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08th Set2017

Self Portrait – Self Portrait

by Raffaele Astore

Self Portrait - Self PortraitIl gruppo parmigiano che stiamo per proporvi viaggia tra sonorità psichedeliche e spaziali ben amalgamate, sorrette da una scrittura che si propone lineare e concreta. Già dal primo brano del loro omonimo lavoro, peraltro rintracciabile su youtube, il personale modo di fare rock viene proposto in maniera magistrale ed originale con le chitarre che proprio con Tiergarten, brano di apertura di questo loro primo EP, si propongono spaziali con ritmiche che risultano leggere pur se sostenute da elementi tastieristici azzeccati e inseriti al giusto posto. A dirla tutta però, anche se il richiamo alla voce di un grande come Roger Water non manca da parte di Marco Fulgoni, la capacità di esprimere rock psichedelico di fattura egregia fa dimenticare questa leggera sbavatura nelle proposte musicali dei Self Portrait. Accade così che anche la seconda traccia di questo mini CD rispolvera momenti sonori leggeri e psichedelici che riportano a quelle italianissime atmosfere cui la prima PFM ci aveva abituato, ma la maestrìa di questi parmigiani fa dimenticare ben presto il paragone perché Fulgoni & C. sono in grado di saper esprimere egregiamente la tecnica strumentale posseduta e sciorinata in questo lavoro con sapienza. Certo che anche in questo brano l’onnipresenza di un sound floydiano conferma quanto loro stessi dichiarano sulla propria pagina facebook alla voce “altri artisti che ci piacciono”.

I sintetizzatori e le tastiere sono qui la guida unica dell’intera struttura di questo lavoro, soprattutto nell’intreccio con la chitarra e la voce del solito Fulgoni. Per dirla tutta poi, il fatto che alla batteria ci sia una donna, Vittoria Pezzoni, conferma questa volontà di pura psichedelica che è sostenuta da una semplicità di esecuzione alla Tucker velvettiana che ben conosciamo. Ed anche il testo non è una sorpresa per il sostentamento di tutta la composizione visto che in Croup & Vandemar, secondo brando di Self Portrait si narra di un efferato assassinio. Nine Magpies & A Black Cat prosegue sulla stessa linea dei precedenti pezzi con un bel tocco di chitarra che esalta la voce del solito Fulgoni che qui, dopo i primi due pezzi, ci sembra davvero matura per affrontare altre tipologie di sonorità; non mancano riferimenti ad un sound più corposo capace di produrre atmosfere vellutate con passaggi leggermente jazzati. Insomma proprio la giusta misura per raccontare, così come nel testo, il risultato della causa-effetto narrata. La chiusura affidata a Moontrip descrive con sapienza e perfezione il trip di un viaggio lunare e la produzione del video cui è affidato il lancio di questo ulteriore bel brano la dice tutta sulle influenze che questi musicisti si portano dentro.

Psichedelia allo stato puro ma anche una buona capacità di sapersi esprimere con una musica che è di certo alla portata non solo di chi la frequenta assiduamente. Che dire ancora? Che questa band parmigiana ci colpisce in modo particolare per come sa ben amalgamare i vari strumenti e questo a tutto a vantaggio di un sound psichedelico ben costruito ed eseguito. Se questo è il loro primo lavoro, attendiamo con ansia i successivi.

Autore: Self Portrait

Titolo Album: Self Portrait

Anno: 2016

Casa Discografica: Autoproduzione

Genere musicale: Rock, Psichedelia

Voto: s.v.

Tipo: EP

Sito web: https://soundcloud.com/selfportrait-1

Membri band:

Marco Fulgoni – voce, chitarra

Martino Pederzolli – basso

Michele Ravo – batteria

Giorgio Cimino – tastiere

Brani:

  1. Tiergarten

  2. Croup & Vandemar

  3. Nine Magpies & A Black Cat

  4. Moontrip

Category : Recensioni
Tags : Psichedelia
2 Comm
19th Lug2017

The Velvet Underground – The Velvet Underground

by Raffaele Astore

The Velvet Underground - The Velvet UndergroundSolo due settimane per realizzare le tracce base di un album dal vivo in studio. Già, perché i The Velvet Underground amano la presa diretta, ma più di tutti l’ama Lou Reed il perfezionista. E’ avvenuto in questo modo l’inizio del nuovo percorso della band, un’avventura nella quale entrerà a farvi parte di diritto anche Doug Yule, voluto lì da Lou Reed, la mente incontrastata dei nuovi VU dopo l’uscita di scena di John Cale. Eh sì, perché se prima le menti erano due, ora rimane solo quella di un Reed che non deve più dividere con Cale la creatività e la ricerca del suono perfetto. Per l’intera band ora orfana di Cale fu davvero facile registrare questo disco, la buona atmosfera creatasi durante le session di lavoro, indusse i musicisti a scambiarsi molte idee in studio, a discutere sulle scelte armoniche semplificando sempre più i suoni, e poi qui, l’approccio musicale di Yule è ben diverso da quello di Cale, più in sintonia con quella che era la visione del Lou Reed ormai incontrastato leader. Il risultato ottenuto ci parla di un disco che segna davvero una nuova strada per la band tutta: nell’album “grigio” sono assenti espliciti riferimenti sessuali, racconti di droga e così via; qui si parla di amore, religione, solitudine il cui personaggio principale è Candy, vale a dire quel Candy Darling, travestito e superstar della Factory di Andy Wharol, che stava per sottoporsi ad un intervento di cambio del sesso. Ma tutto questo non rappresenta un cambio di rotta rispetto alle tematiche toccate nei precedenti lavori, è solo una scelta sonora, niente di più.

