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11th Ago2014

Desert Wizards – Ravens

by Cristian Danzo

Desert Wizards - RavensUn salto indietro nel tempo. Prendendo in mano questo album e guardando la copertina ed il libretto vengono alla mente immagini degli anni ’60, di hippie alla perenne ricerca di visioni, LSD, e sciamanesimo, pronti a raggiungere il paradiso psichedelico tanto agognato. I Desert Wizards sono una band ravennate che giunge alla seconda release con questo Ravens. Il look e l’estetica del combo, però, non devono trarci in inganno. Sono presenti sonorità e canzoni palesemente debitrici a quel periodo acido della California anni ’60 e ’70 ma anche l’hard rock ha la sua parte non indifferente. Anzi, alla fine è la parte più preponderante. Le atmosfere sabbathiane e gotiche sono presenti già dall’opener Freedom Ride che potrebbe far pensare di essere stati fuorviati dall’artwork e dal look con cui la band si presenta. Ed invece Back To Blue ci trasporta dritto in quelle atmosfere acide e sognanti di cui sopra. Ed è proprio qui che i nostri connazionali trovano il pregio maggiore che poi emergerà proseguendo durante tutto l’ascolto: un sapiente mix e riadattamento, una sorta di matrimonio, tra due periodi del rock che hanno segnato un’epoca ed una storia non facilmente ripetibili. L’equilibrio che si viene a creare è molto straniante e degno di nota, partorendo un mélange interessantissimo e pieno di spunti originali e creativamente notevoli.

Le ultime due canzoni di Ravens evocano nell’ascoltatore, a nostro parere, scenari di manieri gotici in pieno stile Hammer Productions (per chi avesse visto i film di questa casa di produzione, famosissima per avere lanciato un giovane Christopher Lee nel ruolo di Dracula). Vampires Queen e Bad Dreams ci fanno venire in mente le desolate lande transilvane dove, quando il sole tramonta, il pericolo si nasconde dietro ogni anfratto. Vampires Queen, a nostro modesto avviso, è sicuramente il pezzo più evocativo e notevole presente nel disco dei Desert Wizards, con quella voce cavernosa a cui fa da contrappunto un pianoforte mellifluo che si fonde con gli altri strumenti in maniera da creare un’atmosfera galleggiante e da sogno. O meglio, di un sogno dal quale ci svegliamo di soprassalto nel letto madidi di sudore.

Chiude un omaggio ai Pink Floyd, Childhood’s End, canzone scritta da David Gilmour e tratta dall’album tributo One Of My Turns-A Tribute To Pink Floyd.

Autore: Desert Wizards Titolo Album: Ravens
Anno: 2013 Casa Discografica: Black Widow Records
Genere musicale: Psychedelic Rock Voto: 7
Tipo: CD Sito web: http://desertwizards.bandcamp.com/
Membri band:Mambo – voce, chitarre, basso

Gito – voce, chitarre, synth

Anna – voce, organo, piano

Dallas – batteria

 

Tracklist:

  1. Freedom Ride

  2. Babilonya

  3. Back To Blue

  4. Blackbird

  5. Dick Allen’s Blues

  6. Electric Sunshine

  7. Burn Into The Sky

  8. Vampires Queen

  9. Bad Dreams
  10. Childhood’s End

Category : Recensioni
Tags : Psichedelia
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06th Ago2014

Atom Made Earth – Border Of Human Sunset

by Marcello Zinno

Atom Made Earth - Border Of Human SunsetGli album e le band sono come delle scene del crimine. In molti casi analizzandole, osservando i loro lavori, la grafica scelta, i titoli dei brani o tutti quegli indizi che si studiano frutto della curiosità, si riesce ad intuire tanto già prima di premere il tasto play. La durata dei brani sicuramente rilevante (6 tracce per 44 minuti di ascolto totale) e il moniker della band, Atom Made Earth, rendono più semplice il nostro lavoro di investigazione e ci conducono presto all’identificazione del movente: la psichedelia. Lo scenario è proprio quello che ci riporta ai Pink Floyd, contaminato però dai gusti stoner che la band ha manifestato fin dai suoi inizi e ha dichiarato anche senza tanti giri di parole. In questo connubio compare quindi un’importante ricerca di composizioni strumentali che in alcuni passaggi lasciano lo spazio a strumenti a corde pesanti come macigni, a tratti citando alcuni scenari doom. Tendenzialmente comunque l’essenza del sound che emerge da Border Of Human Sunset è l’ambient e questo è secondo noi un punto di forza per il quartetto, in quanto si tratta di una personalità un po’ abbandonata da giovani formazioni, ma anche un profilo debole. Infatti il sound, seppur comunque già approfondito nei decenni passati da vari mostri sacri, risulta un po’ troppo debole: al fianco di parti lente e fangose si sarebbe potuto sperimentare molto di più con gli effetti, a nostro parere, inserire elementi che avrebbero dato più verve e “tiro” alla proposta, rendendola anche molto più godibile in sede live.

