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21st Nov2017

The Doors – L.A. Woman

by Rod

The Doors - L.A. WomanNel novembre del 1970 lo storico ingegnere del suono dei Doors, Bruce Botnick, diventa il loro produttore, li prende per mano dopo i fasti dell’esperienza di Morrison Hotel e spalanca loro le porte di un mondo blues tutto nuovo, perfettamente in equilibrio tra la tradizione della sacra (ed intoccabile) vecchia scuola ed il richiamo ribelle delle emergenti atmosfere rock. Nel 1971 il combo si chiude nei Sunset Sound Records di Los Angeles e realizza L.A. Woman, il settimo disco della loro carriera, l’ultimo con Jim Morrison al microfono. Durante le sessioni, il Re Lucertola decide di regalare un’ulteriore leggenda da aggiungere a quelle che già circolavano sul suo mito, incidendo le parti vocali del disco chiuso nel cesso della sala di registrazione, affinché sul nastro potesse finire quell’atmosfera “privata” che tale ambientazione conferiva alla sua interpretazione. Et voilà, le jeux son fait. Alle stampe ed alla storia della musica, ci finisce un disco di ottima fattura composto da dieci tracce di blues sperimentale e moderno, frutto dell’apice di quel percorso artistico iniziato quasi per caso un decennio prima sulle spiagge di Venice Beach.

La genesi di questo ultimo atto targato The Doors si può essenzialmente compendiare prendendo come riferimento tre brani specifici di questo lavoro, fondamentali sia per il lancio dell’album che per l’intera discografia del gruppo: The Changeling, L.A. Woman e Riders On The Storm. La prima, rappresenta l’anima pop del loro sound, quella tanto detestata dal precedente produttore ed incarnata da un mood orecchiabile e vivace, enfatizzato da un frizzante giro di organo e da un ritornello tanto leggero quanto facile da memorizzare. La seconda, rappresenta la trasposizione in musica di quel concetto di donna in senso lato (e di città in senso stretto), moderna e sofisticata: un ideale di avamposto sociale prettamente glamour e platinato che darà ai Doors la possibilità di realizzare per l’occasione un sound che potesse verosimilmente impersonificarlo, dando vita così facendo, alla massima espressione di quell’ambizioso rock blues contaminato a cui probabilmente la band mirava da sempre. La terza traccia, è una lunga composizione epica che chiude il full-lenght, una soluzione alla The End tanto per intenderci, nella quale convivono e convergono tutte le anime artistiche dei Doors, in particolare quella marcatamente estrema del loro frontman, ispirata, secondo l’interessato, dalle influenze zodiacali sulla propria personalità: “Sì, sono un sagittario, il segno più filosofico di tutti!”, chioserà da un palco Mr. Mojo Risin durante una celebre esibizione.

L.A. Woman, è un lavoro che, suo malgrado, incarna la chiusura perfetta della discografia di una band tanto prolifica quanto artisticamente controversa, come quella dei Doors. Nonostante tutto, su alcune di queste tracce la voce di Morrison sembra quasi trascinarsi, palesandosi a tratti stanca, affaticata ed invecchiata, mentre di contro, i suoni del disco trasudano di atmosfere nuove e la band appare oramai matura e raggiante, forte della consolidata popolarità raggiunta. Eppure sembra che tutto questo non basti. Finite le sessioni di registrazione, Jim vola con Pam in Europa, da dove non farà più ritorno. Il progetto artistico incompiuto di una band che avrebbe potuto scrivere una storia diversa, seppur maledetta, ma capace di attraversare indenne i decenni, come quella degli Stones o degli Aerosmith, si ferma a Parigi la notte del 3 luglio 1971 insieme al cuore di Jim Morrison, in quel palazzo Beaux Arts del XIX secolo situato al n.17 di rue de Beautreillis, nel quartiere de Le Marais. Ironia della sorte, sembra proprio che tra le rime di Riders On The Storm, sia stato profeticamente nascosto il destino infausto scritto per la band in seguito all’addio del loro carismatico leader, parole vergate a fuoco sulle note iridescenti del brano, messe lì, come brillanti puntini di sospensione a cui si aggrapperà per un tempo pari all’infinito, la narrazione della loro incredibile avventura nel mondo del rock: “Cavalieri nella tempesta / nati in questa casa / buttati in questo mondo / come cani senza un osso / come attori senza una parte / Cavalieri nella tempesta“.

Autore: The Doors Titolo Album: L.A. Woman
Anno: 1971 Casa Discografica: Elektra Records
Genere musicale: Rock, Rock Blues Voto: 9,5
Tipo: CD Sito web: http://www.thedoors.com
Membri band:

Jim Morrison – voce

Ray Manzarek – tastiere, synth

Robby Krieger – chitarra

John Densmore – batteria

Tracklist:

  1. The Changeling
  2. Love Her Madly
  3. Been Down So Long
  4. Cars Hiss By My Window
  5. L.A. Woman
  6. L’america
  7. Hyacinth House
  8. Crawling King Snake
  9. The Wasp (Texas Radio And The Big Beat)
  10. Riders On The Storm
Category : Recensioni
Tags : Rock Blues, The Doors
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10th Ott2017