L’album “grigio” The Velvet Underground, così soprannominato per distinguerlo, si apre proprio con Candy Says ed è questa sua apertura che ci mostra un volto diverso dai VU che il pubblico ha conosciuto finora; qui l’atmosfera è così pacata e quasi irreale, così come lo sono altri brani di questo terzo “capolavoro”. Qui è l’interpretazione di Yule che canta Candy Says a far risaltare il senso d’amore verso un personaggio complesso come è quello descritto da Reed. Infatti, nel suo elencare tutte le diverse tipologie d’amore che vanno da quello religioso all’adulterio, all’omosessualità e così via, Reed cala una ballata malinconica a misura della confessione di Candy Darling, il travestito della Factory, che confida a Reed di essere giunta ad odiare il proprio corpo, uno sguardo su quel dramma interiore che colpisce spesso i transessuali imprigionati come donne in corpi maschili. Di questo brano vogliamo qui segnalarvi la bellissima versione presente nel DVD Berlin, cantata insieme ad Antony Hegarty, scoperto dallo stesso Reed e da Laurie Anderson, con un Lou Reed che giunge alla fine del brano con le lacrime agli occhi. E basta una parte del testo a farci capire quanto questo sia un pezzo davvero toccante, un brano che anche se differente per sonorità ricalca tematicamente quel Lady Godiva’s Operation di White Light/White Heat: “Candy dice sono arrivata ad odiare il mio corpo e tutto ciò cui ha bisogno in questo mondo…Candy dice vorrei capire con precisione quello di cui gli altri discutono con tanta discrezione”; ed il parallelismo con Lady Godiva’s Operation lo troviamo tutto in questa frase “Guarderò gli uccelli blu (tristi) che volano sopra le mie spalle…voglio guardarli mentre mi passano sopra…forse quando sarò vecchia…cosa credi che vedrei se potessi allontanarmi da me?”

Il secondo brano del disco, What Goes On, è l’unico pezzo che fungerà da promozionale dell’album senza mai giungere nei negozi di dischi, ed infatti What Goes On, unico pezzo rock, passerà per le stazioni radio e basta. Ma la canzone è anche un brano precursore dei tempi come da sempre lo sono stati i VU, infatti proprio What Goes On anticipa i tempi della futura new wave grazie ad un assolo di chitarra che è di base per tutte le band new wave che verranno. Lo dicevamo nella nostra precedente recensione e lo confermiamo qui: senza i Velvet Underground non sarebbe esistito tutto il rock che è venuto dopo. E la voce lacerata di Lou si innesta alla perfezione in quel Some Kinda Love che un bel giro di blues rende il brano “perenne” ed “intramontabile”. E’ davvero un classico questo pezzo, un classico dei Velvet Underground dove, come per il resto dell’album, si parla di amore, amori che sembrano tutti uguali, amore che nel brano viene descritto così: “in certi tipi di amore…Marguerita ha detto a Tom…tra pensiero ed espressione ci sta una vita…certe situazioni accadono a causa del tempo e non ci sono amori migliori degli altri”. Inoltre, come ebbe a dichiarare lo stesso Lou Reed, questo è il pezzo dove c’è uno dei migliori contributi alla chitarra di Morrison. Uno tra i pezzi più amati dal pubblico è Pale Blue Eyes destinato poi a diventare uno dei brani più coverizzati dei Velvet Underground tra i quali spicca in particolare l’interpretazione di Patty Smith nel live di Stoccolma del 1976, una delle migliori artiste-amiche più apprezzate dallo stesso Reed in futuro. Anche qui, il brano scritto da Lou Reed svela senza mezzi termini la segreta relazione che Reed all’epoca aveva con una donna sposata, Shelly Albin. Ed il significato di tutto il brano fu per Sterling Morrison come una sorta di doccia fredda quando la ascoltò per la prima volta; infatti fu proprio Morrison a dire a Reed, dopo che quest’ultimo aveva fatto ascoltare il pezzo: “Se io avessi scritto una canzone così, non ti permetterei di suonarla”.

Il lato A del disco si chiude con un tema religioso Jesus. Anche qui, così come per la precedente recensione sui VU non ci soffermeremo su ogni singolo brano, perché qui è tutto il disco a rappresentare validità assoluta anzi è tutto quello che ci fu dietro la produzione che rese anche questo lavoro “futuribile”. L’album “grigio” The Velvet Underground fu registrato volutamente andando contro tutti i criteri di produzione allora in voga, un album che conserva ancora oggi tutta una freschezza particolare, sarà forse che “suona come se fosse stato suonato in un ripostiglio” (dichiarazione di Sterling Morrison all’epoca). Già, per fortuna le porte dei ripostigli però si aprono ed a volte ciò che ci trovi dentro sono cose che ti riportano indietro e che ti fanno ricordare…e noi qui abbiamo voluto riflettere, con questa recensione su The Velvet Underground, sui primi tre dischi del gruppo più importante nella storia del rock. Già, perché con The Velvet Underground & Nico, White Light/White Heat e The Velvet Underground sono mostri sacri che sono riusciti a creare tre scuole di pensiero diverse tra loro, ma uniche. E poi se quel lontano 1967, la band con The Velvet Underground produceva quelle strutture che avrebbero portato al rock, rock psichedelico, art rock, rock sperimentale, proto-punk, garage rock, immaginate se un album del genere fosse stato prodotto nei nostri tempi cosa sarebbe accaduto.

E se Brian Eno per il primo album del Velvet Underground ha dichiarato “Il primo album dei Velvet Underground ha venduto solo 10mila copie quando è uscito ma ognuno di quelli che lo ha comprato ha formato una band”, allora noi possiamo aggiungere “I Velvet Underground? Immensi e geniali è dire poco!”.

