• Facebook
  • Twitter
  • RSS

RockGarage

      

Seguici anche su

        Il Rock e l'Heavy Metal come non li hai mai letti

  • Chi siamo
  • News
  • Recensioni
  • Articoli
  • Live Report
  • Foto Report
  • Interviste
  • Regolamento
  • Contatti
  • COLLABORA
02nd Apr2020

Pearl Jam – Gigaton

by Giuseppe Celano
Capita spesso che più altisonante è il titolo di un’opera minore sarà la qualità del suo contenuto. Una premessa necessaria per questo nuovo lavoro dei Pearl Jam uscito durante il picco della tempesta sollevata dal corona virus che oggi sta flagellando anche l’America di Trump. I Pearl Jam sono una band capace d’emozionare ancora dal vivo, in studio invece una certa stanchezza affiora ormai da più un decennio pieno. Come per i precedenti ultimi tre capitoli, anche Gigaton non fa eccezione, avvolto da luci e ombre e affidato a molte ballad, alcune inutili (Alright e Seven O’Clock), a cui si sommano i due i singoli, uno indifendibile (Superblood Wolfmoon), il secondo (Dance Of The Clairvoyants), sebbene lontano dalle corde della band, funziona sfruttando una formula che richiama alla mente Queen e Talking Heads. In alcuni passaggi giocano a fare gli Who (Never Destination) mentre in altri fanno il verso a se stessi citando e anche Hendrix (Quick Escape, in cui Mike durante gli assoli dà fondo a ribattute, bending e wah-wah). La scelta di rimanere saldamente ancorati al proprio passato, i maligni diranno “comodamente seduti”, tradiscono il progressivo impoverimento della vena creativa ormai inarrestabile. Chi ne esce meglio invece è Eddie Vedder, alto nel mixer, ancora in forma del solito e capace di buone melodie andando a sacrificare quell’approccio più punk del canto.

Al giro di boa il lavoro perde man mano mordente, il quintetto abbassa i toni rifugiandosi in armonie lineari e innocue come un vento che si trasforma man mano in una brezza fredda e fastidiosa. Il lavoro va a chiudersi con l’organo spalmato su River Cross, l’ennesima ballad che contiene una palese invettiva contro Trump. La produzione è di Josh Evans, subentrato a Brendan O’Brien presente come ospite nel disco. Per contenuti, testi e messaggi, Gigaton è un disco indignato, ricco di dolore, contraddizioni ma speranzoso. Oggi i Pearl Jam sono così, scossi da continui dubbi e fluttuazioni interne, alla continua ricerca di nuove evoluzioni che al momento non hanno ancora individuato. Dopo il singolo Dance Of Clairvoyants, arricchito da ritmica funk e manipolazioni affidate ai synth, si era sperato in un cambio radicale, sicuramente molto rischioso, ma la band ha preferito optare per piccoli dettagli restando ben fedele al proprio passato le cui radici sono profondamente ancorate all’hard rock. Peccato perché quella del rinnovo, intrapresa in un unico brano confinato a se stesso, sembrava una buona strada da percorrere.

In molti, nei mesi precedenti all’uscita di questo lavoro, avevano sperato in una rinascita dalle ceneri, come una fenice insomma. La verità è che i Pearl Jam non hanno avuto il coraggio di fare ciò che il rock richiede, una muta, ricadendo nello stesso errore, quello di ripetersi con formule che dal vivo sicuramente funzioneranno come schiacciasassi ma che nulla aggiungono al songwriting. Gigaton è un album dignitoso, aggettivo che va a cozzare con il termine rock, ma tant’è. Scegliere di ascoltarlo o no sta a voi (l’ardua sentenza).

Autore: Pearl Jam Titolo Album: Gigaton
Anno: 2020 Casa Discografica: Monkey Wrench / Republic
Genere musicale: Grunge Voto: 6
Tipo: CD Sito web: https://pearljam.com
Membri band:
Eddie Vedder – voce, chitarra
Stone Gossard – chitarra
Mike McCready – chitarra
Jeff Ament – basso
Matt Cameron – batteria
Tracklist:
1. Who Ever Said
2. Superblood Wolfmoon
3. Dance Of The Clairvoyants
4. Quick Escape
5. Alright
6. Seven O’clock
7. Never Destination
8. Take The Long Way
9. Buckle Up
10. Comes Then Goes
11. Retrograde
12. River Cross
Category : Recensioni
Tags : Grunge, Pearl Jam
0 Comm
20th Gen2020

Gigaton: il nuovo album dei Pearl Jam

by Marco Braghini
Dopo quasi sette anni di attesa (Lightning Bolt – 2013), il 27 marzo 2020 è in uscita Gigaton, nuova produzione dei Pearl Jam con Josh Evans. Con questo disco, targato Universal Music Group, disponibile in pre-ordine su pearljam.com, la band di Seattle vuole richiamare l’attenzione dei fan sull’emergenza del surriscaldamento globale. Il “gigatone” è infatti l’unità di misura, che corrisponde ad un miliardo di tonnellate, utilizzata in climatologia per quantificare il distacco dei ghiacci. Per la copertina dell’undicesimo album in studio, hanno optato per “Ice Waterfall”, fotografia di Paul Nicklen. Il noto fotografo, regista e biologo canadese, attraverso questo scatto, ha voluto immortalare la calotta di ghiaccio dell’isola di Nordaustlandet, in Norvegia, dalla quale fuoriescono impressionanti quantità d’acqua di disgelo.

Il primo singolo estratto da Gigaton sarà Dance Of The Clairvoyants e verrà reso disponibile in streaming dal 21 gennaio. Nel frattempo la rock band ha inviato, a ciascun iscritto del Ten Club, il titolo di un pezzo contenuto nel disco, chiedendo di condividerlo su instagram. Grazie alle condivisioni è stato possibile ricostruire la tracklist che potete leggere di seguito:

Dance Of The Clairvoyants
Alright
Who Ever Said
Never Destination
Superblood Wolfmoon
River Cross
Buckle Up
Take The Long Way
Retrograde
Quick Escape
Seven O’clock
Comes Then Goes

Il 2020, oltre a sancire il ritorno discografico dei Jam, celebra i trent’anni di attività del gruppo. Durante l’imminente tour, da poco annunciato, Eddie Vedder e compagni si esibiranno anche in Italia, all’ Autodromo Internazionale Enzo e Dino Ferrari di Imola, il 5 luglio, quando saliranno sul palco accompagnati dai Pixies.

