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18th Giu2021

Saxon – Inspirations

by Giancarlo Amitrano
La conclusione, almeno ad oggi, dell’avventura frenetica del quintetto dello Yorkshire avviene con l’ennesima prova cui i medesimi intendono sottoporsi ovvero la di solito temuta riproposizione di brani altrui. Un album di cover è sempre esercizio di difficile interpretazione: varie possono essere le ragioni che a ciò spingono, in primis (a voler ovviamente malignare) quella economica, nonostante tutte le smentite di sorta e le buone intenzioni di chi vi si sia già cimentato. Ma, nel caso dei nostri inossidabili, non vi è alcuno di questi motivi alla base della decisione di confrontarsi con classici (e che classici!) di un leggendario passato: è lo stesso singer a dissipare ogni ragionevole dubbio, affermando sin dal principio che la loro scelta è maturata unicamente nell’ambito di un ampio esame intro e retrospettivo, ovvero dimostrare a se stessi di poter essere in grado di esibirsi su tracce non originali, specialmente quando di queste (sempre secondo Byff) pochissime sono già state cantate o suonate. Ecco quindi 11 brani che spaziano tra generi apparentemente diversi tra loro, ma sempre accomunati dalla comune passione di un sano hard’n’heavy di fabbrica britannica: si parte, dunque, con un brano “crack” come Paint It Black in cui Byff domina sin da subito la scena, non rubando nulla al buon Mick Jagger, rendendo anzi la versione ancor più fresca ed attuale, con un drumming moderno ed intenso, cui non è estranea una produzione chiara e pulita, mentre le chitarre procedono spedite e sapienti verso la linea sonora del brano che consente una uniformità di esecuzione senza appiattimenti.

La successiva Immigrant Song non ha bisogno di presentazioni: “Robert Plant teletrasportato nel ventunesimo secolo”, sarebbe la definizione più azzeccata per come la band prende di petto la traccia con il cantato aggressivo di Byford, la batteria aggressiva ed impetuosa che in un con le chitarre riesce, in meno di tre minuti, ad infiammare anche gli amplificatori più moderni e con certo maggior wattaggio rispetto a quelli dell’epoca di Page e Co. Si passa poi a Paperback Writer ed il “dovuto” omaggio alle leggende di Liverpool: i quattro “scarafaggi” vengono qui onorati con una ancora entusiasmante prestazione vocale di Byford, mentre sezione ritmica ed asce appaiono miracolosamente “giovanili” nell’esecuzione, non sbagliando di una virgola entrate, battute e stacchi, mentre il ritornello è piacevolmente gradevole, attualissimo e senza sbavatura nemmeno nei brevissimi momenti di relativa calma del pezzo. Accidenti, che impressione ascoltare una sontuosa versione di Evil Woman: Tony Iommi e soci non potrebbero essere più soddisfatti della resa che ne fanno gli albionici. Luciferino ed indiavolato il buon Byff, svizzero di precisione il drumming di Glockler, sontuoso il basso di “Nibbs” Carter, mentre la coppia Quinn/Scarrat si concede il suo momento di notorietà con un solo impeccabile anche nella sua relativa brevità, ma che consente riandare con la memoria ai gloriosi anni 70 di sabbatiana memoria, pur se la titolarità del brano è appannaggio dei The Crow, ricordando tuttavia la migliore esecuzione sino ad ora fornita, ovvero appunto quella di Ozzy e compagni.

Con Stone Free  anche la Jimi Hendrix Experience viene omaggiata secondo dazio ed in questo caso sono le asce, ovviamente, a passare in primo piano con una linea sonora di indubbio valore che non mette certo in retroguardia il vocione di Byff altrimenti impossibile da limitare, ma che certo predilige esaltare maggiormente il lavoro delle sei corde. Ed ora, cosa arriva? Forse, l’omaggio più sentito: Bomber è il saluto commosso e voluto che i Saxon tributano all’amico ed alla band di sempre. Vengono i brividi a riascoltare uno dei cavalli di battaglia di Lemmy reinterpretato a modo suo da Byff e soci, con il canto del primo ad avvicinare vette ineguagliabili ed il resto della band partire in quarta per quella che pare una jam infinita e magistralmente condotta dalle chitarre che chiudono degnamente il brano. Cosa dire di Speed King ? Che Ian Gillan si è reincarnato nelle corde vocali di Byff, lo guida verso la migliore esecuzione possibile e che quest’ ultimo non si vergogna del “dono” fattogli e lo ripaga con una prestazione magica ed incredibilmente attuale, mentre la coppia Quinn/Scarrat si incammina verso un assolo mortifero che non lascia prigionieri nel raggio laser del CD o del vinile, per gli affezionatissimi dell’amato acetato. Ecco anche Phil Lynott entrare a far parte del club degli “omaggiati” ed in questo caso, non viene meno la vena blueseggiante e rockeristica dei Nostri, con Byff a destreggiarsi bene anche su tempi meno infuocati ma altrettanto coinvolgenti come il brano in questione: è un piacere ascoltare il singer dichiararsi più volte, appunto, un rocker di razza…e vorrei vedere, con oltre quaranta anni di onorata, polverosa e meritata carriera a tutto tondo, sempre all’insegna di asce sparate a tutto watt come anche in questo frangente.

