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02nd Ago2020

Tuxedomoon – Half Mute

by Simone Rossetti
Da San Francisco a New York poi Europa, sola andata; un crocevia esistenziale fra new-wave, post-punk, musica colta mittle-europea, avanguardie sperimentali, free jazz. Quando il suono si fa Arte. I Tuxedomoon si formano quindi sul finire degli anni 70 a San Francisco in un periodo di grande fermento creativo non ancora subordinato alle leggi di mercato, questo Half Mute è il loro primo album (1980) e segue tre EP pubblicati fra il ’78 e il ’79 tra cui il singolo No Tears destinato a diventare un vero e proprio manifesto generazionale di culto basato su strutture più tipicamente post-punk. È sempre difficile consigliarvi album come questo, siamo lontani dal classico suono basato su riff e metrica fissa, concettualmente agli antipodi, esistenzialmente inconciliabili, un’esperienza di ascolto che richiede una certa apertura mentale, un desiderio di confrontarsi e di guardare oltre i rigidi schemi di un rock preconfezionato per il consumo di massa, non fossilizzatevi sull’anno di pubblicazione, sarebbe come voltare lo sguardo di fronte all’Urlo di Edvard Munch o alla Venere di Botticelli affermando che sono opere ormai vecchie e appartenenti al passato. Non amo usare la parola capolavoro e non la userò per questo album, dirò solo che si tratta di materia viva il cui respiro diventerà il vostro respiro, vi ritroverete catapultati in un surreale teatro espressionista dei primi anni del secolo scorso dove sonorità post-moderne metalliche e alienanti si andranno a fondere con vecchie atmosfere malinconiche di un Europa sull’orlo del baratro (e non crediate che oggi le cose siano molto diverse, vi invitiamo ad intuirlo).

Comunque lo si voglia interpretare un grande album, scuro, refrattario alla luce, incombente, sempre in precario equilibrio e sul punto di cadere nel vuoto, la luce di un lampione capace di attirare le nostre anime notturne come falene; non vi resta altro che lasciarvi incantare dalla dolce melodia stralunata di Nazca, brano di apertura che si distende fra un morbido tappeto di synth e un sax suonato in totale solitudine; ce lo immaginiamo di notte, una finestra aperta, mentre la città con le sue luci scorre lontana, di grande atmosfera e phatos. 59 To 1 pulsa del suo basso asincrono fra minimalismo e avanguardie post-punk, drum machine rimodulata su canoni inusuali e un sax in puro stile free jazz; ma ecco che parte Fifth Column, uno dei massimi livelli compositivi raggiunti in questo album, difficile da descrivere in parole, una semplice linea di basso che nel suo sali e scendi accompagna la melodia suonata da un sax, sono note che provengono da un tempo lontano, malinconiche e disilluse che così come sono arrivate ci abbandonano lasciandoci in totale solitudine con noi stessi; c’è Tritone (Musica Diablo) più caustica e sperimentale con un violino a squarciare il velo di synth e il pulsare sincopato di una batteria elettronica, siamo in una Berlino pre-conflitto cosmopolita e disperata, siamo qui ma forse siamo già in un futuro prossimo. Loneliness è un brano dove si incontrano simbolicamente i Joy Division e un teatro itinerante surrealista, metrica fissa e armonie destrutturate, ossessiva e plumbea ci fa sfilare davanti i suoi fantasmi e le sue paure; James Whale è un brano totalmente sperimentale ma lasciamo a voi la curiosità di avvicinarvi al suo ascolto.

È in What Use? che viene fuori il lato più new-wave nella classica forma-canzone, più orecchiabile e danzereccia ma sempre conservando metriche e armonizzazioni più europee; Volo Vivace è un altro piccolo capolavoro strumentale di una bellezza struggente e senza tempo che vi lascerà persi e disorientati, ma non c’è il tempo per riprendere il fiato ed ecco partire 7 Years, allucinata, convulsa, sembra muoversi fra un bordello parigino e una Berlino destrutturata e ferita, siamo dentro un sogno dove le immagini si sovrappongono senza un filo logico, si sfilacciano, si ricompongono, la notte è profonda, quanto un abisso. KM e Seeding The Clouds chiudono l’album, basso e sax, rumori in sottofondo, le melodie si ripetono quasi fossero in loop, spunta un sottofondo di synth ad eseguire una colonna sonora immaginaria, subentra la seconda parte, una voce confidenziale, notturna, si allontana, si spegne, silenzio, l’album è finito, lo spettacolo è finito, bisogna uscire; là fuori macchine ibride di una qualche marca impronunciabile, tecnologia futuristica, tutto scorre veloce, liquido, inafferrabile, semplici comparse di un teatro dell’assurdo quotidiano, senza una memoria, senza una storia.

I Tuxedomoon proseguiranno per la loro strada sempre con buoni album (anche ottimi considerando il loro successivo Desire del 1981) ma senza quell’urgenza creativa (anche imperfetta) che decreterà questo Half Mute a status di capolavoro “minore”, e siamo ben consci che alla fine trattasi “solo” di musica ma forse fra queste note (ecco perché siamo qui a consigliarvelo) ritroverete un passato, un presente, soprattutto un futuro, sperando che quest’ultimo sia ancora da scrivere.

