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09th Ago2018

Pasquale Aprile – Crossing My Mind

by Aldo Pedron

Pasquale Aprile - Crossing My MindPasquale Aprile è un musicista, sassofonista, cantautore ed interprete, nato a Nola (Na) il 26 Novembre del 1980. Ancora da ragazzo, la sua passione germoglia sui banchi di scuola dove impara presto a suonare il flauto dolce e spinto dagli insegnanti che vedono in lui del talento, continua un percorso musicale iscrivendosi al Conservatorio G. Martucci di Salerno dove consegue con lode nel 2007 la Laurea in Sassofono. Durante gli anni del Conservatorio sperimenta numerose situazioni musicali di vari generi e stili soprattutto rock blues consolidando la sua passione per la black music. Diventa docente di musica e sassofono nel 2009 e intraprende diversi progetti artistici che gli fanno conferire alcuni riconoscimenti ufficiali. Dopo numerose esperienze in Europa (in Spagna a Parigi in Francia, e a Berlino) per Pasquale finalmente nel 2015 è la volta di un viaggio negli Stati Uniti dove si immerge nelle origini della musica che più lo appassiona. Come ospite suona a New Orleans (Louisiana), Memphis (Tennessee), Clarksdale (Mississippi) e Chicago (Illinois). La sua personalità artistica viene quindi racchiusa in questo suo primo album inedito intitolato Crossing My Mind ed interamente da lui composto. Il suo, è un percorso di vita, su e giù per il mondo e dove una eccentrica personalità artistica gli ha permesso di elaborare e mettere a frutto le sue passioni e contaminazioni musicali e culturali.

Pasquale in queste nove tracce autografe suona il sassofono, armonica, chitarra ed è voce solista. Sonorità decisamente rock blues tinte di funk ed un pizzico di jazz. Pasquale Aprile possiede una voce potente e piena, è un ottimo strumentista ed autore di brani di sicuro spessore. Nell’iniziale No Need sono in particolar evidenza una voce graffiante, il sax con sonorità blues, soul e jazz, l’armonica, le tastiere ed una robusta sezione ritmica che diventano il leitmotiv ed il marchio di qualità per tutto il disco. Smell You è tra le più convincenti così come On Your Side è di grande atmosfera con il sax di Pasquale a toccare sonorità davvero elevate e i tocchi magici della slide guitar del napoletano Gennaro Porcelli (da oltre 10 anni chitarrista della band di Edoardo Bennato). Chose Me è l’autentica chicca di Crossing My Mind, dal riff accattivante, una voce profonda e la chitarra solista di Donato Corbo. Un disco dal suono corposo, suonato come si deve, ben strutturato e assai piacevole che si ascolta molto volentieri.

Autore: Pasquale Aprile

Titolo Album: Crossing My Mind

Anno: 2018

Casa Discografica: Il Popolo Del Blues

Genere musicale: Blues Rock, Funk

Voto: 8

Tipo: CD

Sito web: http://www.pasqualeaprile.it

Membri band:

Pasquale Aprile – voce, armonica, sax, chitarra

Nunzio Forino – basso

Ivano Petti – batteria

Donato Corbo – chitarra

Giuseppe Scarpato – chitarra

Luca Chiellini – piano, organo Hammond

Antonio Rubino – basso

Arcangelo Nocerino – batteria

Gennaro Porcelli – chitarra nel brano On Your Side

Tracklist:

  1. No Need

  2. Chose Me

  3. Mississippi

  4. Smell You

  5. On Your Side

  6. Scars On My Skin

  7. Silence

  8. Shake Yourself

  9. Crazy Clown

Category : Recensioni
Tags : Rock Blues
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06th Ago2018

Mora & Bronski – 50/50

by Aldo Pedron

Mora & Bronski - 50 50Fabio Mora e Fabio Bronski Ferraboschi, in arte Mora & Bronski, sono un duo atipico, molto originale (entrambi per vent’anni nei Rio, una pop band di Reggio Emilia e dintorni). I precedenti lavori sono stati Naif pubblicato nel novembre del 2014 e 2 uscito nel gennaio del 2016. Questo loro terzo disco presenta sonorità roots molto graffianti e decisamente minimali, per la prima volta con l’aggiunta (che io però avrei volentieri evitato!) di inserti elettronici e di programming, a sostegno del tessuto armonico ritmico. Il disco si distingue dai loro precedenti lavori per cui 50/50 resta inequivocabilmente una raccolta di canzoni per metà ripescate dal passato e per l’altra metà di brani originali. Un album dunque, dai sapori squisitamente americani, alla ricerca delle radici del blues e della musica tradizionale, dei traditionals riletti dal duo italiano e emiliano in maniera insolita e stravagante, che mischia il suono del Delta Blues del Mississippi a quello del Cajun della Louisiana del Sud, passando dal country, al rock & roll, alla folk music fino al folklore tutto italiano tradizionale e regionale. Mora & Bronski, sono un power duo musicale in bilico tra folk, blues e cantautorato italiano pieno di idee, intuizioni e omaggi al blues. Assai originale l’iniziale Spaghetti Blues a metà tra la tarantella, le filastrocche della antica tradizione popolare italiana e il blues rurale a stelle e strisce. Convincente Mezzanera, una composizione di Fabio Ferraboschi. The Fat Man è il soprannome del suo autore, Antoine Fats Domino (1928-2017), di New Orleans, 100 chili di piccolo grande artista, pianista e pioniere del R&B e rock’n’roll, dalle influenze creole che ha incarnato lo spirito meticcio e indomabile della città adagiata tra il fiume Mississippi e il lago Pontchartrain che nemmeno l’uragano Katrina ha saputo spazzar via.

