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24th Feb2019

Kenyon Bunton – This Guy’s Disguised This Sky

by Raffaele Astore
Quando certa musica sembra lontana dai nostri ambiti si ha una certa difficoltà ad integrarsi con i messaggi che le nuove sonorità trasmettono. E’ successo anche a noi che di musica ne ascoltiamo tanta ogni giorno, quasi ogni momento potremmo dire, ma quando ci è giunto a casa l’ultimo lavoro di Kenyon Bunton, presi come eravamo da altre personali vicissitudini, abbiamo messo da parte il CD proponendoci di ascoltarlo con attenzione in un successivo momento. Quel momento poi è finalmente arrivato e ci siamo accorti che a volte gli spazi per dedicarsi all’ascolto approfondito di certe produzioni non bastano mai perché, This Guy’s Disguised This Sky di Kenyon Bunton, pubblicato a gennaio di quest’anno ed uscito a poca distanza dal bell’esordio del 2018, quel’All Planets Must Land del quale ce ne occuperemo magari in un secondo momento, merita davvero non solo di essere ascoltato ma potremmo dire assaporato virtualmente. Eh sì, perché le atmosfere create da Bunton meritano di essere considerate quali una vera e propria fusione di generi che variano tra psichedelia ed una certa “medievalità moderna”. Ma c’è dell’altro in tutto This Guy’s Disguised This Sky che non può essere in alcun modo tralasciato, ed infatti sin dalla prima traccia, Seeing Is Stealing, la chitarra assume un ruolo fondamentale perché oltre che ad essere lo strumento in prima linea si catapulta in un bel crescendo portando dietro di sé, poco alla volta, tutti gli altri strumenti per un sound che pur sembrando vicino ad un country di vecchia estrazione alla fine del pezzo richiama molto lo stile adottato dai primi Genesis, ed in egual misura, dai Jethro Tull più acustici. Comunque, al di là delle nostre considerazioni stilistiche, il pezzo ci appare ben costruito, e questo è l’evidente segno di che genere di artista abbiamo in ascolto sul piatto del giradischi.

Se non fosse poi per la linea musicale di apertura, il secondo pezzo ci sembra essere un brano estratto da una world music allo stato puro che nulla ha da invidiare a chi ha adottato questo genere nel rock; infatti Seeign Infinity è una vera e propria lirica soft che sembra essere appesa alla psichedelia folk di certi Fugs d’altri tempi. Insomma una vera e propria chicca, così come tutto l’album che stiamo ascoltando con notevole piacere. Pass The Salt tende a mantenersi sulla stessa onda media con atmosfere lisergiche che danno la sensazione di un viaggio in lande deserte grazie a quella chitarra acustica che è davvero un piacere ascoltare. Il successivo passaggio, quello di The Sky Ain’t Blue, apre ad un rock di matrice C.S.N.&Y. che non disdegna a questo punto un disco che si sta rivelando più che piacevole, insomma una vera e propria novità che sembrava avessimo dimenticato. Il pezzo che dà il titolo all’album non poteva non giungere in questo momento per stemperare quella musicalità fin qui proposta da Kenyon Bunton, ma il suo essere vicino a certi movimenti fa sì che This Guy’s Disguised This Sky diventa un vero e proprio viaggio che ci ricorda certe sperimentazioni alla Lino Capra Vaccina che ben conosciamo. L’artista prog più compiuto lo troviamo in The End Of A Superhero che gioca superbamente fra strumenti e voce con un mantenimento della musicalità prog che diventa quasi pura poesia. Una traccia consistente davvero questa, tanto da meritarsi l’appellativo di probabile miglior solco, ma lascio a voi qui decidere, perché, come sempre, l’ascolto di un disco è sempre del tutto personale.

Con Waiting For A Train si ritorna alle atmosfere soffici che tanto ci hanno ammaliato sin dall’inizio di questo This Guy’s Disguised This Sky, atmosfere che navigano tra psichedelia e ballate capaci di inglobare suoni quasi da space rock. Ed è in questo pezzo che il pianoforte e la chitarra giocano quel ruolo fondamentale che fa di questo disco una piacevolissima sorpresa. Summer Song, dall’apertura al Neil Young elettrico prima èra, mi stimola a ritornare all’ascolto di un vecchio disco del songwriter americano, After The Gold Rush, uno dei miei preferiti. Ma è uno stimolo che provvederò a soddisfare dopo la chiusura di This Guy’s Disguised This Sky, affidata a Waiting In The Rain che dimostra quanto davvero valido sia questo lavoro di Kenyon Bunton, una produzione dove l’artista sembra abbia voluto continuare a dimostrare di che pasta è fatto. E se quanto trapelato corrisponde al vero, quest’anno attendiamo da Kenyon Bunton una produzione live ed un ulteriore terzo CD di nuove proposte che non lascerà di certo insoddisfatti chi lo segue da sempre. Finora abbiamo avuto certezze…per la garanzia aspettiamo il prossimo.