Autore: Tuxedomoon Titolo Album: Half Mute
Anno: 1980 Casa Discografica: Ralph Records
Genere musicale: Post-Punk Sperimentale Voto: 10
Tipo: vinile Sito web: https://www.tuxedomoon.co
Membri band:
Steven Brown – sax, voce, synth, tastiere
Blaine Reininger – violino, voce, synth, chitarra
Peter Priniple – basso, drums machine, synth
Tracklist:
1. Nazca
2. 59 To 1
3. Fifth Column
4. Tritone (Musica Diablo)
5. Loneliness
6. James Whale
7. What Use?
8. Volo Vivace
9. 7 Years
10. KM
11. Seeding The Clouds
Category : Recensioni
Tags : Album del passato, Post-punk
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16th Lug2020

Underzone – Underzone

by Marcello Zinno
I siciliani Underzone, freschi di firma con la label lombarda Rocketman Records, tentano di modificare/personalizzare le coordinate del post-punk, abbandonando quella matrice elettrica e velatamente dark tipica del genere e imbastendolo invece di animo elettronico/digitale. Non a caso la band parla di punk-wave, definizione corretta in quanto il sopravvento nel sound è preso da synth e drum machine (oltre che dal basso che però in una band vicina al post-punk non può assolutamente essere silente). L’incedere di The Reward è coinvolgente, anche i synth nella parte centrale e la chitarra nel passaggio solista (che Robert Smith apprezzerebbe) si lasciano apprezzare, si osa anche in Sunstroke, una traccia viva e intensa, seppur sempre con un retrogusto nostalgico. Brani tendenzialmente molto lunghi e che aprono anche ad inserti particolari seppur, va detto, spesso incentrati su strutture stabili. Una critica ci sentiamo di muovere sulle linee vocali, che in fase di missaggio vengono inserite un passo indietro agli altri strumenti ma che anche dal punto di vista della timbrica sembrano essere trascinate dalla musica (e non il contrario), senza trasmettere emozioni particolari (al contrario di band simili che invece puntano molto sulla timbrica del singer, a corollario di una proposta musicale già non canonica); in Fanci’s Smile ad esempio una impalcatura vocale più forte avrebbe giovato, dietro una cornice ritmica abbastanza statica per la gran parte del brano e che quindi offriva il “la” per tanti spunti solisti.

Da qui a parer nostro si più ragionare per un prossimo album (magari un full-lenght), ma questo EP resta comunque consigliato per gli amanti del genere.

Autore: Underzone Titolo Album: Underzone
Anno: 2020 Casa Discografica: Rocketman Records
Genere musicale: Post-Punk, Punk-wave Voto: s.v.
Tipo: EP Sito web: https://www.facebook.com/Underzoneband
Membri band:
Tiziano Giunta – basso
Stefano Restivo – voce, chitarra
Francesco Zagami – synth, drum machine
Tracklist:
1. Modern Age 2.0
2. The Reward
3. Franci’s Smile
4. Sunstroke
5. Sweet Answer
Category : Recensioni
Tags : Post-punk
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17th Giu2020

The Sound – All Fall Down

by Simone Rossetti
Se la vita avesse un senso probabilmente non saremmo qui a parlare di musica (né a farla), capita per alcuni che questa “assenza” diventi di un peso insopportabile al punto da preferire di darci un taglio netto. Adrian Borland apparteneva a questi ultimi ma nel suo caso anche il destino vi ha messo del suo contribuendo alla drammatica chiusura di un cerchio. Con i suoi The Sound ci ha lasciato un testamento che non è solo musicale ma anche, e soprattutto, personale: una “ricerca” che si fa tangibile e disperata nel suo alternarsi a sporadici momenti di ambita e semplice serenità, ma ci sono ferite che anziché cicatrizzarsi nello scorrere del tempo dilaniano ancora di più la carne e la psiche, le stesse che porteranno Borland verso un abisso interiore dal quale se ne può uscire in un solo modo, giustificabile o meno, comprensibile o meno. Resta questa musica, questi testi, una serie di grandi album praticamente ignorati dal pubblico ed anche questo avrà un peso non indifferente su una fragilità umana latente. Abbiamo scelto questo album, ma questo o un altro non avrebbe fatto alcuna differenza, non c’è un album migliore o peggiore, ciascuno a modo suo sono un tassello di un mosaico interiore più grande destinato ad andare in pezzi. Perchè dunque scegliere questo All Fall Down, i The Sound avevano alle spalle già due bellissimi album (Jeopardy e From The Lions Mouth) che dimostravano tutta la loro classe e le loro possibilità ma purtroppo senza alcun riscontro di vendite, si accasarono quindi con la major WEA la quale, “annusata” l’occasione di farci un bel po’ di soldi, iniziò a fare pressioni sul gruppo al fine di ottenere un suono e brani da “scalaclassifica”, ma il gioco non funzionò (o almeno solo in minimissima parte) e le cose finirono per andare in tutt’altro modo, tanto che al momento della pubblicazione alla WEA tentarono addirittura di boicottarlo disconoscendolo come proprio. Qquesto probabilmente incise per la prima volta, in una qualche misura, sulle condizioni emotivamente fragili di Borland.