Il risultato può piacere ad alcuni appassionati dell’oscuro (Augusta) finendo per toccare addirittura lidi funerei (in Oceanic Side Pt. 2 si sentono echi dei My Dying Bride). I ragazzi nonostante tutto ci danno dentro e a nostro parere, con una più calorica interpretazione strumentale avrebbero potuto differenziarsi per originalità conquistando di più il pubblico rock. Le basi ci sono quindi non ci sentiamo in assoluto di bocciare il lavoro ma qualcosa va rivisto nell’ottica di rendere più accattivante il sound.

Autore: Atom Made Earth Titolo Album: Border Of Human Sunset
Anno: 2014 Casa Discografica: Autoproduzione
Genere musicale: Psichedelia Voto: 5,5
Tipo: CD Sito web: http://atomadearth.bandcamp.com
Membri band:

Daniele Polverini – chitarra,voce, effetti

Nicolò Belfiore – tastiere, piano

Testa “Head” – batteria, percussioni

Lorenzo Giampieri – basso

Tracklist:

  1. Ghost T

  2. Atom Made Earth

  3. Thin

  4. Augusta

  5. Oceanic Side Pt. 1

  6. Oceanic Side Pt. 2

Category : Recensioni
Tags : Psichedelia
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11th Giu2014

Birth Of Joy – Prisoner

by Alberto Lerario

Birth Of Joy - PrisonerI Birth Of Joy sono uno di quei gruppi difficili da racchiudere dentro confini musicali netti e definiti. Si tratta di un power trio con una dinamica insolita per i giorni nostri (organo/chitarra/batteria). Sono ovviamente in debito con la scena rock blues di fine anni ’60 primi anni ’70, ma non sono semplicemente una band retrò, perché il trio olandese è capace di esprimersi con suoni acidi e potenti seguendo percorsi melodici insoliti oltrepassando gli schemi del passato. La band ci introduce al loro nuovo album, Prisoner, con il suono delle tastiere (che pagano più di un tributo a Jon Lord) in primo piano ed assolute protagoniste, mentre la chitarra distorta del cantante Kevin Stunnenberg pare quasi uno strumento di supporto, aggiungendo tessuto sonoro. Il martellante groove alle pelli di Bob Hogeneist fa da guida a How It Goes. Alcune improvvisazioni alla tastiera in puro stile Pink Floyd inaugurano il fulcro dell’album, Three Day Road. La sua costruzione è basata su power chords capaci di creare un angoscioso flusso e riflusso sonoro. Con Holding On i Birth Of Joy gettano completamente la maschera lasciando trasparire in pieno i segni che i Doors hanno lasciato sui membri della band, anche se i loro testi appaiono decisamente più gioiosi e meno profondamente cupi.

Prisoner non è un viaggio tutto retrò. Certo la band indossa con orgoglio le proprie influenze, ma questi ragazzi suonano duro e veloce, senza perdersi in protagonismi tecnici. Se da un lato si possono sentire riecheggiare i Doors, Pink Floyd e Deep Purple dall’altro si sovrappongono sonorità più tipiche dei Muse o degli Strokes. Da questo strano frullatore emerge tutta la passione e la voglia di affermarsi di questo trio che dal vivo saprà incendiare le folle. Una band ed un album che ha centrato l’obiettivo di non passare inosservati, un’affermazione decisa e prepotente.

Autore: Birth Of Joy Titolo Album: Prisoner
Anno: 2014 Casa Discografica: Long Branch Records
Genere musicale: Psychedelic Rock Voto: 7
Tipo: CD Sito web: http://www.birthofjoy.com
Membri band:

Kevin Stunnenberg – voce, chitarra

Gertjan Gutman – tastiere

Bob Hogeneist – batteria

 

Tracklist:

  1. The Sound
  2. How It Goes
  3. Keep Your Eyes Shout
  4. Three Day Road
  5. Grow
  6. Rock&Roll Show
  7. Longtime Boogie
  8. Mad Men
  9. Holding On
  10. Prisioner
  11. Clean Cut
Category : Recensioni
Tags : Psichedelia
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02nd Giu2014

