei confronti dei gruppi musicali inseriti nel carrozzone glam, provate ad ascoltare One More Reason. Qua siamo ai limiti del puro heavy metal con un pezzo letteralmente assassino, con il buon Phil Lewis ad urlare a squarciagola “ Gimme one more reason to die”…mitico! E non è ancora abbastanza. Se considerate il suono della chitarra di Slash fantastico, provate ad ascoltare cosa diavolo è capace di creare Traci Guns all’inizio di Electric Gypsy : un riff da infarto che esplode poi a mille all’ora in un’altra canzone favolosa. Pezzo che ti fa venire alla mente una moto che corre veloce guidata da selvaggi rockers d’assalto…questi sono gli L.A. Guns! Quattro canzoni capolavoro, una meglio dell’altra, che non avrebbero sfigurato nella tracklist dei Guns’n Roses per intenderci. Prendiamo un minimo di fiato con Nothing To Lose , pezzo più festaiolo mentre con la successiva Bitch Is Back gli L.A. Guns confermano di non essere dei raffinati ragazzi da presentare alle vostre sorelle. Ma si sa, anche i ragazzacci hanno un cuore d’oro e con la strumentale Cry No More ci introducono alla immancabile ballad One Way Ticket: pezzo davvero molto intenso. Hollywood Tease è la cover che Phil Lewis recupera dalla sua vecchia band, i Girl, mentre le conclusive  Shoot For Thrills e Down In The City chiudono degnamente il disco, pur non essendo all’altezza dei primi quattro pezzi capolavoro dell’album.

Ebbene sì caro Traci Guns, il treno per il successo iper-mega-super-galattico oramai è passato per sempre, ma gli amanti del buon rock stradaiolo ti renderanno grazie per sempre per questo stupendo album gioiello. Da ascoltare almeno una volta nella vita.

Autore: L.A. Guns Titolo Album: L.A. Guns
Anno: 1988 Casa Discografica: Polydor Records
Genere musicale: Hard Rock Voto: 8
Tipo: CD Sito web: http://www.laguns.net
Membri band:

Phil Lewis – voce

Tracii Guns – chitarra

Mick Cripps – chitarra

Kelly Nickels – basso

Nickey Alexander – batteria

Tracklist:

  1. No Mercy
  2. Sex Action
  3. One More Reason
  4. Electric Gypsy
  5. Nothing To Lose
  6. Bitch Is Back
  7. Cry No More
  8. One Way Ticket
  9. Hollywood Tease (Girl cover)
  10. Shoot For Thrills (Sweet Pain cover)
  11. Down In The City
Category : Recensioni
Tags : Album del passato, Hard Rock
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01st Dic2012

Breakin Down – Miss California

by Marcello Zinno

Più di dieci anni per giungere ad un primo full length. No, non è il segno di una formazione dalle idee confuse bensì la lezione di tanta costanza e del desiderio di portare avanti un progetto musicale, costi quello che costi. Non a caso è da circa tre anni che i Breakin Down hanno trovato una certa stabilità e le attività creative hanno subito un boost tanto da giungere a questo Miss California dell’anno scorso che vede la produzione domiciliata nel pieno Texas. L’atmosfera americana ha sicuramente contagiato i ragazzi, non solo per la presenza e l’uso di sonorità tipiche delle zone desertiche americane (Pò Boy ad esempio è pieno richiamo alla chitarra southern) ma anche per la scelta stilistica che sposa un hard rock molto orecchiabile, molto da pub. Le luci sono proiettate sui riff solo in pochissimi momenti, come nella rovente Rock’n’roll Show che non potrebbe suonare diversamente con quel titolo o di God Save Rock’n’Roll cadenzata al punto giusto. I trenta minuti circa restanti sono molto più bilanciati sulla forma canzone cercando di dar vita a qualcosa che abbia una valenza radiofonica più che puramente emozionale.

Citazione di Thin Lizzy a parte (raffigurata nella copertina compare un vinile della band e un richiamo a loro è inserito nel primo brano), Miss California suona molto simile a tantissimi album di rock/hard rock americano dalla non forte personalità, e Soul Slow Train ce lo conferma avvicinandosi ad almeno altre cento ballad targate USA. Così sfuma la possibilità di creare qualcosa di davvero unico, fusione della creatività tipicamente italiana e delle super produzioni statunitensi, e ascoltare una She’s A Devil che ruggisce a salve oppure una Lousiana Mojo Man che sembra ideata più per amore a stelle e strisce che per vera ispirazione musicale non fa altro che farci mangiare le mani. Il suono rasenta la perfezione ma il consiglio è di concentrarsi più sul contenuto.

Autore: Breakin Down Titolo Album: Miss California
Anno: 2011 Casa Discografica: Black Mama Records
Genere musicale: Hard Rock Voto: 5
Tipo: CD Sito web: http://www.breakindown.it
Membri band:Simone Piu – basso, voce

Francesco Manna – chitarra

Mauro Eretta – chitarra

Claudio Derosas – batteria

Tracklist:

  1. Miss California Hell A.
  2. Voodoo Woman
  3. Rock’n’roll Show
  4. Soul Slow Train
  5. Pò Boy
  6. Father My Blood
  7. She’s A Devil
  8. Louisiana Mojo Man
  9. God Save Rock’n’roll
  10. Hell Or Eden
Category : Recensioni
Tags : Hard Rock
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30th Nov2012