Un album difficile quindi, ostico, chiuso su se stesso, dalle coordinate non ben chiare, agganciato ad un passato che sta sfuggendo di mano (siamo nel 1982, un periodo di transizione tra post-punk, new wave e facili derive pop) e un futuro del tutto indefinito, l’album resta in questa specie di bolla che non ne vuole sapere di scoppiare, non si capisce se questo sia un limite o una reale richiesta di protezione, fatto sta che dopo questo album e scaricati dalla WEA i The Sound proseguiranno per qualche anno per la loro strada, questo finché sarà possibile, poi arriverà anche il momento di porre la parola fine, ancora qualche anno e sarà lo stesso Adrian Borland a scrivere di sua mano quella parola. Ecco perché abbiamo scelto questo All Fall Down, “(quando) tutto cade giù”, perché mantiene intatta la sua intrinseca fragilità e bellezza, perchè a suo modo non è un album doloroso da ascoltare, anzi, è grande musica suonata da grandi musicisti (oltre a Borland voce e chitarra troviamo Graham Gree al basso ed effetti, Max Mayers alle tastiere e Mike Dudley alla batteria e percussioni ,zona South London).

E già dalla titletrack si intuisce che qualcosa non va rispetto ai “buoni” propositi della WEA, testo criptico, ma nemmeno tanto, di un Inghilterra sociale in fase di smantellamento (Margaret Thatcher?), suono cupo, metallico, ossessivo; Party Of The Mind è “leggera” e frizzante, perfetta per un piovoso pomeriggio estivo, un po’ meno il testo, “A room without light,a room with lights thats blind,these ideas i invite to the party of my mind“. Monument è invece delicata come una carezza del mattino, finalmente non c’è tensione ma solo quella ritrovata fugace pace; In Suspence torna su toni più introspettivi, darkwave, poi si apre in un buon refrain tutto da cantare. Where The Love Is è romantica ma allo stesso tempo nuda come potrebbe esserlo un pezzo dei Joy Division, ritmica scarna, chitarra tagliente, un amore lontano; Song And Dance, “when you’re lonely,when you’re happy,you should sing” declama Borlan in uno sconfinamento dai contorni più rock, ma non basterà. Calling The New Tune è piacevole e lieve con il suo refrain facilmente “orecchiabile” ma nel suo scorrere malinconico e desolante ci lascia con un retrogusto di amarezza; Red Paint è un salto dentro ai Joy Division, per ritmica, armoniche, pathos, ma già più avanti, anche dallo stesso presente che stavano vivendo. Glass And Smoke fredda e dissonante, resta sospesa fra distorsioni e suoni metallici, un pezzo difficile ma intenso; We Could Go Far chiude l’album, una ballad crepuscolare, morbida e sontuosa, termina con la voce di un Borland ormai disilluso “We could go far,we could go far”, non sarà così.

Non male quindi per un album che almeno nelle intenzioni della casa discografica doveva avere ambizioni da alta classifica, se non fosse per il latente dolore che si porterà dietro si potrebbe anche pensare ad una vera e propria rivendicazione della propria arte, forse la chiave di lettura sta tutta qui, e tanto basta a goderne della sua intrinseca, eterea bellezza. (in ricordo di Adrian Borland)

Autore: The Sound Titolo Album: All Fall Down
Anno: 1982 Casa Discografica: WEA
Genere musicale: Post-Punk Voto: 8,5
Tipo: LP Sito web: https://en.wikipedia.org/wiki/The_Sound_(band)
Membri band:
Adrian Borland – voce, chitarra
Graham Green – basso, chitarra, effetti, drum machine
Max Mayers – tastiere
Mick Dudley – batteria, percussioni
Tracklist:
1. All Fall Down
2. Party Of The Mind
3. Monument
4. In Suspense
5. Where The Love Is
6. Song And Dance
7. Calling The New Tune
8. Red Paint
9. Glass And Smoke
10. We Could Go Far
Category : Recensioni
Tags : Album del passato, Post-punk
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03rd Giu2020

Ultravox! – Ha! Ha! Ha!

by Simone Rossetti
Ci fu un tempo (lo so, bruttissimo, ma per questa volta consentitemelo) in cui imbattersi in album come questo era un qualcosa di ordinario, in effetti di ordinario non c’era nulla, anzi era tutto così straordinario. Eravamo ancora lontanissimi dalla mediocrità e dalla banalità di questi giorni, solo che “noi” non lo sapevamo, almeno non ancora. Quando uscì Ha! Ha! Ha! (era il 1977) praticamente passò inosservato ed è facilmente spiegabile: mentre tutti guardavano al punk (culturale e musicale) gli Ultravox! di John Foxx (con il punto esclamativo, quelli senza sono un altra storia) stavano già guardando oltre. L’influenza del punk si sente, soprattutto nelle prime tracce, ma è più una questione di attitudine che musicale, c’è la voglia di perseguire una strada propria che già si intuiva nel loro primo lavoro omonimo ma che qui si svilupperà definitivamente e prenderà una forma compiuta, a partire dalla strumentazione al cui classico chitarra-basso-batteria si aggiungeranno tastiere, synth, viola, sassofono e drum-machine; quel che ne uscirà fuori sarà un qualcosa di “nuovo” e allo stesso tempo di “vecchio”, un post-punk sperimentale di ispirazione dadaista (le avanguardie culturali del Cabaret Voltaire di Zurigo, quindi si risale ai primi del ‘900), un suono che guarda più alla mittel-europa che alle sonorità d’oltremanica, un suono romantico e decadente ma anche alienante, post-industriale, una Berlino esistenzialista con già tutte le macerie del nuovo mondo sulla propria pelle.