Motorpsycho – Black Hole/Blank Canvas

by Giuseppe Celano

Motorpsycho - Black Hole Blank CanvasBlack Hole/Blank Canvas arriva nel 2006 a tre anni di distanza da in The Fishtank 10 con i Jaga Jazzist. È doppio un album in cui Bent e Snah danno fondo a tutta la loro voglia di fare del sano rumore, caratteristica che ha sin dagli esordi plasmato in modo significativo i loro dischi. È il loro undicesimo album in studio e per non essere di meno a nessuna delle loro opere anche questo sfoggia un minutaggio davvero elevato. È anche il primo album in cui non appare il vecchio compagno di battaglie soniche Geb che ha lasciato la band nel 2005. I due reduci decidono di proseguire da soli registrando il loro nuovo album negli studi The Void (Eindhoven) con Pieter Kloos, produttore, ingegnere del suono e fonico dal vivo. Per il tour scelgono un degno rimpiazzo ritmico ma non il sostituto definitivo che individueranno successivamente nella figura di Kenneth Kapstad. Si parte sulle note di No Evil, cavalcata adrenalinica imperniata su un riff ossessivo di chitarra, prodotto dalle magiche dita di Snah, che riporta la band agli antichi splendori. Ma la sorpresa è in agguato dietro l’angolo, l’intero disco vive di luci e ombre, per colmare questo gap il duo è costretto a inventare escamotage e diversivi, in una parola insomma filler (Coalmine Porry). Stesso discorso vale per Kill Devils Hills, altra corsa di sette minuti à la Motorpsycho che sembra arrivare direttamente dal periodo Blissard/Angels And Daemons At Play. Nonostante il brano sia più che buono è roba già sentita, che abbiamo amato dieci anni fa.

Ma quando sembra che tutto sia stato scritto, quando ti sei fatto già un’idea precisa, convinto di aver trovato il bandolo, arriva una scossa tellurica imprevedibile e inarrestabile. “Out of the blue” direbbero in Inghilterra, si presenta The 29th Bulletin. E in questi casi sei costretto a rivedere tutto, o quasi. Una ballata di questa portata non si vedeva da anni. Partendo dal testo e dal crescendo ritmico, dalla struttura portante fino alle linee armoniche, l’unica parola che emerge prepotente è “capolavoro”. Maledetti, ci sono riusciti un’altra volta…Il primo CD si potrebbe chiudere anche qui, ma per dover di cronaca citiamo Triggerman, piece prog-rock di altri sei minuti in cui la band si gioca più d’una carta. Si va dai continui cambi ritmici agli assoli policromatici di Snah a cui si contrappone l’andamento caterpillar del basso, saldamente nelle mani di Bent, solito motore instancabile che si trascina dietro gli altri.

Nel secondo CD le cose non mutano poi di molto. La scoppiettante Hyena apre le danze lasciando poi il posto a un riempitivo di livello che ci fa slittare direttamente sulla terza traccia Sail On, buon brano periodo Blissard con riff secco, giri armonici accattivanti e grande assolo di Snah. Quello che sembra mancare è quella capacità ritmica di Geb, batterista di qualità superiore, capace di bordate pesanti e delicatezze quasi impalpabili. La tipica follia psichedelica della band ritorna a far capolino in The Ace che parte in velocità sfruttando la summa di elementi che da sempre hanno caratterizzato il loro sound: potenza, substrati armonici e un pizzico di sana confusione che rende il tutto più appetibile, anche nella sua dissonanza. L.T.C.E. è sorella di Coalmine Porry: ritmica trainante, scale tipicamente blues e basso poderoso fanno parte dei suoi tratti somatici dominanti. Di tutt’altra pasta è Before The Flood, zeppeliniano per struttura, fatto di melodia sghemba, cambi d’atmosfera, intarsi psichedelici e lunghi assoli che manderanno in giuggiole tutti i fan. Chiude, in bellezza dobbiamo aggiungere, la super cavalcata With Trixeene Through The Mirrow, I Dream With Open Eyes che scomoda il loro fulgido passato e molte band di riferimento che non vi riveleremo lasciandovi il gusto di capire da soli quanta farina del proprio sacco ci abbiano messo i Motorpsycho e quanto abbiano preso dai loro ispiratori in un gioco di equilibri delicati.

Non il loro miglior disco sia chiaro, se avessero eliminato ridondanze e inutili orpelli l’opera si sarebbe ridotta a un unico CD che sarebbe bastato a mettere d’accordo critica e fan. Ma come da copione il trio non è mai stato sintetico nelle sue produzioni, anzi una certa logorrea, di cui vanno fieri e che a noi non dispiace del tutto, ha da sempre caratterizzato i loro lavori. Ascoltarlo o evitarlo sta solo a voi.

Autore: Motorpsycho Titolo Album: Black Hole/Blank Canvas
Anno: 2006 Casa Discografica: Stickman Records
Genere musicale: Rock Psichedelico Voto: 6,5
Tipo: CD Sito web: http://motorpsycho.fix.no
Membri band:

Bent Sæther – voce, basso, chitarra, tastiere, batteria

Hans Magnus Ryan – chitarra, voce, tastiere

 

Jacco van Rooij – batteria in You Lose

Tracklist:

Disc 1

  1. No Evil
  2. In Our Tree
  3. Coalmine Pony
  4. Kill Devil Hills
  5. Critical Mass
  6. The 29th Bulletin
  7. Devil Dog
  8. Triggerman

Disc 2

  1. Hyena
  2. Sancho Says
  3. Sail On
  4. The Ace
  5. L.T.E.C. (Deja-Vulture Blues)
  6. You Lose
  7. Before the Flood
  8. Fury on Earth
  9. With Trixeene Through The Mirrow, I Dream With Open Eyes
Category : Recensioni
Tags : Motorpsycho, Psichedelia
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31st Mag2014