L’esecuzione di Hold The Line è ancora una volta di livello: i Toto di Steve Lukather avranno di certo ascoltato e gradito, un Byff molto vicino alle sonorità di Bobby Kimball e David Paich, ma con quel tocco di suo personale ed incisivo che dona vigore ad uno dei brani cult della band del mai dimenticato Jeff Porcaro, aggiungendovi inoltre un assolo potentissimo e da sballo, il risultato non può che essere di assoluta approvazione. Ecco che anche il ricordo di Bon Scott viene adempiuto: con Problem Child si completa l’omaggio alle band storiche che i Nostri compiono con una interpretazione sontuosa che il mai troppo rimpianto singer (la cui morte assurda grida ancor oggi vendetta e sdegno) avrebbe di certo gradito mentre tracannava una solida birra Ale, magari strizzando l’occhiolino ed annuendo agli assoli di Paul Quinn e Doug Scarrat che piacerebbero ovviamente anche ad Angus Young. Si chiude con See My Friends ed il cerchio è completo: il brano dei Kinks assurge a nuova vita con una interpretazione notevole dei nostri eroi: viene fuori anche la vena romantica del quintetto, alla fine mai sopita e senza che questa intacchi il valore del brano, molto “rilassato” e tale da consentire a tutti i musicisti di indulgere maggiormente sulle note di una traccia che ben omaggia Ray Davies e la sua band, oltre che nobilitare tutto l’album in una ottica non di puro e semplice “revisionismo” storico, ma di una più completa rivisitazione di ciò che, volenti o nolenti, ha influenzato tutto quello che è venuto dopo.

Autore: Saxon Titolo Album: Inspirations
Anno: 2021 Casa Discografica: Silver Lining
Genere musicale: Heavy Metal Voto: 7
Tipo: CD Sito web: www.saxon747.com
Membri Band:
Byff Byford – voce
Doug Scarrat – chitarra
Paul Quinn – chitarra
Tim Carter – basso
Nigel Glockler – batteria
Tracklist:
1. Paint It Black
2. Immigrant Song
3. Paperback Writer
4. Evil Woman
5. Stone Free
6. Bomber
7. Speed King
8. The Rocker
9. Hold The Line
10. Problem Child
11. See My Friends
Category : Recensioni
Tags : Saxon
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11th Giu2021

Saxon – Thunderbolt

by Giancarlo Amitrano
Non vi sono limiti all’inventiva de Nostri: dopo aver assaporato in tutte le sue sfaccettature il carrozzone metallico, il quintetto si ritrova sul groppone 4 decadi di onoratissima carriera senza risentirne affatto, riuscendo anzi ad evolversi di volta in volta attraverso azzeccatissime scelte musicali che si sono susseguite nel corso dei vari lenght sin qui sfornati. Ed accade esattamente la stessa cosa anche con l’odierno lavoro, che li vede nuovamente sulla breccia e con la freschezza e la carica di sempre, che si intuisce sin dall’intro della a tratti marziale e drammatica Olympus Rising, che ha il grande merito di introdurre con una vena molto intensa la successiva titletrack, data in pasto così, d’acchito, da far pensare che la band stavolta non intenda avere alcun momento morto all’interno del disco, mantenendo sempre alta tensione e concentrazione, grazie alla partenza sparata e del cantato di Byff e della sezione ritmica lanciata e tirata al massimo, mentre la coppia di asce segue pari pari ogni evoluzione con precisione ed attenta ad intervenire con il suo assolo al momento opportuno. The Secret Of Flight è assordante e potente nel suo intro di chitarra ed al tempo stesso maestosa e quasi “power” nell’incedere del drumming notabile di Glockler. Byff sugli scudi con la sua voce sempre cartavetrata e nel contempo di notevole impatto, mentre gli axeman accompagnano compassatissimi ogni nota della traccia, il cui refrain è abbastanza simpatico e gradevole per poi diradare in un tecnicamente impeccabile solo centrale che raggiunge anche picchi epici per le note qui molto trattenute ed allungate con perizia.

Nosferatu mostra la band nella sua luce più cupa e scura: è una piacevole sorpresa ascoltare il quintetto concentrato nella drammatizzazione delle atmosfere metalliche al servizio di testi tetri e spettrali. Il giusto tono dato dal singer, unito ad inquietanti tastiere di sottofondo, ci trascina in ambiti a tratti gotici che avrebbero fatto la fortuna di tante band cosiddette sataniche: nel nostro caso, Byff riesce a coinvolgere l’uditorio con una prestazione non indifferente che necessariamente riesce a chiamare in causa in seguito anche la coppia di chitarre che qui si scatena in una invasata danza sabbatica a sei corde. Si giunge cosiì ad un brano “nostalgia”: They Played Rock And Roll è un sincero e sentito omaggio e ringraziamento che la band formula agli altri gruppi che hanno condiviso con essi le gloriose e difficili fasi iniziali della carriera, tra alti e bassi; è in particolare all’amico devoto Lemmy che i Sassoni rivolgono il loro affettuoso saluto, mantenendone vivo il ricordo con una prestazione in tema all’argomento trattato, adoperando quindi tempistiche e stacchi frenetici ben concentrati anche nella durata “classica” del brano, ovvero i circa tre minuti. Anche Predator non si discosta dalla traccia precedente, mantenendo alta tensione e concentrazione, che viene se possibile acuita anche da cori gutturali da growl dell’ospite Johan Hegg degli Amon Amarth: il contrasto tra le due esecuzioni vocali è al tempo stesso stupefacente ma anche ben azzeccato nell’ambito della traccia, resa così doppiamente interessante ed al cui termine si resta ben colpiti proprio da questa diversa interpretazione tra “classico” e “arrembante”.