Il lato A si apre con l’elettrica RockWrok, forse il brano che più si avvicina ad uno stile puramente punk, almeno ad un primo ascolto; in realtà assume un andamento quasi teatrale con le svisate di piano che ci riportano ai fasti del Folies Bergère, il famoso music-hall parigino dove nei primi del ‘900 venivano presentati spettacoli di varietà, balletti, operette e dove si esaltava il nudo femminile. Anche nel testo questa RockWrok a suo tempo destò un certo scalpore, molto espliciti i riferimenti al sesso ma è vissuto quasi come un’ultima spiaggia prima che l’intero caos travolga tutto, The Frozen Ones, due schiocchi di dita scandiscono il tempo poi il canto alienante di Foxx “All bridges built for burning,how can there be anything wrong?aren’t we the frozen ones?” solo pochi secondi ma che la dicono lunga sulle possibilità di questa band. Poi parte una cavalcata elettrica vera e propria con un bel solo della chitarra di Shears, ancora più sospinta Fear In The Western World, una scheggia impazzita dove ancora il caos di questo mondo è palpabile nella quotidianità mentre feedback e distorsioni sul finale rendono più tangibile questo caos. Chiude il lato A il primo capolavoro, una Distant Smile da lasciare senza fiato, dove perdersi fra le note malinconiche del pianoforte iniziale è un attimo, ancora più triste e lontana la voce di Foxx, è una vecchia fotografia ingiallita dove anche i volti e le loro storie stanno inesorabilmente svanendo, più cupa delle altre tracce, freddo e tagliente il solo di Shears che si porta via tutto.

The Man Who Dies Every Day apre il lato B, glaciale e misteriosa, la storia di un uomo perso chissà dove (forse una spia?), i synth scandiscono un tempo marziale mentre ci si allontana dal classico standard punk. Artificial Life, altro capolavoro, il canto si fa declamatorio, trovare una propria indentità nel caos e nonostante il caos, questo è l’importante, sul finale deflagra letteralmente mentre la viola di Currie pennella traiettorie strazianti impossibili. While I’m Still Alive dalle linee quasi pop si lascia cantare che è una meraviglia ma è nella drammaticità del refrain che si nasconde la sua piccola perla. Si chiude con il botto,Hiroshima Mon Amour, romantica, decadente, sensuale, trovate voi gli aggettivi che ritenete più giusti, il distacco dal punk si è compiuto, niente è mai indolore ma bisogna comunque attraversarlo, poi si può spiccare il volo con una ballad come questa e ricamarci sopra la melodia di un sassofono (C.C.) mentre drum-machine e synth fanno da tappeto sonoro. Ma tutto questo può avvenire solo senza perdere la propria identità e gli Ultravox! questo lo sapevano bene. Ci fu un tempo quindi, e c’è un tempo, il caos si è ridotto ad un format televisivo per milioni di inebetiti o al peggio in una triste maschera delle umani miserie, se vi rammaricate perchè questo album suoni “un pò” datato non vi preoccupate, è come il buon vino, più invecchia più diventa buono e Ha! Ha! Ha! conserva intatto tutto il suo naturale caos.

Autore: Ultravox! Titolo Album: Ha! Ha! Ha!
Anno: 1977 Casa Discografica: Island Records
Genere musicale: Post-Punk Voto: 9
Tipo: LP Sito web: www.ultravox.org.uk
Membri band:
John Foxx – voce, chitarra
Warren Cann – batteria, voce, drum-machine
Chris Cross – basso, voce
Billy Currie – viola, tastiere, synth
Stevie Shears – chitarra
C.C. – sax su Hiroshima Mon Amour
Tracklist:
1. RockWrock
2. The Frozen Ones
3. Fear In The Western World
4. Distant Smile
5. The Man Whu Dies Every Day
6. Artificial Life
7. While I’m Still Alive
8. Hiroshima Mon Amour
Category : Recensioni
Tags : Album del passato, Post-punk
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26th Mar2020

Partinico Rose – Songs For Sad And Angry People

by Paolo Tocco
Non ricordo in qualche film demenziale c’era una delle scene assurde – come piacciono a me – di un tale che arriva davanti a una roulotte tutta sgangherata poggiata, anzi buttata, su un pezzo di spiaggia abbandonato. Superato l’ingresso costituito da una solita porticina in plastica mangiata dalla ruggine, si apriva all’interno un mega appartamento con tanto di fontana al centro, lussuosi divani, ampi spazi relax…e anche un acquario gigante con dentro robe tipo delfini. Vabbe, l’assurdo dei film demenziali che solo gli scellerati come me adorano. Ed infatti siamo gli unici che ne ridono. Così quando ho fatto click sul video di Slave Of Time ho avuto subito l’impressione di dover storcere naso, bocca e ambizioni come quando si ha di fronte una roulotte malconcia. Niente di nuovo (e questo è anche un bene), il solito approccio post-tutto (post-punk, post-rock, post-atomico), il look eccentrico in bilico tra paradosso e coerenza…ed il solito inglese che davvero suona malissimo, di quelle liriche cantate che sembrano eterni grammelot sbiascicati. Poi ho aperto la porticina…quella corrosa dalla ruggine.