Category : Articoli
Tags : Pearl Jam
0 Comm
12th Ott2013

Pearl Jam – Lightning Bolt

by Giuseppe Celano

Dopo tanta attesa eccoci di fronte al nuovo disco dei Pearl Jam, Lightning Bolt esce in questi giorni, ve lo anticipiamo con questa recensione che andrà a descriverne luci e ombre. I capi d’accusa che pendono sui Pearl Jam sono tanti. Sono colpevoli innanzitutto di aver licenziato nell’ultimo periodo quattro dischi abbastanza discutibili. Rei di aver sfruttato tutto l’appeal possibile con Mind Your Manners e Sirens, due singoli molto deboli e infine di aver perso una buona parte di fan, disillusi dalle loro ultime produzioni. In questi casi che opzioni ha una band di tale portata? Semplice, i P.J. si sono ritrovati a un bivio, le possibili vie erano due: la prima percorribile solo se si ha ancora fame e ispirazione. La seconda è tornare sui propri passi mirando a una produzione asciutta ma funzionale alle necessità commerciali. Lo step successivo è scrivere canzoni dirette, di grana punk rock ma che nei fatti lambiscono solo parzialmente questo genere musicale. Hanno optato per la seconda scelta. Tradimento? No, semplice adattamento, non è il più forte a vincere ma quello con più capacità d’adattamento. L’aria che si respira in quest’ora scarsa di musica è simile a quella condizionata: è fresca ma non è assolutamente pura perchè viziata da molti fattori, alcuni incontrovertibili come l’età che avanza, altri legati alla scelta di stucchevoli soluzioni melodiche.

È quasi incredibile, ma altrettanto prevedibile, che i P.J. abbiano licenziato il singolo Sirens, il cui chorus è piatto e l’assolo è scopiazzato malamente da Living Wreck dei Deep Purple, anche nella scelta degli effetti applicati alla chitarra. Ci si ritrova titubanti di fronte all’opener Gateaway (più che un tuffo nel rock sembra una fuga, da cosa decidetelo voi), cavalcata dritta che nulla toglie o aggiunge al ruolino personale della band. La dose è rincarata da Mind Your Manners, per cui vale il discorso del bivio, un pezzo punkeggiante che rischia, paradossalmente, di essere uno dei pochi da salvare. Nelle intenzioni regge ma di spinta necessaria e piglio combat(rock)tivo per risultare scomodo. Con My Father’s Son il combo inizia a scrollarsi di dosso la propria ombra infilando un brano distante qualche galassia dalle loro corde. È rock psichedelico su cui le chitarre allungano gli accordi tentando di artigliare fantasmi lisergici, mentre il bridge irrompe spostando l’attenzione su scenari altri…sinceramente era ora! Il lasso di tempo è breve, Sirens partorita dopo un concerto di Roger Waters (non crediamo che il nostro psicotico preferito ne sarebbe contento) sfrutta una melodia così catchy da scomodare Nickelback e Bryan A(d)dams, in un aggettivo: grottesca. Anche l’assolo di McCready lascia spiazzati, il resto lo fa il pianoforte contrapposto alla voce di Eddie che, non pago dello scempio armonico, abusa di falsetto e cori (permessi solo ai Red Hot Chili Peppers). Le liriche scoperchiano definitivamente il vaso di Pandora: “Just to know we’re safe, I am a grateful man this light is pit, alive and I can see you clear, oh, I could take your hand, and feel your breath, for feel that someday will be over I pull you close, so much to lose”).

La titletrack è quanto di più spudoratamente “pearljam” si possa trovare in un loro disco, assomiglia a tutti i loro classici e a nessuno. Senza un carattere forte, da imprimersi indelebilmente nella memoria, la vediamo rimpicciolirsi nell’orizzonte della (nostra) memoria, ahinoi fallace. Proprio come successe all’Inaffondabile per antonomasia, andato a picco nel suo primo giorno di navigazione, lo stesso accade a Infallible, molto più che fallibile. Considerata la sua prolissità, se non fosse per la scialuppa di salvataggio Vedder, sarebbe un disastroso stillicidio. A risollevare le sorti di questo tiepido lavoro ci pensa Pendulum, buona fino all’arrivo dei soliti fastidiosi coretti, un vero castigo divino. Ottimo il lavoro etereo delle chitarre appena accennate, buona la batteria sepolta nel missaggio e il tono dimesso ma incisivo di Eddie, quì una spanna sopra tutti. I nostri antieroi permettono il lusso di una sortita nel rock blues di matrice auerbachiana, con tanto di ritmica incalzante e assolo immerso nel wah-wah hendrixiano per la gioia di Mick e dei suoi fan (Let The Records Play).

Yellow Man è mutuata dal rifferama iniziale di Low Light, poi cambia in ballata lenta e maestosa sui cui le chitarre cesellano note dal sapore cangiante, Eddie torreggia su tutto, forte di una buona forma vocale. Su toni pacati si chiude l’album, l’ ultimo respiro è affidato a Future Days: le solite chitarre acustiche danno il “la” alla festa su cui danza l’ugola sognante del singer raggiunto successivamente dal resto della band dando vita a un brano dal finale vincente. Dal vivo potrebbe svelare molti segreti gelosamente custoditi nei cuori di ogni anima posta all’ascolto infiammandone le ghiandole lacrimali che, libere dal peso della resistenza, potranno finalmente ammorbidire il viso tirato e teso dal dolore dell’attesa. In conclusione, Lightning Bolt suona innaturale. Se, teoricamente, riuscissimo a separare la voce del cantante dal resto dei musicisti, sostituendoli con altri di altrettanta bravura, non ci accorgeremmo della differenza. In questo disco c’è una sola certezza storica: la voce di Eddie Vedder, l’unico ancora credibile. Lucidi e tirati tanto d’abbagliare, i suoni ottengono paradossalmente l’effetto contrario, risultando appannati e fuori fuoco.