The Doors – Morrison Hotel

by Rod

The Doors - Morrison HotelDi band prolifiche come i Doors se ne sono viste ben poche nella storia del rock che conta. Dopo il mezzo passo falso – de gustibus, s’intende – del precedente The Soft Parade, il combo californiano incide Morrison Hotel, un lavoro in assoluta controtendenza rispetto al recente passato, musicalmente più ricercato e marcatamente spinto in accelerazione verso il recupero delle sonorità classiche della band, sempre in equilibrio tra rock, blues, psichedelia e mainstream. Come dichiarò lo stesso Jim Morrison“I Doors, essenzialmente, sono un gruppo orientato verso il blues, con una dose massiccia di rock’n’roll, una spruzzatina di jazz, una minima quantità di influenze classiche e alcuni elementi di musica popolare. Fondamentalmente, però, siamo una band di blues bianco”. Sebbene questo lavoro non abbia restituito nell’immediato alla band il successo che avrebbe meritato, (pagando forse eccessivamente una certa sfiducia sorta nei fan delusi dal precedente disco), a parere di chi scrive questo album rappresenta una delle produzioni migliori della loro discografia, secondo probabilmente solo all’omonimo The Doors del ’67. Morrison Hotel arriva infatti nel momento di apice maggiore della crescita umana e soprattutto artistica dei quattro performer, i quali con ancora nelle tasche i cocci delle scelte inopportune del passato, dimostrarono di non essersi persi d’animo, recuperando ed addirittura migliorando il nucleo vitale del loro tipico sound, riuscendo a comporre per questo capitolo ben undici tracce di puro concentrato rock blues, risparmiandosi e risparmiandoci i fronzoli e quei superflui quanto estenuanti strascichi sonori che allungavano inutilmente il brodo di brani mediocri come accaduto con brano The Soft Parade.

Qui tocca invece alla mitica Roadhouse Blues aprire il disco, un brano perfetto, esattamente a metà tra i due generi di riferimento ed impreziosito dall’uso dell’armonica a bocca, un pugno in faccia che restituisce al primo colpo quel mondo selvaggio e sporco, alcolico e sensuale, blasfemo ed iconografico che suggella in modo inconfondibile il suono dei Doors degli esordi, attestandosi tra i capisaldi imprescindibili della band, soprattutto nelle esibizioni dal vivo. Enorme contributo alla popolarità del singolo, lo si deve infatti ad una versione live divenuta più nota di quella studio, resa famosa dalla mitica introduzione di uno speaker che li annunciava così tra il delirio della folla trepidante “Ladies & Gentleman… from Los Angeles, California… THE DOORS!!”. Riguardo alla popolarità che il brano diede al disco e che restituì alla band, Morrison stesso ebbe ad esprimere enorme gratitudine, non facendo mistero del fatto che fosse dichiaratamente divenuto il manifesto di questo lavoro e del sound perfetto che i quattro musicisti avevano affinato. Tralasciando le storie leggendarie che ruotano attorno la gestazione di Morrison Hotel e della perla Roadhouse Blues, composte essenzialmente da sbronze, viaggi acidi e da fatti goliardici più o meno accaduti e raccontati negli anni nelle biografie dei reduci del combo, canzoni come You Make Me Real, Peace Frog, Ship of Fools, Maggie M’Gill e Land Ho!, sono ancora lì a testimoniare le ottime soluzioni stilistiche e le intuizioni strumentali adoperate dai Nostri per trasferire la perfetta sintesi del loro dna nell’anima di brani a cui fanno capolino i soliti controversi testi del Re Lucertola, il quale, per queste tracce, mette da parte rime dolci e sonetti ispirati, per raccontare storie di vita più romanzate e terrene, attraverso la consueta metrica non sempre facile da decriptare per noi poveri umani. Da questo punto di vista Peace Frog, in particolare, esce dai ranghi dal mainstream per dedicarsi a temi più politicizzati. Il “sangue nelle strade di Chicago” citato nel pezzo, si riferisce infatti alla Convention Democratica del 1968, teatro di proteste violentemente represse contro la guerra nel Vietnam, mentre nei versi che rievocano gli indiani, (“Indians scattered on dawn’s highway bleeding/Ghosts crowd the young child’s fragile eggshell mind”), e che fanno eco ad una sua poesia intitolata Dawn’s Highway, il rimando afferisce al noto incidente sull’autostrada occorso alla sua famiglia e che rimase impresso nelle mente del Jim bambino.

Blue Sunday, The Spy ed Indian Summer, sono invece i momenti più delicati dell’album, quelli in cui le luci si abbassano, le atmosfere diventano più morbide e sognanti, ed i versi Morrison si fanno più intimi e poetici, creando un mood davvero intenso grazie ai tappeti blues ricamati per l’occasione dal resto dei Doors. La vera anima di questo lavoro, non è raccontata come nel passato dal numero dei singoli che hanno saputo scrivere il nome della band tra i primi posti delle chart più prestigiose di quegli anni. Morrison Hotel, è un disco che va oltre le mire commerciali di un qualunque album rock. E’ un luogo immaginario, un ostello per le anime vagabonde, un rubinetto chiuso male che gocciola emozioni sotto forma di fotogrammi di vita e di rimandi alla tradizione blues. La sua bellezza sta nel suo essere un disco d’insieme, una raccolta in cui ogni ascoltatore può cogliere se stesso o parte del suo emisfero emozionale in un passaggio qualunque del Vox Continental di Manzarek, in un cambio di tempo di Densmore, nel mezzo di un assolo di Krieger o nel pathos sprigionato da una strofa qualsiasi concepita dal genio di James Douglas Morrison.