Autore: Kenyon Bunton Titolo Album: This Guy’s Disguised This Sky
Anno: 2019 Casa Discografica: Standardtunarecords
Genere musicale: Progressive Rock, Space Rock, Cantautorato, Psichedelia Voto: 7
Tipo: CD Sito web: https://www.facebook.com/standard.tuna.90
Membri band:
Kenyon Bunton – voce, chitarra
Ackley Stephen Alder – chitarra
Richard Harris – basso
Joanne Johannsson – tastiere, piano
Donk – percussioni
Tracklist:
1. Seeing Is Stealing
2. Seeing Infinity
3. Pass The Salt
4. The Sky Ain’t Blue
5. This Guy’s Disguised This Sky
6. The End Of A Superhero
7. Waiting For A Train
8. Summer Song
10. Waiting In The Rain
Category : Recensioni
Tags : Psichedelia
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13th Feb2019

Ananda Mida – Cathodnatius

by Marcello Zinno
Tornano gli Ananda Mida, il cui esordio discografico dal titolo Anodnatius (trattato da noi a questa pagina) ci suona ancora nelle orecchie. Un lavoro dai suoni legati al passato ma da un sapore psichedelico senza tempo. E il loro ritorno non fa di certo rimpiangere quel lavoro, infatti l’opener di questo Cathodnatius apre il sipario su un certo prog rock di richiamo UK con una matrice di base su cui poi il viaggio prende forma. I Nostri si muovono comunque perfettamente nello scenario psichedelico, non di quello strumentale e introspettivo, bensì la psichedelia elegante e futuristica, onirica e spessa di gusto musicale. Blank Stare è il passaggio veloce, con una ritmica più incisiva su cui le linee vocali di Conny Ochs si incrociano alla perfezione e interpretano molto bene il brano; le tastiere ci rimandano ad un passato lontano, quasi riminiscenze space rock perché è questo il vero terreno fertile su cui si muovono gli AM. Stupisce Out Of The Blue, un pezzo acustico dall’intensità davvero difficile da riscontrare in brani pubblicati ultimamente, vagamente Rolling Stones, parzialmente folk, spiazza chi si aspettava effetti a non finire anche in questa traccia di tre minuti precisi.

Gli schemi si ripetono in parte rispetto al precedente album Anodnatius ma questa ripetizione fa assolutamente piacere perché le idee di questo progetto ci colpiscono molto; cambia la struttura della tracklist, composta da brani a due a due in quanto a durata, fino ad arrivare alla lunga suite Doom And The Medicine Man. 22 minuti che partono con un incedere lentissimo dal sapore pinkfloidiano indiscutibile e non accennano accelerazioni di sorta, piuttosto si intessono, nel tempo e nello spazio si evolvono, mostrando un songwriting di livello internazionale. Ricordi intensi dei Blue Öyster Cult, è lì secondo noi che si va a pescare ma i ragazzi riescono a vestire quel sound di attuale e saporito anche ormai nel 2019, e questa è una capacità assolutamente rara. Lavoro davvero interessante.

Autore: Ananda Mida Titolo Album: Cathodnatius
Anno: 2019 Casa Discografica: Go Down Records
Genere musicale: Psychedelic Rock Voto: 7,5
Tipo: CD Sito web: http://anandamidaband.bandcamp.com
Membri band:
Davide Bressan – basso
Max Ear – batteria
Conny Ochs – voce, percussioni
Matteo Pablo Scolaro – chitarra
Alessandro Tedesco – chitarra, percussioni
Tracklist:
1. The Pilot
2. Blank Stare
3. Pupo Cupo
4. Out Of The Blue
5. Doom And The Medicine Man
I. Towers And Holes
II. Opening Hours
III. Rude Awakening
IV. The Medicine Man Is Looking For A Cure
Category : Recensioni
Tags : Psichedelia
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06th Gen2019

Prins Obi & The Dream Warriors – Prins Obi & The Dream Warriors

by Raffaele Astore
Prins Obi & The Dream Warriors è in realtà il debutto del supergruppo greco, per l’esattezza ateniese, dedito all’underground le cui matrici greche si sentono eccome, ma è anche il terzo lavoro solista di Prins Obi che giunge dopo il bel The Age Of Tourlou. Prins Obi, si lascia accompagnare in questo viaggio dai The Dream Warriors, esorcizzando tutta una serie di demoni che sembrano comporre l’ossatura musicale di questa produzione che giunge quasi al termine dello scorso anno. Ed è questo loro esercizio propiziatorio a riportarli su sponde dove glam ed hard rock si incontrano anche su terreni prettamente psichedelici anche se di matrice tipicamente ellenica. La musica proposta da Prins Obi & The Dream Warriors, altro progetto di George Dimakis il frontman dei Bby Guru, sembra muoversi tra il sound psichedelico dei Pink Floyd, qualche passaggio stile T.Rex – che non disdegna mai – e quel suono underground fresco e piacevole che coinvolge anche chi non ne vuole essere implicato. Apparentemente, Prins Obi & The Dream Warriors si presenta come un album tosto e sincero, ma degno di esser menzionato per l’assoluta sincerità che emana, una sincerità musicale che prosegue le linee intraprese in Love Songs For Instant Success del 2013, Notions del 2014 e The Age Of Tourlou del 2017.