Certo, io non conosco e non capisco l’inglese, non sono figlio del punk e dentro la roulotte non ci ho trovato un appartamento da 500 mq con l’acquario dei delfini. Però ho dovuto ricredermi e l’ho saputo fare perché il meraviglioso caso vuole che in questi giorni di clausura mi stia facendo anche un’endovena di Joy Division, tra vinili e biografia di Peter Hook. Riavvolgiamo il nastro. I Partinico Rose, dopo una lunga gavetta di crowdfunding, arrivano a pubblicare il loro primo disco (spero di aver capito bene) e dentro le righe ci trovo anche quella meravigliosa icona che è Gino Nobile, forse uno dei veri negozianti di dischi che ancora esistono in Italia. Siamo a Ragusa e siamo dentro il sangue di un disco davvero interessante: si intitola Songs For Sad And Angry People e custodisce 10 brani di una produzione davvero gustosa, anzi direi quasi preziosa per chi ama o è sensibile a quel post-punk inglese nato nei tempi dell’emancipazione di fine anni 70. Certamente i nostri hanno un approccio più moderno, con suoni che hanno un’arroganza più dettagliata ma quel certo gusto per caos estetico, per l’istinto e per il colore grigio della rabbia c’è e mi ha affascinato e non poco. Liriche di rabbia appunto, di rivoluzione sociale, un disco per chi ha fame, ovviamente, per chi la tristezza (secondo me) ce l’ha ma vuol sconfiggerla.

Il mio tallone di Achille resta l’inglese che per tutto il disco mi suona benino anche agevolato da metriche sostenute e pochi spazi per la codifica in sé. Ma in brani più cadenzati proprio come la primissima Slave Of Time o come anche in Rehab For You, dura davvero fatica a farmelo piacere. E ci mancherebbe, colpa anche mia forse, della mia scarsa cultura in merito. Chiedo venia. Ma insomma, lo avverto fortissimo come un inglese davvero acerbo e proprio non mi piace. E tutto il cuore portante ha forti richiami a quella scena e non colpiscono le tante etichette da mostrare come ispirazioni, mi colpisce tanto che i Partitico Rose abbiano davvero ricreato più che una scena un vero sentimento. Anche la voce, così acida, scollata dal mix, fuori tono (volutamente spero) in modo sottile e allo stesso tempo violento, queste chitarre sottili come sono sottili i contorni della cassa, forse avrei preferito meno corpo in tutta la sezione di drumming e di ritmica in genere, in alcuni tratti quasi si strizza l’occhio al rock melodico grave dei Foo Fighters. Invece Songs For Sad And Angry People penso abbia avuto forte la capacità di riportarmi indietro in un’epoca che anche solo a leggerla si resta affascinati, da quanto era importante e predominante la voglia di essere, il bisogno di dar spazio all’istinto piuttosto che all’eterno apparire di oggi. E in merito a questo, visti i risultati, avrei preferito un suono meno lavorato, meno prodotto, con meno riverberi alla voce (che così ha aspetti gotici che mi piacciono poco) e meno ciccia definita sulle sonorità portanti di chitarra, basso e batteria.

Insomma: se da fuori sembrava una casetta sgangherata, dentro mi ha stupito con un arrendo retrò, semplice ma decisamente efficace. Poi insomma, è solo il mio pensiero e tanto basta per passare oltre.

Autore: Partinico Rose Titolo Album: Songs For Sad And Angry People
Anno: 2020 Casa Discografica: Autoproduzione
Genere musicale: Post-Punk Voto: 6
Tipo: CD Sito web: https://www.facebook.com/PartinicoR
Membri band:
Vincenzo Cannizzo – voce, chitarra
Massimo Russo – basso
Carlo Schembari – batteria, synth
Martina Monaca – violoncello
Tracklist:
1. Slave Of Time
2. Misanthropy
3. I’m Looking For A Job
4. Don’t Leave Me Alone
5. The Story Of Cancer
6. The End Of Summer
7. Mistakes In My Head
8. Rehab From You
9. The Revenge
10. Could You Share My Pain
Category : Recensioni
Tags : Post-punk
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28th Nov2019