Hardcore Superstar – Bad Sneakers And A Pina Colada

by Francesco Damiano

Anno di grazia 2000. Il rock si affaccia nel nuovo millennio in condizioni ammaccate. I giovani di tutto il mondo paiono ormai aver definitivamente sostituito al rock il rap/hip hop come genere di riferimento. In tale contesto sonoro, quattro ragazzotti svedesi sfornano un disco d’esordio destinato a scuotere il soporifero mondo dello street/sleaze rock. La Svezia che aveva già creato un filone di seminale importanza con il death metal melodico (In Flames, Dark Tranquillity, Soilwork ed altri) si mostra di grande vitalità anche in ambito rock puro con una serie di band tutte di ottimo livello (Hellacopters, Backyard Babies, Gluecifer). Nasce il cosiddetto scan-rock. In un simile scenario cosi fertile per la musica dura, fanno appunto il loro esordio gli Hardcore Superstar con questo debut album Bad Sneakers and a Pina Colada. Senza voler enfatizzare l’opera degli svedesi, appare non esagerato affermare che a partire da questo fantastico primo album, gli Hardcore Superstar siano riusciti a diventare la band di sleaze rock più importante della prima decade degli anni 2000. Pensateci bene: tra meteore da milioni di dischi (The Darkness, Buckcherry) e supergruppi dal sapore artefatto (Brides Of Destruction, Velvet Revolver), gli Hardcore Superstar per capacità sonore e qualità della proposta, hanno rappresentato l’approdo più sicuro per chi cercasse del buon rock a tinte dure. Per sgomberare il campo da fraintendimenti, basti ricordare che, a riprova del valore universale riconosciuto alla proposta musicale dei Nostri, proprio a seguito della pubblicazione dei primi due album, gli Hardcore Superstar furono chiamati ad accompagnare in tour niente meno che gli AC/DC…e scusate se è poco!

La formula magica che ha permesso agli svedesi di emergere tra tante band sta tutta nella originalità della loro proposta musicale: a differenza della stragrande maggioranza dei gruppi che si cimentano a tutt’oggi con il rock duro di matrice classica, gli Hardcore Superstar, pur rimanendo strettamente collegati al territorio streeet/sleaze/glam, non si sono mai limitati a scimmiottare le band storiche degli anni ’80. Due le caratteristiche di assoluta forza degli Hardcore: la chiara attitudine punk che ha contrassegnato questo fondamentale esordio e, soprattutto, la caratteristica voce di Jocke Berg, distante anni luce dalla classica ugola calda, pulita, “maliziosa” dei gruppi glam, ma molto più urlata ed adrenalinica…un vero punto di forza, almeno a parere di chi scrive. Ma sopra ogni cosa, a favore degli Hardcore Superstar ci sono le canzoni. Troppo spesso noi scribacchini musicali ci dilettiamo a parlare di immagine, suoni, perizia tecnica, tutte cose fondamentali, per carità. Ma ciò che alla fine della fiera fa la differenza per qualsiasi gruppo musicale, sono le grandi canzoni, quelle da cantare a squarciagola sotto il palco o in cameretta, quelle che ti restano ben impresse nella mente e non se ne vanno più. E in questo disco di grandi canzoni ce ne sono a bizzeffe.

L’album si apre con una doppietta scoppiettante, la velocissima Hello/Goodbye e la più propriamente glam You Will Never Know che danno subito l’idea di un lavoro ben sopra la media. Ma sono i due pezzi successivi a fare davvero gridare alla meraviglia. Liberation è, probabilmente, la canzone simbolo della prima parte di carriera dei Nostri: brano indiscutibilmente bellissimo, un inno liberatorio per tornare alla vita al termine di una storia d’amore…pezzo da storia del rock. Have Your Been Around  inizia con uno dei riff di chitarra più incisivi del nuovo millennio, prima di far esplodere uno dei pezzi più incendiari dell’album, che viaggia ad una velocità supersonica, con un chorus irresistibile da stadio. Due canzoni che valgono da sole l’acquisto del disco, provare per credere. Si prosegue nell’ascolto con Punk Rock Song che già dal titolo non lascia dubbi sulla esuberante attitudine punk, mentre Beat Yor Down è un altro pezzone irresistibile. Con Rock’n Roll Star gli Hardcore Superstar mostrano di non avere sicuramente problemi di ego, mentre Someone Special è la immancabile ballad in un disco del genere. Attenzione però. Anche in questo caso gli svedesi sorprendono l’ascoltatore con un pezzo ben lontano dal classico lento tutta melodia e voce soffusa, dedicando una canzone a “qualcuna di speciale” mantenendo però ben inalterata la loro classica vigoria musicale. Ancora un pezzo da 9 in pagella.

A questo punto, dopo otto canzoni capolavoro, gli Hardcore Superstar forse avrebbero potuto anche chiudere il disco: i restanti cinque pezzi, pur restando di pregevole fattura, non aggiungono nulla a quanto già detto, ma è la classica voglia di strafare da parte degli esordienti che possiamo tranquillamente perdonare. Al tirar delle somme, un classico, senza ombra di dubbio, dello sleaze rock e forse “ il classico” per eccellenza del nuovo millennio. Se a distanza di oltre dodici anni dall’esordio, gli Hardcore Superstar sono gli unici tra le nuove band a dividere il palco delle tournée mondiali con i grandi nomi del passato, beh non sarà di certo un caso. Il rock non è morto, e se permettete, per noi il tempo di passare all’hip hop non è ancora arrivato.