Ma entriamo un po’ più a fondo per capire con chi abbiamo a che fare: Prins Obi è il moniker di Georgios Dimakis, musicista e membro dei Bay Guru con cui ha pubblicato quattro album e cinque EP digitali che hanno condotto il nostro a maturare una certa esperienza che trasferisce in questa esperienza con i Dream Warriors. L’apertura di Prins Obi & The Dream Warriors è affidata a Concentration che propone un rock influenzato da quel pop anglosassone che per nostra fortuna apre le porte ad una delle più belle canzoni rock che ci è capitato di ascoltare in questi ultimi tempi, Flower Child, forse perché ha forti richiami a quel rock tutto glaciale della madre terra svedese. Qui, in questo brano, la presenza di una ritmica marcata, integrata da un basso essenziale, trascinano poi in Negative People / Άμοιρε Άνθρωπε che è un pezzo capace di emanare un ipnotismo unico e pregevole. Il successivo passaggio, quello che ci viene proposto con Astral Lady Blues, è un rock blues di buona fattura, energico quanto basta a richiamare vecchie atmosfere dove gli “scarafaggi” erano padroni assoluti. Δίνη è invece il pezzo che ci piace di più forse perché amiamo le contaminazioni ed è qui con la lingua greca che trascina in un bel psychedelic pop e le contaminazioni diventano realtà.

Ma i brani che giungono successivamente, quali Sally Jupinero e Guilty Pleasure Theme sono quelli che hanno un sapore differente rispetto agli altri perché capaci di richiamare certi vecchi moventi musicali tipici dei grandi Doors, senza però disdegnare l’hard rock più tradizionale. Tocca poi ad una breve sezione musicale, che ci viene proposta con For Absent Friends, emulare certo progressive canterburyano che diventa anche incipit di apertura al pezzo conclusivo, Wide Open, bella ballata stile Cohen che non disegna per nulla quale chiusura a questo omonimo Prins Obi & The Dream Warriors. Insomma qui sembra proprio di trovarsi di fronte alla nascita di un soggetto tutto nuovo, del quale ne sentiremo spesso parlare. Tra l’altro Prins Obi & The Dream Warriors sono la conferma di quanto la nuova musica rock, per meglio adattarsi ai nostri tempi, ama sempre più contaminare e contaminarsi di quei linguaggi per i quali, ad esempio, il Salento ne è stato un precursore (tanto per citarne uno quello di Phil Manzanera, ex Roxy Music e grande produttore pinkfloydiano, o Anna Phoebe violinista londinese della Trans Siberian Orchestra).

Autore: Prins Obi & The Dream Warriors Titolo Album: Prins Obi & The Dream Warriors
Anno: 2018 Casa Discografica: Inner Ear Records
Genere musicale: Psichedelia, Glam Voto: 7
Tipo: CD Sito web: https://www.facebook.com/prinsobiproject
Membri band:
Georgios Dimakis – voce, piano, synth
Pantelis Karasevdas – batteria, percussioni
Sergios Voudris – basso, chitarra
Kwstas Red Hood – percussioni
Chris Bekiris – chitarra
Tracklist:
1. Concentration
2. Flower Child (Reprise)
3. Negative People / Άμοιρε Άνθρωπε
4. Astral Lady Blues
5. Fingers
6. Δίνη
7. Αδαμάντινα Φτερά
8. Sally Jupinero
9. Guilty Pleasure Theme
10. For Absent Friends
11. Wide Open
Category : Recensioni
Tags : Psichedelia
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28th Dic2018

Ground Control – Untied

by Marcello Zinno
Due anni fa nascevano i Ground Control, un progetto rock che ha optato per un nome molto comune sia nella scena musicale che fuori da essa. A scanso di equivoci specifichiamo subito che non si tratta dei Ground Control che anni fa proponevano thrash metal e di cui avevamo parlato a questa pagina. Si tratta di una formazione nuova di zecca che è uscita da pochissimo con il debut album Untied. Il loro è uno rock che combatte un’eterna lotta, da una parte con la ritmica che cerca di accelerare e di puntare ad una costruzione veloce, dall’altra con le influenze psichedeliche che diluiscono i tempi e puntano ad un’idea di musica più intima. Domani È Un Posto Freddo è l’esempio dell’animo più psichedelico della formazione, lo stesso profilo musicale che li ha legati a David Bowie e che li ha spinti a coverizzare Absolute Beginners, ovviamente non arrivando all’impatto emotivo con la versione originale. A noi piace Untied The Horses: è qui che le due anime prima descritte dalla band raggiungono l’apice. La sezione ritmica crea la cornice solida e prestigiosa in cui testi in italiano ed in inglese nonché la chitarra (complici anche effetti azzeccati) si muovono con destrezza creando un momento degno di nota. Poi arriva il rock blues che prende il nome di First Fire e ci coinvolge dal piede che si muove a tempo alla nuca che non sembra volersi fermare.