The Vickers – Ghosts

by Marcello Zinno

The Vickers - GhostsNegli antici giochi calodoscopici e lisergici degli anni 60 ma soprattutto degli anni 70 ci accolgono i The Vickers, band tutta italiana ma che dalla nostra terra affera ben poco (manco a dirlo i testi sono in inglese). Un quartetto che si aggrappa ad un sound che fu ma che, come le stagioni, torna in maniera delicata ma profondamente rivoluzionaria. I fiorentini infatti ci rimandano ai tempi dei Grateful Dead, di quando i ragazzi per pochi spiccioli si sottoponevano ad esperimenti con sostanze stupefacenti e, per alcuni, il risultato era tanta creatività, nemmeno troppo clandestina, che andava incanalata verso una forma d’arte, la musica. Il basso ma soprattutto i vari effetti usati dalle due sei corde rappresentano delle sfumature sonore che potrebbero essere riconosciute tra milioni: al diavolo i riff, qui si parla di composizioni che tirano la giacca ai sensi e cercano di portarli ad una dimensione superiore nella quale ciascuno è dipendente dall’altro ed è inutile parlare solo di udito. Compare anche qualche momento molto morbido come Senseless Life che piazza una chitarra acustica e delle linee vocali orecchiabili, preferendo il facile ascolto alla sezione ritmica, almeno nella prima parte. Showgaze?! Non manca, anche se l’attitudine del combo è troppo legata al passato per dirsi influenzata da questo genere.

Si continua nell’ascolto e come un sogno che diviene sempre più vago e trasparente, si perde il contatto con la componente musicale; le costruzioni sembrano un pò troppo ridondanti anche se va riconosciuta una certa variabilità di impostazione tra le singole tracce. Altro vantaggio è la durata dei brani: non vi aspettate psicolabili sfoghi sperimentali da dieci minuti perché l’intenzione di tediare l’ascoltatore (o accomagnarlo in uno stadio di irriconoscibilità dell’ “io”) non è nelle corde della band. All I Need sfiora certo indie ben trattato mentre in Inside A Dream compare un accenno più caparbio di chitarra: in questi due elementi si celano percorsi che potrebbero essere maggiormente approfonditi dai The Vickers per dare maggiore solidità al sound e definizione, senza però uscire dagli ambienti fumosi e dagli effetti stonanti del proprio trademark. Altrimenti si rischia di restare fermi allo stadio di ricerca sonora costante senza però dar vita a qualcosa che possa essere ingerita concretamente. Delle idee di buona forma e sostanza ma che vanno a nostro parere incastrate con una personalità più forte per avere una resa migliore.

Autore: The Vickers Titolo Album: Ghosts
Anno: 2014 Casa Discografica: Black Candy Records
Genere musicale: Rock Psichedelico Voto: 5,5
Tipo: CD Sito web: http://www.thevickers.eu
Membri band:

Andrea Mastropietro – voce, chitarra

Federico Sereni – voce, basso, chitarra

Francesco Marchi – voce, chitarra

Marco Biagiotti – batteira, voce

Tracklist:

  1. She’s Lost
  2. I Don’t Know What It Is
  3. Senseless Life
  4. It Keep Going On And On
  5. All I Need
  6. Hear Me Now
  7. Inside A Dream
  8. Walking On A Rope
  9. Total War
  10. Ghosts
Category : Recensioni
Tags : Psichedelia
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14th Mar2014

Movie Star Junkies – Still Singles

by Carlo A. Giardina

Movie Star Junkies - Still SinglesI Movie Star Junkies con Still Singles ci offrono una bella dose di LSD che ci lancia verso una discesa virtuale tra rocce acuminate, cespugli irti di spine, muschi urticanti e fenicotteri rosa. Allucinazioni e confusione sembrano la chiave di volta di tutto l’album: un ripetersi di urla e scalpiti tamburellanti, di chitarre suonate a mo’ di mantra e lamiere esplosive. In tutto questo mix però si può trovare una via d’uscita nell’ordine in cui sono state disordinate le idee. Un pattern ripetuto all’infinito seguito da tom e rullanti claudicanti. Rock’n’roll, blues e punk si mischiano in questo vortice infernale: in pratica è come se stessimo ascoltando della musica con in testa un secchio di alluminio e, lo stesso, fosse colpito con forza da bottiglie di vetro. Il tutto con un sottofondo di motoseghe imbizzarrite intente a scarnificare la carcassa arrugginita di una vecchia Cadillac dispersa in pieno deserto. Zabriskie point. Originali, seppur ripetitivi. Psichedelici, frenetici e tachicardici in tutto e per tutto. Gli anni ’70 si sentono: l’organetto e il rock blues da Route 66 in pieno stile Born To Be Wild danno molto nell’occhio. Scorrendo l’album però l’effetto dell’LSD inizia sempre più a svanire: da una fase confusa inizia una fase di stanchezza in cui ogni movimento sembra portato avanti per inerzia. Una sorta di torpore capace di smuovere i muscoli grazie alla poca forza rimasta dentro. Il risultato sembra quasi migliorare, i suoni diventano paradossalmente sempre meno sfocati e le voci sembrano tornare in sé.