Autore: Hardcore Superstar Titolo Album: Bad Sneakers And A Pina Colada
Anno: 2000 Casa Discografica: Gain Records
Genere musicale: Hard Rock Voto: 8
Tipo: CD Sito web: http://www.hardcoresuperstar.com
Membri band:

Jocke Berg – voce

Silver Silver – chitarra

Martin Sandvik – basso

Magnus Andreasson – batteria

Tracklist:

  1. Hello/Goodbye
  2. You Will Never Know
  3. Liberation
  4. Have Your Been Around
  5. Punk Rock Song
  6. Beat Your Down
  7. Rock’n Roll Star
  8. Someone Special
  9. Slide Song
  10. Hey Now !!
  11. Strapped
  12. Bubblecum Ride
  13. So Deep Inside
Category : Recensioni
Tags : Hard Rock
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11th Nov2012

Big Dix – Kiss My Ace

by Giancarlo Amitrano

È sempre bello lasciarsi andare e seguire le proprie inclinazioni, magari trasfonderle in poesia, prosa ed anche ovviamente in musica, senza badare troppo ai fronzoli. Questo avviene per i simpatici Big Dix: lodigiani doc che con il loro lavoro d’esordio anche ben prodotto si scatenano in una ideale lunga jam session di influenze e retaggi artistici ben mixati tra essi, cui si aggiunge una personalissima stilizzazione delle sonorità. Difatti, dal brano di esordio notiamo fra le righe il sentore di antenati eccellenti cui il quintetto rende grazie: The Man In Woman Dress sarebbe un ideale tributo ai Purple vecchio stampo, per il brio che la band dà al pezzo che, con l’ incedere del drumming ben modulato, consente al singer di esprimersi in tutta rilassatezza, coadiuvato dalla chitarra presente il giusto e dal groove veramente rimarchevole. Il brano scorre veloce, senza pause e ben legato negli arrangiamenti, grazie anche all’ottimo lavoro della valida sezione ritmica. La blueseggiante Wake Up convince al primo ascolto: il taglio che la band dona al pezzo permette al cantante di tenere salda la linea vocale, mentre le percussioni ben ritmate si affiancano al doppio lavoro delle asce, che si alternano tra il ritmico ed il delicato solismo di metà brano in cui anche il refrain si prende una pausa soft, per declamare con forza il loro credo bluesy. Buona la chiusura, affidata ancora alla doppia chitarra, distorta al punto giusto e stavolta sì invasiva ed invadente il giusto.

A sorpresa, la band piazza anche il colpo “ruffiano”: Have You Ever Been To Hell è la ballatona strappalacrime che il singer ci rende in tutta la sua semplicità. Gli ingredienti ci sono tutti: ritmo volutamente rilassato, chitarre disimpegnate e sezione ritmica che deve prepararci magari a ritornare adolescenti per un attimo con le sue atmosfere da guancia a guancia. Bitch Road Blues è certo il brano più sporco dell’album, le sonorità ritornano dure, le sei corde allungano al massimo il tapping nel rilasciare le note, il singer con il suo tono pare reduce da una notevole sessione alcoolica notturna, che ben si sposa con la sezione ritmica molto consona a locali polverosi di periferia. Tuttavia, i buoni arrangiamenti consentono al brano di tenere una buona linea melodica che non viene assolutamente intaccata dal protagonismo della sei corde, che deve piazzare il suo “solo” a metà brano, ma non è tutto qui: anche la fase finale del pezzo si regge principalmente sulla distorsione massima delle asce su cui si innesta un ottimo giro di basso. Non si fanno mancare proprio nulla i Nostri: If R Was E è il momento strumentale, dove il brano viene impreziosito dal solo dell’ospite, il bravissimo Mario Percudani, che tratteggia un “single” degno di nota, coadiuvato dalla ritmica che mai osa sovrapporglisi nella sia pur breve durata del pezzo.

Looking For è un buon brano nel complesso, ci saremmo attesi tuttavia, date le premesse, che anche su questo episodio il gruppo andasse subito al sodo, senza la parentesi semiacusitca iniziale. Ci pensa la seconda parte del brano a rinfrancarci l’animo con il suo vorticoso ritmo. Bene il drumming molto basato sui piatti, mentre la prestazione del singer è quasi “easy” nel ritornello, che scivola via senza particolari emozioni. Evidentemente, la band vuole tenere in serbo le migliori cartucce per il dittico finale. Giungiamo difatti alla title-track ed ecco che il quintetto si rimette prontamente all’opera. I tempi sono rigorosamente “mid”, mentre il vocalist appoggia letteralmente le note nel bel mezzo del refrain, per dare ancora una volta quel certo groove al brano. Dobbiamo dire che stavolta i nostri eroi riescono del tutto nel loro intento: che è quello di proporci un sound diretto, senza infingimenti, pregnante di sudore, alcolico ed altri clichè in materia. Gustoso l’intermezzo “slide” propostoci nel finale senza pudore, che ( in senso positivo,ovviamente) il gruppo non possiede nell’interpretazione del pezzo e dell’intero album, pensando prima a concludere il brano con un lungo solo che impreziosisce il tutto.