Altro brano che ha mordente e che lascia segni al proprio passaggio è Utube Killed The Video Star: a parte essere un’affascinante (mezza) citazione che conquista fin dal titolo, possiede delle strofe ben costruite e un messaggio di critica che si lascia apprezzare. Untied è un album non privo di pecche, la produzione andrebbe sicuramente migliorata e oltre ai suoni dimostra in diversi punti di essere comunque un debut album, ma il percorso imboccato dalla band a parer nostro è quello giusto. Le tracce hanno un grosso potenziale in sede live e la band ha qualcosa da dire, ottimi presupposti per sfondare.

Autore: Ground Control Titolo Album: Untied
Anno: 2018 Casa Discografica: CameHouse RC
Genere musicale: Rock Psichedelico Voto: 6,5
Tipo: CD Sito web: http://www.groundcontrolstoner.it
Membri band:
Marco Ravasini – voce
Pietro Albera – batteria
Marco Camorani – chitarra
Jambo Iori – basso
Tracklist:
1. Kaputt Mundi
2. Major
3. Utube Killed The Video Star
4. Domani È Un Posto Freddo
5. Untied The Horses
6. First Fire
7. Italiani Brava Gente
8. Absolute Beginners
9. Il Giorno Mi Consuma
Category : Recensioni
Tags : Psichedelia
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19th Set2018

T.Rex – Unicorn

by Raffaele Astore

T.Rex - UnicornAnticipando di gran lunga quello che diventerà il glam rock, con questo Unicorn, Marc Bolan si avvia lungo un percorso che, pur nella sua complessità, ma anche nella sua brevità, lo porterà ad essere quella stella del firmamento rock che tutti conosciamo. Unicorn è il simbolo del folk di matrice anglosassone che si interseca con il rock stile anni cinquanta e quella psichedelia che diventerà oltre che uno stile, un vero e proprio “pensiero musicale”. I brani di questo lavoro targato 1969 sono, come già nelle prime uscite del folletto, brevi e concisi, spesso generati quasi a mo di filastrocche come se Bolan e Took si divertissero a giocare e, probabilmente lo fanno. Tra cantati litanici, passaggi country e vellutati, a volte sembra di sentire la presenza di quegli “scarafaggi” che diventeranno il simbolo di un’Inghilterra che dirà sempre la sua in fatto di rock. Come per gran parte dei lavori di Marc Bolan, anche qui i pezzi che compongono Unicorn ruotano principalmente attorno ad accordi di chitarra aperti, robuste armonie ed una produzione quasi elementare che dà enfasi a quello che da lì a breve diventerà il fenomeno glam rock. E questo disco, apparentemente semplice, nasconde in realtà una brillantezza ed una bellezza uniche.

Come per la maggior parte delle produzioni iniziali di Bolan, anche qui l’ispirazione dell’artista passa attraverso testi che raccontano di fantasy ed infatti i riferimenti a quel Signore Degli Anelli è abbastanza capibile anche attraverso le immagini che lo stesso Marc ci tramanda: “Oh the throat of winter is upon us, barren barley fields refuse to sway…”. Unicorn è l’album che introduce di fatto alla prima fase della carriera di Bolan, ne stabilisce appieno quello che da lì a breve diventerà il suo stile inimitabile, le influenze che lo contamineranno nella sua breve vita terrena e che lo porteranno a plasmare la sua creatura Tyrannosaurus Rex. Unicorn poi è il lavoro di Bolan che si inserisce appieno nella parentesi di quel folk psichedelico che farà ulteriori proseliti non solo in patria, ma in tutto il pianeta. Infatti, le combinazioni create da Bolan con le melodie acustiche, arricchite dagli intrecci di mellotron, gong e pixiephone egregiamente suonati da Took danno vita a quelle ambientazioni che rendono questo disco quasi surreale, così come quella onirica figura di un Bolan che ha scritto pagine di storia nel rock e che ha dato il via alla nascita di mostri sacri sul suolo inglese.

In Unicorn tutto si lega alla perfezione con quanto fino ad allora sviluppato dall’artista con un suono che anticipa i Tyrannosaurus Rex che da lì a breve verranno. Non ne sono sicuro ma probabilmente questo è il lavoro dei T. Rex al quale sono più affezionato perché di fatto costruisce il sound della glam band per eccellenza che verrà ed a ciò basti pensare a pezzi come Pon A Hill o Iscariot che nella loro semplicità e nella breve durata delle composizioni, sanno però come raggiungere chi ascolta lasciando quel segno che porta molti a dire che Bolan, con i suoi primi lavori e con la carriera avuta nei T.Rex, ha davvero scritto pagine musicali da sogno. Stavolta non vi dico di andare ad ascoltare Unicorn, ve lo propongo per cena. Ah me ne ero quasi dimenticato, ma quando parlo dei tirannosauri mi accorgo di aver saltato anche il pasto.