Sons Of Odin si tiene nella scia di quanto sinora ascoltato, aggiungendo inoltre quel quid di maestoso ed epico che rimanda ad echi ottantiani che un album come Crusader ha fatto suoi a piene mani, come lascia ben intendere l’interpretazione del gruppo che si tiene ben strette tempistiche e tematiche d’assalto tanto care. Si rialza di brutto l’asticella con l’ascolto di Sniper, dato che le asce stavolta non si frenano nel loro impeto, consentendo a Byff di essere in piena forma di screamer, pur nell’ambito di una traccia tutto sommato abbastanza elementare, senza tuttavia tralasciare ogni dettaglio tecnico che porti il brano ad un valido e degno sviluppo senza difettare in energia e potenza. A Wizard’s Tale è un altro brano potente ed invasivo, con Byff che stavolta si lascia “aiutare” molto dai background vocali che effettivamente rafforzano e di molto il già veloce andazzo del brano, che per il resto mostra momenti di rilassamento che non giovano alla causa. Ci si avvia a chiudere con Speed Merchants e con il classico stile della band che fa molto uso di grancassa e pedali, mentre le due chitarre fanno a gara nel mostrare ancora una volta la consolidata abilità tecnica ed esecutiva, mentre Byford torna a ruggire come ai bei tempi su tonalità che parrebbero non essere più nelle sue corde, cosa invece ampiamente smentita dai fatti.

Il sipario si chiude con Roadie’s Song, una sorta di omaggio che la band tributa stavolta a tutto il backstage del mondo metallico, senza il quale lo spettacolo non andrebbe avanti: Byff si mette dunque d’impegno per ben eseguire le parti cantate di un brano che omaggia per certi versi ancora una volta gli amici di sempre, quei Motorhead di We Are The Road Crew, portati nuovamente alla ribalta da una sincera amicizia tra le due band, con il combo dello Yorkshire che si mostra ancora una volta due spanne sopra tutti gli altri, anche dopo ben 22 album.

Autore: Saxon Titolo Album: Thunderbolt
Anno: 2018 Casa Discografica: Silver Lining Music
Genere musicale: Heavy Metal Voto: 7
Tipo: CD Sito web: www.saxon747.com
Membri Band:
Byff Byford – voce
Paul Quinn – chitarra
Doug Scarratt – chitarra
Tim Carter – basso
Nigel Glockler – batteria
Tracklist:
1. Olympus Rising
2. Thunderbolt
3. The Secret Of Flight
4. Nosferatu
5. They Played Rock And Roll
6. Predator
7. Sons Of Odin
8. Sniper
9. A Wizard’s Tale
10. Speed Merchants
11. Roadies Song
Category : Recensioni
Tags : Saxon
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04th Giu2021

Saxon – Sacrifice

by Giancarlo Amitrano
Con il quintetto dello Yorkshire non si corre mai il rischio di annoiarsi: il segreto, fra gli altri, è quello di trovare sempre spunti migliorativi. In questo caso l’asso nella manica è rappresentato dalla produzione, affidata stavolta ad una vecchia volpe quale Andy Sneap che di qui a qualche anno troverà il giusto riconoscimento venendo cooptato nientemeno che dai “Preti di Giuda” in sostituzione di Glenn Tipton. In questo caso l’abilità alla consolle si riscontra ampiamente nella esecuzione dei brani, donando a ciascuno strumento quel quid di energia e potenza quando occorre, rallentando invece le tempistiche al momento opportuno. Si parte, dunque, con il breve intro di Procession, dalle atmosfere cariche di pathos che ci preparano alla battaglia totale del lenght, che parte in quartissima con la titletrack, rombante al massimo di chitarre potentissime e con lo screaming di Byff che ci rituffa nelle caverne metalliche dei gloriosi anni 80, dove voce e sezione ritmica si uniscono in un vulcano eruttivo di rara potenza, mentre la coppia Quinn/Scarratt compie mirabilie con la sua energia ottimamente amalgamata che si sublima in un solo centrale di portata squassante.