Chiudiamo in bellezza con la versione acustica di I Wonder, con un concentrato e sapiente mix di semiacustica e percussioni il combo concede la passerella finale a sé stesso. Voce ben modulata ed accompagnamento scarno e conciso rendono il brano ideale congedo per questo primo episodio del quintetto nostrano. Cui certo tecnica e cuore non difettano, come ancora conferma il bel solo di metà brano, impreziosito dai cori che lo rendono caldo e corposo. Imminente il secondo lavoro del gruppo saremo attenti a coglierne le evoluzioni, di cui già buone premesse si intravedono nel lavoro odierno.

Autore: Big Dix Titolo Album: Kiss My Ace
Anno: 2011 Casa Discografica: Autoproduzione
Genere musicale: Hard Rock Voto: 7
Tipo: CD Sito web: http://www.bigdixrock.com
Membri band:

Pietro Peroni– voce

Matteo Idini – chitarra

Mattia Mosconi – basso

Marco Idini – batteria, percussioni

Fabio Corradi – chitarra

 

Mario Percudani –chitarra

Claudio Grazzani – tastiere

Josh Zinghetti – cori

Steve Lozzi – cori

Ricky Ferranti – chitarra

Tracklist:

  1. The Man In Woman Dress
  2. Wake Up
  3. Have You Ever Been To Hell
  4. Bitch Road Blues
  5. If R Was E
  6. Looking For
  7. Kiss My Ace
  8. I Wonder
Category : Recensioni
Tags : Hard Rock
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11th Nov2012

Hanoi Rocks – Bangkok Shocks, Saigon Shakes, Hanoi Rocks

by Francesco Damiano

Quante volte avete letto la storia della band a cui il tempo non ha riconosciuto il successo che avrebbe meritato, a discapito di gruppi ben più mediocri? Quante volte, magari dubbiosi, avete sentito parlare della band che aveva tutto, canzoni, immagine, sound, perizia tecnica, carisma per essere una big band e che invece non ce l’ha fatta, o almeno non del tutto? Ecco, nel caso degli Hanoi Rocks tutto quanto letto sopra è assolutamente vero. Assoluti e probabilmente veri ispiratori del carrozzone glam rock/street metal che avrebbe conquistato il mondo negli anni ’80, i finlandesi, pur essendo rispettati e conosciuti da tutti gli appassionati di rock, non hanno mai assunto un ruolo principale come capitato a chi si è sicuramente fortemente ispirato alla loro storia (chi ha detto Motley Crue e Guns ‘n Roses ?). Ed invece, la band del mitico duo Michael Monroe e Andy McCoy ( due che possono essere tranquillamente considerati miti all’altezza di Axl Rose e Slash) partita dalla fredda Finlandia, riuscì ad imprimere un impatto fortissimo al mondo del rock che si affacciava all’alba degli anni ottanta. Figli legittimi del sound di Rolling Stones ed Aerosmith, e seguaci devoti dei seminali New York Dolls, gli Hanoi Rocks ebbero la grande intuizione di velocizzare e colorare l’hard rock dei mostri sacri del passato.

Forse a discapito degli Hanoi ci fu anche la bizzarra provenienza geografica: provate anche ad immaginare cosa volesse dire per un band rock di fine anni 70,  inizio anni 80, partire dalle desolate lande finlandesi alla conquista del rock, genere a quei tempi appannaggio esclusivo del mondo USA e UK. Il tempo, almeno da questo punto di vista è stato galantuomo, visto che trent’anni dopo l’esordio dei nostri pionieri, le più grandi band di street rock del pianeta provengono proprio dalla Scandinavia (Hardcore Superstar, Crazy Lixx, Reckless Love, H.E.A.T. e tante altre). Il fulminante esordio di cui ci occupiamo in questa sede, Bangkok Shocks, Saigon Shaker, Hanoi Rocks, contiene già i germi di un genere fantastico che poi esploderà pochi anni dopo nel capolavoro assoluto dei nostri, Back To The Mistery City. Una miscela incendiaria di canzoni fondamentalmente pop-rock, con venature blues suonate però a ritmi più veloci del solito (siamo pur sempre in piena epoca punk) fanno degli Hanoi Rocks un passaggio fondamentale per chi vuol capire da dove siano partite tante band a venire. Glam e punk che vanno a braccetto: sembra un controsenso, ma è quello che fanno egregiamente gli Hanoi Rocks. Su tutto, come accennato, la voce stradaiola ed ammiccante di Michael Monroe, famoso anche per inserire spesso nei pezzi i suoi inusuali assoli di sax, e la chitarra sferzante di Andy McCoy, autore in pratica di tutti i pezzi dell’album.

L’inizio del disco è travolgente con uno dei grandi classici dei nostri, quella Tragedy che è a tutt’oggi uno dei pezzi più conosciuti degli Hanoi Rocks, e non è certamente un caso, trattandosi di un vero capolavoro. Villane Girl è il pezzo meno “ glam” del lotto, che puo’ ricordare in alcuni momenti certo rock dei Televison o Talking Heads che impazzava in quegli anni. Con Stop Cryin’ torniamo su territori più propriamente da rock duro, con un intermezzo in cui Michael Monroe diviene un animale sexy e languido. Don’t Never Leave Me è il secondo grande classico di questo album: grande pezzo in cui la voce di Michael Monroe sembra quasi alticcia, a rendere il pezzo più decadente che mai. Lost In The City è trascinante nel suo chorus irresistibile, cazzone ed irriverente nel proprio incedere. First Timer è il pezzo forse più veloce, in cui le influenze punk sono più evidenti, ma finisce per essere un riempitivo e nulla più. Cheyenne inizia addirittura acustica per poi esplodere nel solito party allegro e scanzonato…bello, bello,bello. 11th Street Kids è il terzo classico per definizione di questo album: grande canzone che ha un retrogusto malinconico che resta impresso nella mente nonostante l’energia sprigionata dai Nostri. Walking With My Angel è l’unica cover del disco, degli Herman’s Hermits, ed è un pezzo chiaramente rockabilly anni ‘60. Pretender sembra quasi la sigla di chiusura di un telefilm, passabile e nulla più. Un esordio davvero fantastico, in cui l’entusiasmo dei nostri sprizza da tutti i pori, che ad oltre tre decadi dall’uscita lascia all’ascoltare un’idea di gioia e freschezza. Mitici Hanoi Rocks.