Autore: T.Rex

Titolo Album: Unicorn

Anno: 1969

Casa Discografica: Regal Zonophone, Blue Thumb

Genere musicale: Rock Psichedelico, Folk Rock

Voto: 7

Tipo: CD

Sito web: https://it.wikipedia.org/wiki/T._Rex

Membri band:

Marc Bolan – chitarra, voce, harmonium, organo, phonofiddle

Steve Peregrin Took – bongo, voce, afro percussioni, basso, pianoforte

Special guest:

Tony Visconti – piano

John Peel – voce

Tracklist:

  1. Chariots Of Silk

  2. Pon A Hill

  3. The Seal Of Seasons

  4. The Throat Of Winter

  5. Cat Black (The Wizard’s Hat)

  6. Stones For Avalon

  7. She Was Born To Be My Unicorn

  8. Like A White Star, Tangled And Far, Tulip That’s What You Are

  9. Warlord Of The Royal Crocodiles

  10. Evenings Of Damask

  11. The Sea Beasts

  12. Iscariot

  13. Nijinsky Hind

  14. The Pilgrim’s Tale

  15. The Misty Coast Of Albany

  16. Romany Soup

Category : Recensioni
Tags : Psichedelia, T.Rex
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23rd Lug2018

Palmer Generator – Natura

by Marcello Zinno

Palmer Generator - NaturaNon è trascorso molto tempo da Discipline (di cui avevamo parlato a questa pagina) e la famiglia Palmieri è pronta a pubblicare il nuovo album dal titolo Natura. L’approccio che viene seguito in questo nuovo lavoro è quello della sperimentazione: lo dimostra ad esempio la lunga parte centrale dell’opener che si poggia su un arpeggio di chitarra e su effetti che si accavallano ma che restano ai margini della composizione e che non aggiungono molto, spessore che arriva solo con i controtempi successivi della batteria. Stesso discorso per Natura 2, oltre 7 minuti di musica che si muovono sulle medesime coordinate dove sfumature ed effetti caratterizzano i singoli passaggi su una matrice standard per l’intero brano (fatto salvo l’ultimo minuto e mezzo). Corposità zero piuttosto evanescenze, pattern pochissimi piuttosto suoni. Certo, non ci sono linee vocali come non ci sono mai state nella musica dei Palmer Generator, ma si segue (anche in questo album) un approccio figlio del post-metal e post-rock, reso più particolare da un forte alone di psichedelia, che talvolta finisce per rendere i brani davvero troppo lunghi (Natura è composto da 4 brani per una durata totale di 38 minuti).

Addirittura in Natura 3 si arriva alla musica ambient, l’approccio heavy psych perde il suo aspetto a vantaggio dell’avantgarde musicale. Il trio per certi versi restringe la propria “nicchia di mercato”, per cultori di questi suoni, ricercatori sonori, per chi mastica la psichedelia settantiana in una veste moderna in cui non c’è rock o metal che tenga ma solo sinuose danze che vagano nello spazio.

Autore: Palmer Generator

Titolo Album: Natura

Anno: 2018

Casa Discografica: Bloodysound Fucktory, Brigadisco Records

Genere musicale: Psichedelia, Post-Rock, Heavy Psych

Voto: 6

Tipo: CD

Sito web: http://palmergenerator.blogspot.it

Membri band:

Tommaso Palmieri – chitarra

Michele Palmieri – basso

Mattia Palmieri – batteria

Tracklist:

  1. Natura 1

  2. Natura 2

  3. Natura 3

  4. Natura 4

Category : Recensioni
Tags : Psichedelia
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03rd Lug2018

Ropsten – Eerie

by Marcello Zinno

Ropsten - EerieCi si chiede spesso quale possa essere il suono del rock del futuro. E’ una domanda che ci poniamo ogni volta che ascoltiamo un album che pesca dal passato, perché non è detto che proprio da lì non vengano pescate alcune soluzioni e riproposte in maniera diversa. Non è un caso che effetti, riff, soluzioni in fase di produzione siano ripescati e riutilizzati a iosa non solo dal mondo emergente ma anche da quello mainstream, in tutti i generi musicali. Eernie, il primo vero full-lenght dei Ropsen dopo due EP, può essere considerato un album del futuro. Il sapore psichedelico e la forte cornice space rock in cui è stato costruito l’album si combaciano alla perfezione con una ritmica incessante e una quadratura del cerchio fortemente rock; il resto lo fanno gli arrangiamenti e gli effetti alla sei corde che spesso diluiscono i suoni e rendono più fascinosa la proposta avvicinandola, in alcuni tratti, a soluzioni post-rock. Ci piacciono i pattern stoppati in Grandma’s Computer Games, un brano che tra l’altro mette in scena un crescendo elettrico-elettronico ad alto quantitativo di ottani, dal retrogusto psycho western ma che sicuramente riscalda gli animi se provato in sede live; Kraut Parade è un pezzo imprescindibilmente rock, incalzante e che con la sua velocità avvicinerà chi è in cerca di accelerazioni e riff, anche se a noi affascina maggiormente Brain Milkshake con un basso e chitarra che fanno da contrasto per poi ricontrarsi nel (simil) ritornello e far lievitare le palpitazioni.