Autore: The Doors Titolo Album: Morrison Hotel
Anno: 1970 Casa Discografica: Elektra Records
Genere musicale: Rock, Blues Voto: 9,5
Tipo: CD Sito web: http://www.thedoors.com
Membri band:

Jim Morrison – voce

Ray Manzarek – tastiere, synth

Robby Krieger – chitarra

John Densmore – batteria

Tracklist:

  1. Roadhouse Blues
  2. Waiting for the Sun
  3. You Make Me Real
  4. Peace Frog
  5. Blue Sunday
  6. Ship of Fools
  7. Land Ho!
  8. The Spy
  9. Queen of the Highway
  10. Indian Summer
  11. Maggie M’Gill
Category : Recensioni
Tags : Rock Blues, The Doors
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08th Ott2017

The Big Blue House – Do It

by Marcello Zinno

The Big Blue House - Do ItBlues, blues e ancora blues. Di quello classico, quello che ha affascinato i nostri padri, i nostri nonni. E a suonarlo è una band giovane, quattro ragazzi con un intenso amore per questo genere musicale (questo traspare senza dubbi dal loro esordio) e che lo dichiarano, fin dal nome della band, fin dai titoli delle singole tracce. Struttura classica, suoni ancora di più, in Do It troverete tutte le lezioni del blues, almeno quelle più note (pentatonica e stacchi sul finale delle tracce inclusi), concentrate in brani che vanno dalla più canonica titletrack alla più romantica Now I Can Call Your Name che ha un retrogusto zeppeliano, passando per un pezzo più dal rock rotondo come Sweet Thing Band Thing. Buono l’apporto dei vari strumenti, in primis va dato merito al ruolo di Danilo Staglianò, sia per la sei corde che da sola gioca il ruolo di chitarra ritmica e solista (il fatto che non ci sia una chitarra di accompagnamento lascia dei vuoi ma a noi piace anche così), sia alla voce, calda e intensa e in questo il brano He’s A Fucking Bluesman chiarisce i pochi dubbi contrari al riguardo. Degna di essere citata e ascoltata è la conclusiva This Is How I Feel, anch’essa che trabocca influenze dei Led Zeppelin e li inserisce in quasi dieci minuti di musica che ti trasportano in un’altra era, con delle tastiere a dir poco affascinanti.

Impossibile trovare altre influenze che non siano legate a quella scena e questo è un po’ il punto debole dell’album: d’altra parte, a compensare la passione sconfinata per il blues, c’è il fatto che ci troviamo dinanzi ad un esordio e quindi è possibile, anzi noi lo speriamo, che la band in futuro possa trovare un proprio percorso espressivo, un proprio stile. I pezzi di Do It restano comunque degli esercizi da godere dal vivo e, ecco la seconda speranza, ci auguriamo che la The Big Blue House continui le proprie attività soprattutto on stage.

Autore: The Big Blue House

Titolo Album: Do It

Anno: 2016

Casa Discografica: Autoproduzione

Genere musicale: Blue Rock

Voto: 7

Tipo: CD

Sito web: https://thebigbluehouse.wixsite.com

Membri band:

Danilo Staglianò – voce, chitarra

Luca Bernetti – basso

Sandro Scarselli – tastiere, hammond

Andrea Berti – batteria

Tracklist:

  1. Do It

  2. Blue Sky

  3. Now I Can Call Your Name

  4. He’s A Fucking Bluesman

  5. Sweet Thing Band Thing

  6. I Knew A Story About

  7. Everything’s Rolling

  8. This Is How I Feel

Category : Recensioni
Tags : Rock Blues
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08th Ott2017

Electric Swan – Windblown

by Raffaele Astore

Electric Swan - Windblown rockgarageTutto ebbe inizio con i Wicked Minds, band nostrana di hard rock formatasi a Piacenza nel lontano 1987 da un’idea di Paolo Calegari, nelle cui fila militava anche Monica Sardella. La loro musica navigava nel thrash metal con una produzione che partendo dal 1999 con la pubblicazione di Returns To Uranus, giunge a fasi alterne fino al 2011 quando il loro ultimo lavoro Visioni, Deliri, Illusioni ne decreta la fine. Ma la vera anima di quanto accaduto e di quanto avverrà in seguito è la personalità di Lucio Calegari, musicista completo come pochi e grande chitarrista, compositore ed arrangiatore ma in grado di destreggiarsi anche come cantante. Ed è proprio lui a dare vita al progetto Electric Swan nel 2008 quando si sente spinto ad affrontare nuove avventure musicali. Ma ritorniamo alla storia: ad inizio del 2008 i Wicked Minds sono fermi a causa del protrarsi nella produzione del disco che tributava il progressive italiano e Lucio “Swan” Calegari aveva realizzato nel frattempo dei pezzi che non erano nelle linee musicali dei Wicked Minds. L’invito di un amico ad andare in sala di registrazione per “mettere su qualcosa” lo porta, proprio in studio, ad incontrare alcuni dei membri che sarebbero diventati i futuri Electric Swan. Ora, quel progetto solista di Lucio Calegari non è più realizzabile e la compagnia per nuove strade sembra buona ed invitante. Ed è proprio a chiusura di quel periodo, siamo nel 2009, che giunge il primo prodotto della band, l’omonimo, Electric Swan realizzato per una piccola etichetta, la Bad Chili Records, poi il cambio di casa ed il passaggio alla Black Widow Records, nel 2012, li porta alla produzione di Swirl Of Gravity un disco ben curato, con tanto di hard rock al suo interno e con gran parte degli ex Wicked Minds al lavoro (qui la nostra recenione a questa pagina).