Autore: Hanoi Rocks Titolo Album: Bangkok Shocks, Saigon Shakes, Hanoi Rocks
Anno: 1981 Casa Discografica: Johanna Records
Genere musicale: Hard Rock Voto: 7,5
Tipo: CD Sito web: http://www.hanoi-rocks.net
Membri band:

Michael Monroe – voce, sassofono, armonica

Andy McCoy – chitarra

Nasty Suicide – chitarra

Sam Yaffa – basso

Gyp Casino – batteria

Tracklist:

  1. Tragedy
  2. Village Girl
  3. Stop Cryin’
  4. Don’t Never Leave Me
  5. Lost In The City
  6. First Timer
  7. Cheyenne
  8. 11th Street Kids
  9. Walking With My Angel
  10. Pretender
Category : Recensioni
Tags : Album del passato, Hard Rock
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16th Ott2012

Mr. Bopp And The S.Matt Family – Still The Same…

by Gianluca Scala

Noi lo sapevamo già, là fuori ci sono ancora band che sanno benissimo cos’è il buon vecchio rock’n’roll. I Mr Bopp & The S.Matt Family sono una di quelle, e lo sanno così bene che hanno pure contaminato il loro sound con del sano rock sudista, e il saper scrivere anche delle grandi canzoni ha completato l’opera. Questa è la doverosa introduzione per spiegarvi in tre righe cosa sono stati capaci di fare questi ragazzi con il loro debut album, sfornando nove brani bellissimi. L’album è autoprodotto, scritto dal leader Mr. Bopp che ha firmato tutti brani arraggiandoli con il resto del gruppo; dopo avere ottenuto un contratto con la romana Revalve Records si sono visti ristampare il lavoro con l’ausilio di una miglior distribuzione, cosa non da poco considerando che il gruppo si è formato nel 2008 e che aveva già pubblicato questo Still The Same… senza la spinta di nessuno. Loro sono originari di Alba Adriatica,  piccolo centro in provincia di Teramo, anche se musicamlente sembrano cresciuti negli States. Welcome To The Show, il titolo non poteva essere più appropriato di così, mette in chiaro fin dalle prime battute del brano che i Mr.Bopp & S.Matt Family non scherzano affatto, con quella chitarra slide che introduce il tutto nel migliore dei modi con un giro di accordi che ti avvolgono in un caloroso abbraccio amichevole. Ogni brano è ben interpretato dalla band e non ce ne è uno che non ti prenda per la gola dal primo momento: Be Yourself ha un attacco che ricorda molto da vicino gli AC/DC con in più quegli innesti di chitarra solista che ben legano il tutto, molto bello anche il chorus del brano che si sposta su binari più orientati al moderno rock americano e se avete apprezzato gli ultimi due lavori dei Poison sapete a cosa ci riferiamo.

Stessa cosa si riscontra quando parte Nobody, altro brano di buon hard rock che vi farà battere per bene il piede. Mano a mano che prendiamo confidenza con le canzoni ci si accorge che il feeling che trasmettono certi ritornelli ti riportano indietro nei magici anni dove il nostro amato genere musicale spadroneggiava nelle chart di mezzo mondo. In questo caso canzoni come Cold Tears, Hey Man e Lucky Boy vi faranno venire i brividi tanto sono belle, e questo lo diciamo senza esagerare. Durante la lavorazione del disco hanno partecipato diversi musicisti abruzzesi, tutti accomunati dalla stessa passione per quel rock americano sanguigno e genuino. Bad Dog sembra uscita da un album dei Cinderella con un ritornello un pò più sleazy degli altri che si avvicina anche a quanto proposto dai Faster Pussycat. In quasi tutti i brani l’armonica a bocca non sta zitta un attimo e la cosa non può che fare piacere agli amanti di queste sonorità, anche se è la chitarra a fare la padrona di casa e che ben si accosta alla voce calda di Alex Bopp. L’ultima traccia dell’album è anche la più rilassata, visto che per il resto del tempo la band “rocckeggia” molto bene e dimostra di avere gli attributi di una vera rock band.

Quindi non ci resta che aggiungere che a noi questo Still The Same… è piaciuto anche parecchio e che farà la felicità di molti estimatori del caro vecchio rock’n’roll.