Se è il rock infuocato che agognate o addirittura un ritorno a casa del figliol prodigo non è a Lightning Bolt che dovrete volgere le orecchie. Qui di roccioso e fulmineo c’è solo il titolo, purtroppo per noi la band è ormai orientata verso la consolidazione di un impero che non si deve sgretolare, ne andrebbe del loro futuro. Dal vivo sarà tutt’altra storia, come puntualmente succede da dieci anni a questa parte.

Autore: Pearl Jam Titolo Album: Lightning Bolt
Anno: 2013 Casa Discografica: Monkeywrench, Republic
Genere musicale: Rock Voto: 6
Tipo: CD Sito web: http://www.pearljam.com
Membri band:

Eddie Vedder – voce

Stone Gossard – chitarra

Mick McCready – chitarra

Jeff Ament – basso

Matt Cameron – batteria, percussioni

Tracklist:

  1. Getaway
  2. Mind Your Manners
  3. My Father’s Son
  4. Sirens
  5. Lightning Bolt
  6. Infallible
  7. Pendulum
  8. Swallowed Whole
  9. Let The Records Play
  10. Sleeping By Myself
  11. Yellow Moon
  12. Future Days
Category : Recensioni
Tags : Pearl Jam
0 Comm
01st Lug2013

Pearl Jam – Live On Ten Legs

by Giuseppe Celano

Tredici anni dopo i Pearl Jam tornano sul luogo del delitto con un secondo live le cui caratteristiche strutturali e il titolo sono quasi identiche al suo predecessore. Si parte con Arms Adrift, brano di Joe Strummer And The Mescaleros, bissato da World Wilde Suicide, impregnato di rabbia e carica punk. Mick sciorina una serie di note deformate dal wah-wah mentre l’inarrestabile Matt Cameron continua a percuotere, oltre alle pelli, le orecchie dei presenti. Animal è in versione devastante, sfrutta potenza e agilità, la struttura è tenuta insieme dal collante Vedder, un mostro assoluto nella sua interpretazione anfetaminica. A differenza del capitolo precedente, questo live si basa sull’ultimo periodo preferendo l’inclusione di brani veloci che lasciano senza respiro (Got Some). La band viaggia a nervi tesi (State Of Love And Trust) mostrando un piglio punk riottoso come non accadeva dai tempi di No Code. È solo a quota sei che la tensione si stempera con I Am Mine le cui chitarre acustiche citano le atmosfere di Led Zeppelin III. Sorvolando sulle trascurabili Unthought Known e The Fixer ci si ritrova di fronte al cavallo di battaglia Rearview Mirror. Psichedelicamente modificato e abilmente dilatato, il brano si prende tutto il tempo necessario prima dell’esplosione finale in cui l’ugola di Vedder viene spinta al limite del gutturale. Si pesca a piene mani dal 2003 al 2011 celebrando i vent’anni della band che, nonostante le due decadi, mantiene una forma invidiabile. Testimone ne è Nothing As It Seems, ballad lacerante, ulteriore dimostrazione di come si scriva una grande take. Il tutto è sostenuto dalle chitarre acustiche di Gossard e dalla sei corde, mai troppa elogiata, di McCready.

Just Breath, (un suggerimento al pubblico in apnea?) con il suo arpeggio delicato e la voce cristallina di Vedder, abbassa i toni prima di Jeremy. Maestri nel creare saliscendi emozionali e montagne russe attraverso scalette ben studiate, i Pearl Jam infilano due dritti da KO con Public Image e Spin The Black Circle, rivendicando le loro origini profondamente legate al punk. Superfluo, ma non importa, dire che ogni versione di Black, con il lavoro d’alta manifattura chitarristica di McCready, è sempre un’emozione unica. Yellow Led Better è strutturalmente mutuata dalle note di Little Wing di Hendrix, chitarrista faro per Mick che probabilmente ha una specie di santuario con le sue gigantografie, in cui prega prima di esercitarsi e di dormire la notte. L’atmosfera di quest’ultima traccia è gioiosa e chiude con allegria una grande festa, fatta di fan che in realtà poi sono amici di una band mai arrogante o spocchiosa.

Sebbene non sia il loro miglior live (fra le registrazioni dei vari brani c’è un gap di quasi sette anni) quest’uscita è un’ottima raccolta. Le loro esibizioni non sono un’esaltazione del virtuosismo né del tecnicismo, nessuno si ritaglia un angolo per la propria gloria, ma tutti sono al centro del palco come deve essere una band, un unico corpo che respira rock rilasciando energia in uno scambio paritetico con gli astanti.

Autore: Pearl Jam Titolo Album: Live On Ten Legs
Anno: 2011 Casa Discografica: Epic Records
Genere musicale: Rock Voto: 7,5
Tipo: CD Sito web: http://www.pearljam.com
Membri band:

Eddie Vedder – voce

Stone Gossard – chitarra

Mick McCready – chitarra

Jeff Ament – basso

Matt Cameron – batteria, percussioni

Tracklist:

  1. Arms Aloft
  2. World Wide Suicide
  3. Animal
  4. Got Some
  5. State of Love And Trust
  6. I Am Mine
  7. Unthought Known
  8. Rearview Mirror
  9. The Fixer
  10. Nothing As It Seems
  11. In Hiding
  12. Just Breathe
  13. Jeremy
  14. Public Image
  15. Spin the Black Circle
  16. Porch
  17. Alive
  18. Yellow Ledbetter
Category : Recensioni
Tags : Pearl Jam
0 Comm
24th Giu2013