Si procede con Made In Belfast ed il suo intro molto “irlandesizzato” con la chitarra iniziale che ben si adegua ai tempi vari e molto staccati dal punto di vista di Glockler: a ciò si unisca anche una evidente e chiara post-produzione che contribuisce se possibile a pompare maggiormente il brano verso una ottima e pulita esposizione soprattutto del refrain, mentre l’assolo a sei corde non manca di guadagnare altri consensi. Warriors Of The Road, oltre ad essere un chiaro omaggio della band alla Formula 1, è anche un cazzotto ben assestato dal combo, che qui si lascia andare e richiamare alla potenza che ancora è capace di sfornare: anche il cantato non si discosta dal grezzo e selvaggio, con Glockler che dosa bene crash e rullanti, facendo ampio uso anche della grancassa in una coinvolgente fase centrale fressa ed arroventata. Guardians Of The Tomb inizia con echi vagamente orientaleggianti, ma non inganni il “siparietto” in stile Sol Levante, dato che ben presto il brano si rivela connotarsi di “epic” specie nel cantato e nella esposizione del ritornello; magari non è una proposta originalissima, tuttavia la caratteristica che salta agli occhi è il drumming ancora sapiente di Glockler che trattiene al massimo le battute per consentire alle asce di risaltare maggiormente, in un validissimo gioco di squadra. Con Stand Up And Fight, in verità, iniziamo a sentire odore di affievolimento; sin dal titolo, la traccia non propone alcunché di memorabile, rendendosi conto all’ascolto che anche il cantato di Byff non trova soverchie ispirazioni, limitandosi a fare il compitino anche nell’estensione vocale, senza eccessivi affaticamenti e di routine.

Walking The Steel è un brano mid-tempo, su questo non ci piove; tuttavia, anche in questo caso, la traccia  non si eleva di molto rispetto alla precedente, pur essendo leggermente più coinvolgente e dalle liriche sicuramente maggiormente lavorate ed articolate, mentre le asce sono certamente brave nei loro arpeggi ma senza essere troppo intense, pur con il loro buon momento solistico. Night Of TheWolf risolleva leggermente le sorti del disco, con stavolta una degna prestazione molto intensa del singer, alla quale danno manforte le due chitarre che con i loro ghirigori riescono a colorire bene le partiture di un brano altrimenti non entusiasmante, pur impreziosito da una corposa e valida prestazione solista pur breve nella sua intensità. Wheels Of Terror riesce a risollevare nuovamente lo stallo in cui si è spesso caduti nell’ascolto dell’album: ancora una traccia dai tempi molto mid, ma che a differenza degli altri brani evidenzia un buon lavoro di chitarra ed una melodia che non mancherà di essere inserita nella set list live. Byff ritrova ruggito e spinta per ben declamare le magiche atmosfere del brano, magari elementare nella struttura ma di buon impatto emotivo e di livello più che degno.

Si chiude con Standing In A Queue, brano che vede i Nostri trasformarsi nei cugini di Angus Young! Eh sì, perché il brano appare clamorosamente una cover, alla lontana, di una famosa hit all’epoca portata alla leggenda dal mai troppo rimpianto Bon Scott: intendiamoci, lo stile è sempre quello britannico reso famoso dal singer di Honley, ma le assonanze con il combo australiano sono evidenti, tali da rendere il pollice di chi ascolta clamorosamente “versus”. Eppure, non manca un buon lavoro delle asce a rendere intenso un brano che chiude un album con cui il gruppo si gioca l’eventuale jolly di credibilità, ancora ovviamente a credito per la band.

Autore: Saxon Titolo Album: Sacrifice
Anno: 2013 Casa Discografica: Udr
Genere musicale: Heavy Metal Voto: 6
Tipo: CD Sito web: www.saxon747.com
Membri Band:
Byff Byford – voce
Paul Quinn – chitarra
Doug Scarratt – chitarra
Tim Carter – basso
Nigel Glockler – batteria
Tracklist:
1. Procession
2. Sacrifice
3. Made In Belfast
4. Warriors Of The Road
5. Guardians Of The Tomb
6. Stand Up And Fight
7. Walking The Steel
8. Night Of The Wolf
9. Wheels Of Terror
10. Standing In A Queue
Category : Recensioni
Tags : Saxon
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28th Mag2021

Saxon – Into The Labyrinth

by Giancarlo Amitrano
Si esaurisce anche la prima decade del nuovo millennio ma nessun granello di polvere pare addensarsi sulle pellacce dei Nostri: proseguendo nella sua consolidatissima ricerca di miglioramenti, la band non si allontana dai suoi canoni classici, sfornando un altro album di assoluto spessore, ma assolutamente evitando di cadere nella facile lusinga della ripetitività. Conservando ancora la line up originale, il gruppo può automaticamente trovare in fretta l’ispirazione per offrire tracce di valore, a cominciare dall’epica Battalions Of Steel chevede il gruppo fornire una se possibile ancor maggiore furia metallica all’interno di un brano dalle forti connotazioni dark in un crescendo tecnico non indifferente, capitanato dalla sontuosa voce del singer e dalle asce che rimarcano facili ma infallibili arpeggi a sei corde che supportano ottimamente la base del brano. Live To Rock è il singolo dell’album, ma questo non deve trarre in inganno: la vena ridanciana della traccia si inserisce all’interno dell’idea che la band vuole fornire, ovvero di essere sempre e comunque sul pezzo nel vero senso del termine, senza perdere di intensità nemmeno al cospetto di una traccia apparentemente semplice e di facile ascolto.