D’altro canto però il costrutto esclusivamente strumentale spesso appesantisce i brani, i sei minuti di Globophobia ad esempio sembrano molti di più, anche perché si poggiano su una sezione ritmica portante che varia poco, lasciando il resto agli strumenti, per così dire, melodici. Coraggiosa la proposta, apprezziamo che non si cade in una sperimentazione inconcludente ma probabilmente è necessario mettere più carne sul fuoco e offrire quella consistenza ai brani per evitare di farli sembrare annacquati ed estremamente lunghi.

Autore: Ropsten

Titolo Album: Eerie

Anno: 2018

Casa Discografica: Seahorse Recordings

Genere musicale: Space Rock, Post-Rock, Psichedelia

Voto: 6,5

Tipo: CD

Sito web: https://soundcloud.com/ropsten-1/

Membri band:

Simone Puppato – chitarra, tastiere

Claudio Torresan – chitarra, effetti, tastiere

Leonardo Facchin – basso, tastiere

Enrico Basso – batteria

Tracklist:

  1. Y. L. L. A.

  2. Grandma’s Computer Games

  3. Globophobia

  4. Batesville

  5. Kraut Parade

  6. Brain Milkshake

  7. 180 MmHg

Category : Recensioni
Tags : Psichedelia
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30th Apr2018

The Yardbirds – Roger The Engineer

by Giuseppe Celano

The Yardbirds - Roger The EngineerRoger The Engineer (uscito come Yardbirds mentre in America, Germania e Francia con il titolo “Over Under Sideways Down”) è un disco degli Yardibirds immesso sul mercato nel 1966. Contiene materiale inedito con Jeff Beck come chitarrista su tutte le tracce. Prodotto dal bassista Paul Samwell-Smith e dal manager Simon Napier-Bell, questo successivo capitolo della saga prende il nome dai disegni dall’ingegnere del suono Roger Cameron e Chris Dreja. È anche l’unico disco a risalire le chart inglesi fino alla ventesima posizione mentre con Over Under Sideways Down, singolo uscito nel maggio del 1966, negli stati Uniti raggiunge la 52a di Billboard. La versione americana, con titolo e copertina diversa, è orfana di The Nazz Are Blue (cantata da Jeff Beck) e Rack My Mind con un mix alternativo. Nel 1983 una reissue della Epic, con la copertina inglese originale, rimette a posto le cose inserendo i due brani mancanti, il mix dell’edizione inglese e due bonus track, Happenings Ten Years Time Ago e Psycho Daisies, entrambe con Jeff Beck e Jimmy Page alle chitarre. Roger The Engineer è un album psichedelico (I Can’t Make Your Way e Over Under Sideways Down) dal quale molte band famose hanno preso a piene mani. La band non dimentica la lezione imposta dal blues elettrico (The Nazz Are Blue) che di lì a poco, grazie anche agli Stones e Cream, sarebbe decollato verso l’empireo del rock.

Si parte sulle note dell’opener Lost Women su struttura pentatonica e giro di basso percussivo, armonica suadente e sezioni psicotrope in rapida ascesa nel segmento centrale in rave up, rinforzato da pattern ritmici e schitarrate degne degli Who. Sebbene le tracce siano frammenti, mutuati dal rifferama di Elmore James, Slim Harpo, Sonny Boy Williamson, mostrano comunque equilibrio compositivo e una propria personalità. A testimoniare il tutto ci pensano Psycho Daisies e Happening 10 Years Ago in cui potrete ascoltare la collaborazione fra Beck e Jimmy Page. Rhythm & blues su scale veloci, rallentamenti e ripartenze emergono in Jeff’s Boogie per poi spostarsi poi sulla mefistofelica He’s Always There. In Turn Into Earth si può apprezzare il collante che tiene unito questo lavoro di fino, potente e penetrante, imperniato su fraseggi furiosi, dilatazioni psicotrope e tentativi di estrapolare elementi seminali, e innovativi, che avrebbero trasfigurato ancora una volta il modo di suonare e percepire la chitarra elettrica. Roger The Engineer si può considerare l’ultimo vero disco prima dell’inizio del declino portato da Little Games, profondamente trasfigurato dalla presenza di un produttore troppo ingombrante e alla ricerca di singoli veloci e vincenti.