Nel complesso le 20 tracce del nuovo album Still Singles sono divertenti e casiniste. Durante l’ascolto cresce sempre più la curiosità di assistere ad un loro concerto live, anche perchè lo stile dei Movie Star Junkies sembra perfetto per creare dei concerti con i controfiocchi (per non dire altro): una scarica d’adrenalina zoppicante e confusa da sparare sul pubblico, magari in scantinati di mattoncini rossi da far sudare e tremare.

Autore: Movie Star Junkies Titolo Album: Still Singles
Anno: 2013 Casa Discografica: Wild Honey Records
Genere musicale: Rock Psichedelico Voto: 6,5
Tipo: CD Sito web: http://www.moviestarjunkies.com
Membri band:

Stefano Isaia – voce, organo,   percussioni

Caio Montoro – batteria, percussioni

Vincenzo ‘Vinz’ Marando – chitarra elettrica, chitarra steel, chitarra dobro, cori

Alberto ‘Boto’ Dutto – chitarra fuzz, chitarra acustica, contrabbasso

Emanuele ‘Nene’ Baratto – basso, organo

 

Tracklist:

  1. Dolls Come In
  2. Garsin
  3. Dialogue Between Zachary Swenson And Thimothy Leary
  4. Lipstick
  5. Flamingos
  6. The Whore
  7. Mother
  8. Almost A God
  9. I Love You More As Dead
  10. Slow Dance
  11. Northern Lights
  12. Sand
  13. Cold & Gold
  14. Under The Marble Faun
  15. Satan Satan
  16. Requiem Por Un Con
  17. Le Trout
  18. Branches From My Arms
  19. Baltimore
  20. Everything is Holy
Category : Recensioni
Tags : Psichedelia
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25th Nov2013

Black Rainbows – Holy Moon

by Marcello Zinno

Black Rainbows - Holy MoonUn EP di 38 minuti? È possibile quando la porta dell’hard psych si apre dinanzi a noi. Figlio unigenito del doom a cui tanto hanno dato Black Sabbath e altre formazioni degli anni ’70, queste sonorità oscure tornano di moda (se di moda si può parlare in questo scenario), un pò per le varie sperimentazioni sul tema, un pò per quel sapore di alternativo che in fondo portano con sé. Molto è concentrato sul riff e molto sui tempi cadenzati, in questo gli italianissimi Black Rainbows hanno tutte le carte in regola, ma ciò che più stupisce è il numero di formazioni attuali dedite a questo genere in un’epoca in cui invece si punta tutto sulla velocità e sul bello/brutto dopo pochi secondi di ascolto. Ecco, se sposate questo approccio lasciate stare il genere o, meglio ancora, ascoltate il brano Monster Of The Highway incluso in questo EP e capirete che anche queste sonorità pesanti e psichedeliche hanno un’anima oltre che un’ottima collocazione nello scenario heavy metal. Tra l’altro il trio è abbastanza conosciuto avendo girato vari Paesi e suonato in vari luoghi; il tutto si percepisce in quanto il sound, diverso seppur non veramente innovativo (ma questa è una peculiarità del genere), risulta molto compatto e con delle ottime espressioni da parte degli artisti. Un’interpretazione personale di un genere conosciuto.

Bella Chakra Temple che innegia armonie orientali fin dal suo titolo e per un attimo ci trasporta in un’altra dimensione (e non in un’altra era), addirittura lasciando che le sei corde assumano le sembianze di motori targati post-grunge dal carattere più forte e in un crescendo estasiante che giunge ad una scarica di proiettili per poi acquietarsi sul finale. Ancora superiore The Hunter che, nella sua rumorosità voluta, piazza dei riffoni hard rock che sarebbero piaciuti a gente come Wolfmother o anche ai più ricercati Motorpsycho; il cantato qui (che di solito in brani di pari genere non compare quasi mai) rende il brano più digeribile ma non meno cattivo. E dopo la parentesi pseudo blues di If I Was A Bird giunge la conslusiva Black To Comm che innietta una dose di rock’n’roll ad un hard rock di per sé lacerante; bello l’assolo (lunghissimo) e l’incedere bellico, elementi che potrebbero piacere senza dubbio a qualsiasi rockettaro che si rispetti e che rendono l’intera traccia (di 12 minuti!) piena di spunti e di maestria. Un album, mini o completo che sia, diverso e che si fa apprezzare per la sua diversità. Da ascoltare con attenzione e con calma.