Ora, a distanza di ben cinque anni giunge Windblown che conferma la crescita notevole e la completa maturazione raggiunta da questa band capace di rappresentare degnamente il sound hard rock tricolore come non accadeva da tempo. Ed è proprio di Windblown che ci occuperemo qui. Bell’apertura rockeggiante con Cry Your Eyes Out che ricorda un po’ alcune atmosfere zeppeliniane con un ritmo coinvolgente tra rithm’n blues e un solismo chitarristico sorretto da una ritmica d’insieme che rendono già l’idea di cosa potrà avvenire dopo. Infatti con Face To Face si passa al godimento puro perché ci trovi tutto quello che ti aspetti da una band come gli Electric Swan: rock, blues ma anche un bel pop. Quando poi arriva Bad Moon l’hard diventa presente in ogni sua sfaccettatura, ma è un hard rock alla Grand Funk Railroad con tanto bel blues che colora come non mai questo bel pezzo. Qui la voce di Monica Sardella dialoga con la chitarra ed a tratti ci ricorda la dolcezza di una certa Janis che tutti conosciamo, ma senza esagerazione perché Monica ha uno stile tutto suo nel sapersi introdurre tra le note di Calegari. Leaves ricorda certi inizi alla Uriah Heep ma quello che colpisce sono le note prodotte da un basso che nel mentre produce la base ritmica necessaria a questo brano, la fa da padrone assoluto in tutto il pezzo. Si è proprio così, il bel giro di basso che si tramuta quasi in un assolo ti resta talmente in testa che quasi quasi riascoltiamo di nuovo questo pezzo, e chi scrive non è un bassista! Con Losin’ Time si passa ad un blues come solo Dio comanda, bello, sognante, irrimediabilmente blues grazie alla solita chitarra ed alla voce che anche qui si sostengono a vicenda con un bel background strumentale alle spalle. Che band ragazzi, sembra di tornare indietro a quando sul piatto dello stereo a girare erano gli Humple Pie di Steve Marriott e qui mi sorge la domanda: gli Electric Swan eredi degli Humple Pie?! Poi arriva il momento di andare sulle nuvole perché giunge la cover dei Grand Funk Railroad che abbiamo ascoltato (e suonato) tante volte, Sin’s A Good Man’s Brother. Che brividi sulla pelle, sia per i ricordi di tempi andati sia per l’interpretazione che ne fa questa band. E quando parli di Grand Funk Railroad, il passaggio al funky non è casuale: Beatiful Bastard, sax, batteria e chitarra come Dio comanda ci portano lontano e ti chiedi se questi piacentini non meritano di più di quello che hanno e l’invito nasce spontaneo: acquistate il CD che non può proprio mancare nelle collezioni del rock che abbiamo in casa, e state certi che non vi basta spotify perché questa musica oltre che ascoltata va anche toccata.

Gli Electric Swan danno poi dimostrazione della loro saggezza ripassando con semplicità innata dal funky di Beatiful Bastard all’hard rock di Carried By The Wind, con ancora un bell’assolo di Lucio Calegari. E quando arriva il momento di Here Is Nowhere capisci quanto il nuovo assestamento della band che ha realizzato Windblown funzioni. Infatti a Vincenzo Ciaccia Ferrari al basso, Monica Sardella alla voce, Alessandro Fantasia alla batteria ed ovviamente Lucio Calegari alla chitarra si sono aggiunti per questa produzione Sergio Battaglia al sassofono, Samueli Tesori al flauto e Paolo Negri all’Hammond che si integrano alla perfezione. Ragazzi qui si continua a sognare dilatando all’infinito i tempi di ascolto di questo disco che abbiamo ascoltato e riascoltato non sappiamo quante volte. E quando arriva la seconda cover inclusa nel compact, If I’m Luck I Might Get Picked Up (Bette Davis) siamo quasi alla fine di un disco a dir poco bello ed interessante grazie anche a quel modo di intrecciare, qui, psycho e blues come tutte quelle venature di cui questo Windblown è intriso. Windblown praticamente ti dice non puoi smettere ed allora tu continui a sognare prima di giungere all’ultimo brano, un’altra cover degnamente eseguita, Midnight, pezzo conosciuto da quelli come noi che son cresciuti a Reed, Bowie e Marc Bolan. Qui la T. Rexstasy non lascia spazio a nulla tranne a questi piacentini Electric Swan che sanno miscelare hard rock e psichedelica come pochi…almeno qui in Italia. Ed allora, buon ascolto!