Ogni brano è un piccolo mondo, relativamente assai distante uno d’altro. In Keep It Yourself di Sonny Boy Williamson dall’andamento reggae e blues, è Fabrizio Poggi ad impreziosire il pezzo con il suo intervento ed assolo d’armonica. Anarcos è l’ennesima loro composizione con Loren Zadro alla chitarra elettrica. La Porte En Arrière (The Back Door) è il brano più famoso di D. L. Menard (1932-2017) di Erath, Louisiana, in piena terra cajun e soprannominato il Cajun Hank Williams che con questo singolo scritto in meno di un’ora mentre lavorava in una stazione di servizio (fu un grande successo) nel 1962 vendette oltre 500.000 copie. See My Jumper Hangin’ Out On The Line è un brano del 1978 di R.L. Burnside (1926-2015), blues singer e chitarrista del Mississippi. Jolie Louise cantata metà in francese e metà in inglese è invece tratta dall’album d’esordio Acadie del 1989 di Daniel Lanois, songwriter ma soprattutto uno dei più importanti produttori americani.

Mora & Bronski convincono sia nei pezzi decisamente americani che quelli prettamente nostrani. Forse la pronuncia inglese di Fabio Mora andrebbe certamente migliorata per essere un autentico bluesman, per il resto il disco brilla di luce propria. Originali, persuasive, coinvolgenti e valide sia Più Giù (“ancora più giù sotto un cumulo di terra dove mi hai messo tu ed è la volta buona per liberarti di me…“), la versione di This Train Is Bound For Glory di Woody Guthrie con Deborah Kooperman voce e chitarra acustica e Vudumanti (Veglia Danzante) in chiusura in cui sono ospiti provenienti dal Veneto, i Bayou Moonshiners con Stephanie Océan Ghizzoni (cantante e pittrice di origini bresciane, una sorta di ammaliante Marie Laveau, sposata con il sound di New Orleans) alla voce e coro e Max Lazzarin alle tastiere Rhodes.

Autore: Mora & Bronski

Titolo Album: 50/50

Anno: 2018

Casa Discografica: Az Blues

Genere musicale: Blues Rock, Folk

Voto: 8,5

Tipo: CD

Sito web: https://www.facebook.com/moraebronski/

Membri band:

Fabio Mora – voce

Fabio “BRONSKI” Ferraboschi – voce, chitarra

Special guest:

Fabrizio Poggi – armonica

Max Lazzarin – piano, rhodes, cori

Lorenz Zadro – chitarra

Pietro Marcocci – armonica

Deborah Kooperman – voce, chitarra

Stephanie Ocean Ghizzoni – voce

Tracklist:

  1. Spaghetti Blues

  2. Pistol Packin’ Mama

  3. Mezzanera

  4. The Fat Man

  5. Carezze All’ossigeno

  6. No Potho Reposare

  7. Keep It To Yourself

  8. Anarcos

  9. The Backdoor (La Porte En Arriere)

  10. Appuntamento Al Buio

  11. See My Jumper Hangin’ Out On The Line

  12. Neve E Cenere

  13. Jolie Louise

  14. Più Giù

  15. This Train Is Bound For Glory

  16. Vudumanti (Veglia Danzante)

Category : Recensioni
Tags : Rock Blues
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27th Giu2018