Autore: Mr. Bopp And The S.Matt Family Titolo Album: Still The Same…
Anno: 2012 Casa Discografica: Revalve Records
Genere musicale: Hard Rock Voto: 7,5
Tipo: CD Sito web: http://www.boopandfamily.com
Membri band:

Mr. Bopp – voce, chitarra

Luca Riga – basso

Igor Piccioni – batteria, voce

Tracklist:

  1. Welcome To The Show
  2. Be Yourself
  3. Nobody
  4. Cold Tears
  5. Hey Man;
  6. Lucky Boy
  7. Bad Dog
  8. Help Somebody
  9. Dreamer
Category : Recensioni
Tags : Hard Rock
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11th Ott2012

Van Halen – 5150

by Giancarlo Amitrano

Dopo il successo planetario di 1984, arriva anche per il gruppo statunitense il momento di pagarvi il giusto dazio: l’insofferenza ormai palese di “Diamond” Dave Lee Roth nei confronti del chitarrista raggiunge, come nelle migliori famiglie, livelli insostenibili che inducono il singer a cambiare aria ed a intraprendere di lì a poco un’alternante carriera solista. Non si scoraggia il leader, pur perplesso di fronte alle nuove linee sonore da intraprendere. Viene reclutato allora il “rosso” per eccellenza in ambito musicale: Sammy Hagar, reduce da fortunate collaborazioni da turnista (da menzionare tra le altre il progetto HSAS, con Hagar, Schon, Aaronson e Shrieve). Consapevole che il periodo di “baldoria” musicale di Roth è ormai alle spalle, il gruppo riassembla e rimodula la sua tecnica compositiva e strumentale sulla falsariga delle corde vocali di Hagar, certamente più tecnico e dotato di maggior range sonoro del suo forse più carismatico predecessore. La stesura di 5150 prende così forma negli omonimi studios di proprietà del chitarrista, che già dalla opener-track prende per mano il gruppo e lo consegna al microfonato Hagar che da par suo rivolta come un calzino l’approccio sonoro della band con i suoi virtuosismi, che consentono all’axeman di liberarsi del peso anche compositivo dei brani e dedicarsi nuovamente all’aspetto tecnico recentemente posto in secondo piano dalle performances istrioniche di Roth. Approccio completo quello del chitarrista, anche nell’uso dei sintetizzatori, oggetto della discordia tra i fan: ma con Why Can’T This Be Love il loro uso non viene disdegnato, se viene messo sul piatto di una potenziale top-hit da consegnare alla memoria storica della band. La voce di Hagar è cartavetrata al punto giusto, il riff puntuale e preciso arriva al momento opportuno e persino i cori, da sempre, componente fondamentale nell’economia del gruppo, sono mirabili nel completare l’estensione vocale del singer.

Get Up costituisce una pesante zavorra del passato del leader del gruppo: forse inconsapevolmente, paga il suo debito di riconoscenza a Roth nell’interpretazione del brano che contagia anche Hagar in una trasposizione più “teatrale” del testo, pur con gli ovvii distinguo del caso. Il maggior tasso tecnico del rosso crinito non risente del naturale paragone con il suo plateale predecessore, stante il contesto più solido nella stesura dei brani, scritti a piene mani anche con la sua fattiva collaborazione. La metamorfosi del chitarrista e la sua “adesione” al nuovo è compiuta: Dreams ne è testimonianza diretta e pregnante. Sintetizzatori a iosa e nella fase introduttiva del brano e nel bridge centrale di esso, che quasi non lascia spazio all’interpretazione di Hagar, punto nell’orgoglio tanto da sfoderare una serie di acuti lancinanti da autentico “screamer” dell’epoca (ricordiamo essere nel pieno dei favolosi anni ottanta). Sino alla fine del brano, l’autentico protagonista è certamente il singer che varia su tutta la scala pentatonica onde consentire al pezzo di confermare il rinnovato binomio Hagar/Van Halen e non, come sarcasticamente all’epoca malignato, VAN HAGAR! Anche il nuovo cantante, tuttavia, non rinuncia al piacere di una sana ballad all’interno del disco, tanto per far capire che lui non è da meno nella sua eventuale composizione.

Best Of Both Worlds si attaglia alla perfezione al nuovo arrivato: la tendenza a salire subito di un’ottava nella resa vocale viene in questo caso opportunamente attenuata anche dalla complessità del brano, ballad o meno che sia, in quanto la sei corde tende ad accentrare con il suo lavoro il cantato rigorosamente roco del singer, di modo che anche il ritornello centrale risente di questo ennesimo agonismo tra voce e sei corde, appiattendo in alcuni frangenti la pur valida stesura del brano. Ci riconciliamo, tuttavia, con tutto il resto del disco con la gemma in esso presente dal titolo Love Walks In, un arcobaleno disegnato con perfezione dal quartetto che raggiunge qui una delle vette massime. Ancora synth a far da padroni, ma insieme ad una sei corde nuovamente ispiratissima come da anni non accadeva, e soprattutto una prestazione vocale letteralmente da urlo e una sezione ritmica che nella sua battuta rasenta la perfezione. Cosa aggiungere inoltre al riffone centrale che consacra ancora il chitarrista alla storia? Tutto il pentagramma delle note viene percorso dall’ascia in pochi secondi alla velocità della luce, con distorsioni, tapping e quant’altro si possa ascoltare da orecchio umano. Il cuore dell’album è proprio qui, alla traccia 6 del disco, in tutti i suoi quasi trecento secondi…Il dittico finale nulla toglie e nulla aggiunge: la title-track è un mero esercizio stilistico che tuttavia porta legna in cascina all’economia della band, specie per il mercato d’oltreoceano, sempre attento alle proposte di genere.