Unoauno – Barafonda

by Marcello Zinno
Non ci erano dispiaciuti affatto gli unoauno ai tempi di Cronache Carsiche di cui avevamo parlato a questa pagina, quest’anno tornano con un secondo album dal titolo Barafonda. Gli unoauno sono a nostro parere figli dell’indie rock (visto come scena e non come genere in senso stretto) che esprime un disagio giovanile (Voina, Cara Calma, Management…), ma il loro asso nella manica è il loro diverso linguaggio, più consono rispetto al messaggio che intendono inviare, più vintage e probabilmente altrettanto di interesse per una parte dei loro coetanei: il post-punk. Rischioso però citare l’indie rock nel loro caso visto che loro stessi lo equiparano al “porno nazionale” (Panorama). Ma nel loro caso è qualcosa di diverso, non c’è spazio per un synth che celebra melodie ammiccanti in stile Pinguini Tattici Nucleari, piuttosto gli unoauno mettono in negativo questa scena, come fosse una foto che non sarà sviluppata mai, e danno forma alla noia (il tema centrale dell’album) tramite le nuove nove tracce. “Sei ore di fila fermi in coda sul Grande Raccordo Anulare, tornare a casa dal lavoro, è una fatica dura da scontare” o “Ci mangia il tempo, ci morde la noia, ci ansia il giorno” o ancora “Siamo i binari finiti tra gli alberi, vite invertite, orbite impazzite” sono una frazione dei testi ed espressione del contesto di idee tetro che i ragazzi creano.

L’opener presenta un altro lato della band, fatto di un hardcore più deciso, ma sempre con Lindo Ferretti dietro a fare ombra nei testi (ancora più evidente in Costa Adriatica e in Balena), sfiorando anche qualcosa de Il Teatro Degli Orrori (in Diane ad esempio) che unisce testi pesanti in prima linea alternati a ritmiche ossessive pronte ad esplodere all’improvviso. In più, in alcuni frangenti, si assaggiano pattern math (Nessuno) che rendono più particolare lo stile del trio e ci fanno capire che i ragazzi ci mettono della loro tecnica per esaltare i brani. Ma la ritmica nel loro caso resta spesso un passo indietro, come era accaduto in passato con Aleppo (Parte 1) e qui accade con Rivoluzioni. Gli unoauno sono giovani ma hanno il coraggio di mettere in scena una proposta per nulla banale, un sound che per molti è morto e sepolto ma che a nostro parere si fonde alla perfezione con il messaggio, in parte nichilista, che il trio vuole trasmettere. E in fin dei conti ci sembrano molto più lucidi e obiettivi di tante formazioni anche con più lustri alle spalle.

Autore: Unoauno Titolo Album: Barafonda
Anno: 2019 Casa Discografica: Ribéss Records
Genere musicale: Post-Punk Voto: 6,5
Tipo: CD Sito web: https://www.facebook.com/unoauno1.1/
Membri band:
Mauri – batteria
Giangi – voce, synth
Rocco – basso

Pieralberto Valli – voce in Rivoluzioni
Tracklist:
1. Autobahre
2. La Pietra
3. Nessuno
4. Costa Adriatica
5. Panorama
6. Rivoluzioni
7. Diane
8. Balena
9. Non Ci Siamo Mossi Di Un Passo
Category : Recensioni
Tags : Post-punk
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07th Mag2019

Grey Blue Ashes – Afternoon Session

by Marcello Zinno
Una delle strutture di line-up vincenti è il cosiddetto power trio. Certo, con più membri si possono aggiungere elementi interessanti, una seconda chitarra, un tastierista, ma in alcuni casi, quando c’è un amalgama particolare, il power trio è in grado di creare una magia unica. I Grey Blue Ashes aderiscono perfettamente a questo discorso, il loro rock è affascinante e in un EP dalla durata concisa riescono a regalarci grandi emozioni, di sound ma anche di idee. I brani sono tutti sotto i 3 minuti (eccezion fatta per l’ultima Falling In Love, decisamente dai ritmi più lenti e incantati) ma dicono tutto a dimostrazione che nel rock non sempre servono composizioni lunghe e diluite per emozionare. La chitarra batte un tempo veloce e coinvolgente (sì perché nel loro caso sembra quasi che la chitarra funga da elemento ritmico), la voce ti entra dentro quasi come fosse una band post-punk, stacchi e variazioni fanno un’altra grande parte dell’EP, impulsi che attivano costantemente il cervello e non ti fanno perdere nemmeno una nota di questo Afternoon Session. Echi al rock che fu, soprattutto per produzione, ma si percepiscono rimandi (o almeno noi li sentiamo) da ambienti molto variegati, dai The Clash (e la loro apertura mentale) ai primissimi Rush (quando il prog non era arrivato ancora nel loro songwriting). Ma forse stiamo esagerando, la colpa è tutta di queste sette tracce che ci hanno colpito come uno schiaffo in pieno volto.

Dicevamo di idee, e qui non mancano, dalle influenze orientali con annesso assolo potentemente rock in Enemy fino ai cori quasi punk di High Voltage, un turbinio di vena pulsante elettrica che non stanca mai. Considerando la loro proposta musicale a parer nostro i Grey Blue Ashes sono una band assolutamente live, da assaporare in show incandescenti. È lì che vanno apprezzati anche se siamo sicuri che questo EP girerà nei nostri lettori per molto tempo.