Autore: Electric Swan

Titolo Album: Windblown

Anno: 2017

Casa Discografica: Black Widow Records

Genere musicale: Rock, Psycho, Blues

Voto: 8

Tipo: CD

Sito web: http://www.electricswan.it/

Membri band:

Monica Sardella – voce

Lucio “Swan” Calegari – chitarra, voce

Vincenzo “Ciaccia” Ferrari – basso

Alessandro Fantasia – batteria

Special guest:

Sergio Battaglia – sax

Samueli Tesori – flauto

Paolo “Apollo” Negri – Hammond, tastiere, moog

Brani:

  1. Cry Your Eyes Out

  2. Face To Face

  3. Bad Mood

  4. Leaves

  5. Losin’ Time

  6. Sin’s A Good Man’s Brother

  7. Beatiful Bastard

  8. Carried By The Wind

  9. Here Is Nowhere

  10. If I’m In Luck I Might Get Picked Up

  11. Windblown

  12. Midnight (bonus track)

Category : Recensioni
Tags : Rock Blues
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28th Set2017

Gospel – Gospel

by Sara Fabrizi

GospelQuando scrivere canzoni e suonarle ha una funzione terapeutica. Buttare fuori il proprio mondo, la propria interiorità fatta di tormenti e sentimenti e darla in pasto agli altri. Esponendosi ma anche liberandosi. La catarsi musicale è un vecchio trucco cui i talentuosi e appassionati hanno fatto sempre ricorso. E quando si decide di raccontarsi così non c’è niente di meglio di una chitarra acustica che attinga dal blues, ma anche dal folk e dal soul. Ed è proprio questo il percorso intrapreso 5 anni fa da Lorenzo Balice. Nato come cantautore, butta giù canzoni rispondendo agli umori del momento senza velleità eccessive. Succede che poi però le canzoni crescono e cresce la voglia di comunicarle al mondo. E il soliloquio della chitarra acustica non basta più. Quindi si cercano altri strumenti e altre sensibilità per arricchire il tutto. Il progetto si amplia a coinvolgere Stefano Dal Lago al basso e Andrea Roncari alla batteria. E in seguito trova posto anche una seconda chitarra e tastiere nella persona di Riccardo Ligorio.

La band è nata e dà alla luce il suo primo, omonimo, album Gospel. 10 tracce in italiano, con un sound che spazia dal blues al rock, al soul. Riff potenti, chitarre “fuzzate” ma anche acustiche dolci e cullanti che tradiscono il variegato set di influenze, da Jack White ai Black Keys e alla black music fino a Neil Young. Bella l’alternanza che si crea fra pezzi dal ritmo più propriamente serrato in cui basso e batteria procedono a denti stretti e pezzi più melodici resi così bene dalla dolcezza della chitarra acustica e dall’uso delle tastiere tipicamente 70s. Le tematiche affrontate nei testi sono introspettive raccontando di vita vissuta e sentimenti, si spazia da malinconiche riflessioni ad energiche ed arrabbiate confessioni. Molto bello questo rock italico viscerale e romantico che mi fa tanto pensare ai Timoria e ai primi Subsonica. Un esordio potente per questa band che promette davvero molto bene.

Autore: Gospel

Titolo Album: Gospel

Anno: 2017

Casa Discografica: Costello’s Records

Genere musicale: Rock Blues, Garage

Voto: 8

Tipo: CD

Sito web: https://www.soundcloud.com/eccoigospel

Membri band:

Lorenzo Balice – voce, chitarra

Stefano Dal Lago – basso, cori

Andrea Roncari – batteria

Riccardo Ligorio – tastiere, chitarra, cori

Tracklist:

  1. Ogni Piccola Guerra
  2. La Rivalsa
  3. Scarpe Inglesi
  4. Maggio
  5. Lampo Fulmine
  6. Fango E Terra
  7. Abbi Pietà Di Me
  8. Piccola Donna
  9. Giuda
  10. La Mattina Di Natale
Category : Recensioni
Tags : Rock Blues
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18th Ago2017

Bluesaddiruse – Via Nova

by Marco Castoldi

Bluesaddiruse - Via NovaGià nella dedica dell’album a tre icone del blues, spiriti guida dei Bluesaddiruse (Joe Cocker, B.B.King e Pino Daniele) già si capisce che si è di fronte a qualcosa d’intenso, rauco, viscerale, catramoso e autentico. Ed infatti così è Via Nova, tredici tracce di blues tanto intenso quanto i colori, gli odori, la passione e la sofferenza dei vicoli della Napoli che a tratti viene cantata dai Bluesaddiruse. L’album ha diversi sapori, un po’ blues, un po’ hard rock un po’ psichedelico e sembra raccontare costantemente una città piena di bellezze e contraddizioni senza però mai scadere negli stereotipi o nelle nostalgie. I Bluesaddiruse miscelano sound anglosassoni, vocals graffianti come nella migliore tradizione del blues carico di passione e di emozioni e lingua partenopea in un mix insolito ma che seduce e trasporta. Di tipicamente partenopeo ci sono anche l’ironia e lo scherzo pungente e dissacrante di ‘A Fronna, che sembra prendersi gioco della scena musicale napoletana attuale e di certe band o artisti partenopei contemporanei o di Social Network, traccia in bilico tra scherzo e critica feroce della dipendenza da vita virtuale.

