• Facebook
  • Twitter
  • RSS

RockGarage

      

Seguici anche su

        Il Rock e l'Heavy Metal come non li hai mai letti

  • Chi siamo
  • News
  • Recensioni
  • Articoli
  • Live Report
  • Foto Report
  • Interviste
  • Regolamento
  • Contatti
  • COLLABORA
21st Mar2017

The Doors – Waiting For The Sun

by Rod

The Doors - Waiting For The SunDopo il felice exploit dei due fantastici album d’esordio – entrambi editi nel 1967 – ovvero l’omonimo The Doors ed il seguente Strange Days, nell’anno successivo la prolifica band californiana dà alle stampe Waiting For The Sun, un lavoro che rispetto ai primi (ma soprattutto al precedente), ridimensiona una certa “vocazione commerciale” del combo, per intraprendere un percorso più maturo, sperimentale e maggiormente incentrato sulla fusione dell’elemento musicale psichedelico influenzato da nuove sonorità, con quello poetico ed istrionico dei testi, un connubio che porterà questa terza fatica della band, dritta al primo posto dei dischi più venduti negli Stati Uniti. Ciò nonostante, come in un controsenso, se da una parte ci si potrebbe aspettare testi ermetici e lunghi ed ammorbanti polpettoni strumentali in salsa d’organo, dall’altro c’è da constatare che, ascoltando il disco, quest’ultimo è oltremodo pieno di spunti legati all’amore ed alle sue varianti sentimentali. Premesse a parte, va considerato che questo tipo di tematiche rimangono comunque in linea con le produzioni rock del tempo, riannodate con una certa frequenza nei continui richiami alle liriche ed agli scritti di Jim Morrison.

Waiting For The Sun è quindi un’opera con un marcato tratto romantico, lo si può facilmente intuire leggendone la tracklist. In questo disco l’amore riesce ad essere rappresentato in tante forme diverse, celate sotto altrettante mutevoli vesti sonore: da quella goliardica della breve overture Hello, I Love You a quella malinconica della eterea Love Street, passando da quella onirica della scintillante Wintertime Love, fino a stupire con quella poetica della randagia ed ipnotica My Wild Love. Per dirla tutta, anche Yes, The River Knows è una canzone di grande trasporto emotivo, forse la più intensa della raccolta, grazie ad uno stupendo tappeto di note in pianoforte sui cui cadono leggere come petali, le quartine in rima scritte per l’occasione da Jim:“Please believe me / If you don’t need me / I’m going, but I need a little time / I promised I would drown myself in mystic heated wine”. L’episodio di The Unknown Soldier, sposta l’attenzione dell’ascoltatore su altri temi più crudi, essendo un brano nato sull’impatto della barbarie della guerra in Vietnam. Questa traccia è senza dubbio tra le più interessanti dell’album, poiché recupera e ripropone quell’elemento teatrale già sperimentato in precedenza in episodi gloriosi come The End o Riders On The Storm: nel mezzo della canzone, i Doors inscenano una esecuzione con tanto di plotone a fucili spianati, rullo di tamburi ed ordine marziale di fare fuoco. Il tutto si conclude con la celebrazione estatica di Morrison per la fine della guerra. Un’intuizione, questa, che si rivelò di grande impatto emotivo nella riproposizione dal vivo.

Spanish Caravan rappresenta dal punto di vista prettamente sonoro, l’altro fuori tema di Waiting For The Sun e forse dell’intera discografia dei Doors, perennemente contaminata dal blues e qui ribaltata nelle radici grazie ad un sound fortemente ispirato alle atmosfere ed ai suoni latini. L’influenza spanish viene esaltata in questa canzone, dall’alternanza delle parti di chitarra classica a quelle distorte, trovando l’apice nella seconda parte del brano, in cui il momento elettrico abbraccia in maniera perfetta le tastiere psichedeliche di Manzarek. Summer’s Almost Gone e We Could Be So Good Together, si presentano invece come due brani che musicalmente appaiono legati alla produzione di Strange Days e che esprimono in pieno l’attitudine mainstream della band, quella spiccata propensione che li ha portati a comporre canzoni melodiche e godibili, dotate di ritornelli accattivanti arricchiti e supportati da buone sessioni di organo e di chitarra. In particolare We Could Be So Good Together, sembra riportare impresso a fuoco il marchio tipico del sound griffato The Doors, soprattutto per l’adagio ritmato e l’anima rock’n’roll che la caratterizza, anche se, per dirla tutta, il vero brano rock del disco è la fantastica Five To One. La si riconosce facilmente, grazie ad un giro elettrico tipicamente blues, al fantastico assolo di Krieger (tra i migliori dei suoi) e dal canto di Morrison, che di proposito cambia l’impostazione vocale, rendendola per l’occasione più rauca ed aggressiva del solito.

Nonostante Waiting For The Sun non contenga la title track (la ritroveremo curiosamente due album in avanti, in Morrison Hotel), non si può non ammettere che, grazie alla grande qualità delle undici tracce incise, con questo lavoro i Doors abbiano fatto nuovamente centro. Ascoltandolo attentamente, ci arriva tutto lo spessore di un universo sonoro complesso e multiforme, un mondo in cui si può riconoscere la personalità artistica di questa incredibile band, il cui valore troppo spesso si riduce e si nasconde dietro l’immensa icona pop del suo carismatico leader.

Autore: The Doors Titolo Album: Waiting For The Sun
Anno: 1968 Casa Discografica: Elektra Records
Genere musicale: Rock, Blues Voto: 8,5
Tipo: CD Sito web: http://www.thedoors.com
Membri band:

Jim Morrison – voce

Ray Manzarek – tastiere, sinth

Robby Krieger – chitarra

John Densmore – batteria

Tracklist:

  1. Hello, I Love You
  2. Love Street
  3. Not to Touch the Earth
  4. Summer’s Almost Gone
  5. Wintertime Love
  6. The Unknown Soldier
  7. Spanish Caravan
  8. My Wild Love
  9. We Could Be So Good Together
  10. Yes, the River Knows
  11. Five to One
Category : Recensioni
Tags : Rock Blues, The Doors
0 Comm
16th Mar2017

The Midnight Kings – Band Of The Thousand Dances

by Aldo Pedron

The Midnight Kings - Band Of The Thousand DancesThe Midnight Kings sono un gruppo originario di Verbania, una piccola cittadina italiana sparsa sulla sponda occidentale del Lago Maggiore, in Piemonte e capoluogo della provincia del Verbano-Cusio-Ossola. La band nata nel 2011 annovera tra i componenti ex-membri di note gang garage punk come Thee S.T.P., The Preachers e Thee Stolen Cars, un manipolo di aristocratici birbanti il cui unico scopo è quello di fare ballare il pubblico fino allo sfinimento. Dopo un singolo su vinile distribuito in tutta Europa ed ormai sold out nel 2013 intitolato Do The Monkey e con due tracce, Baby What’s Wrong e The Monkey edito dalla Sailors Overdrive Records, (stampato in 300 copie) eccoli arrivare tre anni dopo, nel 2016 ad un disco completo. Non a caso, il loro nuovo album parafrasando il brano del 1966 di Chris Kenner portato al successo da Wilson Pickett Land Of Thousand Dances è intitolato Band Of The Thousand Dances…la band dei mille balli! Un disco esaltante, frizzante, dal boom sonico, sano rock’n’roll venato di soul e il suono twang quasi rockabilly e surf. Negli Stati Uniti lo chiamano “frat rock” ossia lo stile delle formazioni collegiali americane degli anni ’60, il rock da ballo, per le feste private dei teenager con i genitori in vacanza.