The Big Blue House – Binne My

by Aldo Pedron

The Big Blue House - Binnie MayThe Big Blue House nascono nel 2014 a Torrita di Siena e sono una giovane e promettente blues band che dopo aver visto inserito un loro brano in una compilation Pistoia Blues Next Generation Vol. 2 quali vincitori del contest Obiettivo BluesIn e suonato sul palco del Pistoia Blues Festival del 2016, ora pubblicano un secondo CD con 8 brani originali cantati in inglese e composti da Danilo Staglianò e Luca Bernetti. In precedenza nel febbraio del 2016 avevano dato alle stampe, sempre con 8 pezzi l’album Do It. Nel 2017 hanno pubblicato il singolo e video Blue Sky e nell’estate del 2017 si sono nuovamente esibiti al prestigioso Festival di Pistoia. I riferimenti musicali del gruppo sono il Texas blues con capofila T- Bone Walker e Freddie King e l’electric blues classico passando da Buddy Guy a Gary Moore, Matt Schofield, Joe Bonamassa senza ma dimenticare Steve Ray Vaughan. Blues classico ma al tempo stesso anche moderno integrato per l’appunto con un sound vintage nostalgico ma riadattato e plasmato ai nostri giorni. Un blues ben suonato e piacevole all’ascolto per una formazione in cui Danilo Staglianò si fa sentire alla chitarra, il basso è assai presente a tenere alta la sezione ritmica con una base assai solida ed una batteria elegante. Una formazione a quartetto con ritmo e melodie assai bene amalgamate. Bravissimo Sandro Scarselli al piano e all’organo Hammond.

Liar in apertura, è un pezzo assai convincente e pubblicato anche come singolo in anteprima precedendo l’uscita dell’album Binne My che se non erro in africano significa “dentro di me”, a significare per loro un viaggio interiore per riscoprire cosa significhi, essere un uomo prima ancora di un musicista al giorno d’oggi, affrontando difficoltà e sconfitte ma resistendo in onore e grazie alla musica blues. The Big Blue House compongono, suonano e ci presentano registrati presso il B- Side Recording di Chianciano Terme (SI) otto splendidi brani in piena regola di Texas blues, shuffle, Chicago blues, electric blues, blues canonico dall’impeto sanguigno e dal giusto groove. In Moments Of Rain spicca il contrappunto tra chitarra, basso, batteria e Hammond mentre di particolar rilievo è anche Black Eyes. The Middle Passage è uno shuffle in piena regola con un assolo di Hammond davvero essenziale e ben riuscito. Binnie May è più intimista, semi acustica con Maurizio Pugno special guest alla chitarra ritmica e solista. In I’m Not On Sale dal titolo eloquente (“non sono in vendita”) è Danilo Staglianò alla chitarra solista ad esibirsi in un assolo e si conclude con To Leave The World con ai cimbali e percussioni Gianluca Meconcelli a dare un tocco di cupa atmosfera e la chitarra elettrica sempre in primo piano.

Blues tirato, compatto, piacevole, senza particolari fronzoli ed in definitiva un disco che si fa ascoltare con piacere.

Autore: The Big Blue House

Titolo Album: Binnie My

Anno: 2018

Casa Discografica: Autoproduzione

Genere musicale: Rock Blues

Voto: 7

Tipo: CD

Sito web: https://www.facebook.com/thebigbluehouseofficial/

Membri band:

Danilo Staglianò – voce, chitarra

Luca Bernetti – basso

Sandro Scarselli – tastiere, Hammond

Andrea Berti – batteria

Tracklist:

  1. Liar

  2. Moments Of Rain

  3. Black Eyes

  4. Playing This Tune

  5. The Middle Passage

  6. Binne My

  7. I’m Not On Sale

  8. Too Leave This World

Category : Recensioni
Tags : Rock Blues
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30th Mag2018

Apaches – Apaches

by Igor Cuvertino

ApachesTutti gli appassionati di rock psichedelico non potranno che fremere guardando l’artwork di Apaches, album della rock band sarda dall’animo vintage. L’occhio che troneggia al centro della copertina (davvero pregevole) e le fasi lunari “dipinte” sul retro caricheranno l’ascoltatore di aspettative, indirizzandolo verso il troppo spesso dimenticato genere che ha reso grande la musica italiana qualche decennio fa. In realtà con queste premesse l’apertura del disco spiazza parecchio, rivelando una band a due facce. I primi due brani sono un misto di rock e blues di chiaro stampo statunitense, anche se cantati in italiano. Ci si sente immersi in un sound molto vintage e viene voglia di appoggiarsi ad un bancone polveroso e godersi una birra fresca ascoltando Schiavo Pensiero e Vecchia Signora. A questo proposito è da apprezzare la scelta stilistica della band (dichiarata nel libretto interno) di registrare in presa diretta per conservare quel suono e quell’atmosfera, che a volte rischiano di perdersi in produzioni troppo pulite. Seguono questa sonorità anche Bordello e Stalloni Man, con chiari richiami agli ZZTop. Fino qui nulla di particolarmente originale, anche se sicuramente ben suonato e corredato da un ottimo sound. I brani danno l’impressione di essere il punto di forza magari in chiave live, dove queste sonorità possono essere apprezzate anche dai meno avvezzi al genere. La voce risulta chiara e pulita, e si esalta con ritornelli orecchiabili, forse mancando un poco di quel sapore di whiskey e polvere che richiederebbe il genere.