Dai temi al sound alle grafiche Via Nova è in tutta onestà un album fatto veramente bene. La registrazione in presa diretta non è un’autocelebrazione del virtuosismo (che non manca, anzi) ma un elemento in più che dà quel tocco di cruda autenticità all’album, insieme alle grafiche surreali e criptiche come i B Movie anni settanta. Un disco insomma, che racconta storie semplici ma affascinanti e crea qualcosa di sincero e originale partendo da ingredienti classici: dialetto, hard rock e tantissima energia.

Autore: Bluesaddiruse

Titolo Album: Via Nova

Anno: 2016

Casa Discografica: Autoproduzione

Genere musicale: Rock Blues

Voto: 8

Tipo: CD

Sito web: www.facebook.com/pg/Bluesaddiruse

Membri band:

Alfredo Bluesaddiruse d’Ecclesiis – voce, armonica

Andrea Cioffi – chitarra

Gian Paolo Costantini – basso, cori

Giulio Pitoni – batteria

Tracklist:

  1. Foss’Bell’

  2. Rall’Nguoll’Again

  3. ‘A Fronna

  4. Si Te Putess’Avé

  5. ‘O Treno Do’ Sole

  6. M’Arritrov’ Sol’Je

  7. Viecchie, Mugliere, Muorte e Criature

  8. Core’e Preta

  9. Munn’ Mariuol’

  10. Social Network

  11. ‘Sta Strada

  12. MaryAngel

  13. Campa Guaglio

Category : Recensioni
Tags : Rock Blues
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09th Ago2017

Freddy And The Phantoms – Decline Of The West

by Sara Fabrizi

Freddy And The Phantoms - Decline Of The WestQuando il blues rock soffia forte dalla Danimarca. Freddy And The Phantoms da Copenaghen con un mix di swampy blues, heavy desert rock, epic rock ballads. Nati nel 2010 e con all’attivo 4 album e live tour di impatto, si sono affermati subito come una della blues rock band più amate in Danimarca e non solo. Grazie al respiro così internazionale del loro sound (sembrano americani nel midollo) e ai loro live show così intensi stanno conquistando un pubblico sempre più vasto. La loro quarta fatica, Decline Of The West, uscito per la label Mighty Music lo scorso aprile, è la summa di questa forte “danish attitude to blues”. Il titolo dell’album è piuttosto emblematico, alludendo ad una fase di declino, crisi e tramonto che sta attraversando la nostra civiltà occidentale. Ed è proprio durante la registrazione dell’album che è venuta fuori prepotentemente questa profezia in relazione soprattutto al clima di paura e terrore che sta segnando Europa e Stati Uniti portando a derive come la xenofobia che finisce col prevalere sui valori e sentimenti più umani come la solidarietà. Le 11 tracce di Decline Of The West trattano proprio queste tematiche con gli strumenti appropriatissimi del blues rock. Soprattutto il lato di sofferenza e dramma esistenziale, così caro al sostrato culturale che ha prodotto la madre di tutti i generi, è qui reso in maniera grandiosa ed intensa dando luogo ad una vera e propria odissea bluesy che si dipana lungo le 11 microstorie narrate nei brani.

Un piglio quasi da concept album quindi che racchiude una varietà stilistica interessante, spaziando da rock ballad drammatiche, dove ho sentito forte l’eco di Neil Young, a pezzi tipicamente desert rock, dove è palese l’anima southern alla Lynyrd Skynyrd, a pezzi molto swamp blues, un po’ alla Creedence maniera, a pezzi più rockeggianti ed apparentemente più easy dove però l’impronta profonda e drammatica del blues non viene mai meno. La stessa title track è intrisa di queste atmosfere un po’ fumose che “insidiano” la leggerezza di un impianto tipicamente classic rock. Da segnalare il very rare special guest dell’ottava traccia, NYC 1965: trattasi del chitarrista americano Billy Cross, già session man di Bob Dylan, Link Wray, Meat Loaf. Questa preziosa collaborazione conferisce un’aura quasi di magia al già nostalgico rock’n’roll del brano. C’è un brano poi, la nona traccia, Brownstone Badlands, dove è forte l’impronta springsteeiana. E’ la tipica cavalcata rock alla “Boss maniera”: batteria portante e incalzante, molto spazio alle tastiere veloci e vivaci, chitarre energiche e positive. Un modo scanzonato di raccontare realtà non proprio facili e felici. Dicevo dell’eco di Young: c’è la settima traccia, Transition Blues, dove l’apertura è proprio Ohio per poi proseguire nei cardini delle chitarre acide del grande canadese ma lasciando spazio anche al veloce irish rock blues alla Rory Gallagher.

Il set di influenze è composito e naturalmente in tema con il genere prescelto. La loro abilità sta, a mio parere, nell’aver saputo trattare temi drammaticamente attuali con le sonorità tipiche di un insieme di generi e micro-generi che da sempre hanno a cuore il lato sociale, e non solo individuale, delle vicende umane. Inscrivendo il tutto in una importante epopea blues che, pur non potendo offrire soluzioni facili ai problemi trattati, offre comunque uno spunto di riflessione e una chiave di lettura.