Autore: The Yardbirds

Titolo Album: Roger The Engineer

Anno: 1966

Casa Discografica: Columbia, Epic Records

Genere musicale: Psichedelia, Rock Blues

Voto: 7,75

Tipo: CD

Sito web: http://www.theyardbirds.com

Membri band:

Keith Relf – voce eccetto su The Nazz Are Blue, armonica

Jeff Beck – chitarra, voce su The Nazz Are Blue, basso

Chris Dreja – chitarra, voce, piano

Paul Samwell-Smith – basso, voce

Jim McCarty – batteria, percussioni, voce

Tracklist:

  1. Lost Woman

  2. Over Under Sideways Down

  3. The Nazz Are Blue

  4. I Can’t Make Your Way

  5. Rack My Mind

  6. Farewell

  7. Hot House Of Omagarashid

  8. Jeff’s Boogie

  9. He’s Always There

  10. Turn Into Earth

  11. What Do You Want

  12. Ever Since The World Began

  13. Psycho Daisies

  14. Happenings Ten Years Time Ago

Category : Recensioni
Tags : Psichedelia, The Yardbirds
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22nd Apr2018

Kevin Ayes – Joy Of A Toy

by Raffaele Astore

Kevin Ayes - Joy Of A ToyJoy Of A Toy, album di Kevin Ayers del 1969, è un disco piacevole, oseremmo dire quasi pigro. E non c’è male per l’esordio solista di una delle menti più raffinate del psychedelic rock considerati anche i nomi dei musicisti di cui si circonda per realizzarlo. Primo album da solista dopo la fuoriuscita dai Soft Machine, Ayers concretizza un lavoro dove la creatività esplode in tutta la sua consistenza riuscendo, tra l’altro, ad ottenerne un controllo inusuale su tutto il percorso che porterà a realizzare Joy Of A Toy. Certo a ciò ha contributo anche la presenza di David Bedford nelle vesti di arrangiatore, così come di Paul Buckmaster conosciuto dai più per aver arrangiato molti brani di artisti famosi tra i quali si ricorda, in particolare, Space Oddity di David Bowie; insomma una molteplicità di artisti che hanno contributo a sviluppare l’idea iniziale che Kevin Ayers aveva di questo suo primo lavoro da solista che è diventato una vera e propria pietra miliare della scena di Canterbury. Joy Of A Toy sembra essere una macchina capace di viaggiare nel tempo, la musica che si fonde in un unicum con le parole ed anticipa i tempi che verranno. Sin dalla copertina Joy Of A Toy lascia intravedere quanto è predestinato ad accadere nei solchi: la psichedelia si fa arte e l’arte si fa realtà già dal primo pezzo, quel Joy Of A Toy Continued che sembra essere l’unione tra il passato e il presente di Ayers, una specie di marcia senza nessuna pretesa tranne quella di trovarsi nel bel mezzo di un gioco. Il violoncello poi presente in molte partiture, fa pensare ad una sorta di unione con quel classicismo cui sono legati alcuni degli ospiti del disco i quali danno il proprio contributo nell’allestire un lavoro capace di rendere la scena di Canterbury oltre che divertente anche entusiasmante.

D’altronde il talento qui non si discute, e non solo quello di Ayers; ma se riflettiamo attentamente capiamo subito quanto Joy Of A Toy sia quell’album che è una logica prosecuzione dei capolavori dei primi Soft Machine anhe se, qui, Ayers mostra appieno come la sua creatività non abbia limiti, capace com’è di spaziare anche oltre la propria appartenenza alla soffice macchina. Infatti in Joy Of A Toy le influenze allegre e scanzonate di Sgt. Peppers ad esempio non mancano, così come non mancano in The Clarietta Rag altro pezzo di influenza beatlesiana, ma così come accade anche con l’ultimo pezzo che chiude il primo lavoro solista di Ayers, Oleh Oleh Bandu Bandong. Probabilmente nelle intenzioni di Ayers, Joy Of A Toy doveva essere solo una piacevole collezione di brani, nessun legame con le suite progressive dovevano essere di ispirazione, e se queste sono state le sue idee va detto che Ayers è riuscito nell’intento perché, al di là di piccolissimi passaggi, tutto il lavoro è sublime e come dicevamo all’inizio piacevole all’ascolto. I nostalgici, probabilmente, avranno da ridire sull’abbandono di Ayers dai Soft Machine, ma è comunque lampante che il suo lavoro da solista possedeva concezioni ben diverse da come il pubblico era abituato a vederlo con i Soft. E poi, i Soft andavano ormai verso una concezione musicale che li avrebbe avvicinati di più al jazz mentre la sensibilità di Ayers qui cambia profondamente, l’approccio è molto più vicino alla vita in generale ed alle composizioni personali e lo confermeranno i successivi album. Joy Of A Toy è davvero l’album di Kevin Ayers e lo confermano pezzi come la grandiosa Lady Rachel, la stessa Clarietta Rag, la bella e sognante Girl On A Swing, la malinconica Song For Insane Times e la rievocativa All This Crazy Gift.