Autore: The Velvet Underground

Titolo Album: The Velvet Underground

Anno: 1967

Casa Discografica: MGM Records, Verve Records

Genere musicale: Rock, Psichedelia, Art Rock, Sperimentale, Proto-punk, Garage

Voto: 9

Tipo: CD

Sito web: http://www.velvetundergroundmusic.com

Membri band:

Lou Reed – voce, chitarra, cori

Sterling Morrison – chitarra, voce in The Murder Mystery

Doug Yule – basso, organo, cori, voce in Candy Says e in The Murder Mystery

Maureen Tucker – percussioni, voce in After Hours e in The Murder Mystery

Tracklist:

  1. Candy Says

  2. What Goes On

  3. Some Kinda Love

  4. Pale Blue Eyes

  5. Jesus

  6. Beginning to See the Light

  7. I’m Set Free

  8. That’s the Story of My Life

  9. The Murder Mystery

  10. After Hours

Category : Recensioni
Tags : Album del passato, Psichedelia
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21st Giu2017

Telepathic Dreambox – Telepathic Dreambox

by Stedi

Telepathic Dreambox - Telepathic DreamboxI Telepathic Dreambox sono una band tarantina formatasi nel 2014, composti da musicisti con diverse esperienze alle spalle. Il disco, prodotto solo in vinile viola in edizione limitata a 300 copie, è uscito nel maggio del 2017 con materiale registrato nel 2015. Il loro rock racchiude in sé elementi delle diverse stagioni psichedeliche, quella dei sixsties sicuramente ma anche il paisley sound degli anni 80 e certa shoegaze dalle tinte dark. E’ evidente che i cinque membri hanno una buona conoscenza della materia sopra citata perché il tutto viene amalgamato con maestria creando un sound originale pur rimandando alla fonte delle loro influenze musicali. Si parte con la chitarra distortissima di Acid Moon ad intonare un tipico riff garage che fa da sfondo ad un secondo ipnotico riff suonato all’unisono da chitarra e organo e supportato da un basso rotondo e pulsante. Sicuramente uno dei pezzi migliori dell’album. Il secondo brano cambia registro: Before You’re Back Again è forse il brano più pop dell’intero set ma racchiude in se alcune ottime trovate come la chiusura dei ritornelli che ricorda i Pink Floyd di Syd Barrett e l’intermezzo di solo organo in pieno stile Ray Manzarek. Il viaggio continua con la ballata lisergica Shaka Shaka (promossa con un bel video disponibile sul “tubo”) e l’ipnotica Silver Mate che chiude il primo lato del disco.

Nel lato B si spinge sull’acceleratore con Devil’s Trick che rappresenta il pezzo più veloce dell’album. Un riff di matrice blues su un ritmo beat incalzante, reverberi, echi, wha wha, slide guitar e l’ottimo organo di Elyo Di Menza che chiude solitario il pezzo. All Is The Same mantiene le coordinate blues con una slide guitar che richiama alla mente Robby Krieger dei Doors. Chiude l’album The Fool, un bellissimo strumentale di oltre sei minuti in cui si mischiano riff acid rock a suoni ed atmosfere dark (il suono dell’organo?) e shoegaze con loop di feedback sovrapposti. 7 brani per un totale di circa mezz’ora di musica per un ottimo doppio debutto, quello dei Telepathic Dreambox da un lato e quello dell’etichetta Discordia della quale questo disco rappresenta il primo capitolo in catalogo. C’è da aspettarsi buone cose da entrambi.

Autore: Telepathic Dreambox

Titolo Album: Telepathic Dreambox

Anno: 2017

Casa Discografica: Discordia

Genere musicale: Rock, Psichedelia

Voto: 8

Tipo: LP

Sito web: https://soundcloud.com/telepathicdreambox

Membri band:

Marco Sisto – voce, chitarra

Pierluigi De Pierro – basso

Fabrizio Lavegas – chitarra

Elyo Di Menza – organo, chitarra, voce

Lorenzo Velle – batteria

Tracklist:

Lato A:

1. Acid Moon

2. Before You’re Back Again

3. Shaka Shaka

4. Silver Mate

Lato B:

5. Devil’s Trick

6. All Is The Same

7. Fools

Category : Recensioni
Tags : Psichedelia
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13th Giu2017

Ananda Mida – Anodnatius

by Marco Castoldi

Ananda Mida - AnodnatiusUn disco di altri tempi questo Anodnatius. Ad eccezione di Kondur dove gli Ananda Mida concedono qualche pennata e la regolarità delle ballate blues alla maniera britannica, per le altre otto tracce ti senti proiettato in un universo a metà strada tra Gong e Van Der Graaf Generator. Ebbene sì, gli Ananda Mida concedono 8 pillole di psichedelia veramente evocativa. I riferimenti ci sono tutti, musicalmente e nei testi. Suggerirei di partire dalla traccia 4, Anulios che, oltre ad essere la mia preferita, ha quelle variazioni ritmiche che tirano fuori i virtuosismi chitarristici al meglio, è la traccia su cui si va spinti sugli effetti, è il pezzo che contiene goduriosi innesti di synth e viene chiusa con un riff quasi stoner che martella i neuroni in maniera decisamente imperiosa. Carino anche il topic stellare/astrologico delle liriche del testo (si parla di sole che merita un fratello e luna che merita una sorella) che ci spinge nei temi del cosmo tanto cari alla psichedelia, che alla fine nasce proprio nell’era della conquista dello spazio e allo spazio si riferisce come, per essere banali, Dark Side Of The Moon o, per fare i sofisticati, H To HE, Who Am The Only One. Questa manciate di righe su Anulios sintetizzano tutto lo stile dell’album. Il tripudio di sperimentazione di effetti infatti prosegue anche con la traccia successiva, Passavas e va anche ben oltre con il pezzo successivo, Ors e anche in quelli a seguire.