La seguente Demon Sweeney Todd ha quel quid di poderoso che si intuisce sin dalle prime note: Byff parte per la tangente, imbarcandosi in una cavalcata vocalmente impeccabile che sfocia in un ritornello godibilissimo e di facile ricezione. Non vi sono cedimenti di sorta nell’esecuzione della traccia che è al tempo stesso speed e delicata, specie nell’interpretazione del refrain, mentre le chitarre sono sempre aggressive ed oggettivamente molto intense. The Letter si pregia dell’esecuzione in coppia del duo Scarrat/Quinn che fanno a gara per dimostrare la loro abilità, tanto da ricordarci esecuzioni di qualche decade addietro senza apparire eccessivamente oltraggiosi verso le precedenti esibizioni dei Nostri: ma il brano non risente di tali paragoni, reggendo anzi bene la vena metallica del gruppo anche in tale frangente. Valley Of The Kings ha una struttura molto più canonica, dall’incedere maestoso e quasi epicheggiante con la sua marcia impetuosa dettata ancora da chitarre fresse e drumming che Glockler rende intenso con l’uso sapiente della grancassa, che serve a far risaltare anche un bel coro intenso e partecipato. L’accostamento blues/metal spesso è apparso irrispettoso, ma quando viene concepito ed eseguito con la bravura di una band come la nostra non può che entusiasmare: Slow Lane Blues, infatti, non riesce a non entusiasmare per la tecnica che ci viene qui proposta ed abbinata ai canoni di un genere che può apparire lontano anni luce dal metal, ma che invece ha molto in comune per le basi armoniche alla base di ambo i mondi e qui ne viene dato esempio fulgido.

Crime Of Passion probabilmente è la traccia meno riuscita: appare quasi un filler per l’eccessivo uso delle chitarre troppo proiettate nel “moderno”, ovvero sganciate stavolta dai parametri classici adoperati di solito dai Nostri, mentre Premonition in D Minor è un breve esercizio a sei corde, pur se infuocato e di buon livello, il tutto per introdurre la seguente Voice e la voce del singer molto affabile e a modo, ma altrettanto arrabbiata nella sua esecuzione che, a causa della struttura del brano, si manifesta molto in divenire ed in progressione solida ed armonica, con il marchio di fabbrica della timbrica inconfondibile. Protect Yourselves si “candida”, per così dire, ad altro brano del disco: la buona volontà e di Byff e degli altri di mettere in piedi una traccia credibile, stavolta non riesce perché la medesima è troppo caciarona, con tanto di coro ripetuto ad oltranza e drumming opprimente sì ma senza quel quid in più che resti in mente. Hellcat fa destare dal torpore del brano precedente, ma senza anch’esso entusiasmare, trattandosi di brano molto elementare, dove stavolta l’hard’n’roll scivola via senza infamia e senza lode, mentre Come Rock Of Ages vede nuovamente la coppia di asce alla ribalta, che accompagnano bene il singer nell’esecuzione di una traccia gradevole, poco elettrificata ed a tratti molto mid-tempo.

Chiude Coming Home e la sua versione leggermente diversa da quella già offerta in Killing Ground, che anche in questa occasione non delude gli aficionados per la sua vena a tratti romantica e strappalacrime che specie nei fan della prima ora non mancherà di essere motivo di vanto per aver avuto una band simile quale paladino dei veri “difensori” della fede”.

Autore: Saxon Titolo Album: Into The Labyrinth
Anno: 2009 Casa Discografica: Spv
Genere musicale: Heavy Metal Voto: 7
Tipo: CD Sito web: www.saxon747.com
Membri Band:
Byff Byford – voce
Paul Quinn – chitarra
Doug Scarrat – chitarra
Tim Carter – basso
Nigel Glockler – batteria
Tracklist:
1. Battalions Of Steel
2. Live To Rock
3. Demon Sweeney Todd
4. The Letter
5. Valley Of The Kings
6. Slow Lane Blues
7. Crime Of Passion
8. Premonition In D Minor
9. Voice
10. Protect Yourselves
11. Hellcat
12. Come Rock Of Ages
13. Coming Home
Category : Recensioni
Tags : Saxon
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21st Mag2021

Saxon – The Inner Sanctum

by Giancarlo Amitrano
Sul punto di chiudere anche la prima decade del nuovo millennio, la band britannica non ha alcuna intenzione di ammainare bandiera bianca o cedere il passo alle nuove (cosiddette) leve: con il ritorno alla batteria di Glockler, il combo albionico trova ulteriori stimoli energetici per volare nuovamente con il vento in poppa, facendolo stavolta con un album che lascia nuovamente stupiti per la bontà ed il suo valore. A partire dall’artwork, si capisce che il prodotto finale sarà più che degno, così come il processo di registrazione è stato diverso dal solito, affidandolo sì al sempre buon Bauerfeind ma componendolo in sessioni diverse per ottimizzarne gli esiti. Ed allora si parte sparati con State Of Grace e con un intro molto dark, sul quale torreggia in fretta il drumming impeccabile del redivivo Glockler, mentre Byff si carica il brano sulle spalle con il suo vocione imponente e la coppia di asce svolge alla grande il proprio lavoro, caricando quando occorrente la nota per permettere il corretto svolgimento della traccia, che a metà durata torna sugli intro iniziali per rafforzarne l’enfasi. Need For Speed ed il cantato di Byff prendono a pugni l’età anagrafica del singer, martellando di brutto sulle note con la sua timbrica qui ossessiva ed aggressiva che rende bene l’energia di tutto il pezzo, mentre la coppia di asce non si tira indietro nel destreggiarsi bene lungo la durata classica del brano, che procede regolare ed elettrico.