E poi si svolta. Entra in scena finalmente la personalità di questa band. Ne sono esempio Degenerazioni, dal sound più arrombante e psichedelico, e soprattutto gli ultimi due brani, che alzano notevolmente il livello compositivo del lavoro complessivo. Qui si sente la sperimentazione, finalmente la band osa, abbandonando la “confort zone” del rock blues. Esci Dagli Schemi contiene un ottimo intermezzo sperimentale, quasi arabeggiante, forse il punto più interessante dell’intero disco. Il pezzo più riuscito di questa vena psichedelica risulta essere Carovana Magica, dove sembra davvero rivivere il rock anni ’70 di stampo italiano. Riusciti in pieno nell’intento di sembrare usciti da un’altra epoca, gli Apache sfornano un buon disco dal punto di vista della qualità e delle intenzioni, con il solo neo di sembrare a tratti un lavoro un po’ scollato, fatto appunto di due facce della stessa band. Rimane un po’ il rimpianto di non aver approfondito di più la vena psichedelica di stampo italiano, di cui i musicisti dimostrano di essere ottimi e originali interpreti.

Autore: Apaches

Titolo Album: Apaches

Anno: 2016

Casa Discografica: Autoproduzione

Genere musicale: Rock Blues

Voto: 6,5

Tipo: CD

Sito web: https://www.facebook.com/appaches.sennori/

Membri band:

Ant Morrison – voce

Giuseppe “Zeppeddu” Porcu – chitarra

Vanni Farina – chitarra

Gavino Solinas – basso

Stefano Pedes – batteria

Tracklist:

  1. Schiavo Pensiero

  2. La Vecchia Signora

  3. Bordello

  4. Degenerazioni

  5. Stalloni Man

  6. Esci Dagli Schemi (Per Non Morire Nel Silenzio)

  7. Carovana Magica

Category : Recensioni
Tags : Rock Blues
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13th Mag2018

Stone The Crows – Ode To John Law

by Raffaele Astore

Stone The Crows - Ode To John LawCi sono tante storie tristi nel rock, ci sono anche tante band che sembrano state dimenticate tra gli ascolti perduti di un giorno qualsiasi, eppure oggi che ho messo su questo disco mi ritornano in mente atmosfere uniche che ora puoi trovare solo in edicola (per fortuna noi non siamo quelli visto i vinili collezionati). Eppure ho sempre preferito andare in giro nei mercatini o nei negozi di dischi sperduti, come mi è capitato di fare spesso a Londra, o nei mercatini delle pulci, si proprio lì perché spesso capita di trovare pezzi che non sanno nemmeno di avere. Poi il blues rock di questo disco dove sembra che Maggie Bell abbia la voce della Joplin è tutto dire. Altro che hard, qui le atmosfere sono uniche come il sound che gli Stone The Crows hanno prodotto insieme ad altre band non da meno. Scozzesi senza kilt ci ricordano che anche la Scozia in fatto di rock ha detto la sua, alla faccia del separatismo dall’odiata Londra. Ode To John Law prende il nome e l’ispirazione dal coinvolgimento di alcuni poliziotti americani nell’uccisione di diversi studenti all’università avvenuta il 4 maggio del 1970 (guarda la coincidenza…siamo proprio a maggio) con un’apertura affidata a Sad Mary che si presenta con un bell’organo Hammond e la chitarra di Harvey soffice come una piuma che in sottofondo accompagna la bella voce di Maggie Bell profondamente soul. Miscuglio perfetto per un’apertura stupefacente che non trovi nelle produzioni attuali. Il bell’assolo di chitarra che segue poi ti dice già che sei in un paradiso sperduto dove un sound così te lo sogni davvero, ma io son desto ed il piede sul wha wha della chitarra sembra essere il mio.

Con Love le armonie vocali sono ben congegnate e seguono il piano elettrico che anche qui, sostenuto alla lontana dalle svisate elettriche di Leslie Harvey danno sostanza ad un tempo incalzante, ripetitivo, che richiamano anche alcuni momenti progressive ma anche flash di quel rock alla lontana che coincide con il nome di Jon Lord. Mad Dogs And Englishmen vede il ritmo aumentare considerevolmente con il solito ingresso chitarristico che sembra voler farci riassaporare tempi in cui un certo Joe Cocker esordì con quella sua voce da uomo di colore blues colorato di bianco. Anche Things Are Getting Better insieme al brano precedente rappresenta un pezzo eccellente per un album troppo presto dimenticato ma che mantiene comunque al suo interno ballate di un certo spessore, e proprio Things Are Getting Better ne è un esempio. Ode To John Law, la title track, è un pezzo di blues rock molto tetro che narra di come uno degli studenti presenti in quel 4 maggio del ’70 alla Kent State University in Ohio, si aspettava che la polizia si comportasse in occasione delle pacifiche contestazioni contro l’invasione statunitense della Cambogia voluta dall’allora presidente Nixon; ed anche qui tutto è un impegno politico in musica come accadeva spesso in quegli anni.