Dalla loro pagina facebook gli Ananda Mida sembrano definirsi una sfinge a 2 teste, una stoner e una psichedelica. In tutta onestà di stoner (inteso come lo stile musicale derivante dai dettami delle tavole dell’alleanza di Josh Homme – Blues For The Red Sun e Songs For The Deaf – scolpiti in due pietre granitiche che il nostro messia rosso porta raggiante in viso una nella mano destra e una nella sinistra) ci ho visto solo il riff di Heropas e nient’altro. Il che non conta assolutamente una beata fava, Anodnatius è un grandissimo album psichedelico che ti lancia, copertina compresa, in un viaggio interstellare, come negli anni ’70 della gloriosa psichedelia legata alla conquista dello spazio. E il tema psichedelico è quindi ancora attuale – ci stiamo attrezzando per andare su Marte, esistono esopianeti con condizioni favorevoli alla vita come la conosciamo noi e non dimentichiamo la sonda Voyager è appena uscita dal sistema solare e manda ancora segnali radio. Anche se la possente voglia di retrò legata dalla facile commerciabilità di tutto ciò che retrò ha rotto, c’è comunque una nicchia di sottobosco underground che ha bisogno, apprezza e deve conoscere un po’ di sana psichedelia all’italiana, che gli Ananda Mida eseguono in maniera eccellente e parecchio piacevole nei quaranta minuti di Anodnatius.

Non sarà il disco più innovativo di sempre, tuttavia Anodnatius è talmente ben strutturato, eseguito con minuzia e disegnato nell’artwork che merita assolutamente di essere ascoltato.

Autore: Ananda Mida

Titolo Album: Anodnatius

Anno: 2016

Casa Discografica: Go Down Records

Genere musicale: Psychedelic Rock

Voto: 8

Tipo: CD

Sito web: http://anandamidaband.bandcamp.com

Membri band:

Davide Bressan – basso

Oscar De Bertoldi – vocals

Filippo Leonardi – vocals

Stefano Pasqualetti – organo, synth

Max Ear – batteria

Matteo Scolaro – chitarra

Alessandro Tedesco – chitarra

Tracklist:

  1. Aktavas

  2. Lunia

  3. Kondur

  4. Anulios

  5. Passavas

  6. Ors

  7. Askokinn

  8. Heropas

  9. Occasion

Category : Recensioni
Tags : Psichedelia
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15th Mag2017

Bill Brovold & Jamie Saft – Serenity Knoll

by Amleto Gramegna

Bill Brovold & Jamie Saft - Serenity KnollJamie Saft, già tastierista in vari progetti di John Zorn, si diletta in questo lavoro alla chitarra resofonica e alla lap steel, coadiuvato da Bill Brovold, chitarrista, liutaio, maestro dell’improvvisazione. Due chitarre dunque, elettriche e acustiche, folk e improvvisazione, musica lontana da quelle provate e improvvisate per il folle Zorn. Serenity Knolls si snoda infatti in 12 brani di folk, ambient, roots music americana, dove il duo si abbevera a piene mani dall’esperienza di John Fahey, altro grande sperimentatore. Non abbiamo dunque il classico blues, che da una resofonica bene o male ti aspetti: sono innegabili in ogni caso le influenze country, lontanissime da quelle sfavillanti di Nashville, ma più vicine alle paludi e fiumi dimenticati, in quei luoghi anonimi dell’America dove trascorrere un Tranquillo Weekend di Paura. Tutto è leggero, datato. Nessun virtuosismo da parte dei due. È preciso l’intento di creare musica ispirata alle infinite strade del grande passaggio americano, filtrate attraverso una leggerissima influenza psichedelica. Lo stesso titolo del disco è un omaggio al luogo dove trovò la definitiva pace il buon vecchio Jerry Garcia, leader dei Grateful Dead e pioniere della musica psichedelica americana.

Il duo definisce la propria musica “country ambient” ed in parte è azzeccata la loro definizione. Noi abbiamo trovato questo lavoro curioso, interessante e decisamente innovativo. Sì, innovativo avete capito bene. Nonostante abbiamo già definito “datato” questo lavoro, lo abbiamo trovato più innovativo di tanta musica che ci viene proposta come “uau, questo è il futuro”.

Autore: Bill Brovold & Jamie Saft

Titolo Album: Serenity Knoll

Anno: 2017

Casa Discografica: RareNoiseRecords

Genere musicale: Ambient, Country, Psichedelia

Voto: 8

Tipo: CD

Sito web: http://www.rarenoiserecords.com/brovold-saft

Membri band:

Bill Brovold – chitarra

Jamie Saft – dobro, lap steel

Tracklist:

  1. Sweet Grass

  2. Mitchmakinak

  3. Saddle Horn

  4. Wendigo

  5. Thermopolis

  6. The Great American Bison

  7. Bemidji

  8. No Horse Seen

  9. Splintering Wind

  10. Greybuli

  11. Serenity Knolls

  12. Silent Midpoint

Category : Recensioni
Tags : Psichedelia
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14th Mag2017