Pearl Jam – Live On Two Legs

by Giuseppe Celano

Sono passati quindici anni e questo live sembra fresco di giornata, la registrazione ancora attuale regge bene la sfida con il tempo. Per quanto riguarda le esibizioni live, i Pearl Jam portano avanti degnamente il pesante fardello lasciato loro dai Led Zeppelin. Come pretende la migliore tradizione dell’hard rock, i cinque sono una potente rock band da stadio, capace di superare abbondantemente le due ore per show disidratanti e al limite del collasso. Escludendo la massiccia campagna di pubblicazione dei bootleg, questo è un documento ufficiale che raccoglie molti dei loro brani più famosi. Assemblato con le migliori esecuzioni, estrapolate da vari show tenuti fra giugno e settembre, Live On Two Legs è il primo live ufficiale per i Pearl Jam. La formazione è sempre la stessa ma con l’aggiunta di Matt Cameron, instancabile sezione ritmica dei Soundgarden che, dopo lo scioglimento, si unisce ai cugini adattandosi perfettamente allo stile infiammabile dei nostri eroi. La tracklist spinge a dovere e i nuovi arrangiamenti esaltano alcuni elementi che in studio, per forza di cose, devono essere limati. Daughter, che ingloba parte del testo Rocking In A Free World (Neil Young) e W.M.A. s’ammanta di una nuova pelle psichedelica su cui il singer imprime il suo marchio di fabbrica. Il fuoco vocale è ancora intatto. Esempio ne è l’intensa Elderly Woman Behind The Counter Of A Small Town. Ma è grazie a brani come l’istintiva Go e la torrida Even Flow, su cui il lavoro di basso e batteria sostengono il buon McCready, che arriva il meglio. Il chitarrista fa sognare l’ascoltatore con un lungo solo ricco di wah-wah e feedback. Il suo stile è palesemente mutuato da Jimi Hendrix, più che un omaggio è una vera dichiarazione d’amore per il mancino di Seattle.

Off He Goes, eseguita magistralmente dalla band, è affiancata dalla lasciva Red Mosquito e dalla sognante Nothing Man. Il trittico spazza via qualunque dubbio grazie al tiro alto di Vedder che sfoggia tutto il range dinamico della sua potente ugola, alternando parti più aggressive a passaggi melodici. La sua performance la dice lunga sull’esperienza accumulata in questi anni (Do The Evolution). Che lo si voglia accettare o no, è chiaramente con Black che la band raggiunge lo zenith affidando il tutto al canto lacerante di Eddie e alla chitarra mai paga di Mick. La scelta delle note, il gusto per l’armonia e la precisione esecutiva, di questo poliedrico chitarrista, s’accoppiano in un’orgia estatica dando alla luce un orgasmo che coinvolge tutti i sensi.

Sebbene la freschezza e l’istinto dei primi live sia andato man mano scemando lasciando spazio a una perizia tecnica indiscutibile, Live On Two Legs non è un semplice riempitivo, né un feticcio per collezionisti. È una testimonianza per tutti coloro che in un modo o nell’altro non hanno mai avuto la possibilità di vederli in azione. Se è vero che lo spessore di una band si misura sul palco senza gli artifici dello studio, allora i Pearl Jam superano di gran lunga la prova dimostrando di essere una formidabile macchina da guerra.

Autore: Pearl Jam Titolo Album: Live On Two Legs
Anno: 1998 Casa Discografica: Epic Records
Genere musicale: Rock Voto: 7,5
Tipo: CD Sito web: http://www.pearljam.com
Membri band:

Eddie Vedder – voce

Stone Gossard – chitarra

Mick McCready – chitarra

Jeff Ament – basso

Matt Cameron – batteria, percussioni

Tracklist:

  1. Corduroy
  2. Given To Fly
  3. Hail Hail
  4. Daughter
  5. Elderly Woman Behind The Counter Of A Small Town
  6. Untitled Track
  7. MFC
  8. Go
  9. Red Mosquito
  10. Even Flow
  11. Off he Goes
  12. Nothingman
  13. Do The Evolution
  14. Betterman
  15. Black
  16. Fuckin’ Up
Category : Recensioni
Tags : Pearl Jam
0 Comm
17th Giu2013

Pearl Jam – Pearl Jam Twenty

by Giuseppe Celano

Nel 2010 Cameron Crowe decide di girare un documentario sul mondo dei Pearl Jam. Muovendosi agilmente fra oltre 12.000 ore di filmati, Cameron racconta in modo chirurgico ma non asettico la nascita, l’ascesa e la consolidazione di una delle più importanti formazioni che il grunge vanta tutt’ora nel proprio giardino sonoro. Sono i protagonisti dai volti noti, Chris Cornell e Stone Gossard tanto per citarne alcuni, a raccontare questa rinascita del rock le cui radici sono saldamente affondate a Seattle. Con poche parole il regista racconta il suo primo impatto con la fredda e siderurgica città, l’immediatezza con cui la scena musicale e i giovani voraci di concerti di ogni tipo lo colpirono da subito. Su una cosa Cameron e tutti i protagonisti sono d’accordo: il fermento musicale di Seattle era completamente diverso da quello di Los Angeles e di qualunque altro posto. La brulicante scena di Seattle funge da prologo per il racconto di Cameron che sceglie liberamente, e per fortuna, di non procede in modo didascalico né cronologico, impastando presente e passato, privato e pubblico in un modo, passateci l’azzardo, vicino a David Lynch. Le immagini parlano più forte di qualunque verbo, vedere i primi passi dei Soundgarden che supportano i Green River (solo successivamente Pearl Jam) in un ambiente di sana competizione e cameratismo fanno davvero sognare. Possiamo affermare che è Andrew Wood a dar fuoco alle polveri. Il leader dei Mother Love Bone è un ragazzo pieno di energia vitale, pieno di carica positiva, istrionico e unico nel suo modo di incitare il pubblico. PJ20 è la storia di una grande famiglia, fatta di momenti indimenticabili e di dolorosi ricordi legati alla morte di amici fra cui lo stesso Wood. Lo shock provocato dalla sua morte per overdose ha messo in discussione la nascita stessa dei P.J.