La musica dei Midnight Kings è indubbiamente folle, tutta devota al ritmo e che viene celebrata da questo gruppo ed ensemble guidato da quella vecchia volpe di Metius King, voce degli storici STP, assieme ad amici del giro del rock’n’roll italico. Pura energia e divertimento con classici su classici per ballare sfrenati senza nessun genitore che vi gridi di abbassare il volume e sperando senza alcun raid della polizia! Indubbiamente una formazione assai valida alle prese con il rock’n’roll, lo stompin’ rhythm’n’blues e lo stile Memphis, Tennessee. Un disco che si compone di quattordici brani, con due cover Baby Don’t You Weep, scritta da Fred Bridges e Harrison Smith ed incisa dallo stesso Fred Bridges per la prima volta come singolo nel 1962 (etichetta Versatile) e poi ripresa da diversi artisti tra cui Wilson Pickett nel 1968, Edward Hamilton & The Arabians (genere Northern soul) nel 1980 ed in epoca più recente da Luther Ingram nonché I Idolize You di Ike & Tina Turner (scritta da Ike Turner e pubblicata come singolo nel 1961) in stile soul /rhythm and blues più dodici originali composti dal sestetto dei Midnight Kings.

Pezzi come l’iniziale Millo’s In Love, Another Kiss, Hey! Mathilda e She’s The Boss scimmiottano sicuramente i canoni classici del rhythm and blues e rock’n’roll degli anni ’50 e primi ’60 con il classico canto da rocker, il coro botta e risposta, la batteria in evidenza, il suono twang della chitarra ed il sax sempre prorompente. Ascoltando ad esempio I’m Taking Off con uno splendido assolo di chitarra il cantante ricorda il miglior David Johansen aka Buster Poindexter. The Caveman è suonata magnificamente con il sax in evidenza a creare una grande atmosfera e le percussioni a sostegno di un sound maledettamente attuale. Mish Mash Mary invece è un piccolo plagio a Summertime Blues, un rockabilly scritto da Eddie Cochran e dal suo manager Jerry Capehart, un singolo portato al successo nel 1958 e pubblicato dalla Liberty Records. Di questo disco dei The Midnight Kings esiste anche la versione in vinile pubblicata dalla Wild Honey Records che contiene due canzoni differenti. Al posto di What’s Behind The Door e You Mesmerize Me contenute nel CD della Ammonia Records, nel vinile sono editi i brani Dance With The Midnight Kings e Twist It Up. L’edizione della Wild Honey Records esiste anche in edizione limitata in vinile verde.

La copertina del CD è disegnata da Dario Dr. Pepper Maggiore e risulta accattivante e vincente. Dal vivo invece questa formazione piemontese è certamente assai divertente nel ricordare e rivitalizzare i bei tempi del rock’n’roll e di un’epoca irripetibile. Da ascoltare tutto di un fiato!

Autore: The Midnight Kings

Titolo Album: Band Of The Thousand Dances

Anno: 2016

Casa Discografica: Ammonia Records

Genere musicale: Rhythm’N’ Blues, Soul

Alternative Frat Rock’N’Roll

Voto: 7,5

Tipo: CD

Sito web: https://www.facebook.com/TheMidnightKings

Membri band:

Metius King – voce, sax

Jojo King – chitarra, voce

Andy King – chitarra, voce

Momo King – basso, voce

Little Lucio – batteria, voce

Millo King – tambourine, maracas

Tracklist:

  1. Millo’s In Love

  2. Oh Baby Don’t You Weep

  3. Another Kiss

  4. Hey! Mathilda

  5. I’m Taking Off

  6. The Caveman

  7. What’s Behind That Door

  8. Mish Mash Mary

  9. Give My Money Back

  10. I Idolize You

  11. She’s The Boss

  12. You Mesmerize Me

  13. One Hundred Nights

  14. The Midnight Ride

Category : Recensioni
Tags : Rock Blues
0 Comm
14th Mar2017

Buzzy Lao – Hula

by Sara Fabrizi

Buzzy Lao - HulaDove un forte amore e propensione per il blues si contamina con il cantautorato italiano e con suggestioni decisamente black (roots reggae e tribali) troviamo Buzzy Lao. Interessante, giovane, cantautore/bluesman torinese che frulla insieme le sue preferenze e background musicale con una lunga esperienza nel Regno Unito. E così ti sforna Hula, un debut album di 13 tracce che pescano da generi diversi tenuti insieme dal filo rosso del blues. Dal folk al soul di ultima generazione al rock. Un melting pot di sonorità maturate in un arco di tempo relativamente breve (rilascia il primo singolo Lacrime D’Amore nel gennaio del 2015, l’album è uscito lo scorso 21 ottobre) e che esplodono fino a concretizzarsi in un lavoro che ha tanto il sapore della gavetta, dell’impegno alacre fatti anche dal tour in tutta Italia e dalla campagna di crowdfunding promossa per produrre e finanziare l’album. Una storia di passione quella che caratterizza il percorso professionale di questo giovane artista. La stessa passione che ritroviamo nei suoi testi che parlano della sua vita interiore (amori, amicizie, dolori) ma anche della vita esteriore (tematiche di impegno e di denuncia delle ingiustizie sociali, razziali e culturali). E che ritroviamo anche nel suo modo di suonare, in quell’uso eclettico e sincero della chitarra Weissenborn molto usata nella scena alternative blues (Ben Harper e John Butler).

Man mano che si procede nell’ascolto di questi 13 brani, tutti così diversi tutti così unitari nello stile e nell’anima, si delinea chiaramente lo scenario neo-blues dove si colloca Buzzy Lao. Deve essere stata una gran bella soddisfazione per l’artista tornare in patria dopo un’esperienza fuori e aver potuto rielaborare sensibilità e stimoli provenienti da contesti diversi per realizzare canzoni in lingua italiana ma suonate in maniera così “internazionale”. E’ un disco che cattura, che ti prende per mano, track by track, e ti guida lungo il percorso artistico-personale-umano dell’autore e ti fa vedere con i suoi occhi il mondo. Un percorso il cui punto d’arrivo è da considerarsi l’album nella sua totalità, come strumento di riflessione e anche di superamento e guarigione. Raccontando e raccontandosi tramite la musica si può metabolizzare ogni dolore e ogni sconfitta e trarne stimolo per nuovi obiettivi, per una rinnovata propositività e positività. E si può anche spronare un cambiamento non solo individuale ma anche sociale. La funzione catartica dell’arte nella variante intimistica ed impegnata del cantautorato.