Pink Floyd – Animals

by Raffaele Astore

Pink Floyd - AnimalsSono passati 40 anni dalla sua uscita ufficiale, in più di un’occasione siamo passati proprio da quel luogo ispiratore a Londra, di fronte alla famosa centrale Battersea costruita nel 1939 e chiusa nel 1983. Recentemente l’abbiamo rivista anche durante un servizio televisivo della BBC dedicato a Steve Hackett, ma quel simbolo va ben oltre; quella famosa centrale che vide volare i maiali l’abbiamo ritrovata nel film del 1965 dei Beatles, Help, l’abbiamo osservata nel libretto di un album dei Muse, nel libretto di un album degli Who, Quadrophenia e così via. Di certo, anche se già conosciuta, è stata però resa famosa quando venne immortalata sulla copertina di Animals dei Pink Floyd, uno degli album più controversi della storia del rock progressive. Quest’anno Animals ha compiuto quarant’anni, ma lo ricordiamo come se fosse ieri, un album discutibile, un lavoro che non è riuscito mai a mettere d’accordo la gente perché il suono che lo caratterizza è diverso dai precedenti, non è quello dei Pink Floyd ai quali da decenni siamo abituati anzi, è diverso proprio dalle sonorità pinkfloydiane cui eravamo avvezzi, almeno fino a quel momento. E pensare che gran parte del materiale pubblicato con Animals i Pink Floyd lo scartarono da quella pietra miliare che va sotto il nome di Wish You Were Here, altro disco unico. Ora, immaginate un po’ a questo punto la vera immensità dei Floyd, la band inglese delle grandi trovate sceniche, i componenti di questa macchina sonora che non potranno mai essere dimenticati soprattutto per quanto hanno dato alla musica in generale e non solo al rock.

E’ quanto mai strano, per un gruppo come i Pink Floyd, che alla pubblicazione di Animals lo stesso toccò il primato in classifica in molti paesi esclusa la sola Inghilterra. Ad esempio, quando nel 1977 venne pubblicato in Italia, giunse subito al primo posto nelle vendite, mentre sulle riviste specializzate apparvero opinioni contrastanti e forse è questa la caratteristica che rende grande questa band inglese: essere sempre in grado di creare discussioni. I Pink Floyd hanno creato divisioni e divergenze di opinioni nel pubblico in maniera costante, ma Animals è un album che spiazza, una produzione che resta solitaria dopo le pietre miliari di The Dark Side Of The Moon e Wish You Were Here, un album duro nei testi e nella musica, un prodotto che è ben lontano dalla facile commercializzazione. L’LP è musicalmente ispirato, i suoi contenuti tematici sono davvero forti, anche se va evidenziato che in questo lavoro c’è un esasperato uso del vocoder (per chi non se ne intende è un programma in grado di codificare un qualsiasi segnale audio attraverso un parametro matematico…fantascienza floydiana) e ne potremmo aggiungere ancora. Animals ha una sua ispirazione ben precisa: George Orwell e La Fattoria Degli Animali. In quel libro, ambientato in una fattoria, gli animali stanchi dello sfruttamento dell’uomo si ribellano, cacciano il fattore e dividono i frutti del loro lavoro secondo il principio “ad ognuno secondo le proprie capacità, ad ognuno secondo i propri bisogni”; ma il loro sogno fallisce a causa dei maiali che organizzano ed attuano una rivoluzione per prendere il controllo della fattoria diventando così simili all’uomo. L’opera di Orwell è pregna di messaggi politici forti che si ispirano alla Rivoluzione Russa, all’avvento del comunismo ed alle successive lotte per il potere. Parallelamente, la tematica di Animals, messa in atto dall’idealista della band inglese, Waters, è una critica al capitalismo, e sono le pecore a rivoltarsi contro i cani.

L’idea di fondo qui è geniale, come ingegnosa è questa band che è stata in grado di realizzare un album anti-commerciale in una “perla”, una pietra preziosa che aumenterà il suo valore grazie anche al mastodontico spettacolo messo in scena. Animals arriva poi in un periodo dove i grandi disagi sono visibili in ogni paese del pianeta: in Irlanda per gli scontri nel Nord, in Italia per il terrorismo, per la fine della guerra in Vietnam, la crisi economica che non lascia scampo etc. Animals racconta di una Gran Bretagna che è diventata violenta, indifferente, ed il potere, quello della Thatcher, gestisce una politica non a favore di tutti i ceti sociali, un potere duro e cinico che si fa sentire, lo stesso scenario che Orwell immaginò nel 1945. Pigs On The Wing che apre l’album è scritta da Waters ed è dedicata alla moglie, una sorta di unplugged che riporta il bassista alla chitarra acustica messa da parte dopo If contenuta in Atom Heart Mother. Pigs On The Wing è divisa a metà, in apertura e chiusura del disco, con la melodia resa semplice e lineare perché è intento di Waters far risaltare l’importanza delle relazioni umane che superano e risolvono spesso i problemi e lo si capisce dal testo “Se non ti fossi interessata di me, e io me ne fossi fregato di te, avremmo continuato a zigzagare tra noia e dolore, guardando in alto di tanto in tanto, attraverso la pioggia domandandoci a chi dare la colpa cercando con lo sguardo i porci con le ali”.