Attraverso questa retrospettiva, forte di un montaggio efficace, Cameron ripercorre tutti i passaggi salienti della loro carriera. Dalla consegna del demo, su cui Eddie registrò la voce rispedendolo agli altri il giorno stesso, al consolidamento del loro status di band indi(e)pendente, prima che questo termine fosse violentato e privato della sua vera essenza. Si passa dalla battaglia contro il leviatano Ticketmaster per l’abbassamento dei costi dei biglietti al tristemente noto episodio di Roskilde (2000). Nove fan persero la vita, forse la tragedia personale più devastante che la band abbia mai dovuto affrontare. In mezzo scorrono i ricordi di vent’anni: dalla parentesi Temple Of The Dog, in memoria di Andrew Wood, all’incontro con il mentore Young che Eddie definisce simpaticamente zio Neil. Non mancano i dissapori, poi risolti, con il portavoce del grunge Kurt Cobain. A detta della stessa band le sue critiche li ha aiutati a non perdere di vista la propria meta, mantenendoli sulla retta via.

Quello che emerge da questo rockumentary è l’ingigantirsi della figura di Eddie. Vedder è un uomo (in)sofferente, incapace di “sedersi”, sempre pronto a mettersi in discussione, tanto da risultare molto scomodo per alcune sue uscite dure sul music-biz (MTV Awards). Il suo rapporto con la musica e i testi è una sfida continua, una lotta fra bene e male che non prevede un vero vincitore. Il continuo arrampicarsi su tutte le impalcature dei concerti è una metafora: raggiungere vette diverse, sempre più difficili, con lo stesso atteggiamento cristallino degli esordi, senza artifici né trucchi in quella sfida che è la (sua) vita. Il senso di appartenenza a una piccola famiglia, in continua crescita, è uno dei punti inamovibili della sua filosofia. La fama, il successo improvviso, l’arrivo di proposte commerciali ricche di trappole l’hanno messo sempre costretto alla virata inaspettata, a volte anche controproducente. Da qui il suo allontanamento emozionale e fisico dai compagni di viaggio che scelgono l’aereo per spostarsi mentre Eddie continua a mantenere un profilo basso, preferendo macinare chilometri su un furgone e tenendo un programma in radio. Nonostante la macchina dello star system li aveva puntati, ingoiandoli loro malgrado, i Pearl Jam l’hanno combattuta dall’interno come un virus sano. No Code e Vitalogy sono figli di tutto ciò. Eddie si apre completamente nelle liriche, le dinamiche interne cambiano e se dapprima era Gossard a comandare ora è il titano Vedder a prendere per mano la band portandola su lidi altri.

E così dopo due ore, in cui non appare un minuto di stanca, suddivisi in modo magistrale fra spezzoni di live più o meno conosciuti, interviste e interventi del pubblico, il DVD si chiude sulle note di Better Man (New York Maggio 2010) prima e Alive (Philadelphia, 30 ottobre 2009) . Mick McCready sfoggia l’assolo che è la quintessenza dell’hard rock seventies da cui la band proviene. Chitarra dietro la schiena nella migliore tradizione hendrixiana, wah-wah come se non ci fosse un domani e occhi chiusi impegnato a tradurre in note il dialogo con il dio della sei corde. Di contro i riff zeppeliniani forgiati da Gossard si ergono protesi verso una battaglia epica in cui gli astanti sono totalmente travolti (al minuto 4.42 la faccia di uno dei ragazzi ne è la prova fumante). Il caleidoscopico mondo creato da questa magica alchimia, i numerosi saliscendi emozionali da cardiopalmo, i pattern ritmici mutuati da John Bonham e gli attacchi al fulmicotone della voce di Vedder impongono una vittoria schiacciante dell’arte su tutte le polemiche dei detrattori più miopi. Un orizzonte non basta, ne servono cinque per deliziare le anime affamate che accorrono a ogni chiamata dei Pearl Jam.

Autore: Pearl Jam Titolo Album: Pearl Jam Twenty
Anno: 2011 Casa Discografica:   Columbia Records
Genere musicale: Rock Voto: 8
Tipo: CD Sito web: http://www.pearljam.com
Membri band:

Eddie Vedder – voce

Stone Gossard – chitarra

Mick McCready – chitarra

Jeff Ament – basso

Matt Cameron – batteria, percussioni

Tracklist:Documentario
Category : Recensioni
Tags : Pearl Jam
0 Comm
17th Set2012

Pearl Jam – Backspacer

by Giuseppe Celano

Per un attimo il disco comunemente denominato Avocado ci aveva fatto sperare in un moto di stizza, in un colpo di reni, in un ritorno d’orgoglio e vena creativa di questa grande band che sta inesorabilmente invecchiando. Come? Purtroppo né bene né male, lentamente si però. A differenza del precedente capitolo questo nono figlio di Vedder e soci risulta più classico e altrettanto prevedibile. Cosa manca? Le grandi canzoni, la forza prorompente e dirompente di quel rock che li ha resi grandi. Anche l’opener Amongst The Waves stenta a decollare, le manca la forza dei predecessori. Prima di sentire un po’ di elettricità, per altro abbastanza telefonata, bisogna attendere Gonna See My Friend, terza traccia dal piglio punk che nell’inciso muta verso qualcosa di strano, come un esperimento genetico mal riuscito. Il senso di stranimento è forte, non si capisce cosa passi per la testa dei cinque musicisti né dove si vuole collocare questo lavoro rispetto alla loro discografia. Ma su tutto non è chiara quale sia la loro direzione. Come sempre immaginiamo che dal vivo alcuni di questi pezzi perderanno la pettinatura da studio diventando nuovi cavalli di battaglia su cui la potenza di fuoco incrociata delle due asce incontrerà il favore della sezione ritmica scatenandosi come la furia degli elementi (Got Some). I Pearl Jam oggi sono immobili, “nessuna nuova buona nuova” direte voi, dipende dai punti di vista ma in questo caso non è cosi. Se il rock è sangue e muscoli, nervi tesi e affanno, se deve lacerare e dilaniare, se soprattutto deve portare con sé nuova linfa compositiva, che senso ha costruire un album così conservativo?