Ode To John Law è un disco dove si intuisce nell’immediato come il sound degli Stone The Crows sia migliorato rispetto al precedente album del 1969 che prendeva il titolo direttamente dal loro nome. Anche se il materiale di questo disco fu realizzato nel giro di pochi mesi si intuisce quanto la band sia migliorata e maturata in modo consistente e potremmo dire veloce. Le canzoni sono più essenziali di quelle apparse nell’album del debutto discografico, sono limpide ma allo stesso tempo sanno offrire momenti di durezza e di dolcezza musicale grazie anche alla stupenda voce di Maggie Bell che, come abbiamo detto prima, sembra la Joplin. Peccato però per la loro breve durata che ha comunque prodotto quattro album, una breve presenza nel panorama rock dovuta a quanto capitato il 3 maggio del 1972 a Les Harvey, uno dei membri fondamentali per il sound complessivo degli Stone The Crows; infatti Harvey fu fulminato sul palcoscenico a Swansea, nel Regno Unito, purtroppo morendo. Dopo la morte di Harvey, gli Stone The Crows produssero altri due album, Teenage Licks pubblicato nel 1971 e Ontinuous Performace nel 1972, poi decisero di sciogliersi per l’insopportabile peso di quanto era accaduto ad Harvey. Peccato che le belle storie del rock finiscano spesso in modo tragico!

Gli Stone The Crows hanno dimostrato nel lasso di un breve periodo di essere una delle band più talentuose in circolazione tra il 1970 ed il 1972 grazie a quella innata capacità di inglobare nella loro musica le migliori influenze del blues rock e del rock americano. Fatevi una bella ricerca su youtube ed ascoltate un po’ questo grande gruppo e non meravigliatevi se il sound vi fa battere i piedi. Per il disco…andata a cercare nei mercatini!

Autore: Stone The Crows

Titolo Album: Ode To John Law

Anno: 1971

Casa Discografica: Polydor

Genere musicale: Blues Rock

Voto: 8

Tipo: CD

Sito web: https://en.wikipedia.org/wiki/Stone_the_Crows

Membri band:

Maggie Bell – voce

Leslie Harvey – chitarra

John McGinnis – tastiere

James Dewar – basso, voce

Colin Allen – batteria, percussioni

Tracklist:

  1. Sad Mary

  2. Friend

  3. Love

  4. Mad Dogs And Englishmen

  5. Things Are Getting Better

  6. Ode To John Law

  7. Danger Zone

  8. Things Are Getting Better

Category : Recensioni
Tags : Album del passato, Rock Blues
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08th Mar2018

The Trick – The Trick

by Sara Fabrizi

The TrickThe Trick è l’omonimo EP di esordio di una band molto interessante. Varia al suo interno per la provenienza nazionale dei componenti (Francia – Lussemburgo – Portogallo) e per i generi musicali di riferimento. 6 tracce piene di groove che fondono in maniera caleidoscopica blues, soul, rock, pop e ce li restituiscono in una veste molto accattivante. Sinceramente noi addetti ai lavori restiamo spiazzati ad un primo ascolto, tanta è la roba che c’è dentro. Immaginiamo questo disco come un prisma dalle molteplici e sfuggenti sfaccettature o, meglio, come un caleidoscopio che crea un gioco di riflessi, luci e colori in continuo movimento e per questo mai uguali e definibili chiaramente. E’ una metafora che dovrebbe rendere bene l’idea di questo melting pot di nazionalità, influenze musicali e stili che si riversano nei brani. Il periodo storico-musicale da cui sono partiti è certamente quello dei gloriosi ’70s, inesauribile fonte di ispirazione per tutte le band che vogliano muoversi nell’ambito dell’hard rock. Si nota che la band ha fatto proprie le lezioni di leggende del passato, come i ZZ Top ad esempio. Anche se, come detto prima, ricondurre l’album ad un genere specifico è impossibile.

Il cantato è energico e al contempo soul, una voce con un range molto ampio che si presta bene alla “schizofrenia” stilistica dell’album. Le ritmiche sono potenti, i riff pesanti, il groove è fisico quasi. Credo che una loro performance dal vivo sia davvero trascinante, se già in studio suonano così “live”. L’impressione all’ascolto è proprio quella che si ha assistendo ad un concerto. Ogni brano poi è variegato al suo interno, contenendo un mix di generi e influenze che di volta in volta predominano o rimangono più in sordina. C’è anche spazio per momenti di maggiore calma e riflessione in alcuni pezzi, toccando un ambito melodico quasi da ballad, ma senza mai perdere il groove. Quello mai. Mi piace moltissimo l’uso dell’organo Hammond, così genuino, così ’70s. I suoni vintage con una rinnovata energia rock e una voce soul rendono questo primo lavoro di The Trick assolutamente irresistibile. A mio parere, e come si dice in gergo, una bomba.

Autore: The Trick

Titolo Album: The Trick

Anno: 2017

Casa Discografica: Autoproduzione

Genere musicale: Blues Rock, Soul, Rock

Voto: s.v.