Di impegno politico invece è Dogs, una crudele metafora del mondo del business, un pezzo la cui musica fu interamente scritta da David Gilmour. All’epoca, su La Repubblica, di Dogs si parlò in questi termini: “Dogs è forse il brano più contemporaneo di questo disco, nel senso che sia i suoni che gli arrangiamenti riflettono un certo pop-rock della metà degli anni Settanta di derivazione americana. L’apparente dolcezza dei suoni, si scontra con una prima dose di testi estremamente rude”. Analisi più azzeccata per Dogs non poteva esserci. Un brano di ben diciassette minuti aperto da una chitarra supportata dal synth. Il pezzo in questione manifesta tutto l’odio nei confronti di questi animali, i cani, visti da Rogers come arrampicatori sociali, in cerca di denaro e di successo, egoisti megalomani in grado di pensare solo a se stessi. Bel pezzo soprattutto grazie ad uno stile di Gilmor che non allunga troppo i suoni sulle corde della chitarra elettrica. Suoni essenziali quanto basta a fare grande anche questo brano. La chitarra acustica che viene sovrapposta all’abbaiare dei cani è semplicemente stupenda. D’altronde, come diceva Lou Reed, per fare del buon rock bastano tre accordi. Pigs (Three Different Ones) apre con un testo sarcastico “Uomo importante. Uomo maiale, ah ah, sei una farsa Sei un pezzo grosso benestante, ah ah, sei una farsa E quando tieni la mano sul cuore Sembri un tipo simpatico, quasi un buffone Con la testa dentro al porcile” mentre il sottotitolo ci porta a dire che le strofe di questo brano si riferiscono a tre specie di maiali che rappresentano tre tipi di persone che riescono a godere a spese del popolo. La prima tipologia è riferita agli imprenditori ed ai capitalisti, la seconda categoria è esplicitamente riferita alla Thatcher, mentre la terza è invece rapportata alla politica di quei tempi in Inghilterra che voleva far passare la censura radiofonica. Ma il tutto si ritorceva contro il gruppo che il mondo politico inglese non vedeva di buon occhio perché artefice e promotore dell’uso di droghe.

In Sheep, quarto brano in successione, i riferimenti diventano anche di natura religiosa. Il brano varia tra composizioni leggere e melodiche ad aggressività sonore. Qui i Pink Floyd sono maestri nel mettere in evidenza la semplicità della gente della campagna inglese, la gente che in Animals è rappresentata dalle pecore, un popolo che idolatra ma a differenza di quanto scrive Orwell, qui la gente si ribella, un segnale al mondo intero dove le persone semplici possono essere in grado di governare al posto degli arroganti servitori politici del potere economico. L’album si chiude ancora una volta con i maiali, Pigs On The Wing 2, la seconda parte del pezzo di apertura, musicalmente uguale ma che contiene un testo diverso “Lo sai che mi interessa tutto ciò che ti accade Ed io so che tu ti occupi di me Così mi sento meno solo E non sento il peso della pietra“. Qui Waters, riferendosi sempre alla moglie, chiarisce che entrambi sono consapevoli del reciproco amore e lui ha finalmente trovato un rifugio dalla mediocrità e dagli inganni della società, quella società che ha inteso rappresentare con i porci volanti.

Animals non è affatto un album di transizione per i Pink Floyd, è diverso sì, ma è un prog-concept unico. Rispetto alle precedenti produzioni va verso un sound “terreno”, meno spaziale. E’ questo il vero incipit della band, non essere mai uguali a prima, ricercare sempre il diverso. Ecco perché i Pink Floyd sono unici, come unico è anche Animals. E a questo punto non so proprio quanti la pensano come noi.

Autore: Pink Floyd

Titolo Album: Animals

Anno: 1977

Casa Discografica: Columbia Records

Genere musicale: Psichedelia

Voto: 8

Tipo: CD

Sito web: http://www.pinkfloyd.com

Membri band:

Roger Waters – voce, basso, chitarra ritmica, VCS3, chitarra

David Gilmour – chitarre, basso, sintetizzatore su Dogs, voce

Richard Wright – organo Hammond, ARP String Ensemble, minimoog, piano Fender Rhodes, pianoforte su Pigs, VCS3, cori

Nick Mason – batteria, percussioni, voce

Tracklist:

  1. Pigs On The Wing (Part I)

  2. Dogs

  3. Pigs (Three Different Ones)

  4. Sheep

  5. Pigs On The Wing (Part II)

Category : Recensioni
Tags : Album del passato, Pink Floyd, Psichedelia
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06th Apr2017

Brücke – Yeti’s Cave

by Marcello Zinno

Brücke - Yeti's CaveSolitamente per creare una band, mettere insieme le idee, collaudare un progetto, rodare le forze, comporre nuova musica e registrare un album passano degli anni. Non si tratta di un dovere nei confronti del tempo ma di un passaggio fisiologico, necessario per creare le ossa e per poter forgiare uno stile proprio che (magari) riesca a dire qualcosa di distintivo all’interno della propria scena. Certo, non tutte le band devono prendere esempio da realtà come gli Scorpions che impiegarono 7 anni prima di dare alla luce una pubblicazione discografica, ma poco meno di dodici mesi sono forse un po’ pochini per lanciare un EP, anche solo di 5 tracce. Si potrebbe additare i tempi che sono cambiati, la tecnologia che facilita i passaggi tecnici e anche i musicisti che si riconoscono tali ad un’età sempre inferiore, ma lo spessore creativo e la complessità nel voler raggiungere un equilibrio (tanto esecutivo quanto compositivo) all’interno della band, questo no, non è possibile anticiparlo né precostituirlo. Ed è questa l’evidenza principale che ci balza alle orecchie ascoltando l’EP dei Brücke, un gruppo che avrà sicuramente un futuro molto più longevo rispetto al proprio passato, ma che ad oggi manca di consistenza.

Yeti’s Cave suona bene, la produzione è ben curata (ad eccezione del rullante, forse ovattato un po’ troppo), i ragazzi danno anche un’idea di commistione, brani come Ovomaltino creano un certo fascino in chi ha amato la psichedelia, ma sotto questo velo leggero color pastello troviamo una sagoma senza spigoli, un animale senza anima, un’immagine che non possiede densità ma che lascia in bilico, come se si fosse in attesa di qualcosa di deciso, come se si ascoltasse un album fatto di intermezzi, una colonna sonora con un video completamente nero. Gli altri colori? Forse arriveranno. In futuro.

Autore: Brücke

Titolo Album: Yeti’s Cave

Anno: 2017

Casa Discografica: Autoproduzione

Genere musicale: Psichedelia, Post-Rock

Voto: s.v.