Autore: Black Rainbows Titolo Album: Holy Moon
Anno: 2013 Casa Discografica: Heavy Psych Sounds Records
Genere musicale: Hard Psych, Stoner Voto: 7
Tipo: EP Sito web: http://www.theblackrainbows.com
Membri band:

Gabriele Fiori – chitarra, voce

Alberto Croce – batteria

Dario Iocca – basso

Tracklist:

  1. Holy Moon
  2. Monster Of The Highway
  3. Chakra Temple
  4. The Hunter
  5. If I Was A Bird
  6. Black To Comm
Category : Recensioni
Tags : Psichedelia
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13th Lug2013

Vibravoid – Delirio Dei Sensi

by Giancarlo Amitrano

Una bella sorpresa, questa propostaci dalla band di Dusseldorf, ormai attiva da qualche anno nel panorama internazionale. Registrato in soli due giorni tramite la nostrana Go Down Records, l’album è un piacevole tuffo nel passato psichedelico tanto in voga negli anni ‘60, attraverso la sperimentazione di sonorità pienamente aggiornate ai giorni nostri. Capitanati da Christian Koch nella duplice veste di cantante e chitarrista, i nostri eroi riescono nell’impresa di offrire un sound apparentemente datato, ma al tempo stesso molto coinvolgente, grazie al sapiente lavoro di rimodulazione delle suddette sonorità con le tematiche dei brani. L’apertura di Poupeè De Cire, leggendario brano di Serge Gainsbourg portato al successo da France Gall nei tardi anni ‘60, è davvero notevole, con l’organo malinconico a trasportarci nei gloriosi anni, con la protesta giovanile esplicitata anche attraverso suoni e testi di ribellione. Egualmente incisiva Listen, Can’t You Hear, dove le armonie si mettono al servizio del brano, molto arpeggiato nella prestazione vocale, che drammatizza il giusto i testi. Aggressiva come non ci si aspetta, la canzone risulta molto coinvolgente e quasi “freak” nei cori, in simbiosi con il gioco organistico di metà brano, molto etereo. Mentre Colour Your Mind è una bella cover degli australiani Tyrnaround, dove il singer resta saggiamente posizionato idealmente sotto la linea del microfono, giungendo così la sua voce molto ovattata ed in secondo piano rispetto alla sezione ritmica, rendendo il brano tra i migliori dell’album anche grazie all’improvviso solo chitarristico, molto in tema.

The Empty Sky ha un suo incedere molto tranquillo e cosmico nei suoi passaggi, dove l’organo presentissimo fa sentire il suo lavoro pulito che mette in risalto il notevole giro di basso. Ancora una buona cover, con Magic Mirror degli Aphrodite’s Child, che riesce ad unire bene le sonorità progressive della fase strumentale con l’humus molto folleggiante dell’interpretazione vocale, tanto da non stonare in qualche composizione “medievale” dell’epoca. Con The Golden Escalator la band raggiunge il “top del trip”: il gioco di parole è opportuno per descrivere quello che nei quasi 13 minuti del brano il gruppo intende offrire; un ideale viaggio catartico verso la purificazione dello spirito, attraverso l’organo misticheggiante che più non si può e che gradualmente porta alla cognizione del proprio IO, quasi a rappresentarci (ci si perdoni l’empio paragone) il misticismo cosmico dell’immortale Re Lucertola durante i live acts dei Doors. Indubbiamente il miglior brano dell’album, al termine del cui ascolto ci si sente come trasportati in una dimensione surreale, con i rantoli finali del singer pronti ad annunciarci l’imminente Nirvana.

Tutto intriso di pulsioni cosmiche All Stars Have Gone To Sleep, dove la band si impegna a donarci il meglio della sua ispirazione, grazie al cantato molto “delirante” ed al drumming stavolta molto intenso. Le sonorità divengono quasi spiritate e gli strumenti raggiungono la loro dimensione naturale, stante il contesto lungimirante del testo ormai in preda al vero e proprio delirio dei sensi, qui finalmente raggiunto e declamatoci sin dal titolo dell’album. La psichedelia dei californiani The Human Expression viene qui degnamente rappresentata dalla cover di Optical Sounds che la band di Dusseldorf offre. Un caleidoscopio di sonorità molto trip nei passaggi, dove l’acidità delle composizioni viene messa al servizio della voce molto eterea e quasi “efebica” del singer. Grazie alla buona sezione ritmica, il brano diviene subito una ideale hit da ballare in opportuni ambienti molto soffusi. Nearby Shiras risente delle atmosfere molto orientali che la band intende dare al brano: il singer in questo frangente si adopera per poter offrire una prestazione molto “rarefatta” anche nella timbrica, dove le strofe vengono trattenute sino all’ultimo e l’atmosfera che si respira diviene via via più opprimente per l’organo molto incombente, da ideale colonna sonora di una film di Antonioni. Altro brano degni di menzione, nonché anch’esso cover: per la precisione dei Kalacakra. L’allegria non può abbandonarci, specie con il brano conclusivo: sotto con l’ennesima trasposizione di un altro brano famoso dei 60’s, precisamente La Poupeè Qui Fait Non. Il brano di Michel Polnareff diviene in questa sede altra occasione di momento pop, dai cori molto semplici ed accattivanti, che avrebbero fatto le fortune di chiunque avesse ripreso un brano del genere, molto beat su di una base molto psichedelica, senza pretese ma coinvolgente.