Conservazione di cosa poi? Non di certo del fulgido passato, perché siamo lontani anni luce dai tempo di VS e Vitalogy. Non basta ammiccare a sonorità accomodanti, tanto furbe da non farsi mollare dai vecchi fan e altrettanto buone da usare in tournée, per poter affermare che i Pearl Jam siano ancora nella ionosfera del rock. Backspacer culla invece di aggredire, allenta invece di stringere la morsa intorno al songwriting più tranquillo, pacifico oseremmo dire. Certo non si può rimanere incazzati tutta la vita, ma si può scegliere il silenzio optando per una produzione parca e ponderosa. Per quanto la matematica e le statistiche centrino poco con il rock e l’ispirazione, potremmo affermare che con la sommatoria dei brani migliori di quest’ultimo lavoro, insieme a Riot Act e Binaural, potremmo ottenere un solo disco decente.

In soldoni Backspacer contiene tutti gli elementi che hanno caratterizzato la carriera del combo di Seattle, ma tutti così bene allineati e sistemati al loro posto da far pensare a un disegno ben preciso, una fotocopia sbiadita a dire il vero. Quindi troviamo il pathos di Just Breathe, la ballata topica Speed Of Sound e il classico impeto punk, ma senza colpo ferire, di Supersonic. Meglio fa The End ma è davvero ben povera medicina se paragonata al resto delle track. A vederli oggi sembrano dei felici quarantenni che cercano di superare, in un terreno di gioco che non è più loro, Usain Bolt e il suo record da centometrista, un’impresa chiaramente impossibile. Hanno le idee e i mezzi tecnici ma non la forza né la fame per portarli a compimento. Il nostro augurio, nei loro confronti, è di riprendere il timone della loro produzione ormai saldamente nelle mani dell’impietoso tempo. Noi ci auguriamo di vederli dal vivo, unica dimensione in cui la band riesce a ottenere livelli d’eccellenza lontani anni luce per molti e irraggiungibili per altri.

Autore: Pearl Jam Titolo Album: Backspacer
Anno: 2009 Casa Discografica: Universal
Genere musicale: Rock Voto: 5,5
Tipo: CD Sito web: http://www.pearljam.com
Membri band:

Eddie Vedder – voce

Stone Gossard – chitarra

Mick McCready – chitarra

Jeff Ament – basso

Matt Cameron – batteria, percussioni

Tracklist:

  1. Gonna See My Friend
  2. Got Some
  3. The Fixer
  4. Johnny Guitar
  5. Just Breathe
  6. Amongst The Waves
  7. Unthought Known
  8. Supersonic
  9. Speed Of Sound
  10. Force Of Nature
  11. The End
Category : Recensioni
Tags : Grunge, Pearl Jam
0 Comm
10th Set2012

Pearl Jam – Pearl Jam

by Giuseppe Celano

Meglio. Sì, decisamente meglio delle loro ultime sfornate in studio. Ma potrebbero fare di più, lo sappiamo tutti, anche loro. Inutile recriminare sulla parabola discendente degli ultimi Pearl Jam, sarebbe troppo facile e scontato. A tre anni abbondanti dall’operazione Lost Dogs, i Nostri ci riprovano con l’ottavo album fatto di tredici brani nuovi di zecca. Cosa potremmo dire di una band che ha indelebilmente segnato gli anni novanta? Su che punti potremmo apostrofarli negativamente e su quali altri decantare le loro lodi? Sarebbe un’impresa impossibile da eseguire senza cadere nel banale o comunque senza dimostrarsi di parte. Ci limiteremo ai fatti o alla musica se preferite. I nuovi PJ suonano viscerali, sono ritornati a una dimensione cavernicola e primitiva. Via gli orpelli, solo punk e rock, sudore e sangue, polvere e macerie da cui probabilmente ricostruiranno la loro fortezza, o forse no, ma questo non importa ora. Non c’è più spazio, stavolta, per le sperimentazioni, la band opta per l’uso muscolare delle chitarre, riffano e arraffano i nuovi Pearl Jam. Si riempiono la bocca di assoli potenti e veloci (Life Wasted), ritirano fuori la melodia (Severed Hand). Con molta probabilità Vedder e soci hanno sentito la necessità di scrollarsi di dosso il tanfo di stantio, quell’odore rancido delle loro ultime produzioni. Di colpo, come per magia, si sono risentiti vivi e giovani, forti e spregiudicati. Pearl Jam è un disco sanguigno, nervoso e feroce. È in gioco il loro futuro, e quando il gioco si fa duro…ci siamo capiti.

Non mancano i riferimenti alla politica espressi caldamente nel passato ma senza quella giusta dose d’esperienza e nervi tesi che oggi il combo ha profondamente assimilato e risputato fuori con rabbia. Si schierano apertamente con l’America ferita nel suo ego, messa in ginocchio da un attacco durissimo del 2011 e ridicolizzata dalle successive scelte politiche dell’amministrazione Bush. In questo disco potrete trovare piccole lezioni di classe, guide all’uso malsano del riff penetrante e spezza ossa mutuate dagli Who prima e dagli Zeppelin dopo. Le due “asce” portanti non dimenticano gli insegnamenti, in acido, del loro mentore Jimi Hendrix, si dissetano nel punk malsano e sconnesso dei Dead Kennedys e scelgono qualche strana svisata pop, testimoniata dalla sghemba ballata Parachutes. In Unemployable , non proprio un pezzo riuscitissimo, la testa corre al “Boss” mentre in altri casi l’uso del rifferama marmoreo scomoda perfino gli Ac/Dc. Ottima la performance di Vedder che ha ritrovato la sua solita vena polemica, le sue ferite sanguinano e il suo urlo si fa più vero e credibile. Superata la metà dell’album, l’iniziale urgenza di comunicare un disagio arrivato al limite lascia il posto a atmosfere più strane e complesse, rese intriganti da arrangiamenti più curati.