Autore: Freddy And The Phantoms

Titolo Album: Decline Of The West

Anno: 2017

Casa Discografica: Mighty Music

Genere musicale: Rock, Blues Rock, Psichedelia

Voto: 8

Tipo: CD

Sito web: http://www.freddyandthephantoms.com

Membri band:

Frederik Schnoor – voce, chitarra

Rune Hansen – batteria, percussioni, voce

Morten Rahm – pedalsteel, chitarra

Mads Wilken – basso, voce

Anders Haahr – organo, voce

Tracklist:

  1. Decline Of The West

  2. Kentucky Killer

  3. City Of Crime

  4. Call Me The Creature

  5. Behind The Curtain

  6. The Last Cafè

  7. Transition Blues

  8. NYC 1965

  9. Brownstone Badlands

  10. The Wild Ones (Revisited)

  11. Mr. Pig

Category : Recensioni
Tags : Rock Blues
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05th Ago2017

Bang Bang Vegas – Party Animals

by Marcello Zinno

Bang Bang Vegas - Party AnimalsFermi tutti! Eccolo. Quel sound vintage ma moderno allo stesso tempo, quel rock classico ma che si sposa con gli ascolti del nuovo millennio, quel tiro frizzante ma che non fa della velocità la sua peculiarità, quella carica adrenalinica alla AC/DC ma meno scatenata, in grado di accogliere ascoltatori più variegati. È tutto lì, niente di stravagante o innovativo, le idee dei Bang Bang Vegas arrivano secche ma sazianti, vestite di blues rock ritmato e caldo ed è questa la percezione che avrete di queste nuove tracce, indipendentemente se amiate più l’imprinting moderno o il rock anni settanta. Un po’ i The Black Keys dei “noartri”, il blues delle prime due tracce si trasforma in hard rock deciso con Sweetest Crime, classica anthem da palchi a distesa orizzontale, ma vi sono anche passaggi che al di là delle influenze dimostrano una maturità musicale incredibile come But You’re 17, dall’impostazione hard ma diretta al circuito rock mainestream.

E poi, a corollario dell’album vi è una traccia fuori genere, I Wanna Be Rich, quasi folk, acustica che ci rimanda ai tempi in cui le rock band pescavano a mani basse da quella scena (The Rolling Stones giusto per citare un “piccolo” esempio). Cosa dovremo attenderci dal loro prossimo album? Non lo sappiamo ma intanto ce li godiamo qui con una carica incredibile e tanta saggezza compositiva.

Autore: Bang Bang Vegas

Titolo Album: Party Animals

Anno: 2017

Casa Discografica: Autoproduzione

Genere musicale: Rock Blues, Hard Rock

Voto: 7,5

Tipo: CD

Sito web: http://www.bangbangvegas.com

Membri band:

Thimas Festa – voce, chitarra

Alessio Cannistraro – batteria

Loris Gentilin – basso

Tracklist:

  1. Party Animals

  2. Lights Out! (Flash! Dance!)

  3. Single

  4. Sweetest Crime

  5. I Don’t Mind

  6. But You’re 17

  7. I Wanna Be Rich

Category : Recensioni
Tags : Rock Blues
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27th Lug2017

The C.Zek Band – Set You Free

by Marco Castoldi

The C.Zek Band - Set You Free finalQuando ti capita tra le mani un disco con una cover di Gimme Shelter, sai con cosa partirai e sai che sarai severo, severo ma giusto. Questo perché Gimme Shelter è “IL” brano della paranoia sull’apocalisse imminente, “IL” pezzo emblema del patto d’acciaio Stones-Scorsese (guardarsi i primi tre minuti di The Departed per essere illuminati), “IL” classico con uno tra i più bei vocals femminili di tutti i tempi, secondo solo a The Great Gig In The Sky, “LA” cover che vanta precendenti illustri grandiosi tipo, solo per citare gente a caso, Grand Funk, Meat Loaf, Hawkwind, Patti Smith, Stereophonics, Alicia Keys e Joss Stone oltre che essere “LA” mia canzone preferita degli Stones. Ebbene, senza dubbio non siamo certo di fronte a Patti Smith, ma la Gimme Shelter della C.Zek Band mi ha “smutandato”: è di un soul molto sensuale ed accattivante, con strumenti e voce dosati e controllati con una precisione incantevole in un crescendo di livello che rende omaggio, rispetto e la giusta devozione all’originale. Quindi, leviamoci di dosso ogni pregiudizio e ascoltiamo questo Set You Free che si scopre essere quel blues alla Lou Marini, un mix di funk, soul e blues alla maniera più dei Blues Brothers che dei bluesman del delta del Mississippi.

Tolto il tocco che richiama gli schemi classici (anche se con un po’ di basso funk) di It Doesn’t Work Like This, l’impressione che si ha attraversando tutto Set You Free è proprio quella del divertimento, del mix, della tecnica, della creatività e della complicità che attinge e si ispira alla band più scoppiettante di tutti i tempi, quella di Jake e Elwood ovviamente. Tutto l’album è poi costellato di virtuosismi e sperimentazioni chitarristiche e tastieristiche che sembrano quasi improvvisate (su tutte l’assolo di chitarra gustoso e lunghissimo di Boring Day e la tappezzeria di tastiere di I’m So Happy) e lascia intendere senza dare spazio ai dubbi che l’improvvisazione trasversale su tutti gli strumenti (voce inclusa) sarà una costante e la chiave di volta dei live della C.Zek Band. Set You Free trasuda classe in tutti e cinquantuno minuti di grande musica, eseguita e registrata con una precisione che solo i meglio monaci trappisti o “le meglio marmottine” della Milka usano nel confezionare i propri prodotti pregiati.