Passando dai brani più cantautorali come Ora Che, Le Luci Della Mia Ombra, Qualcosa C’è, a quelli più reggae e roots come Stella Magica, Hanno Ucciso L’Amore, fino a quelli più genuinamente blues come Credi Di Amare, Guerra Da Nascondere, Chiedi Chiedi, la tensione che si avverte fra racconto di sé e racconto del mondo è molto bella, a tratti commovente. Perché rivela la capacità dell’artista di mettersi a nudo e regolare i conti con se stesso senza mai trascurare l’attenzione per la società, per i suoi mali, per il suo necessario cambiamento. E la commistione dei generi, sempre sotto l’egida del “dio blues”, è a mio parere perfettamente funzionale a questo approccio.

Autore: Buzzy Lao

Titolo Album: Hula

Anno: 2016

Casa Discografica: INRI

Genere musicale: Neo Blues, Roots Reggae, Alternative Folk

Voto: 8

Tipo: CD

Sito web: http://www.buzzylao.com

Membri band:

Buzzy Lao – voce, chitarra, weissenborn, footdrum

Mattia Bonifacino – basso, cori

Tiziano Salerno – batteria, percussioni

Tracklist:

  1. Ora Che
  2. Credi Di Amare
  3. Stella Magica
  4. Anche Il Vento Ti Cambierà
  5. Lacrime D’Amore
  6. Guerra Da Nascondere
  7. Luna
  8. Chiedi Chiedi
  9. Le Luci Della Mia Ombra
  10. Hanno Ucciso L’Amore
  11. Buonanotte
  12. Sentirai
  13. Qualcosa C’è
Category : Recensioni
Tags : Rock Blues
0 Comm
05th Feb2017

Slap Guru – Cosmic Hill

by Marcello Zinno

Slap Guru - Cosmic HillChi pensa che il blues sia solo pentatoniche sparate a sequenza dovrebbe essere equiparato a chi ritiene che l’heavy metal sia un genere di esclusivo rumore. Il blues incarna probabilmente il lato più emotivo del rock, quello che durante un assolo ti tocca l’anima e ti implode una forza dentro che fuoriesce con scatti o con lacrime, lo stesso effetto che accade al primo ascolto di un brano di Jimi Hendrix. Se al blues ci inseriamo anche una vena hard rock (o più generale rock) allora la carica sale e lo spessore si irrobustisce. Si può puntare davvero ad una miriade di strade diverse, basta avere le idee chiare ma allo stesso tempo sapersi far trascinare dalla musica. Gli Slap Guru cercano di dar forma all’energia che si crea in sede live, non a caso ci appaiono più come una live band o comunque un progetto nato per dare il meglio on stage. Il loro stile è di quello che sul palco è in grado di fare faville: crescendo portatori di adrenalina sana (Wakanta), assoli spigolosi, buoni arrangiamenti e una coppia di chitarre che sa il fatto suo, il tutto con un alone di mistico ed esterofilo che rende ancora più raffinato il progetto (e di nuovo rimandi al Sig. Hendrix).

Chi ha amato i Deep Purple può testare questa formazione con I Turned Off, un pezzo che presenta un riff introduttivo poi ripreso in Ollin, anch’esso un brano calmo e psichedelico ma poi, in crescendo, si lancia in territori da ebollizione sonora e offre il meglio nell’hard’n’heavy dalle sfumature blues. Buono anche Fighting With A Mirror, traccia molto carica e compatta anche se sembra già sentita in varie salse…eppure possiede un assolo incredibile che infiamma i riflettori puntati su questa band, una quarantina di secondi scarsi che danno sale, pepe e tante altre spezie al brano. Qualche assaggio prog apre la conclusiva Best Wishes, un pezzo ispirato e da musicisti rodati. Li aspettiamo al varco del full-lenght: sentiamo già da ora il potenziale altissimo di questa formazione.

Autore: Slap Guru

Titolo Album: Cosmic Hill

Anno: 2016

Casa Discografica: Andromeda Relix

Genere musicale: Hard Blues

Voto: s.v.

Tipo: EP

Sito web: https://soundcloud.com/slapguruband

Membri band:

Jose Medina – batteria

Javier Burgos – basso

Valerio Willy Goattin – chitarra, voce

Alberto Martin – chitarra

Tracklist:

  1. Cosmic Hill

  2. Wakanta

  3. I Turned Off

  4. Fighting With A Mirror

  5. Ollin

  6. Best Wishes

Category : Recensioni
Tags : Hard Rock, Rock Blues
0 Comm
19th Gen2017

The Doors – The Doors

by Rod

The Doors - The DoorsNella hall of fame delle band che meritano un posto di assoluto rilievo per aver scritto pagine indimenticabili della storia della musica rock, ci sono senza dubbio i The Doors (genericamente ed italianamente identificabili senza il “The” iniziale). La storia discografica e quella personale della band californiana, vive di una popolarità mai in crisi, trainata, come in un connubio immortale senza cui tutto non avrebbe ragion d’essere, dal mito del suo carismatico leader, James -Jim- Douglas Morrison, noto anche come “King Lizard” (Re Lucertola) o “Mr. Mojo Risin” (dall’anagramma nome-cognome), aspirante attore e regista prima, poeta beat e rockstar poi, membro d’onore del famoso “Club 27” ed universalmente noto come icona lucente e dannata del satanico comandamento “sex, drugs & rock’n’roll”. Il carisma del mito dai pantaloni di pelle è più o meno noto a tutti, mentre il suo verbo è tramandato ai posteri grazie ai diffusissimi aforismi (spesso non ufficiali e veritieri) che gli vengono attribuiti, giunti a noi a partire dai diari delle scuole, sino al copiaincolla che si rinnova sulle bacheche dei moderni social network, senza contare le molteplici citazioni e i diffusi riferimenti sparsi qua e là nel mondo musica, della letteratura, del cinema e dell’arte in generale, a cui spesso sono stati prestati brani attinti dagli scritti di Morrison e dalla breve ma intensa discografia dei Doors. L’alba ed il tramonto del combo americano rimarranno per l’eterno legati al percorso su questa terra del suo leader, tant’è che i primi album, ritenuti dai più la parte migliore dalla loro discografia (poiché scritti nel periodo di maggiore lucidità artistica di Jim in un percorso personale segnato dall’uso di sostanze e da esperienze al limite), lasceranno col tempo il posto a lavori meno ispirati o comunque secondari ai precedenti. Dopo la morte di Morrison, certificata il 3 luglio 1971, la loro musica passerà in secondo piano, in contrapposizione all’ascesa nell’immaginario collettivo mondiale dell’icona di una tra le più grandi leggende del rock.