Chi ha spesso letto le mie recensioni sa bene quanto amore nutra nei confronti di un artista che, tra alti e bassi nella carriera, ha segnato la storia del rock e, probabilmente non sarà ciò a limitarmi nelle considerazioni, ma Kevin Ayers potremmo paragonarlo a Lou Reed anche se qui a farla da padrone assoluto è quel psychedelic rock ben lontano dalle acide composizioni dei Velvet Underground che, guarda caso, sono state per lo più fatte proprio da Lou Reed. Joy Of A Toy è un disco dove gli stili variano da brano a brano navigando dal progressive tipico di Canterbury alla psichedelia con pennellate di un certo rock barocco che può e non può piacere, insomma un disco raffinato anche se con qualche sbavatura. Con questo disco e con i lavori che verranno, Kevin Ayers diventa un punto di riferimento fondamentale nel mondo del pop sperimentale e lo sarà fino alla sua morte avvenuta il 18 febbraio 2013. Ayers è ancora oggi l’artista che suscita stupore in chi lo ascolta ma è anche l’uomo carismatico che, con la sua innata semplicità, ha contributo a creare quella leggenda che va sotto il nome di “Canterbury Scene” e di tutta la musica che verrà dopo. Joy Of A Toy resterà sempre il miglior lavoro di Ayers, un disco che ostenta umiltà ed ingenuità, un disco che è anche una lezione per chi compone musica, e già, perché la musica è piacevole quando non è artefatta ma semplice, lineare, quando viene dal di dentro e non quando è arricchita di tutti quei campionamenti e sovraincisioni da mille e una notte.

Il consiglio che possiamo darvi dopo che avrete letto questa recensione? Prendete Joy Of A Toy, mettetelo sul piatto, ascoltatelo ed attendete che la poesia si impadronisca di voi. E non pensate a chi in quel momento vi sta chiamando, lasciate che vi chiami.

Autore: Kevin Ayes

Titolo Album: Joy Of A Toy

Anno: 1969

Casa Discografica: Harvest Records

Genere musicale: Rock, Psichedelia

Voto: 9

Tipo: CD

Sito web: http://www.kevin-ayers.com

Membri band:

Kevin Ayers – chitarra, basso, canto

Robert Wyatt – batteria

David Bedford – pianoforte, mellotron, arrangiamenti

Mike Ratledge – organo

Hugh Hopper – basso in Joy Of A Toy Continued e Song For Insane Times

Paul Buckmaster – violoncello

Rob Tait – batteria in Stop This Train (Again Doing It) e Oleh Oleh Bandu Bandong

Paul Minns – oboe

Tracklist:

  1. Joy Of A Toy Continued

  2. Town Feeling

  3. The Clarietta Rag

  4. Girl On A Swing

  5. Song For Insane Times

  6. Stop This Train (Again Doing It)

  7. Eleanor’s Cake (Which Ate Her)

  8. The Lady Rachel

  9. Oleh Oleh Bandu Bandong

  10. All This Crazy Gift Of Time

Category : Recensioni
Tags : Psichedelia
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19th Apr2018

The Noise Figures – Telepath

by Marcello Zinno

The Noise Figures - TelepathLi avevamo conosciuti con Aphelion di cui avevamo parlato a questa pagina, ma sono tornati con un nuovo album: i The Noise Figures presentano al mondo del rock Telepath. Rock, perché è di questo che si tratta, il duo innanzitutto punta al rock e gli inserti psichedelici qui si fanno ancora più marginali. Ritmica e riff prendono il sopravvento e a scapocciare ci vuole un attimo: strutture semplici dei brani, pezzi che spesso entrano in mente al primo ascolto ma che presentano anche delle buone attenzioni rivolte ad arrangiamenti ed effetti (come in Stay Forever Child). Per impostazione e suoni troviamo delle similitudini con i Black Keys come nella ritmata e radiofonica Strange Mediumd Child, una canzone in cui la ripetizione forse è portata un po’ ai limiti del sostenibile però il ritmo coinvolgente appiana tutti i mali. Ascoltare la personalità del suono della chitarra ci fa veramente tornare agli anni 70 come se nel mezzo non ci sia stato nulla: la genuinità dei riff di Out Of Touch sono “la testa” mentre il rock’n’roll di momenti come Healing Light sono “la croce” di una moneta, quella dei The Noise Figures, che non ha prezzo, non ha valuta e non ha tempo. Nelle tracce finali il ritmo viene messo un po’ da parte e l’animo psichedelico del duo torna a galla, anche questo è un profilo di spessore per lo stile della band.

Veloci?! Non eccessivamente, ma il giusto. Rock, decisamente. Metal, per nulla. Una ricetta musicale che va avanti come un treno e che nella loro mente (e nella nostra) è tanto semplice quanto intensa. Le linee vocali sembrano strizzare l’occhio ad un certo brit rock d’oltre Manica ma è qualcosa che non distoglie dall’animo rock del duo, un progetto che se fosse italiano avrebbe un seguito importante e diverse etichette indipendenti a far loro il filo.

Autore: The Noise Figures

Titolo Album: Telepath

Anno: 2018

Casa Discografica: Inner Ear Records

Genere musicale: Rock, Psichedelia

Voto: 7,25

Tipo: CD

Sito web: https://www.facebook.com/thenoisefigures

Membri band:

George Nikas – voce, batteria, percussioni

Stamos Bamparis – chitarra, voce

Tracklist:

  1. Taste Like Time

  2. Strange Medium Child

  3. Stay Forever Young

  4. Out Of Touch

  5. Healing Light

  6. Telepath

  7. Hypnotized

  8. Lethargy

  9. Never Sleep

  10. Glow Electric

Category : Recensioni
Tags : Psichedelia
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