Tipo: EP

Sito web: http://www.soundcloud.com/bruckeband

Membri band:

Giulio – chitarra, sample

Nicola – chitarra, synth, sample, basso

Michele – batteria, sample

Lorenzo – basso, voce, piano, percussioni

Tracklist:

  1. Annaciccia

  2. Prociutto

  3. Ovomaltino

  4. Carrarmatozzi

  5. Tebe

Category : Recensioni
Tags : Psichedelia
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21st Dic2016

Chickn – Chickn

by Marco Castoldi

chickenVisione. Era dai tempi degli Spirale Mistica di Daria di MTV che non vedevo gente poeticamente visionaria e pronta a entrare in una ricerca introspettiva e spirituale fatta di elettronica e Jetztzeit rock. Nella parete facebook della Chickntribe i Chickn stampano nella pietra un manifesto in 5 statement, che esce imperioso nel loro debutto. Parafresando: statement 1: “i nostri assoli di chitarra sono intesi per essere lunghi e veloci e pieni di note” fatto. Omens sembra uscita da Houses Of The Holy, vaporosa e sintetica alla No Quarter -100 euro che tra le fonti dei Chickn c’è il quinto degli Zeppelin; statement 2: “rompere gli strumenti= figo” fatto. Modular Prayer è decisamente di un rock visionario che rompe i cliché e porta ad un viaggio a 20.000 leghe psichedeliche. Statement 3: “album lunghi=male” fatto. Chickn sono 10 brani per circa 68 minuti di new prog o come piace dirla alla maniera angloamericana, kraut rock molto ispirato. Se non fosse per la cittadinanza ellenica, Chickn si potrebbe definire un indie al confine tra divagazioni elettroniche e New Weird America elettronica. statement 4: “canzoni sulle droghe=bene” fatto. Genere e introspezioni sono autoesplicative. Statement 5: “qualsiasi cosa con 5 sec o più di feedback=capolavoro” fatto. I secondi finali di Aleppo / Jam e gli effetti delle due Modular Prayer sono dei piccoli capolavori. La musica e la combinazione dei suoni sono così spontanee che sembra di avere in mano un’opera d’arte readymade e non un prodotto discografico.

A metà album sale devastante il dubbio: a suonare è un collettivo o una band? Il dubbio diventa angosciante in Taquism / Rhy / Tavk Hava che è un mix di folklore popolare del mediterraneo dell’est (Cipro, Kos, Turchia) e i Jefferson Airplane in viaggio mistico da Dehli a Pankot. Tecnica, sperimentazione e divagazioni elettroniche sono un tornado elettronico che attraversa e devasta un album pazzesco. Un rock capriccioso che intriga, e non solo per le qualità strumentali del trio. Poco da aggiungere o da dire quando il materiale è veramente di classe. Alziamo i calici, innalziamo cantici, stendiamo il cappello e i mantelli al loro look hipster, profondamente eccentrico e un po’ alla Zappa, elemento che chiude il cerchio e che fa capire che siamo di fronte a ARTISTI scritto appositamente in maiuscolo. Un peccato che nell’immaginario collettivo Grecia=Sirtaki sia un binomio sicuramente più assonante e gettonato che Grecia=Indie. Dramma che questo gruppo sia relegato al sottobosco underground; dal vivo devono essere un’esperienza che merita (provare per credere).

Quindi incrocio le dita affinché il talento immenso dei Chickn venga sdoganato dalla Ellada a breve e intanto consiglio a chiunque abbia anche solo un minimo di amore per i Gong o i The Mars Volta di ascoltarsi i Chickn.

Autore: Chickn

Titolo Album: Chickn

Anno: 2016

Casa Discografica: Inner Ear Records

Genere musicale: Psychedelic Rock

Voto: 8,5

Tipo: CD

Sito web: https://www.facebook.com/chickntribe

Membri band:

Angelos Krallis -voce, chitarra, sitar, synth, drum machine

Evangelos Aslanides – batteria, percussioni

Pantelis Karasevdas – batteria, percussioni, congas

Tracklist:

  1. Chickn Tribe

  2. Omens

  3. Aleppo / Jams

  4. Modular Prayer

  5. Taquism / Rhy / Tavk Hava

  6. Forget / Small Things

  7. Articulation

  8. Modular Prayer (Reprise)

  9. Prelude On Mary

  10. Shifting Time Blues / Akhedia

Category : Recensioni
Tags : Psichedelia
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30th Nov2016

Palmer Generator – Discipline

by Marcello Zinno

palmer-generator-disciplineFacile che un musicista contagi con la propria passione il fratello e che insieme mettano su una band. Più difficile è trovare una formazione al completo appartenente allo stesso ramo familiare: I Palmer Generator rappresentano tre menti che portano la “sigla” Palmieri e che si uniscono nel nome dell’heavy psych, loro fulgida passione. Così nasce Discipline (erede del precedente Shapes), un album che supera la mezz’ora di ascolto grazie alle proprie divagazioni sperimentali (il contributo vocale è completamente assente), viaggi pindarici all’insegna di effetti ma anche di pattern ben delineati e durate di tutto rispetto. Dimenticate quegli eccessi incomprensibili di formazioni che mettono su nastro jam session infinite: i Palmer Generator hanno le idee molto chiare, la sezione ritmica procede all’unisono e, oltre a battere i tempi, delinea molto bene gli stati d’animo che va a toccare ogni singola traccia. Bello e interessante il contributo della chitarra che gioca con la psichedelia senza renderla indigesta, accetta la sfida degli effetti e cerca di contribuire con gusto e particolarità al sound della band.