Spostiamo le lancette al 1966. Jim, Ray, Robby e John, sono sulla Venice Beach intenti nell’ultimare la scrittura dei brani che finiranno appena l’anno dopo, sul primo ed omonimo album della band, l’incredibile The Doors. Questo ottimo debut album, in cui sono presenti alcuni tra i brani più popolari della band, come Break On Through (To The Other Side), Soul Kitchen, Back Door Man, The End ed il più noto, Light My Fire, fece le fortune dei Doors sin dalla sua primissima uscita, poiché esprimeva nella sua sintesi il marchio di fabbrica sonoro della formazione, sostanzialmente riassumibile in un sound rock blues classico rifinito nelle atmosfere 70’s dall’Hammond psichedelico di Manzarek, su cui si adagiavano i testi sofisticati e la voce tenebrosa di Morrison. Break On Through (To The Other Side) è la traccia che introduce il disco, un brano veloce, ritmato, forse tra quelli più propriamente rock scritti dal gruppo, basato su di un riff che si poggia su un ritmo di batteria jazz e sul tappeto Hammond di Ray, laddove violento e suadente si muove il canto di Jim, il quale, per l’occasione, compone un testo tanto onirico e visionario quanto sensuale e carnale. Il sesso, l’ambiguità, la provocazione e la sensualità, argomenti tipici della controcultura hippy del periodo, sono tra i liet motif dell’album, particolarmente presenti in Soul Kitchen, un brano tipicamente beat in cui, leggendo tra le righe dall’abile scrittura di Morrison, si posso trovare espliciti riferimenti del tipo “…Lasciami dormire stanotte nella tua cucina dell’anima, scalda la mia mente accanto alla tua mite stufa, cacciami e io vagherò, bambina, barcollando in foreste di neon…”. Gli fa eco The Crystal Ship, traccia che può essere considerata come la ballad del disco, della durata di appena due minuti e mezzo, che si distingue per l’intensità e la morbidezza dei toni; una composizione a metà tra una canzone d’amore ed una ninna nanna, su cui Jim scrive una struggente e malinconica favola, resa ancor più dolceamara da un laconico intermezzo centrale di pianoforte che in questo episodio si sostituisce al solito spregiudicato organo di Manzarek.

Twentieth Century Fox, ha invece un incipit marcatamente pop, un tratto questo che caratterizza l’intera canzone, la quale, pur portando nel suo dna tutto il patrimonio genetico dei Doors, palesa un’attitudine maggiormente legata alle atmosfere anni ‘60 e votato quindi alla melodia: difficile togliere dalla mente il sound accattivante del suo chorus in cui Jim tratteggia a suo modo la donna determinata del ventesimo secolo “…She’s a twentieth century fox… No tears, no fears … No ruined years… No clocks… She’s a twentieth century fox…”. A seguire troviamo Alabama Song, un brano diverso dai precedenti, caratterizzato da un intro suonato in levare, a cui si collega un ritornello supportato da un coro che ricorda i canti delle ciurme di pirati o dei soldati di ritorno dalla battaglia. Light My Fire, oltre ad essere il brano in assoluto più conosciuto dell’album e probabilmente della band, è, come in molti casi accade, una traccia anomala che si dissocia dalla discografia del quartetto, a partire dal processo compositivo: la prima parte della canzone fu infatti scritta da Robby Krieger, mentre la seconda da Jim Morrison. Il testo, ambiguo e beffardo, è una esplicita esortazione alla eccitazione dei bollenti spiriti rivolta da un giovane verso la propria amante. Il brano si erige su un equilibrio quasi jazzistico tra chitarra elettrica ed organo, e che vede quest’ultimo prodursi in un intermezzo lunghissimo esattamente a metà tra le due parti cantate, un assolo che verrà, ahimè, sacrificato nella versione radiofonica allo scopo di concedergli un minutaggio idoneo ai vari passaggi on air: Light My Fire diverrà il singolo dei Doors più trasmesso dalle radio e più “rubato” di tutta la loro carriera (leggasi colonne sonore, spot, documentari, serie tv ed altro).

Back Door Man è la cover di un classico del Chicago blues, scritto da Willie Dixon e inciso per la prima volta da Howlin’ Wolf nel 1960. I Doors ne vollero fare una propria versione nella considerazione che un “Back Door Man” è un amante che intrattiene rapporti con una donna sposata mentre il marito è fuori, e che in caso di rientro improvviso di quest’ultimo, è costretto a scappare dalla porta sul retro. Testo scanzonato e mood tipicamente blues si rendevano perfetti per Morrison che in questo episodio inscena una sorta di Rugantino moderno e maledetto. L’effetto fu micidiale: come spesso accaduto nella storia del rock, il rifacimento del brano è diventato più famoso della versione originale al punto che molti credono che Back Door Man sia un pezzo dei Doors. I Looked At You, è invece un brano semplice e sdolcinato, dalle rime adolescenziali e dal mood beatlesiano (o ye-ye come si sarebbe detto ai tempi). Non l’episodio migliore dell’album. End Of The Night, introduce l’ascoltatore ad un’atmosferica onirica e cupa ed alza nuovamente l’asticella della poeticità dei testi del Re Lucertola. Soffice e sognante, misteriosa quanto malinconica, le strumentali di questo brano sciabordano di sensuale armonicità, un invito a cui Morrison si presenta con un’affascinante interpretazione che esalta le potenzialità sonore di una delle composizioni più sottovalutate della produzione dei Doors. Take As It Comes è un fatalista invito alla semplicità della vita rivolto ad una donna, un brano con un ritmo incalzante, sezionato dai tipici soli di Manzarek che per l’occasione confeziona sulle sue tastiere, un giro di basso semplice quanto efficace.

The Doors non poteva che chiudersi con The End, pietra militare dell’epopea rock del combo californiano, composizione che ne incarna perfetta la teatralità e l’originalità del loro stile, nonché brano in cui coincidono perfettamente tutte le sfaccettature dell’artista Jim Morrison: il poeta maledetto, lo scrittore visionario, l’attore ispirato, il rocker dannato ed il giullare pazzo. The End è un brano semplice nonostante i circa dodici minuti di durata, che si scioglie su di un ritmo sinuoso ed ipnotico, simile ad un mantra, su cui Morrison interpreta le sue liriche controverse alternando canto a recitazione, in cui prosa ed allucinazione si incontrano in versi che sanno di disagio interiore, di paura, di memorie e fantasie infantili, e si concludono con il racconto di un figlio che entra nella propria casa, saluta il fratello, uccide il padre e violenta la madre. The End come in un’opera greca, è una messa in scena immorale, che segna la fine violenta del proprio legame familiare attraverso un atto estremo quanto irrazionale, un omicidio concepito al termine di una lunga allucinata visione. The End, è la fine della superficialità, della ingenuità, degli momenti leggeri e della scanzonata gioventù. The End è la fine che coinvolge tutto e che porta via con sé ogni frivola bellezza e che chiude con un capolavoro, un album leggendario che continuerà a tramandare ai posteri la lezione rock di una giovane band, capace con un disco d’esordio, di tracciare un solco ancora profondo tra le pagine del genere musicale che amiamo e nei cuori di chi gli riconosce meritatamente un posto d’onore nell’Olimpo dei più grandi di tutti i tempi.