Inside è un bel brano nel suo insieme: il periodo di addestramento del singer è ormai terminato se è vero come è vero che è lui ad incarnare l’essenza attuale del gruppo. I fratelli Van Halen sono ispirati ognuno per quanto di ragione ed anche il sottovalutato Anthony regge bene il confronto con altri quotati bassisti dell’epoca. Infatti con il suo lavoro preciso e cadenzato che anche in questo brano si caratterizza dimostra di non meritare ciò che di lì a qualche anno la sorte (musicale) gli riserverà. Il singer, dal suo canto, prosegue invece per la sua strada, che condurrà la band ad altre proposte di varia interpretazione e che susciteranno ancora polemiche infinite tra puristi della prima ora che mal digeriscono lavori come questo, ed altra frange meno oltranziste che concordano sulla nuova linea sonora oramai intrapresa.

Autore: Van Halen Titolo Album: 5150
Anno: 1986 Casa Discografica: Warner Bros
Genere musicale: Hard Rock Voto: 7
Tipo: CD Sito web: http://www.van-halen.com
Membri band:

Sammy Hagar – voce

Eddie Van Halen – chitarra

Michael Anthony – basso

Alex Van Halen – batteria

Tracklist:

  1. Good Enough
  2. Why Can’t This Be Love
  3. Get Up
  4. Dreams
  5. Best Of Both Worlds
  6. Love Walks In
  7. 5150
  8. Inside
Category : Recensioni
Tags : Album del passato, Hard Rock
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07th Ott2012

Perfect View – Hold Your Dreams

by Gianluca Scala

Chi ci segue dagli inizi sa che noi di RockGarage abbiamo sempre avuto un occhio di riguardo verso le band emergenti, ma sopratutto possiamo vantare il fiuto e la competenza per accorgerci quando una band che suona un qualsiasi genere legato al rock e al metal in generale sia davvero promettente e valida su tutti i fronti. Quindi fidatevi di noi quando come in questa occasione vi presentiamo una delle nuove promesse dell’ hard rock melodico italiano, i Perfect View, una band nata nel 2008 e che due anni dopo ha dato alle stampe il suo album di debutto Hold Your Dreams, lavoro che ha il pregio di essere uno dei dischi più belli in assoluto pubblicati in Italia negli ultimi anni, promosso da ben otto etichette discografiche (Frontiers Records per l’Italia) e prodotto dall’esperto Roberto Priori, il che per il genere proposto è un’assoluta garanzia. Vi chiederete quindi come sia il loro debut album e ve lo diciamo in una sola parola: un piccolo capolavoro.Un buon disco di hard rock melodico che contiene dodici gemme musicali che farete fatica a farne a meno fin dal primo ascolto.

La band composta da cinque elementi suona a pieno regime ed è in possesso di una tecnica davvero notevole, ottimi gli innesti di tastiere ad opera di Pier Mazzini, mentre la sezione ritmica formata da Luca Ferraresi e Frank Paulis crea il tappeto sonoro adatto ad accompagnare in maniera egregia la chitarra di Francesco Cataldo. Brani di una bellezza cristallina come la seconda traccia Closer che possiede un chorus eccezionale e dove la band fin dalle prime battute dimostra di avere tanta tecnica e di possedere l’esperienza necessaria  per riuscire  a far bene. Stessa cosa la si può dire anche per i brani successivi One More Time e Believe, davvero notevoli a livello compositivo. Un brano come Run, che parte con un rombo di motocicletta, lascia intendere che l’argomento trattato dalle lyrics sia quello che riguarda il mondo dei bikers, altro piccolo high light. Don’t Turn Away sembra uscita da un album dei Mr. Big mentre la title track con quelle tastiere iniziali vi porterà in paradiso spalancando la porta d’ingresso, altra grande song. Il brano che merita la palma d’oro come migliore dell’intero lotto è la bellissima ballad Reason To Fight, praticamente perfetta sotto ogni punto di vista.

Non c’e’ una canzone che abbassa i livelli qualitativi, la voce del singer Massimiliano Ordine è l’arma in più di questo gruppo di musicisti che non faranno fatica a diventare i vostri nuovi beniamini del rock melodico. Molte le influenze che hanno aiutato a creare il sound molto originale dei Perfect View, dalle note biografiche si evince che gruppi come i Whitesnake, Dokken, Toto, Journey e Queensryche hanno contribuito non poco alla nascita di questo grandissimo progetto che sicuramente farà molta strada, avete la nostra parola.

Autore: Perfect View Titolo Album: Hold Your Dreams
Anno: 2010 Casa Discografica: Avenue Of Allies Music
Genere musicale: AOR, Hard Rock Voto: 8,5
Tipo: CD Sito web: http://www.perfectviewtheband.com
Membri band:

Massimiliano Ordine – voce

Francesco Cataldo – chitarra, voce

Frank Paulis – basso

Pier Mazzini – tastiere, voce

Luca Ferraresi – batteria

Tracklist:

  1. A Better Place
  2. Closer
  3. One More Tme
  4. Believe
  5. A Reason To Fight
  6. I Need Your Love
  7. Run
  8. Don’t Turn Away
  9. Hold Your Dreams
  10. Showtime
  11. Speed Demon
  12. Where’s The Love
Category : Recensioni
Tags : Hard Rock
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06th Ott2012