Ma niente paura perché appena sembra che la band abbia abbassato la guardia ci pensa Big Wave a ristabilire l’ordine delle cose. Quale ordine vi starete chiedendo? Quello di distruggere tutto ciò che non permette il raggiungimento della libertà tanto decantata (spesso a suon di guerre mai del tutto vinte) dal popolo americano. Della stessa pasta sono fatte Worldwide Suicide e Comatose, veri e propri montanti rilasciati di Mike Tyson in persona. Della serie “nelle ballate non ci supera nessuno” arriva Gone, modello Better Man ma senza la stessa classe, che parte con la chitarra arpeggiata per poi confluire nella classica cavalcata in cui tutti i membri della band ci mettono del proprio. Sorvolando su Wasted Reprise e Army Reserve ci si avvia verso il finale che viaggia sulle note di Come Back, una ballata triste e malinconica molto sentita da Eddie, la cui voce sembra tremare visibilmente in ogni sua deliziosa mutazione. Sigilla il tutto Inside Job, una lunga ed elegante crociata rock con tanto di pianoforte, crescendo mozzafiato e finale in classico stile Pearl Jam. Che volete di più da una delle formazioni più importanti degli ultimi vent’anni, che si avvia (non proprio mestamente verso i quarant’anni) e che dal vivo ha ancora la potenza distruttiva dell’eruzione del Krakatoa?

Nessuna band è mai riuscita a mantenere a livelli altissimi tutta la loro produzione: l’età avanza, i tempi cambiano, le mode influiscono e questa regola vale anche per Vedder e soci che di certo hanno visto tempi migliori, ma in confronto ai loro ultimi due sufficienti e sconnessi lavoretti questo sembra davvero un piccolo faro in un mare di mediocrità altrui. I Pearl Jam hanno ritrovato, non sappiamo per quanto ancora, una vena forte e credibile. Non serve altro, almeno a noi.

Autore: Pearl Jam Titolo Album: Pearl Jam
Anno: 2006 Casa Discografica: J. Records
Genere musicale: Rock Voto: 7
Tipo: CD Sito web: http://www.pearljam.com
Membri band:

Eddie Vedder – voce

Stone Gossard – chitarra

Mick McCready – chitarra

Jeff Ament – basso

Matt Cameron – batteria, percussioni

Tracklist:

  1. Life Wasted
  2. World Wide Suicide
  3. Comatose
  4. Severed Hand
  5. Marker In The Sand
  6. Parachutes
  7. Unemployable
  8. Big Wave
  9. Gone
  10. Wasted Reprise
  11. Army Reserve
  12. Come Back
  13. Inside Job
Category : Recensioni
Tags : Grunge, Pearl Jam
0 Comm
03rd Set2012

Pearl Jam – Lost Dogs

by Giuseppe Celano

Dopo il fiacco Riot Act i Pearl Jam danno in pasto ai fan un doppio cd di outtakes, versioni alternative, inediti regali natalizi e ghost track, che nella prima settimana vende novantamila copie. Stiamo parlando di Lost Dogs considerato dai maligni come un’operazione commerciale che lascia trasparire un impoverimento ormai inarrestabile della loro vena creativa, mentre per i fan diventa una chicca imperdibile. La verità sta in mezzo, quest’uscita del 2003 vive di luci e ombre mostrando ancora qualche vibrazione positiva e fascicolazioni muscolari degne di un passato splendente ma offuscato da ciò di cui abbiamo ampiamente parlato nelle recensioni dei loro due ultimi lavori. Sarebbe impossibile, e altrettanto noioso, parlare singolarmente dei trenta brani, ci limiteremo a segnalarvi le cose più importanti, a nostro avviso, evitando la classica e pedante elencazione. In pezzi come Alone si ritorna a respirare il profumo che da sempre ha contraddistinto le pietanze servite da questa band. Non mancano passaggi a nervi scoperti come Leaving Here o sciccherie come Gremmie Out Of Control. Dei singoli natalizi citiamo solo Last Kiss diventato suo malgrado un hit radiofonico trasmesso dalle radio tanto da costringere il gruppo a pubblicarla per beneficenza. Infine vi segnaliamo Don’t Gimme No Lip (Stone Gossard alla voce), Sad Education e Fatal.

Lost Dogs è un buon lavoro che per forza di cose soffre di disomogeneità, gap colmato dalla certosina pazienza, professionalità e ricerca di perle “perse” dentro una discografia di un certo spessore. Di tutto questo ne è testimone Yellow Ledbetter classica perla eseguita dal vivo e mai incisa su cd. Non potete mancare la stranezza psichedelica di Whale Song o il pop wannabe di Down. Non mancano i riferimenti al blues in Footsteps e le ballate come Hard To Imagine. 4/20/2002, che chiude il secondo album, è dedicata a Layne Stailey morto durante le registrazioni di Riot Act. Ma è anche doveroso, e necessario, elencare le imperdonabili e incomprensibili, se non a livello di marketing futuro, le grandi assenti fra cui svettano le due canzoni incise con il loro mentore Neil Young, I Got ID e Long Road, tratte dal singolo Merkinball che i più fortunati hanno ascoltato occasionalmente nei live della band. Sono altrettante le cose che mancano, ad esempio i singoli con Beck, i pezzi della colonna sonora di Singles e i vari duetti con Ben Harper senza tralasciare Happy When I’m Crying scritto a quattro mani i R.E.M.

Non è in questo disco che troverete l’anima dei cinque cavalieri di Seattle, ma di certo all’interno di quest’onesto lavoro potrete trovare qualcosa di inaspettato e piacevole che lascia trasparire l’altra faccia della medaglia di questa grande rock band.