Con Let Me Feel Your Power è ancora il drumming superbo di Glockler a tenere ritmi infernali, sui quali ben si innesta la voce di Byff che velocizza ed accorcia a dovere le note per giungere in fretta ad un solido refrain e consentire così al duo Quinn/Scarratt di esibirsi in un assolo infuocato ed in una linea sonora tutt’altro che disprezzabile, fressa anzi il giusto per emozionare. Si rallenta notevolmente con Red Star Falling ma il risultato è lungi dall’essere deludente, trattandosi invece del probabile pezzo top dell’album: la voce di Byff è drammatica, enfatica ed enunciativa di sventure e sciagure sempre pronte ad abbattersi sul genere umano, a meno che non sia la stessa Stella Rossa cadente a salvarci dai disastri, mentre le semiacustiche rendono il brano altamente intenso ed al tempo stesso potente, oltre a sfoggiare l’ennesimo solido lavoro d’insieme. I’ve Got To Rock riveste i canoni classici di un brano hard’n’roll: ancora drumming in evidenza, con annessa sezione a sei corde ancora sopra le righe e stavolta anche a disegnare linee melodiche di inattesa gradevolezza, che lungo tutto il brano non vengono mai meno ed anzi si realizzano alla grande con un solo centrale di notevole intensità. Come singolo viene scelto If I Was You e la decisione lascia leggermente sorpresi: non trattasi, infatti, di un brano memorabile, pur se con qualche pregio di non poco conto, tra cui lo stesso ritornello che Byff provvede ad interpretare in maniera molto aggressiva, “costringendo” così anche le chitarre a lavorare di fioretto e sciabola contemporaneamente con dei soli molto azzeccati pur nell’ambito di un brano dalla durata classica di “tre-minuti-tre”.

Going Nowhere Fast ci ripropone i Nostri in versione “canguro”, non sono pochi, infatti, gli spunti musicali del brano che qui li accomunano alla gloriosa band di Angus Young: il brano poggia su di un’unica ma solida base di chitarra che accompagna il cantato sino alla fine attraverso un semplice ma coinvolgente ritornello, su cui fortunatamente si innesta un altro buon solo degli axeman, che sono bravi a tornare a bomba nella parte finale con la medesima costruzione iniziale del brano. Altrettanto non memorabile la successiva Ashes To Ashes, che potrebbe essere benissimo “ridotta” a filler dell’album, se non fosse che ascoltando Byff ci si lascia piacevolmente colpire dalla timbrica ancora potente, pur se il successivo refrain è tra i meno riusciti della storia del gruppo, che si limita a portare a termine il compito pur con la consueta abilità e tecnica. L’intro strumentale di Empire Rising ci porta dritti all’altra traccia memorabile che chiude l’album: Atila The Hun è una gemma dal valore inestimabile, pronta a travolgere tutto e tutti in un’ideale tenzone metallica: le danze vengono condotte mirabilmente dal singer che qui assume i panni dello screamer dei bei tempi, mentre sezione ritmica ed asce sono torride più che infuocate: ritornello sparato a pieni watt e traccia ideale per scatenare l’inferno in battaglia, come puntualmente avverrà di lì a qualche anno in una loro esibizione al Wacken Open Air, dove all’esecuzione del detto brano l’audience si sentirà trasportata oltre il muro del suono: quale brano migliore dunque per chiudere degnamente un altro album storico del quintetto del Lincolnshire?

Autore: Saxon Titolo Album: The Inner Sanctum
Anno: 2007 Casa Discografica: Spv
Genere musicale: Heavy Metal Voto: 7
Tipo: CD Sito web: www.saxon747.com
Membri Band:
Byff Byford – voce
Doug Scarratt – chitarra
Paul Quinn – chitarra
Tim Carter – basso
Nigel Glockler – batteria
Tracklist:
1. State Of Grace
2. Need For Speed
3. Let Me Feel Your Power
4. Red Star Falling
5. I’ve Got To Rock
6. If I Was You
7. Going Nowhere Fast
8. Ashes To Ashes
9. Empire Rising
10. Atila The Hun
Category : Recensioni
Tags : Saxon
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14th Mag2021

Saxon – Lionheart

by Giancarlo Amitrano
Nel pieno del nuovo millennio, la band può finalmente prendersi il lusso di registrare un album a casa propria! Infatti, Lionheart viene inciso in pieno Lincolnshire, ancora sotto la supervisione del buon Bauerfeind, già alla consolle dei precedenti più che validi lavori. Ancora un cambio di formazione, ed ancora dietro le pelli: a pestare sulla batteria stavolta è nientemeno che Jorg Michael appena reduce da buoni trionfi con gli Stratovarius. Il risultato è un ennesimo album a tutta birra, con il quintetto che, consolidato per 4/5, tira a bordo anche il nuovo batterista ad intensificare il sound ormai denotato e consolidato. Il lavoro di oggi si presenta anche con un occhio “alla storia” infatti, Witchfinder General ed il suo ritmo sfrenato sono consone all’argomento trattato, ovvero la caccia alla streghe del Medioevo e soprattutto all’Inquisitore Generale Matteo Hopkins, sinistramente ricordato per la sua crudeltà, mirabilmente portato sul grande schermo, peraltro, dal grande Vincent Price. Il sound è potente, pesante e cupissimo, tale da trascinarci letteralmente all’inferno delle torture e degli interrogatori, con tanto di riffoni e sezione ritmica scatenata in maniera inattesa.