Tipo: EP

Sito web: http://www.thetrick.fr

Membri band:

Lata Gouveia – voce

Florent Plataroti – chitarra

Sergio Rodrigues – Hammond B3, tastiere

Apollo Munyanshongore – basso

Benoît Martiny – batteria

Tracklist:

  1. Get Down
  2. Capital Crime (Voodoo Got)
  3. Permanent Dream
  4. Roll On Summer
  5. Be Zen At The Zoo
  6. Pasta
Category : Recensioni
Tags : Rock Blues
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10th Gen2018

Shawn James – On The Shoulders Of Giants

by Alberto Lerario

Shawn James - On The Shoulders Of GiantsIl bluesman Shawn James ha un’anima da lupo solitario, ha sempre continuato a percorrere due strade, una con la sua band The Shapeshifters, e l’altra da solista che l’ha portato anche a raggiungere una certa fama grazie alla colonna sonora della serie-documentario The Youkon Men prodotta da Discovery Channel. On The Shoulders Of Giants è stato pubblicato nel 2016 ed è stato ripubblicato nel 2017 con un packaging completamente rivisitato. Per le registrazioni, Shawn si è recato nei famosi Sun Studios di Memphis, per assorbire l’energia delle stanze in cui molti artisti immortali hanno emanato le loro vibrazioni. Chi ama il blues dall’aspetto ruvido con chitarra slide dovrebbe essere ben servito da questo disco. Complessivamente, le nove composizioni originali possono essere considerate una specie di sermone musicale celebrato all’aria aperta su un campo di cotone. Logicamente, il musicista non è riuscito a gestire tutti gli strumenti in egual misura, e sulla bilancia prevale la sei corde ed il Bottleneck, perché la guida è sicuramente il suono slide. Così l’atmosfera del disco è ipnotica, la musica ci conduce con animo oscuro in luoghi psichedelici. Probabilmente il vero strumento di Shawn James è la sua voce, il singer canta in modo rugoso ed intenso, proprio come un predicatore che vuole intensificare il suo messaggio con vigore. Spesso infatti si accompagna ritmicamente solo con le mani. Possiamo assaporare momenti di gospel blues intenso, non adulterato, le radici del passato di Shawn che continuano a veicolare la sua linfa musicale.

Tra i brani spicca Capitan Stormalong, perché mantenendo inalterata la qualità musicale si esprime con uno stato d’animo decisamente felice dando l’impressione che le nuvole scure abbiano fatto spazio al sole. L’unica pecca del disco è probabilmente la durata ridotta, poco più di trentadue minuti e inoltre per essere apprezzato appieno necessita del libretto dei testi per comprendere non solo il sentimento blues ma anche il significato della predica musicale di Shawn. Gli amanti del genere non devono esitare nel far proprio questo disco, ma la buona musica comunque non dovrebbe essere ignorata, a prescindere dai gusti di genere.

Autore: Shawn James

Titolo Album: On The Shoulders Of Giants

Anno: 2017

Casa Discografica: Autoproduzione

Genere musicale: Blues, Folk

Voto: 6,5

Tipo: CD

Sito web: http//www.shawnjamesmusic.com

Membri band:

Shawn James – voce, chitarra, batteria

Tracklist:

  1. Hellbound

  2. Belly Of The Beast

  3. When It Rains, It Pours

  4. Snake Eyes

  5. Delilah

  6. Back Down

  7. Lift Us Up

  8. Captain Strongalong

  9. Preacher Foretold

Category : Recensioni
Tags : Rock Blues
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03rd Gen2018

Shawn James & The Shapeshifters – The Gospel According To Shawn James & The Shapeshifters

by Alberto Lerario

Shawn James & The Shapeshifters - The Gospel According To Shawn James & The ShapeshiftersShawn James ha l’aspetto di un santone americano, un predicatore, perché come spesso accaduto in passato la gavetta è cominciata nel coro della chiesa di un paese del centro-sud americano (Arkansas), sospinta dalla madre, mentre l’altro genitore, il padre in questo caso, è presente nella vita di Shawn come un dittatore alcolista. Tuttavia, non essendo più negli anni sessanta da un humus del genere cresce una nuova creatura che affonda sì le radici nel passato, ma che assume sembianze variegate e per certi aspetti uniche allontanandosi dai classici cliché. Shawn James e la sua band sono rock, metal, bluegrass e southern allo stesso tempo. Sembra che i Black Spider si intromettano con i Seasick Steve per il loro amore per i Lynyrd Skynyrd e Muddy Waters. Il disco si apre con No Gods e si intuisce subito come il leader in persona, Shawn James, organizza sviluppi vocali che si amalgamano dal canto pulito ai graffi profondi, che contrastano con un’atmosfera selvaggiamente sinistra e disorientante dovuta alla contrapposizione tra una distorsione enormemente tonante ed il suono melodico del violino accompagnato dal banjo tenore. Questa particolare componente è ben implementata nella canzone Like Father Like Son, organizzata su una struttura complessa di battute si apre con un riff catchy e grezzo, per prendere strade bluegrass. Lost esibisce sfacciatamente l’estetica rock blues. Wild Man accelera i ritmi, con le pelli del drummer Zach Coger che vengono sollecitate pesantemente per mantenere velocità da fuorilegge. Strange Days inizia con un rapido riff ed eccelle con una componente glamour che coinvolge con una ottima traccia di banjo. I ritmi si rilassano su Lake Of Fire, mentre le melodie folk in Just Because accompagnano l’ascoltatore con una più delicata salubrità. Back Down è un’altra traccia rilassata che riesce a distribuire accoglienti atmosfere country che ci conducono fino alla fine con Lilith e The Sandbox.