Autore: The Doors Titolo Album: The Doors
Anno: 1967 Casa Discografica: Elektra Records
Genere musicale: Rock, Blues Voto: 9,5
Tipo: CD Sito web: http://www.thedoors.com
Membri band:

Jim Morrison – voce

Ray Manzarek – tastiere, synth

Robby Krieger – chitarra

John Densmore – batteria

Tracklist:

  1. Break On Through (To The Other Side)
  2. Soul Kitchen
  3. The Crystal Ship
  4. Twentieth Century Fox
  5. Alabama Song (Whisky Bar)
  6. Light My Fire
  7. Back Door Man
  8. I Looked At You
  9. End Of The Night
  10. Take It As It Comes
  11. The End
Category : Recensioni
Tags : Album del passato, Rock Blues, The Doors
1 Comm
21st Nov2016

Fratelli Tabasco – Docks Dora Session

by Aldo Pedron

fratelli-tabasco-docks-dora-sessionTrattasi dei Fratelli Tabasco, la band peperonata di Torino. Le Dora Docks Session invece, dal titolo del loro album, si riferiscono al fiume al femminile, la Dora che passa a Torino, città natale dei Fratelli Tabasco. Un album debutto per una band nata nel 2013 dall’incontro di cinque giovincelli accomunati soprattutto da una forte passione per il blues. Il disco viene registrato in presa diretta per cercare di riprodurre le atmosfere dei Juke Joint (chiamati anche Barrelhouse), i locali (soprattutto negli anni ’40) semi clandestini del sud degli Stati Uniti, terra natìa e patria dei più grandi bluesmen prima di diventare una vera leggenda. I Fratelli Tabasco s’ispirano dunque per scrivere le loro canzoni a leggendari bluesmen del passato senza denigrare o tralasciare alcuni artisti contemporanei come Ben Harper, i Black Keys o il grande R.L. Burnside. Dopo numerosi concerti in lungo ed in largo nelle regioni di Piemonte, Liguria ed Emilia Romagna, nel 2015 vincono la 7° edizione del concorso Rock The Docks organizzato dalla Rainbow Music di Torino che permette loro di fare il passo lungo con l’incisione di un album che comunque riflette e risponde alle migliori aspettative. Questi figli artistici dei Docks di Torino celebrano il loro album d’esordio con un blues vivo, piccante come lo è a ragion veduta il loro nome (Tabasco), una salsa piccante ricavata dalla coltivazione di peperoncini della specie Capsicum Frutescens e alla loro macerazione. La salsa è prodotta dall’azienda statunitense McIlhenny Company, con sede ad Avery Island in Louisiana, che ne detiene il brevetto fin dal 1870 ed è proprietaria del marchio Tabasco Sauce mentre il nome deriva dall’omonimo stato del Messico.

Ne deriva un suono cosiddetto vintage che mischia blues, rock, funky e soul e sonorità moderne d’insieme ma che al tempo stesso non si distaccano troppo dagli stilemi tradizionali ed eterni del blues. I Fratelli Tabasco hanno metabolizzato il blues arcaico e lo ripropongono ai giorni nostri, dando forma ad un sound attuale, ipnotico ed ispirato ma al tempo stesso sporco e cattivo. S’incomincia con Radioactive Mama, un blues elettrico con chitarra stile funky, l’hammond sempre in agguato e l’armonica acida al punto giusto. Ask Yourself colpisce per i suoi riff esaltanti dove sono sempre l’hammond di Lorenzo e la chitarra di Joe Tabasco a primeggiare e lasciare il segno. Siamo in piena terra Louisiana, il clima è incandescente, la band è sul palco in presa diretta, dal vivo e le canzoni una dopo l’altra scivolano via tenendo l’ascoltatore attaccato all’orecchio. In Same Damned Shame è la voce solista a martellare sui timpani, l’hammond è in primo piano mentre la sezione ritmica è granitica e picchia da morire. In Up All Night sono ancora le tastiere a mantenere il ritmo e il giusto mood, il bassista si fa particolarmente sentire e l’hammond è sugli scudi mentre Harmonica Drive resta pur sempre accattivante anche se più scontata con Joe Tabasco scatenato alle prese degli assoli di chitarra da musicista navigato.

Tra un brano e l’altro, rigorosamente dal vivo, si sentono gli applausi del pubblico presente e di incitamento alla band. Assai bravo risulta Boris Tabasco come voce solista, prepotente e spietato da collaudato shouter in ogni brano nonché ed esperto e valido all’armonica. Già stiamo parlando di Louisiana e di Mississippi dove i Juke Joint (solitamente gestiti da afro-americani) erano il crocicchio (crossroads) della musica del diavolo, il blues nelle sue molteplici sfumature e dove ci si avventurava in questi loschi locali tra whisky di contrabbando, birre da 4 soldi, balli, puttane, bluesmen e giochi d’azzardo. I Juke Joint (da noi si sarebbero chiamate bettole) negli anni ‘30 e ’40 erano frequentati da mezzadri e lavoratori dei campi, campavano anche vendendo vari generi alimentari, davano occasionalmente da dormire agli avventori e si facevano belli con il loro famoso moonshine, un liquore di poltiglia di mais distillato il più delle volte in modo illegale. Jack Knife, uno slow assai sofferto, ricorda le divinità voodoo di New Orleans e musicisti del calibro di Screamin’ Jay Hawkins (1929-2000), il più eccentrico personaggio che l’R&B e il rock’n’roll abbiano mai dato, famoso soprattutto per la sua potente voce e per le esibizioni live selvaggiamente teatrali, accompagnate da macabri oggetti di scena sul palco (teschi, costumi gotici e simboli voodoo) e soprannominato il primo shock rocker nonché autore della celebre e bellissima canzone I Put A Spell On You.

Blues On! ha ritmi funky e l’hammond la fa da padrone, D.Q.T.H.L. è elettrizzante al punto giusto anche se non innovativa ma con il solito giro di blues cadenzato mentre Boris’ Boogie in chiusura è un esaltante jump blues agli albori del rock’n’roll (fine anni ’30) in stile Big Joe Turner (1911-1985) per intenderci. I Fratelli Tabasco abbracciano il blues del sud ma a volte in diversi brani riprendono il classico blues di Chicago che inizialmente traeva fondamento nel Delta blues e che alla fine degli anni ’40 ed inizio ’50 ha creato un vero e proprio stile (Muddy Waters, Willie Dixon, Otis Rush, Howlin’ Wolf, Slim Harpo, Little Walter, J.B. Lenoir, Sonny Boy Williamson II alias Rice Miller, eccetera). I Fratelli Tabasco all’album d’esordio, risultano davvero già ben navigati e rodati, superano brillantemente la prova e se la loro missione è il blues, possiamo azzardare che sono sulla strada giusta.