Man And Machine prosegue nella sua energia, con Byff fresco e tosto ed incredibilmente “giovanile” nell’esposizione, mentre la band lo segue alla perfezione con il suo ritmo elettrico e metodicamente preciso nelle battute; il chorus appare molto intrigante anche grazie alla precisione che senza ricorrere ad alchimie particolari basa il tono della canzone su di un solo e semplice riff, ma che riff. L’atmosfera medievale di The Return è adattissima ad introdurre la titletrack con la sua enfasi iniziale a renderla successivamente fressa ed incandescente: ambo le asce fanno il loro dovere, mentre Byff recita letteralmente sulla scia di una strofa leggera e tuttavia molto coinvolgente, drammatizzata il giusto nelle parti necessarie, con la band a rendere ancora una volta la pariglia a tutte le potenziali band che tentano di ergersi ai loro eredi, potendone al massimo esserne dei semplici “usufruttuari”. Beyond The Grave si pregia di un ottimo intro semiacustico su cui in fretta si innesta un poderoso drumming del buon Michael, con il singer che stavolta adotta tempi molto più rilassati che riescono a tenere bene la linea sonora della traccia: sono molto compassate anche le sei corde, che lavorano in maniera elementare ma efficace, con l’economia del brano che non risente dei tempi volutamente rilassati, che tuttavia non tralasciano un sonoro lavoro solista a metà brano.

Justice non fa sconti sin dall’inizio: memore di ritmi sostenuti in precedenza, il brano si delinea a metà tra un sano hard’n’roll e momenti di puro power, che non sfigurano di certo nell’economia totale della traccia, ancora capitanata dal carisma di un signor cantante, i cui anni che iniziano ad avanzare non paiono pesare più del dovuto. La potenza di To Live By The Sword  è immediata: non si fanno sconti né prigionieri, con Byff che parte subito in quarta in una traccia stranamente quasi misconosciuta dal vivo, laddove il ritmo coinvolgente e frenetico farebbe molti scalpi nel pogo del pubblico. Gustiamoci, allora, il solido lavoro della band anche culminante in un signor assolo ed in una doppia cassa che davvero spacca. Jack Tars è un delicato interludio vocale ed acustico sul quale Byff può confrontarsi con la sua vena più romantica, pur sempre caratterizzata dal vocione inconfondibile, mentre la seguente English Man’o’ War torna a calcare le consuete praterie metalliche ed il singer torna a ruggire come a noi piace: la coppia Quinn/Scarratt non delude i fan e la sezione ritmica pare suonare assieme da tempo immemore, basando il tutto su di una precisione non indifferente ed una scatenata base ritmico-solista saggiamente distribuita lungo il brano.

Searching For Atlantis ci immerge in un’atmosfera magica, proprio alla ricerca della leggendaria città sommersa: c’è anche un delicato giro di tastiere a rendere ancora più affascinante il tutto, con Byff cui non par vero di ergersi a cantore di una delle leggende metropolitane più misteriose e che con il suo cantato riesce a rendere maggiormente intrigante, con gli strumenti che sembrano posseduti da una forza divina che gli consente di esprimere al massimo il loro potenziale, come puntualmente si avvera lungo la traccia.

Si chiude con l’ennesimo pugno nello stomaco che Flying On The Edge riesce ancora ad assestare: il cantato è “rochissimo” e cartavetrato come non mai, Michael che picchia da buon nordico su di una batteria che sarà ormai quasi bucata dalle mazzate assestatele, asce tecniche e non solo violente, basso di Carter ormai tra le perle più fulgide della band. Insomma, quello che ci voleva per chiudere degnamente l’ennesimo signor album, totalmente inserito anche nel nuovo millennio, che ancora tanto ha da dire circa il quintetto britannico.

Autore: Saxon Titolo Album: Lionheart
Anno: 2004 Casa Discografica: Spv
Genere musicale: Heavy Metal Voto: 7
Tipo: CD Sito web: www.saxon747.com
Membri Band:
Byff Byford – voce
Paul Quinn – chitarra
Doug Scarratt – chitarra
Tim Carter – basso
Jorg Michael – batteria
Tracklist:
1. Witchfinder General
2. Man And Machine
3. The Return
4. Lion Heart
5. Beyond The Grave
6. Justice
7. To Live By The Sword
8. Jack Tars
9. English Man O’ War
10. Searching For Atlantis
11. Flying On The Edge
Category : Recensioni
Tags : Saxon
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07th Mag2021

Saxon – Killing Ground

by Giancarlo Amitrano
Con la medesima formazione, il quintetto entra nel nuovo millennio e decide di entrarvi a tutto tondo come suo costume: l’atteggiamento bellicoso non tramonta e la potenza resta immutata anche nella realizzazione del nuovo lenght Killing Ground che senza fronzoli si mette subito in marcia con un intro da autentico campo di battaglia tra lo sferragliare di cavalli da guerra ed armi spianate, tanto per introdurre subito la titketrack. Autentico fulmine di combattimento, con Byff vero dominatore della scena metallica e con la potentissima sezione ritmica che vede svettare oltre il solito Carter anche un inatteso e potente Randow, preciso e puntuale in ogni battuta, la ormai consolidata coppia di asce sfodera qui un signor assolo da far impallidire le giovani e pretenziose leve. La cover di uno dei più famosi brani del Re Cremisi si appalesa con la voce stavolta modulata e maggiormente trattenuta che Byff adopera per offrire la miglior “copertura” alla traccia: la vena energica traspare comunque all’interno del brano con una improvvisa accelerazione delle tempistiche e soprattutto con una prestazione sontuosa del duo Quinn/Scarratt che si conferma ancora ai massimi livelli operativi.