Autore: Grey Blue Ashes Titolo Album: Afternoon Session
Anno: 2018 Casa Discografica: Autoproduzione
Genere musicale: Rock, Post-Punk Voto: s.v.
Tipo: EP Sito web: https://www.facebook.com/greyblueashes
Membri band:
Voxy king – voce, basso
David Pantone – chitarra, synth
Sisko – batteria
Tracklist:
1. High Voltage
2. Devices
3. Materia
4. Tiny Little Pieces
5. Enemy
6. Pissed Off Boy
7. Falling In Love
Category : Recensioni
Tags : Post-punk
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25th Apr2019

Bazooka – Zero Hits

by Piero Di Battista
Abituati ad ascoltare musica proveniente prevalentemente dalla sponda opposta dell’Atlantico, dalla Gran Bretagna o dalla Germania, si tende spesso, e, parliamoci chiaro, a volte legittimamente, a sottovalutare ciò che proviene da altri paesi. Per esempio in Grecia qualcosa si muove e non da oggi. Parliamo dei Bazooka, band proveniente da Atene e attiva da più di dieci anni che, al di là del nome piuttosto banale, sfornano un prodotto tutt’altro che scadente. Zero Hits, questo il titolo del loro ultimo album, pubblicato per Inner Ear Records, propone, attraverso quatordici brani, un post-punk di discreta fattura; il sound difatti richiama fortemente quel periodo che seguì la scia del “live fast die young” del punk di fine 70’s, che negli 80’s, con l’aggiunta dei synth e di conseguenza di una forte componente elettronica, ebbe il suo periodo più florido. I Bazooka riprendono dunque quelle sonorità e le ripropongono senza neanche dargli troppo quel tocco di attuale, come se volessero portare una sorta di forma di rispetto verso quel genere, e in particolare, verso quel periodo. I Bazooka però non scordano chi sono e da dove vengono e lo dimostrano propondendo dei testi totalmente in lingua madre, una vera pecca per chi non è greco, a meno che non abbia frequentato il liceo classico. Ma tant’è.

Post-punk, new-wave, chiamamola come ci pare, resta il fatto che i Bazooka, pur varcando i confini dell’anacronismo, hanno realizzato un discreto lavoro. Forse un po’ troppo retro, ma ogni tanto non guasta voltarsi e guardare indietro. Senza esagerare.

Autore: Bazooka Titolo Album: Zero Hits
Anno: 2019 Casa Discografica: Inner Ear Records
Genere musicale: Post-Punk Voto: 6,5
Tipo: CD Sito web: www.facebook.com/bazookagreece
Membri band:
Xanthos Papanikolaou – voce, chitarra, synth
John Voulgaris – batteria
Vasilis Tzelepis – chitarra
Aris Rammos – basso
Panos Papanikolaou – tastiere, percussioni
Tracklist:
1. Ela
2. Filaki
3. Keno
4. Monos
5. Oi Vlakes Kanoune Parelasi
6. Eho Kourasti
7. Mesa Stin Poli
8. Kati Eho Prodosi
9. Vradini Vardia
10. To Hroma Tou Trelou
11. Adias Fores Maties
12. Min Kitas Piso
13. Soultana
14. Ta Spao Ola
Category : Recensioni
Tags : Post-punk
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03rd Apr2019

The Cure – Wish

by Raffaele Astore
Dopo la pubblicazione del mini live Entreat di cui abbiamo parlato a questa pagina, l’anno successivo, nel 1992, è la volta di Wish che giunge in un periodo in cui il grunge stava assumendo connotati epocali grazie a tante di quelle band che poi, di lì a poco, si sarebbero definitivamente affermate sia sulla scena americana, dalla quale la maggior parte proveniva, ma anche a livello internazionale. Nonostante Wish contenga diverse sonorità pop che in quel periodo influenzavano e di molto il solito Robert Smith, l’album in questione è comunque ben meditato nonostante le solite incursioni dark che hanno contraddistinto sempre il sound dei The Cure. Wish resta comunque un full-lenght che è una vera e propria pietra miliare di quell’alternative rock che, ai giorni d’oggi, se si fa caso, è completamente sfociato nell’indie. Pubblicato sia su Fiction per il Regno Unito che su Elektra per gli States, in Wish si trovano bei momenti come High o la stessa Apart che reputo, personalmente, davvero fantastica. Provate anche voi ad ascoltarle senza sollevare la puntina, vi accorgerete che le atmosfere, queste atmosfere poi, sono impossibili da descrivere. Con From The Edge Of The Deep Green Sea,Smith è davvero un poeta che fa risaltare le liriche ed il romanticismo. Basti a ciò pensare a quando canta “I wish I could just stop/ I know another moment will break my heart/ Too many tears/ Too many times/ Too many years I’ve cried for you” (trad. “Vorrei poterlo fermare/So che un altro momento mi spezzerà il cuore/Troppe lacrime/Troppe volte/Troppi anni ho pianto per te”).

Wish nel suo insieme è un album senza tempo, qui non siamo di fronte ad un Disintigration come nel 1989, qui è forte la presenza di un desiderio di fuggire via dalle ombre in cerca di amore, e lo dimostra anche l’ordine dei brani che pur passando da un argomento all’altro non sono mai slegati, ma essenziali. C’è poco da dire su questa produzione che reputiamo splendida, semplice ed emozionante per quello che ci trasmette. Wish è un album dove le atmosfere sono tipiche della malinconia che ha caratterizzato tanti lavori dei Cure, ma è anche un inno alla vita ed alla gioia di vivere e di esserci comunque, si perché al di là delle atmosfere leggere e soft presenti in molti brani, c’è comunque la tipica veste dei Cure. Per ciò è sufficiente pensare a From The Edge Of The Deep Green Sea un vero e proprio delirio psichedelico, un brano veramente epico di una band che se finalmente si può godere la nomination, in questo 2019, nella Rock & Roll All Fame, di cose da dire ne ha ancora tante. E la storia è tutta dalla loro grazie anche a questo stupefacente Wish realizzato presso gli studi di Shipton Manor, uno studio di registrazione nell’Oxfordshire, il primo vero studio del Regno Unito.