Autore: Fratelli Tabasco

Titolo Album: Docks Dora Session

Anno: 2016

Casa Discografica: Autoproduzione

Genere musicale: Rock Blues

Voto: 8

Tipo: CD

Sito web: http://www.fratellitabasco.com

Membri band:

Marco Tabasco – basso

Boris Tabasco – voce, armonica

Lorenzo Tabasco – organo, hammond

Simone Tabasco – batteria

Joe Tabasco – chitarra

Tracklist:

  1. Radioactive Mama

  2. Ask Yourself

  3. Up All Night

  4. Harmonica Drive

  5. Same Damned Shame

  6. Jack Knife

  7. Blues On!

  8. D.Q.T.H.L.

  9. Boris’ Boogie

Category : Recensioni
Tags : Rock Blues
0 Comm
09th Nov2016

Mr Furto & Lady Paccottilla – Hotel Harvest

by Marco Castoldi

mr-furto-lady-paccottilla-hotel-harvestAscoltando Hotel Harvest (eliminando i primi due brani che, per stile e sonorità un po’ clashettose – Bank Robbery – e un po’ rocckettine sbarazzine – Easy Love – sembrano appartenere ad un altro gruppo) due cose mi hanno squarciato la testa tipo fulmine di Pegasus: la sigla di Rawhide nella versione Blues Brothers e la mattanza di Hateful Eight. Hotel Harvest è quel blues contemporaneo molto west, il west di Clint Eastwood mentre porta la sua mandria dal Texas al Missouri e il west di Samuel L. Jackson che ammazza a raffica. Infatti i vocals e backing vocals a tratti baritoni e le atmosfere cupe e dure sia nei testi che nelle sonorità delle ultime quattro track e di Faith In Hell trasportano in una desolata prateria padana (il Mr e la Lady sono dei dintorni di Cremona), dove ti aspetti che tra un pezzo e l’altro salti fuori dalla confezione del CD un serpente a sonagli o un cobra del deserto del texas. A questo si aggiunga il packaging del CD (molto viniloso perché CD e libretto si estraggono come nei vinili) la cui grafica è essa stessa “westernamente” inquietante. Inquietante nel bianco e nero delle sue foto di lande abbandonate e desolate, via di mezzo tra far east padano e ghost town contemporanea. La sensazione è un po’ come se aveste in mano una copertina di Physical Graffiti degli Zeppelin spostata in una ghost town ed “ecomostrizzata”. Forse non sapremo mai se questo era negli intenti di Mr Furto & Lady Paccottilla, tuttavia lo strano effetto è che l’artwork si dissocia da qualsiasi manierismo sebbene sia esso stesso rigenerazione di un richiamo colto che però diventa qualcosa che segna un’evoluzione in chiave anni duemila di un concept blues raffinato e di impatto (per dirne una nell’album abbiamo una foto di un classicone iconografico dell’antologia blues più pura: la ferrovia – palesemente trasandata alla maniera italiota). In una riga: cazzarola la confezione di Hotel Harvest è veramente figa!

Facendo un giro di lazo indietro torniamo sulla musica, nel punto in cui il Po si tuffa nel Mississipi c’è l’hotel del raccolto dove in ogni stanza c’è l’eco selvaggio e incalzante dello slide stile Deltahead di Ciki Cicki o i testi brevi ma intensi e diretti come un proiettile di I Love Your Mum. La voce è baritonale e introspettiva alla Johnny Cash, ma il sound è un mesh up ben riuscito di sonorità tex mex in salsa parmareggio. In Hotel Harvest si ha la visione di un crescendo di tempeste sabbiose di chitarrosità un po’ stoner (Ballad Of A Lonely Man), un po’ psichedeliche (Ellie West) ma soprattutto c’è tanto tanto spirito guida di blues sperimentale, che esce fuori imperioso negli otto minuti pesantemente e aggressivamente strumentali della closing track Fading Light. Il pezzo è da gustare per la sua completezza che, ai già begli assoli di chitarra e al gran lavoro di piatti, aggiunge una lunga e potente parte strumentale di basso. Fading Light chiude bene un album molto particolare e fa pensare che molto probabilmente il Mr e la Lady dal vivo sono generosi nel concedere virtuosismi e indagini strumentali. E sospettarlo ci piace assai.

Probabilmente evitare le prime due tracce, che sembrano un po’ distanti dal blues contemporaneo predicato da Mr & Lady negli altri nove brani, e una pronuncia meno “Inglisc” avrebbero reso l’Hotel Harvest un Crowne Plaza con piscina e SPA sospese nel vuoto al centesimo piano di torri di cristallo nel pieno centro dell’Upper East Side; a onor del vero però anche l’attuale quattro stelle a Chelsea è una soluzione di livello.

Autore: Mr Furto & Lady Paccottilla

Titolo Album: Hotel Harvest

Anno: 2016

Casa Discografica: Autoproduzione

Genere musicale: Blues Rock, Alternative Rock

Voto: 6,5

Tipo: CD

Sito web: http://www.mrfurto.com

Membri band:

Matteo Casetti – voce, basso, chitarra

Francesca Peschiera – batteria, cori

Giuseppe Anversa – chitarra, cori

Tracklist:

  1. Bank Robbery

  2. Easy Love

  3. Faith In Hell

  4. Ellie West

  5. Ballad Of A Lonely Man

  6. Darkest Night

  7. Ciki Ciki

  8. Is The River Wild?

  9. Honkytonk Man

  10. I Love Your Mum

  11. Fading Light

Category : Recensioni
Tags : Rock Blues
0 Comm
25th Ott2016

Acid Brew – Acid Brew

by Aldo Pedron

acid-brew-finalGli Acid Brew nascono a dire il vero come Sham Rock nell’ottobre del 2010 a San Giovanni Bianco, comune con meno di 5.000 abitanti situato in Val Brembana, circa 30 chilometri a nord dal capoluogo orobico, Bergamo. Nel 2012 cambiano nome e diventano The Shams. A fine del 2014 dopo più di due anni passati freneticamente nell’attività concertistica, il gruppo si ferma per concentrarsi nella realizzazione di un proprio album, rigorosamente in lingua inglese, niente cover ma brani scritti in perfetta armonia dalla band stessa che all’uscita del disco si ribattezza nuovamente e definitivamente in Acid Brew. E’ dunque questo il primo album omonimo, d’esordio e di inediti per la band bergamasca Acid Brew, quintetto di blues rock e funk music che ha scritto, arrangiato, prodotto e pubblicato questo primo e genuino sforzo discografico sicuramente da elogiare in quanto del tutto autoprodotto, ben pensato e felicemente elaborato. Il sound risulta volutamente un po’ retrò proprio per esaltare i suoni tanto cari di certo soul e rhythm and blues anni ’60 e ’70. La chitarra di Stefano Carminati ed i suoi riff si distinguono e spiccano in ogni brano ma è la robusta sezione ritmica con basso e batteria a tenere il tempo anche se con arrangiamenti più moderni che strizzano l’occhio a certo funk mentre invece le tastiere di Davide Gamba arricchiscono l’ensemble grazie all’uso prevalentemente dell’organo hammond.