Il brano finale, Black And White, è una traccia live registrata durante una delle numerose calate della band sul nostro suolo ed anche in questo frangente, il terzetto non ha difficoltà a rilasciare una buona dose di energia vitale e sound spaziale abbinato alla psichedelica pura. In un contesto finale di valore assoluto e che resta impresso come marchio di fabbrica.

Autore: Vibravoid Titolo Album: Delirio Dei Sensi
Anno: 2013 Casa Discografica: Go Down Records
Genere musicale: Psychedelic Rock Voto: 7
Tipo: CD Sito web: http://www.myspace.com/vibravoid
Membri band:

Christian Koch – voce, chitarra

Tracklist:

  1. Poupeè De Cire
  2. Listen, Can’t You Hear
  3. Colour Your Mind
  4. The Empty Sky
  5. Magic Mirror
  6. The Golden Escalator
  7. All Stars Have Gone To Sleep
  8. Optical Sounds
  9. Nearby Shiras
  10. La Poupeè Qui Fait Non
  11. Black And White (live)
Category : Recensioni
Tags : Psichedelia
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06th Lug2013

OSI – Office Of Strategic Influence

by Marcello Zinno

Album introverso ed introspettivo quello degli OSI, il cui acronimo rappresenta anche il nome del loro debut-album, Office Of Strategic Influence. Un nome ricercato, particolare, quasi filosofico, così come vogliono essere le idee partorite da questo combo inaspettatamente ben conosciuto ai più. Una band potremo dire costituita da “mostri sacri” della scena: le colonne portanti, Kevin Moore (ex Dream Theater fino ai tempi di Awake) e Jim Matheos (Fates Warning), sorreggono altrettanti pilastri che in autonomia potrebbero reggere un castello, Mike Portnoy (anch’egli ad oggi ex-Dream Theater, ma non ai tempi dell’uscita di questo album, nonché coproduttore) e Sean Malone (bassista dei Gordian Knot). Al combo si aggiunge la partecipazione di Steven Wilson, genio che sta dietro ad una serie di album (Opeth) oltre che di progetti personali (Porcupine Tree, Steven Wilson). Ma il concept che è alla base di questo progetto parallelo di band così rinomate, si discosta notevolmente da una tecnica ricercata, o di quella che gli esperti del settore definiscono “self-indulgence” (spesso fonte di accuse quale causa di freddezza di alune composizioni prog), bensì vuole proprio mostrare un’anima riflessiva, che si torce e ritorce in se stessa e si svuota, ma senza voler stressare alcun grado di complessità. Di certo l’analisi psicoattitudinale che ci apprestiamo a realizzare ascoltando questo album è lungi dal rappresentare un passatempo o un qualcosa da fare tra le righe. Non è un album semplice: immaginate di prendere Bijork, iniettarle una siringa del prog metal del “teatro del sogno” dei tempi che fu e chiuderla per una settimana in una stanza ultra amplificata di musica elettronica. Cosa ne uscirebbe fuori? OSI.

Un miscuglio di idee, mai sparse e confuse, ma quasi sempre mistiche e poco cognitive. Si spazia dall’approccio raffinato e ricercato di Horseshoes And B-52’2, alle ondate di echi di Dirt From A Holy Place palesemente debitrice di una tradizione floydiana a cui i Dream Theater stessi non hanno mai rinunciato (si veda su tutti gli album Metropolis Pt.2 e Six Degrees Of Inner Turbolence) anche se evolutiva tramite sonorità diverse, continuando per la ballad finale, Standby (Looks Like Rain) che presenta un Kevin Moore cantante (così come negli altri pezzi) abbastanza “anonimo”. Si spazia tra generi, tra approcci, tra suoni, tra modi di vivere la musica, senza armonizzare i propri sforzi verso una rotta prefissata, ma vagando nel più buio oblio. E che ciò rappresenti un punto di forza o di debolezza del disco, lo lasciamo alla sola sentenza dell’ascoltatore…impossibile definirlo oggettivamente. Ciò che è certo è che la chiave di lettura dell’album rappresenta l’amore verso la sperimentazione, il desiderio di provare nuove rotte, molto ambient, che colpiscono a pieno le radici dei vari background musicali degli artisti, volendone forse trovare un punto in comune, o forse qualcosa di estremamente diverso. Così si unisce l’approccio prog dei già citati DT, l’amore verso le parti melodiche/orchestrali del magico Moore, il gusto per le divagazioni psichedeliche attinte dal passato dei Fates Warning e di Wilson, il tutto miscelato con una costante dose di elettronica.

L’album va digerito lentamente e soprattutto masticato nel suo complesso, nessuna parte di esso rappresenta un organo autonomo, ma ciascuna una parte minuscola di un’opera, che può piacere ai più sofisti e lasciare indifferenti i più esigenti progster (di prog ha veramente molto poco). E così vi troverete a vivere in un sogno, a sentire le emozioni come reali ma a non comprendere cosa realmente vi sta accadendo; solo dopo averci riflettuto per giorni e giorni riuscirete a trovare una via di uscita pur vivendo il rischio di dimenticare tutto appena svegli. Questa metafora descrive perfettamente cosa sono gli OSI.