E se ci pensate quando ascolterete quest’album, i The Cure son stati primi nell’ondata di nuovi generi, e l’album di cui vi abbiamo parlato, energico a non finire, è fatto anche per quelle grandi platee alle quali la band ormai era ed è abituata. Lo conferma il tour promozionale del disco, eccezionale. Fatevi un giro su spotify o dove volete voi, ma non lasciatevi scappare un passaggio così docile, vellutato e rock. Questi sono i The Cure.

Autore: The Cure Titolo Album: Wish
Anno: 1992 Casa Discografica: Fiction Records
Genere musicale: New Wave, Post-Punk, Alternative Rock Voto: 7
Tipo: CD Sito web: https://www.thecure.com/
Membri band:
Robert Smith – basso, chitarra, tastiera, voce, basso
Perry Bamonte – basso, chitarra, tastiera
Simon Gallup – basso, tastiera
Porl Thompson – chitarra
Boris Williams – percussioni, batteria
Brani:
1. Open
2. High
3. Apart
4. From The Edge Of The Deep Green Sea
5. Wendy Time
6. Doing The Unstuck
7. Friday I’m In Love
8. Trust
9. A Letter To Elise
10. Cut
11. To Wish Impossible Things
12. End
Category : Recensioni
Tags : Post-punk, The Cure
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23rd Dic2018

Porco Rosso – Kuro Fune

by Raffaele Astore

Porco Rosso - Kuro FuneSecondo album per i Porco Rosso, band pisana che viaggia tra atmosfere post-punk e wave di innegabile fattura, alle quali si aggiunge una certa genialità che caratterizza questa loro seconda produzione. Infatti Kuro Fune, è ancora più crudo, ma anche più geniale, rispetto all’esordio perché interamente realizzato in presa diretta e quindi con sonorità immediatamente palpabili. Navi Nere (letteralmente Kuro Fune) è il nome che i giapponesi diedero alle quattro navi da guerra della marina statunitense che nel 1853, ancorandosi sulle coste giapponesi, voltarono pagina alla storia. E questa storia i Porco Rosso l’hanno voluta trasformare in canzoni interamente registrate con il supporto di un registratore a quattro tracce TASCAM 244 a cassetta. Un po’ a simboleggiare, anche per molti di noi, la nascita di una nuova era musicale anzi, un ritorno al passato che sembra ormai più da uomini delle caverne sonore quando in voga c’erano oltre alle musicassette i buon vecchi revox a bobinone. Ma il ritorno di audiocassette ed anche di vinili stanno a significare che sempre più artisti ormai si affidano a questi prodotti perché i suoni risultano così essere più fedeli e vicini alla realtà. E si sentono anche in questa audiocassetta che è priva di manipolazioni di qualsivoglia genere.

Kuro Fune è un inno contro l’egemonia dei potenti, e la musica sa essere dirompente con quel punk che, come lo definiscono i Porco Rosso, è un synth punk di buona fattura capace di proiettare, su chi ascolta, l’essenza di questa band. Certo però che a volte, da come Ricoveri utilizza la voce, non mancano certi richiami ai CSI di Giovanni Lindo Ferretti. Ma la band è anche un vero e proprio manifesto contro l’indifferenza latente di una società in estinzione, almeno quella sonora, e non solo quella che è mossa da idealismo sempre più lontani dall’essenza umana. Ecco perché Kuro Fune, con i suoi pezzi, è un album contro tutto e contro tutti ed in particolare contro un potentato che mira sempre più a governare le menti. E se da una parte può nascondersi Orwell, dall’altra sono i Jekyll e gli Hyde di turno che esplodono in tutta la loro essenza elettronica. Kuro Fune è tutto quello che non ti aspetti perché qui, in questa audiocassetta musica, parole e stile sono proprio lì, sul confine che separa i due generi che questa band predilige, il punk e la new wave. Una ventata d’aria nuova anche da queste parti!

Autore: Porco Rosso

Titolo Album: Kuro Fune

Anno: 2018

Casa Discografica: Autoproduzione

Genere musicale: Post-Punk, New Wave

Voto: 6

Tipo: Audiocassetta

Sito web: https://www.facebook.com/artpork

Membri band:

Michele Ricoveri – parole, voce, partiture elettroniche

Giovanni Sodi – organo elettronico, synth, miscellanee

Tracklist:

  1. IHVIPR

  2. Victor Criss

  3. Nothing N.O.F.

  4. Novità

  5. Scaffale#

  6. Punk

  7. Kuro Fune

  8. Marco&Gina

  9. Erede

  10. Divido!

  11. Bianca Nera

  12. Balada Atomica

  13. Hey$

  14. Perché + o –

  15. Questioni Design

  16. Dark Star

  17. Back Liars

  18. Mori Memento

Category : Recensioni
Tags : Post-punk
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