Television 60’S – Celebr_hate

by Giancarlo Amitrano

Italia violenta: parafrasando il titolo di un celebre “poliziottesco” anni 70’ presentiamo questa nuova proposta italica che promette sorprese sin dal primo ascolto. Non vogliono essere fautori di nessuna novità, non vogliono essere i nuovi profeti musicali e non intendono autoincensarsi, desiderano solo spararci in volto…con il loro sound aggressivo, potente, sporco ed irriverente come nei migliori/peggiori bassifondi newyorchesi. L’opening-track si mette subito al lavoro: con un riffone inziale inatteso e potente, il quartetto sbriga subito la pratica affidatagli imbarcandosi su di un giro di basso solido e deciso, mentre il cantato ci propone le regole del “perfetto maleducato”, con una sezione ritmica potente e ben modulata nel tenere il tempo del brano. L’assolo finale viene ben supportato dalla ritmica della seconda chitarra, che prelude all’esplosione finale di uno dei migliori brani del disco, mentore davvero di Bad Behaviours. Generation è il manifesto ideale di una protesta studentesca anni 60’: urlare il testo in maniera fine a sé stessa non porta da nessuna parte, ed allora la band ci innesta su una magica combinazione della sei corde con il cantato invero pulito a dispetto della materia grezza esposta, stante come detto il disinteresse del gruppo nel porsi in maniera pulita e perfettina. Una rivelazione, Don’t Call Back, è l’intenzione del gruppo di mostrarsi “buono” pagando un doveroso dazio a band storiche che tra le righe del prezzo rinveniamo senza meno negli AC/DC della gloriosa “Scott-era”, ma anche negli stradaioli, come e peggio di loro, Motley Crue. Questo specialmente nella impostazione del pezzo, davvero gradevole sia pur di breve durata, tuttavia il quartetto riesce ancora a comunicare il suo verbo festaiolo e godereccio su tematiche comunque di buon impatto sonoro ed anche molto ben arrangiate.

Sex Circus scuote le fondamenta sin dalle prime note: buono il cantato, ottimo il drumming che si rivela abile in repentini cambi di tempo, mentre la sei corde inanella le sue quartine senza perdere un colpo, aiutata validamente dal basso davvero perforante che dosa bene i suoi interventi. Il ritornello funge da spartiacque tra la fase iniziale, ben ritmata e modulata, e quella central/finale, dove la sei corde si libra in un assolo di rara intensità, amplificato dall’ossessivo refrain. Un’inattesa linea melodica ci presenta Seek Salvation, Find Damnation: per farci apprezzare anche le loro capacità tecniche, la band sciorina un lento iniziale che pare indulgere alla gentilezza ma a scanso di equivoci, dopo pochi secondi veniamo nuovamente catapultati all’inferno con il singer mefistofelico nella sua proposta sonora volutamente rallentata, ma che evidenzia bene le sue doti di “screamer” opportunamente microfonato a mezzo di validi distorsori della voce che conduce per mano al lungo solo finale che dirada con decisione e voluta lentezza. Per il godimento dei nostri condotti uditivi, proseguiamo su questa falsariga di ultraviolenza con Get Wasted: la caleidoscopica personalità del quartetto non lesina anche puntate in altri generi musicali. Una venatura prettamente punk anima il brano in questione, mentre clamorosamente sembra di rimembrare tra i solchi del pezzo un altro brano-leggenda dei canguri australiani di cui sopra (qualcuno riesce a scoprirlo?).

Davvero notevole la improvvisata jam di metà brano in cui al cantato molto “trippato” si unisce la sei corde che pare avvicinarsi al muro del suono con il suo solo finale, ad arte stoppato al momento giusto. La cavalcata prosegue con un altro brano di grosso spessore, Messaline, il tributo all’hard classico, senza fronzoli, in tutti i suoi stilemi. In meno di quattro minuti annotiamo la pulizia del cantato, la solidità della sezione ritmica e la precisione della sei corde, che pare aleggiare in maniera molto pericolosa all’interno del pezzo, pronto ad esplodere da un momento all’altro. Il tutto che puntualmente accade con il durissimo solo centrale, che continua a dipingere archi e distorsioni sonore, improntate esclusivamente a sorprenderci anche con il refrain ora davvero urlato ai quattro venti e che ci induce davvero ad infischiarcene di commenti poco benevoli al loro stile di vita, se riescono a farci emozionare. Anche con il brano conclusivo, la magia si ripete: con la title-track, la band si congeda nel miglior modo possibile con atmosfere in piena epopea metal. Il gruppo si esalta nella proposta sonora, con un giro di basso davvero notevole e l’ascia che pare oramai (di) partita per lidi celesti nella sua esaltazione. Il singer non intende essere da meno, intento com’è a caricare su sé tutto il peso del brano, rendendocelo cartavetrato, stentoreo e drammatico nella fase centrale, in cui è protagonista assoluta la sei corde, che davvero induce a celebrare la più che valida fatica discografica del quartetto, egregiamente testimoniata dal brano non a caso più lungo del disco.

Un disco che speriamo non resti episodio isolato, ma preluda anzi ad altre fatiche di tale intensità emotiva come quella scaturita da Celebr-hate.

Autore: Television 60’S Titolo Album: Celebr_hate
Anno: 2012 Casa Discografica: Street Symphonies Records
Genere musicale: Hard Rock Voto: 7
Tipo: CD Sito web: http://www.myspace.com/television60s
Membri band:

Mikki – voce, basso

Frizz – chitarra

Mark– chitarra

Cioxxx – batteria

Tracklist:

  1. Bad Behaviours
  2. Generation
  3. Don’t Call Back
  4. Sex Circus
  5. Seek Salvation, Find Damnation
  6. Get Wasted
  7. Messaline
  8. Celebr-hate
Category : Recensioni
Tags : Hard Rock
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