Nove tracce in inglese dove al fianco di certe tematiche care al blues e al rock’n’roll emerge un funk e R&B aggiornato ai nostri giorni. Gli Acid Brew (letteralmente significa “birra acida”) convincono decisamente per la bontà dei loro ritmi e dei loro suoni ma anche i testi risultano convincenti con la tendenza ad affrontare tematiche sociali come la guerra e la violenza trattati in Hard Times. In Sexual Desire e Will You Marry me si passa dal sesso all’amore mentre in Bigger Than Me gli Acid Brew affrontano il delicato concetto soprannaturale di credo e di fede. Sinful Souls (“anime peccaminose”) si parla della tendenza assai frequente di giudicare con leggerezza e superficialità il nostro prossimo. In aggiunta la band, ma solo ed esclusivamente per le registrazioni in studio del disco, ha usato una sezione fiati con Joe La Viola al sax in Bigger Than Me e Sinful Souls, Francesco Panico alla tromba in due canzoni, Dario Baldacchini al sax in due pezzi, Riccardo Gervasoni al trombone in Along The Riverside e Together e ai cori Laura Danelli, Sarah Nava, Mara Gavazzi, Davide Fidanza e Paolo Filippi.

Arrembi (R&B) ed un suono ruffiano che ricorda le Pietre Rotolanti (The Rolling Stones) e certo rock inglese ma per fortuna senza tanti fronzoli. La voce del cantante è da ragazzino ma è a suo agio con l’inglese anche se non di lingua madre. I cori sono forse un po’ troppo semplicistici e cantilenanti ma il suono della chitarra è estremamente pulito così come piace l’uso non ossessivo ma basilare delle tastiere ossia organo, pianola, hammond. Spiccano e piacciono particolarmente Will You Marry me dal ritmo coinvolgente, la semi-acustica Yellow Noon che ricorda i migliori Kinks degli anni ’60 e la sorniona Bigger Than Me con un sax e la pianola in evidenza. Il disco indubbiamente viene promosso ma mi permetto di auspicare nel futuro degli Acid Brew una maggiore padronanza, più cattiveria e più incisività così da raggiungere il top.

Autore: Acid Brew

Titolo Album: Acid Brew

Anno: 2016

Casa Discografica: Autoproduzione

Genere musicale: Blues Rock, Funk, R&B

Voto: 7,5

Tipo: CD

Sito web: http://www.acidbrew.it

Membri band:

Ceco Frenz – voce

Stefano Carminati – chitarra

Giacomo Plevani – basso

Alessandro Spada – batteria, percussioni

Davide Gamba – tastiere, cori

Tracklist:

  1. Riff One

  2. Sexual Desire

  3. Hard Times

  4. Sinful Souls

  5. Together

  6. Will You Marry Me

  7. Yellow Noon

  8. Along The Riverside

  9. Bigger Than Me

Category : Recensioni
Tags : Rock Blues
0 Comm
12th Ott2016

The Blue Poets – The Blue Poets

by Marco Castoldi

The Blue Poets - The Blue PoetsQuando il delta dell’Elba diventa il delta del Mississipi: in una frase questo è The Blue Poets. Marcus Deml, chitarrista con un pedegree pazzesco (studente e docente del Musician Institute di L.A. – tanto per intenderci scuola Paul Gilbert – nominato nel 2005 Guitar Hero dal fanzine chitarroso a stelle e striscie Guitar Player) fonda una nuova band che il cui album d’esordio è un devastante allagamento texano di blues elettrico sullo stesso stile di The Ballad Of John Henry di Joe Bonamassa. 11 tracce di puro elettroshock fenderiano di una classe e pulizia nell’esecuzione estreme. Alla matrice – che al quinto ascolto – è definitivamente un mix tra Stevie Ray e Gary Moore, si aggiunge un piccolo tocco fusion alla Steve Vai/Scott Henderson, il che non è una sorpresa (cercate il video della performance del 2005 di Marcus su GuitarPlayer.com e capirete perché) e si sente in molti assoli e non solo nella chitarra, ma anche nel basso di Markus Setzer che esce meraviglioso, un po’ funky un po’ rock, un po’ fusion in Shallow Words e Won’t You Suffer. Dal video del 2005 Marcus non ha solo sostituito la coppola un po’ fusion con il cappello traveller da vero bluesman. Ha sperimentato con i The Blue Poets un nuovo genere e più che sperimentazione qui stiamo ascoltando il vero e proprio risultato di un patto con il diavolo fatto in un incrocio dell’Alabama. La risata un po’ cupa e un po’ blue in Goodbye vuole forse ricordarci il ghigno di Lucifero che dona il blues come nelle leggende di Robert Johnson tramandate da padre in figlio tra Louisiana e Mississippi?

Il tocco blues non è solo nell’accarezzata delle 6 corde della Stratocaster bruciata, il blues e la sofferenza del blues sta nella bella voce di Gordon Gray, pulitissima negli stop and go, carica di sofferenza e intensità nella ballatona With Your Eyes e piena di energia in pezzi decisamente rock come Too High. Belzeblues a parte, non è però una mera rivisitazione di Stevie Ray in chiave 2000, in tutte le tracce c’è un tocco fusion e a tratti un po’ funky del basso di Markus Setzer e la potenza animalesca rock della batteria di Felix Dehml. La ritmica segue eccelsamente e non è adombrata dall’estasi chitarristica, anzi ne è esaltata e la prova diabolica in chiave di blues sta nella track centrale, rivisitazione ben riuscita del superclassico di Mr Slowhand e dei Cream. La Sunshine Of Your Love dei Poeti è essa stessa rivestita di nuova poetica, dove tutti gli strumenti (voce compresa) hanno il loro spazio e si equilibrano in un’estasi medianica che rompe il muro del suono. The Blue Poets non sono solo dei tecniconi (non c’è trucco e non c’è inganno: album registrato completamente in analogico), sono dei menestrelli erranti che risalgono il delta dell’Elba con in spalla la propria chitarra e le loro storie di amori tristi e infranti (Goodbye, Sad, Sad, Sad) e vite sofferte nel blues (It’s About Time) esattamente come un tempo John Lee e Robert Johnson risalivano il Mississippi raccontando le loro storie.

Siamo di fronte a una lega anseatica del blues? Speriamo di sì, e speriamo che la lega estenda il suo dominio live al di fuori delle terre teutoniche anche perché The Blue Poets è senza ombra di dubbio uno tsunami blues che vale la pena ascoltare.