Autore: Pearl Jam Titolo Album: Lost Dogs
Anno: 2003 Casa Discografica: Epic Records
Genere musicale: Rock Voto: 7
Tipo: CD Sito web: http://www.pearljam.com
Membri band:

Eddie Vedder – voce

Stone Gossard – chitarra

Mick McCready – chitarra

Jeff Ament – basso

Matt Cameron – batteria, percussioni

Tracklist:

Disc 1

  1. All Night
  2. Sad
  3. Down
  4. In The Moonlight
  5. Hitchhiker
  6. Don’t Gimme No Lip
  7. Alone
  8. Education
  9. U
  10. Black, Red, Yellow
  11. Leaving Here
  12. Gremmie Out Of Control
  13. Whale Song
  14. Undone
  15. Hold On
  16. Yellow Ledbetter

Disc 2

  1. Fatal
  2. Other Side
  3. Hard To Imagine
  4. Footsteps
  5. Wash
  6. Dead Man
  7. Strangest Tribe
  8. Drifting
  9. Let Me Sleep
  10. Angel
  11. Last Kiss
  12. Sweet Lew
  13. Dirty Frank
  14. Brother- instrumental
  15. Bee Girl
  16. Untitled
Category : Recensioni
Tags : Grunge, Pearl Jam
0 Comm
13th Ago2012

Pearl Jam – Riot Act

by Giuseppe Celano

Sette è un numero importante, soprattutto quando hai un onore da difendere e una carriera da portare avanti, ma non è sempre semplice risucire a superare questa prova. Riot Act è il settimo album dei Pearl Jam che stavolta, per la registrazione, si affidano alle sapienti mani di Adam Kasper ed esce nel 2002. Registrato in due tronconi e missato da Brendan O’Brien, il nuovo lavoro della band è un art rock particolare e ricco di accordature diverse. I nuovi pezzi sono un continuo richiamo al loro passato ma proprio per questo nascondono una serie di insidie da cui è praticamente impossibile fuggire. Sebbene si regga sulle proprie gambe emerge chiaramente un senso di conservazione misto alla polvere che lentamente si deposita fra i solchi di questo lavoro. Le liriche sono pienamente influenzate dall’attacco alle torri gemelle e parlano apertamente di dolore, perdita, disagio e paura. Molti dei brani presenti in questo lavoro sono stati scritti a più mani da Eddie e soci, ma è nel canto che il disco sembra diverso. Vedder lo affronta con meno impostazione tecnica, sembra orientarsi verso un aproccio istintivo e senza fronzoli. La musica è molto meno cerebrale e più diretta, punk se preferite. La risposta alla violenza sul territorio americano prevede una forma di ottimismo disilluso, mascherato da un invito all’azione anarchica. Eddie s’interroga sugli effetti di quel patriottismo tipico della società americana, spazzato via in pochi minuti da una furia cieca e brutale.

Riot Act è l’album in cui il leader della band sfoggia le sue opinioni politiche diventando un Bono più credibile e meno spocchioso ma nel complesso, e sulla lunga distanza, è la musica a soffrire seriamente di nuove formule vincenti. Mancano quelle grandi canzoni che hanno reso immortali i Pearl Jam. Latitano le grandi cavalcate, le ballate sofferenti e soprattutto non c’è il benchè minimo spunto per un rinnovamento necessario e dovuto dopo oltre dieci anni di carriera. I Pearl Jam insistono nel ripetersi, come degli ottimi falsari alle prese con le loro stesse opere. Musicalmente parlando tutto questo si traduce nella furba apertura di Can’t Keep, potente ed energica come ogni opener della band, e nella ballatona triste Love Boat Captain (dedicata ai morti di Roskilde). Neanche l’immancabile singolo I Am Mine, la buona Get Right e l’invettiva contro Bush (Bu$hleaguer) bastano a rialzare le sorti di un disco condannato ad un palese anonimato.

Bisogna coraggiosamente affermare che i Pearl Jam hanno perso i punti di riferimento che caratterizzarono il loro esordio, optando per facili scorciatoie. Non basta sfornare triti riff poderosi con chitarre distorte e sparare a zero sulla politica per guadagnarsi una forma di credibilità e lo status di duri e puri del rock. Insomma Rioct Act tradisce il proprio scopo, sin dal titolo, rimanendo imprigionato nel passato, lo stesso passato che la band vorrebbe teoricamente distruggere con un messaggio di cambiamento (interno) non ancora avvenuto. I Pearl Jam di oggi sono i peggiori nemici che possano incontrare sulla loro strada, la cristallizazzione di una formula funzionante, ma prevedibile come una somma algebrica, li fa sembrare come un transatlantico splendente incapace di prendere il largo perchè ancora saldamente ancorato al proprio passato.

Autore: Pearl Jam Titolo Album: Riot Act
Anno: 2002 Casa Discografica: Epic Records
Genere musicale: Rock Voto: 6
Tipo: CD Sito web: http://www.pearljam.com
Membri band:

Eddie Vedder – voce

Stone Gossard – chitarra

Mick McCready – chitarra

Jeff Ament – basso

Matt Cameron – batteria, percussioni

Tracklist:

  1. Can’t Keep
  2. Save You
  3. Love Boat Captain
  4. Cropduster
  5. Ghost
  6. I Am Mine
  7. Thumbing My Way
  8. You Are
  9. Get Right
  10. Green Disease
  11. Help Help
  12. Bushleaguer
  13. 1/2 Full
  14. Arc
  15. All Or None
Category : Recensioni
Tags : Grunge, Pearl Jam
0 Comm
Pagine:12»
Pagina successiva »
  • Cerca in RockGarage

  • Rockgarage Card

  • Calendario Eventi
  • Le novità

    • Novaffair – Aut Aut
    • Depulsor – Walking Amongst The Undead
    • Giuseppe Calini – Polvere, Strada E Rock’n’roll
    • Bull Brigade – Il Fuoco Non Si È Spento
    • Mandragora Scream – Nothing But The Best
  • I Classici

    • Royal Hunt – Moving Target
    • Angra – Omni
    • Black Sabbath – 13
    • Saxon – Inspirations
    • Whitesnake – Forevermore
  • Login

    • Accedi
  • Argomenti

    Album del passato Alternative Metal Alternative Rock Avant-garde Black metal Cantautorale Crossover Death metal Doom Electro Rock Folk Garage Glam Gothic Grunge Hardcore Hard N' Heavy Hard Rock Heavy Metal Indie Rock Industrial KISS Libri Metalcore Motorpsycho Motörhead New Wave Nu metal Nuove uscite Podcast Post-metal Post-punk Post-rock Power metal Progressive Psichedelia Punk Punk Rock Radio Rock Rock'N'Roll Rock Blues Stoner Thrash metal Uriah Heep
Theme by Towfiq I.
Login

Lost your password?

Reset Password

Log in