Sia che si parta dalle alchimie di ispirazione floydiana di Drink With Me sia che si parta da quelle un po’ più soul alla Aretha di I’m So Happy, siamo di fronte a un esercizio di stile da applausi a mano rovesciata, che ci auguriamo continui in altri album. Questo perché il panorama nazionale ha anche bisogno di più blues fatto come si deve, esattamente come lo fa la C.Zek Band.

Autore: The C.Zek Band

Titolo Album: Set You Free

Anno: 2017

Casa Discografica: Autoproduzione

Genere musicale: Rock Blues

Voto: 9

Tipo: CD

Sito web: http://www.christianzekband.com

Membri band:

Christian Zek Zecchin – chitarre, voce

Roberta Dalla Valle – voce

Matteo Bertaiola – rhodes, hammond

Nicola Rossin – basso

Andrea Bertassello – batteria

Enea Zecchin – percussioni

Tracklist:

  1. John Corn

  2. I’m So Happy

  3. Tell Me

  4. Kissed Love

  5. Set You Free

  6. Gimme Shelter

  7. Boring Day

  8. It Doesn’t Work Like This

  9. Drink with Me

Category : Recensioni
Tags : Rock Blues
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20th Lug2017

One Horse Band – Let’s Gallop

by Marco Castoldi

One Horse Band - Let's GallopUn cavallo seduto in mezzo a un campo che contemporaneamente suona la batteria e una scatola di biscotti Plasmon, e tutto in presa diretta su youtube. A casa mia direbbero che piace vincere facile e questa è la one man band One Horse Band. Non esistono abbastanza parole per mettere per iscritto con giustizia la figosità di One Horse. Se siete riusciti a leggere fin qui le opzioni sono 2: 1) andare diretti su youtube e goderselo, 2) affiancarci mentre tentiamo l’esercizio stilistico di dare un’idea di detta figosità. Le radici di One Horse sono chiare: già da un bel po’ Bob Log III faceva blues mascherato (con un casco da aviatore stile Top Gun) tuttavia “performare” con una testa di cavallo alla Padrino è veramente tutta un’altra storia, oltre che una scelta molto raffinata. La potenza di Let’s Gallop raggiunge i cavalli di un’auto di Formula 1: una testa di cavallo è una testa di cavallo, end of story. Se Justin Johnson offre Ace Of Spades eseguita con una pala da becchino la Venus degli Shocking Blue da eseguita da One Horse con una cigar box che questa volta è una “Biscotti Plasmon box” è qualcosa di veramente originale e libidinoso, per gli amanti come noi del buon blues. Insomma Let’s Gallop è un tornado blues di livellissimo e da gustare tutto d’un sorso. Il sound è semplice, grezzo e diretto come i primi Black Keys (ai quali si aggiungono le citazioni di cui sopra e anche un po’ del Jack White solista) e ironico alla Eagles Of Death Metal (vedi Howlin’ At Your Door pezzo più divertente in assoluto di Let’s Gallop).

Ascoltandolo l’album trasuda tecnica chitarristica e stile del delta del Mississippi (anche se in questo caso azzarderei un ipotetico delta del Ticino a giudicare dai video), un po’ di ZZ Top (per la baritonale Wild Lovin’ Woman) ma tutto in chiave fresca ed attuale, tipo lo slide autarchico di Jack Broadbent, a nostro insindacabile giudizio fenomeno degno di riverenza del blues contemporaneo. Let’s Gallop ha il groove che ti trapana la testa e che ascolteresti a rotazione continua in serate da birra a fiumi e non, ed è, senza ombra di dubbio, uno dei più interessanti e divertenti esordi indie dell’anno. P.S. Mi dispiace deludere chi ha scritto il press release di Let’s Gallop che sentenzia “l’album che scegli ad occhi chiusi quando vuoi rendere la tua festa perfetta o quando vuoi portarti a letto la ragazza che insegui da anni“: l’album che sceglierei ad occhi chiusi per portare a letto la ragazza che inseguo da anni è Can’t Get Enough di Barry White. Tuttavia è insindacabile che una testa di cavallo è sempre una testa di cavallo, end of story.

Autore: One Horse Band

Titolo Album: Let’s Gallop

Anno: 2017

Casa Discografica: Autoproduzione

Genere musicale: Rock Blues

Voto: 9

Tipo: CD

Sito web: http://www.facebook.com/onehorseband/

Membri band:

One Horse – chitarra, cigar box, banjo, dobro, batteria, voce

Tracklist:

  1. Declaration of Intent

  2. Howlin’ At Your Door

  3. Uh Hu Hu Yeah!

  4. Mama I Think I’m Drunk

  5. One Horse Blues

  6. Venus

  7. Bad Love Blues

  8. Don’t Put Your Leg On My Leg

  9. Wild Lovin’ Woman

  10. Altare

Category : Recensioni
Tags : Rock Blues
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