Autore: OSI Titolo Album: Office Of Strategic Influence
Anno: 2003 Casa Discografica: Inside Out
Genere musicale: Progressive, Psichedelia Voto: 5,5
Tipo: CD Sito web: http://www.osiband.com
Membri band:

Sean Malone – basso

Jim Matheos – chitarra, programming

Kevin Moore – voce, tastiere, programming

Mike   Portnoy – batteria

Steven   Wilson – voce su Shutdown

Tracklist:

  1. The New Math (What We Said)
  2. OSI
  3. When You’re Ready
  4. Horseshoes And B-52’s
  5. Head
  6. Hello, Helicopter!
  7. Shutdown
  8. Dirt From A Holy Place
  9. Memory Daydreams Lapses
  10. Standby (Looks Like Rain)
  11. Set The Controls For The Heart Of The Sun (bonus track)
  12. New Mama (bonus track)
  13. The Thing That Never Was (bonus track)
Category : Recensioni
Tags : Progressive, Psichedelia
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08th Giu2013

Tommy Talamanca – Na Zapad

by Marcello Zinno

Parlare di Tommy Talamanca è semplice e difficile allo stesso tempo. Semplice perchè si tratta di un musicista molto noto: portato in auge dai suoi Sadist diretti insieme all’amico Trevor, Tommy nel tempo si è distinto anche per ruoli che andavano oltre la tecnica allo strumento, passando anche alla parte della produzione e collaborando anche con giovani formazioni (come quella dei Morgana da noi recensita a questa pagina). Al tempo stesso però è molto complesso inquadrare il suo operato, stiamo pur sempre parlando di un artista che compone le parti di chitarra e di tastiera e le esegue contemporaneamente durante i brani dei Sadist per poi passare a sviluppare delle proprie idee lontane dal technical death metal della propria band madre. Così avviene per il suo primo lavoro solista, Na Zapad, che spiazza chi lo vorrebbe vedere alle prese con una sei corde robusta e delude chi si aspetta esercizi chitarristici di alta perizia tecnica. Qui il desiderio di lasciarsi andare, di dare libertà di espressione ai propri pensieri (e non limitarli al sound Sadist ormai troppo collaudato) è troppo forte per trovare paragoni. Arevelk Arevmutk già offre un’altra idea dell’arzigogolo di vie che l’artista vuole attraversare, inserendo anche degli effetti metal che nell’opener Vostok non c’erano. Ma al di là delle varie influenze che questo Na Zapad fa emergere, si intuisce la vera passione di Tommy per il progressive e per le sonorità settantiane. Non si tratta però dell’unica matrice di base dell’album: in queste dieci tracce synth, tempi dispari, ambientazioni cupe ma pur sempre artistiche si alternano nella direzione di un’opera di certo complessa e con tante cose da dire (come le parti jazzy in Wala).

Oeste è un buon esercizio chitarristico, senza usare la vena elettrica, mentre Nbb si concentra di più sulla sezione ritmica. Due elementi diversi della stessa medaglia. Completamente strumentale l’album, pur optando su diversi fronti musicali, vive di un certo ancoraggio in quella che è la ricerca di un’ambientazione particolare, di volta in volta diversa da traccia a traccia. Un lavoro di certo certosino sull’aspetto compositivo che riflette di esercizi stilistici ripetuti spesso molte volte, elemento questo molto comune in album in cui è solo un artista a ideare i singoli brani, facendo mancare il contributo del “gruppo” nel suo senso più pieno. I tantissimi effetti, i nomi impronunciabili delle tracce, le percussioni, sono tutti fattori che permettono ai fan di Talamanca di scoprire nuovi mondi e un nuovo modo di interpretare la musica per qualcuno che aveva abituato troppe persone al death metal e basta. Na Zapad risulta il viaggio che non era stato ancora compiuto dal suo artefice, un viaggio che probabilmente era nella sua mente da parecchio e che attendeva il momento giusto per essere vissuto a pieno, altrimenti non avrebbe avuto lo stesso valore.

Autore: Tommy Talamanca Titolo Album: Na Zapad
Anno: 2013 Casa Discografica: Nadir Music
Genere musicale: Progressive, Psichedelia Voto: 6,5
Tipo: CD Sito web: http://www.tommytalamanca.com
Membri band:

Tommy Talamanca – chitarra, basso, bouzouki, synth, piano,   duduk, darbuka, djembe, tabla, maracas, kora, bodhran

Emiliano Olcese – batteria

Tracklist:

  1. Vostok
  2. Arevelk Arevmutk
  3. Wala
  4. Dia Ballein
  5. Syn Ballein
  6. Oeste
  7. Nbb
  8. A O
  9. In The Mouth Of Madness
  10. Na Zapad
Category : Recensioni
Tags : Psichedelia
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