Si passa dalla introspettiva III, che si muove lungo una foresta di piante grasse in una foschia che lascia molto all’immaginazione, alla potenza di Habit, brano tanto claustrofobico quanto corposo, passando per la title track che ha un vago sapore di post-metal irrobustito da una vena elettrica che sa cosa dire. Calma e pazienza, due doti che se ben dosate nell’ascolto di Discipline riescono a far affiorare una serie di emozioni inaspettate. Un lavoro intricato e interessante, disegnato per gli amanti della psichedelia, dello stoner pesante e della musica sperimentale in generale. Da provare dal vivo ma nell’ambientazione giusta.

Autore: Palmer Generator

Titolo Album: Discipline

Anno: 2016

Casa Discografica: Torango, Astio Collettivo

Genere musicale: Heavy Psych

Voto: 7

Tipo: CD

Sito web: http://palmergenerator.blogspot.it

Membri band:

Tommaso Palmieri – chitarra

Michele Palmieri – basso

Mattia Palmieri – batteria, percussioni

Tracklist:

  1. Persona

  2. Habit

  3. III

  4. Discipline

  5. Domain

Category : Recensioni
Tags : Psichedelia
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03rd Nov2016

Gemma Ray – The Exodus Suite

by Paolo Tocco

gemma-ray-the-exodus-suiteDroga visionaria che torna in circolo come un mantra e come un mantra non si distacca dall’obiettivo: psichedelia e forma canzone reggono assieme un regime dittatoriale monotematico ed unidirezionale. Non so bene ancora come digerire questo disco di Gemma Ray…uno di quegli ascolti difficili ed ermetici. La produzione di questo The Exodus Suite firmato dal russo Ingo Krauss dovrebbe far pensare ad un disco di altissimi livelli ma sinceramente non so…non ancora bene io lo capisco (come suona strana questa frase eppure è corretta…ma siamo sicuri?…ecco la sensazione che mi ha lasciato questo disco). Ci sono troppi suoni “banali” a colloquiare, inseriti invece in un dizionario più ricercato o che quantomeno dimostra di volerlo essere. Anche la rete non ne dà una fotografia chiara, basti pensare che youtube di questo disco ha 3 clip tendenzialmente uguali, idee simili e sviluppate in modo altrettanto adiacenti e decisamente low low budget…direi quasi home made. Quello che colpisce sono le 320.000 visualizzazioni del singolo The Original One, le 192.000 del singolo We Do War e poi le 444 (e basta) di Shimmering. Ora può significare tutto e niente…che poi se vedo che su 320.000 visualizzazioni ho solo 18 commenti e 128 like direi che il pensiero inizia a tramutarsi in sospetto. Questo disco ha qualcosa di strano.

Sono 12 inediti lunghissimi e anche se non lo sono lo sanno diventare all’ascolto. Psichedelia è la parola chiave in tutto e per tutto l’ascolto. Ogni cosa si perde in un’amalgama di suoni eterei e sospesi in cui le melodie sembrano rincorrersi sottilmente e sottovoce tutte, l’una con l’altra…io dopo diversi ascolti non riesco proprio a ricordare un solo passaggio, una solo arrangiamento e non dev’essere per forza un male, ricordiamoci sempre che siamo di fronte ad un disco di cosiddette torch song, cioè canzoni sussurrate che sono segreti, che sono confessioni, che sono in bilico in quella che molti chiamano “la controra”. Quindi il genere è ben rispettato, anzi forse troppo aderente ad una forma canonica di canzone; bellissima voce che mi riporta alle confessioni di Ane Brun, momenti in cui Jeff Buckley nel retrogusto sembra fare capolino nei passaggi più distesi…istanti lampo in cui Loreena McKennitt sembra che sbuchi dalla camera e venga in salotto ad offrire una tazza di the. Cavernose figure, cori da piccola cattedrale, andamenti noir, tremolii del vecchio west sulle chitarre elettriche, organi che quasi sembrano i vecchi e celeberrimi “Farfisa”. Eppure una produzione che vuole essere (e lo fa sfacciatamente) così evanescente, eterea e priva di concretezza, che grida forte alla trasgressiva voglia di sperimentare e di confessare, non fa che ripetere le stesse soluzioni e gli stessi suoni brano dopo brano…che quasi non li distingui più…e poi un riverbero così sulla voce sinceramente non lo sentivo da tempo. Il che non è detto che non sia proprio voluto…però ecco insomma…penso di trovare queste risposte là dove si nasconde anche la spiegazione di come per 320.000 visualizzazioni ci sono 18 commenti.

Di sicuro se spegnete le luci e versate su un buon vino e date fuoco ad una buona paglia (tanto per restare in tematiche western), direi che questo è il disco perfetto…basta non farsi domande…che poi alla fine, che importa?! Play…però qualche domanda ormai ce la facciamo in automatico.

Autore: Gemma Ray

Titolo Album: The Exodus Suite

Anno: 2016

Casa Discografica: Bronze Rat Records

Genere musicale: Psichedelia

Voto: 6

Tipo: CD

Sito web: http://www.gemmaray.tv/

Membri band:

Gemma Ray – voce, chitarra, mellotron, organo

Andrew Zammit – batteria, percussioni, organo, synth, chitarra

Fredrik Kinbom – basso

Carwyn Ellis – piano

Tracklist:

  1. Come Caldera

  2. There Must Be More Than This

  3. The Original One

  4. We Do War

  5. Ifs & Buts

  6. We Are All Wandering

  7. Acta Non Verba

  8. Hail Animal

  9. The Switch

  10. The Machine

  11. Shimmering

  12. Caldera, Caldera! (bonus track)

Category : Recensioni
Tags : Psichedelia
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