Autore: The Blue Poets

Titolo Album: The Blue Poets

Anno: 2016

Casa Discografica: Triple Coil Music

Genere musicale: Rock Blues

Voto: 8,5

Tipo: CD

Sito web: www.thebluepoets.com

Membri band:

Marcus Deml – chitarra

Gordon Grey – voce

Felix Dehmel – batteria

Markus Setzer – basso

Tracklist:

  1. Goodbye

  2. Too High

  3. Sad, Sad, Sad

  4. Sunshine Of Your Love

  5. Shallow Words

  6. It’s About Time

  7. For A God

  8. Won’t You Suffer

  9. The Truth

  10. With Your Eyes

Category : Recensioni
Tags : Rock Blues
1 Comm
27th Set2016

Joe Bonamassa – So, It’s Like That

by Ottaviano Moraca

Joe Bonamassa - So, It’s Like ThatOggi vi parliamo di quello che può essere considerate il vero debut album del fenomenale chitarrista statunitense. Questo album, diversamente dal predecessore, è infatti composto da materiale completamente inedito e scritto da Bonamassa. Non stiamo quindi più ascoltando delle riproposizioni o delle cover ma dei brani nuovi che, spoiler alert, vi lasceranno il sorriso sul viso… quando non sarete impegnati a cantarli! Fatemi spendere due righe per introdurre questo poliedrico artista che ha conquistato una notevole fama come virtuoso delle sei corde ma che ancora non gode della fama che meriterebbe. Per dare delle coordinate a chi ancora non lo conoscesse potremmo paragonarlo all’Eric Clapton degli anni ’70. Non tanto per il genere proposto, che a distanza di oltre 40 anni ovviamente è differente, ma per il livello di innovazione che introduce nel suo genere: rock blues. L’opener del disco è My Mistake brano articolato che strizza l’occhio all’altrnative rock più melodico ma con una classe e un gusto davvero rari. La scena viene presto rubata dalla lodevole intro di Lie #1 altro brano chiaramente rock dove è la melodia trascinante a farla da padrona… e attenzione al solo! A seguire No Slack il primo dei brani più sofferti e cadenzati di questo album. Non è lento comunque, più che altro è ipnotico il suono effettato della chitarra che rimane protagonista anche nella successiva Unbroken caratterizzata da stop & go e da sonorità da applauso. Non a caso ci sono orde di chitarristi indemoniati che cercano di riprodurre il sound di Joe.

Ultimi 30 secondi da cardiopalma prima di So, It’s Like That con cui si torna al blues, e alla grande. Questo è il terreno di caccia preferito di Bonamassa, che infatti non lo ha mai negato e si sente. Semplicemente imperdibile il solo. Resta il rammarico che il brano duri troppo poco. E così siamo arrivati al momento più lento e introspettivo dell’album con Waiting For Me che non rinuncia comunque ad un certo mordente e con Never Say Goodbye che ci delizia con l’alternanza tra parti cadenzate e altre decisamente più vivaci. Mountain Time si distingue soprattutto per il bellissimo attacco della band sopra la chitarra acustica iniziale. Un pezzo veramente riuscito anche se è con i successivi due brani che si tocca il vertice di questo album. Iniziamo con Pain And Sorrow dall’intro fantastico e dal pazzesco riff iniziale. I suoni sono un mix di classico e moderno che piace davvero e la struttura del brano è arzigogolata come i numerosi solo che si susseguono per tutto il pezzo: definirlo sperimentale sarebbe riduttivo. Qui in 10 minuti si spazia tra rock e blues con qualche deviazione nel territorio proprio del jazz. Si torna al rock d’autore con Takin’ The Hit che porta in dote un grande riff, un gran tiro e nuovamente un solo spettacolare in cui la chitarra di Joe sembra davvero cantare.

Non fa calare il ritmo la successiva Under The Radar che picchia forte dalle parti del miglior rock melodico ma, attenzione, senza rinunciare ad un pizzico di cattiveria. Stesso discorso per Sick In Love pregevolissimo pezzo dal groove molto interessante e dal ritmo tormentato. Sempre in evidenza l’ispiratissimo assolo ma più canonica la struttura del brano. Chiude questo brillante album la struggente e di nuovo movimentata The Hard Way che di nuovo fonde momenti da luci soffuse con un riffing graffiante e dei crescendo emozionanti. E quando pensate che il brano sia finito… dopo alcuni secondi di silenzio ecco una specie di bonus track. Cadenzata, mutevole, inaspettata e nuovamente ipnotica ci accompagna alla vera fine del lavoro lasciandoci in bocca il sapore di un suono magico come non ne sentivamo da tempo.

Quello che non finirà mai di stupire di questo artista sono i suoni. Descrivere a parole qualcosa che si può solo ascoltare è sempre difficile ma dovendo fare una proporzione azzardata direi che Bonamassa sta al blues come Satriani sta al metal. Insomma, forte di un tocco pulitissimo Joe Bonamassa ci regala delle sonorità che spaziano dal classico blues all’hard rock ma personalizzate da una liquidità e da una pasta ancora inedite. Grande lavoro insomma e debutto da incorniciare con promozione a pieni voti anche alla voce composizione. Consigliatissimo anzi imperdibile.

Autore: Joe Bonamassa

Titolo Album: So, It’s Like That

Anno: 2002

Casa Discografica: J&R Adventures

Genere musicale: Rock Blues

Voto: 8

Tipo: CD

Sito web: http://www.jbonamassa.com

Membri band:

Joe Bonamassa – chitarra, mandolino, voce

Eric Czar – basso

Kenny Kramme – batteria

Matt Wilcox – tastiera

Tracklist:

  1. My Mistake

  2. Lie #1

  3. No Slack

  4. Unbroken

  5. So, It’s Like That

  6. Waiting For Me

  7. Never Say Goodbye

  8. Mountain Time

  9. Pain And Sorrow

  10. Takin’ The Hit

  11. Under The Radar

  12. Sick In Love

  13. The Hard Way

Category : Recensioni
Tags : Rock Blues
0 Comm
Pagine:«123456789»
« Pagina precedente — Pagina successiva »
  • Cerca in RockGarage

  • Rockgarage Card

  • Calendario Eventi
  • Le novità

    • Ikitan – Twenty-Twenty
    • Erika Skorza – I’m A Big Bluff
    • Luca Worm – Now
    • In-Side – Life
    • Simone Cicconi – Cosa Potrebbe Mai Andare Storto?
  • I Classici

    • Camel – On The Road 1972
    • Saxon – Wheels Of Steel
    • Vanadium – Nel Cuore Del Caos
    • Fu Manchu – The Action Is Go
    • Quiet Riot – Hollywood Cowboys
  • Login

    • Accedi
  • Argomenti

    Album del passato Alternative Metal Alternative Rock Avant-garde Black metal Cantautorale Crossover Death metal Doom Electro Rock Folk Garage Glam Gothic Grunge Hardcore Hard N' Heavy Hard Rock Heavy Metal Indie Rock Industrial KISS Libri Metalcore Motorpsycho Motörhead New Wave Nu metal Nuove uscite post-grunge Post-metal Post-punk Post-rock Power metal Progressive Psichedelia Punk Punk Rock Radio Rock Rock'N'Roll Rock Blues Stoner Thrash metal Uriah Heep
Theme by Towfiq I.
Login

Lost your password?

Reset Password

Log in