The Gospel According To Shawn James & The Shapeshifters è un disco intenso, ricco di sentimento, in cui però non viene lasciata da parte la ruvidezza e l’aggressività necessarie per mantenere viva l’attenzione e accelerati i battiti del cuore. Un buon disco, autoprodotto egregiamente, che vale sicuramente la pena di essere ascoltato.

Autore: Shawn James & The Shapeshifters

Titolo Album: The Gospel According To Shawn James & The Shapeshifters

Anno: 2015

Casa Discografica: Autoproduzione

Genere musicale: Rock Blues, Bluegrass

Voto: 7

Tipo: CD

Sito web: http://www.shawnjamesmusic.com

Membri band:

Shawn James – voce, chitarra

Baker – banjo

Chris Overcash – violino

Jeff Bodine – basso

Zach Coger – batteria

Tracklist:

  1. No Gods

  2. Like Father Like Son

  3. Lost

  4. Wild Man

  5. Strange Days

  6. Lake Of Fire

  7. Just Because

  8. Back Down

  9. Lilith

  10. The Sandbox

Category : Recensioni
Tags : Rock Blues
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02nd Gen2018

Madison Spencer Band – Zirconia

by Marcello Zinno

Madison Spencer Band - ZirconiaI Madison Spencer Band si presentano al pubblico con questo debut album, Zirconia, e mentre scriviamo sono a lavoro sul suo seguito. L’album si presenta a metà strada tra un full-lenght ed un EP, una durata che non arriva ai 30 minuti ma che concentra tutta l’energia elettrica del quartetto in sette tracce compatte e dalla forma propria. Il rock blues del combo salentino è diretto e potente, non si perde in divagazioni né in sperimentazioni, è riff e sezione ritmica calzante; di certo non si tratta di uno stile particolarmente innovativo, infatti ascoltandoli ci vengono in mente Deep Purple (Dirty River), Rolling Stones (Space Ride strofa) e il post-grunge di Seattle (Shoot And Run Away ritornello) ma è di sicuro ben suonato. La produzione non è eccellente ma il connubio dei vari strumenti è buono, anche alla luce delle risorse impiegate, e spara addosso all’ascoltatore il sound della band che giunge in un batter d’occhio. Una ricetta la loro che va gustata principalmente in sede live portando con sé tutta la rotondità del blues e la ruvidità del rock.

I presupposti per un sound da grande pubblico ci sono tutti, per il loro futuro suggeriamo di puntare un po’ più su produzione e personalità e lasciare inalterate le altre variabili.

Autore: Madison Spencer Band

Titolo Album: Zirconia

Anno: 2016

Casa Discografica: Autoproduzione

Genere musicale: Rock Blues

Voto: 7

Tipo: CD

Sito web: https://www.facebook.com/MadisonSpencerband/

Membri band:

Marco Fersini – voce, chitarra

Filippo Longo – batteria

Mauro Varratta – chitarra

Carlo Cazzato – basso

Tracklist:

  1. Always The Same

  2. Dirty River

  3. Space Ride

  4. Shoot And Run Away

  5. The Other Side

  6. Abuse

  7. Lost

Category : Recensioni
Tags : Rock Blues
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30th Nov2017

Four Tramps – Pura Vida

by Paolo Tocco

Four Tramps - Pura VidaHo sempre pensato che Reggio Emilia – o meglio Reggio Nell’Emilia – fosse un posto incantevole. Ci ho passeggiato per una notte intera e pensavo seriamente di farci un salto di vita, poi si respira aria rock, forse quella pop da copertina però in anni andati è stato grande rock melodico all’italiana maniera. Che ci piaccia o no, è stata storia! Su youtube lancio il video del singolo Indifferente: molto molto carino, una clip di animazione ma penso una cosa sgradevole. Lo Stato Sociale si è messo a fare rock? No, non è Lo Stato Sociale, per fortuna…però diavolo, la formula è identica, rock a parte! Questi Four Tramps che tornano in scena da quel posto magico che è Reggio non potevano che partire da quel rock fatto pop che un poco ci piace e che un poco detestiamo. Ma da lì si parte solamente perché il resto è America, dai ritmi appena appena intrisi di blueseggianti sfumature a quel punk incazzato che gira a palla il distorsore e fine della storia. Dalla prima traccia che dà il benvenuto ritroviamo l’anima dei Lynyrd Skynyrd ascoltati con meno leggerezza di spirito e qualche punta di equalizzatore a limare le alte frequenze. L’ultimo Grido poi è un classico blues on the road che inevitabilmente mi fa pensare ai Negrita maleducati con strutture liriche e melodiche alla Litfiba in bilico tra diavoli e santoni pop. Quanto Sud tra queste righe, quanto bell’hammond, quanti America o Bad Company.

E con Circo Dell’Immaginario che si chiude la parentesi italiana di questo disco per lasciare spazio ad altre 4 tracce che sposano l’inglese e qui mi areno con l’ascolto. Se fino ad ora Reggio Emilia mi aveva regalato lo stupore di vedere quanto bene stesse il punk assieme alla melodia pop di questo rock all’italiana, adesso i Nostri “scimmiottano” un immaginario che non gli si addice per niente e si sente tutto. Ok fare del suono rock ormai è cosa semplice peraltro voi scrivete e mostrate strutture e soluzioni assai traditional dunque il gioco è ben fatto. Direi che Four Minutes sia bandiera di tutto questo rispolverare modus operandi di grande rock americano. Però se fino ad ora avevate personalità e un quid da giocare nella semplicità di quello che stavate proponendo, adesso diventa l’ennesima anonima prova “d’autore” di chi per mille anni sta scopiazzando un rock americano che – badate bene – non è fatto tanto di musica quanto di vita vissuta in un certo modo. Come dire: facile scrivere alla Bukowski o alla Kerouac (io per primo ho pubblicato un libro che fa il verso a loro), facile ma la forza immane di quei testi non è nella forma scrittura quanto nella vita che loro hanno davvero vissuto. E si sente tutto. Tutto! Dunque ok l’omaggio ma farne proprio un pilone portante della propria opera inedita lo trovo un “suicidio assistito” con tanto di plauso per la corte.

I 4 brani che chiudono questo disco non scivolano, sono carini, sono in equilibrio ma restano fermi dove sono senza quella forza di personalità e di contenuto. Come a dire che non hanno grandi cose da dire e forse mi sbaglio, forse i testi (che non capisco) hanno messaggi importanti ma si perde tutto, si perde nel suono rock che tanto fa scena e copre ogni cosa, si perde nella mancanza di personalità (troppo spesso si affidano a soluzioni classiche che ormai riconosciamo e apprezziamo da almeno 50 anni), si perde nel fatto che di canzoni così ne sentiamo mille al giorno e il calderone diventa un tutt’uno pesante e omologato. Peccato perché il suono c’è, l’equilibrio anche e l’energia che pulsa è assai interessante. Tra l’altro quando il disco spinge sulle dinamiche si sente lo stress e si sente un mix che non regge il gioco, ma qui faccio ammenda del mio ascolto forse viziato. Il bellissimo tramonto che c’è in Sad Song Love Song mette anche a nudo un’altra cosa che sinceramente odio quasi quanto l’aglio sulla cioccolata: non parlate inglese amici. Si sente. Caspita se si sente. Forse sbaglio sia chiaro, mea culpa ancora, ma sinceramente si sente dalla prima parola che non siete inglesi e la cosa è di un gusto pessimo e non capisco perché tutti si ostinano a farlo. Ma a parte dischi di anni in cui nessuno di noi ancora viveva, a parte quel certo movimento artistico che conosciamo, a parte qualche progetto decisamente puntuale e specifico, ma oggi sentite qualche straniero cantare in italiano (per esempio?!). Elisa per cantare in inglese fa scuola ed esercizio ogni giorno e che pronuncia che ha, da madre lingua quasi, tanto per fare un esempio.

Insomma: un disco che per metà ha grinta caratteriale e contenuti da sottolineare e per l’altra metà fa il verso a chi la grinta caratteriale l’ha inventata secoli fa. Ma sempre secondo il mio piccolo punto di vista sia chiaro.

Autore: Four Tramps

Titolo Album: Pura Vida

Anno: 2017

Casa Discografica: TRB Rec

Genere musicale: Rock Blues

Voto: 5

Tipo: CD

Sito web: https://fourtramps.com

Membri band:

Simone Montruccoli – voce, chitarra, armonica

Davide Guzzon – chitarra, voce

Elia Braglia – basso, voce

Giovanni Terenziani – batteria

Tracklist:

  1. A Distanza Dalla Dignità

  2. Indifferente

  3. L’ultimo Grido

  4. Circo Dell’immagine

  5. Four Minutes

  6. King Of The Words

  7. Sad Song Love Song

  8. Theater Of The Drums (Pura Vida)

Category : Recensioni
Tags : Rock Blues
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