Coming Home ha una linea chitarristica ben definita da cui non si deroga: apparentemente elementare nella sua struttura, è un brano dalle mille sorprese che si diversifica bene attraverso i vari passaggi che la band dona al pezzo; Byff a dettare bene le danze, quattro e sei corde a fare ampiamente legna da portare in una stipata cascina metal, mentre Randow si mostra valido anche sulle battute di medio tempo per portare anch’esso la pagnotta a domicilio. Con Hell Freezes Over la band torna a calcare palchi a lei più consoni, attraverso un brano molto ben strutturato per la sonora voce del singer: è anche il simpatico refrain a rendere intrigante la traccia, mentre la struttura delle chitarre si continua a manifestare come esattamente all’inizio, salvo poi concedersi una “digressione” centrale più articolata con un altro ennesimo, solido assolo che risalta ampiamente sopra la media. Dragons Lair è la potenza personificata: ideale per eseguirsi dal vivo, la traccia consente a tutto il quintetto di porsi in evidenza con le mansioni di competenza; è dunque una classica cavalcata metal ad entusiasmare chi ascolta, grazie anche alla ottima prestazione vocale di Byff, qui rinato a nuova energia e con range vocali novellamente potenti ed aggressivi, mentre le asce corrono e si rincorrono su note infuocate. You Don’t Know What You’ve Got torna a rallentare leggermente i tempi, ma neanche di molto: essendo il cantato sempre sopra le righe, anche le entrate delle chitarre debbono necessariamente essere importanti, mentre Randow stavolta fa molto uso dei rullanti e limita molto i crash, che pur vengono adoperati con sagacia al momento opportuno. E le asce? Quelle fanno ampiamente il loro dovere, seguendo con attenzione passaggi ed evoluzioni del brano senza appesantirne la sostanza finale.

Deeds Of Glory  torna a far ruggire i cuori: sempre con Byford in evidenza, il brano è metal purissimo, con tutti i canoni da usare ben modulati e saggiamente gettati nel calderone. Anche il refrain è molto intrigante e resta ben stampato in mente, con asce pesanti e drumming stavolta addirittura ossessivo e tutt’altro che compassato, come gli assoli mortiferi offerti dalle asce. Running For The Border vede ancora il super vocione dei Byford in scena: i tempi sono sì dimezzati, ma tenendo di base una linea di fondo molto intensa e decisamente orientata stavolta all’hard classico, senza che il combo risenta del risultato finale che resta non meno che valido; ancora in evidenza asce e drumming, mentre non occorre dire null’altro sul valore del sontuoso Carter, il cui arrivo sia sempre benedetto dalla band. Shadows On The Wall è quasi un inno power metal di cui i gloriosi Manowar sarebbero stati più che fieri: tempi e testi molto intensi ed attraenti, con Byff che calamita su sé le luci della gloria di autentico combattente del “Dio Metallo”, cui non dispiacciono di certo le potenti esecuzioni del quintetto che si ritaglia ancora la sua porzione di gloria tra soli e controsoli da sballo.

A chiudere, l’esecuzione di Rock Is Our Life che vede la band prodursi in una traccia molto “anthemica” e nel taglio e nell’esecuzione: super Byff anche stavolta che incanta anche alla soglia delle fatidiche 50 primavere, a dimostrazione che quando si è dotati di classe superiore, non c’é verso o ostacolo che tenga. Ben vengano, quindi, ancora tanti album come questo, ancor oggi godibilissimo e valido.

Autore: Saxon Titolo Album: Killing Ground
Anno: 2001 Casa Discografica:  Spv
Genere musicale: Heavy Metal Voto: 7
Tipo: CD Sito web: www.saxon747.com
Membri Band:
Byff Byford – voce
Paul Quinn – chitarra
Doug Scarratt – chitarra
Tim Carter – basso
Fritz Randow – batteria
Tracklist:
1. Intro
2. Killing Ground
3. Court Of The Crimson King
4. Coming Home
5. Hell Freezes Over
6. Dragons Lair
7. You Don’t Know What You’ve Got
8. Deeds Of Glory
9. Running For The Border
10. Shadows On The Wall
11. Rock Is Our Life
Category : Recensioni
Tags : Saxon
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30th Apr2021

Saxon – Metalhead

by Giancarlo Amitrano
Non manca nulla alla nostra band per tenersi sempre in forma: la realizzazione di questo Metalhead vede, infatti, Byff nel bel mezzo di una disputa legale per (come al solito) il copyright del marchio del gruppo. Vertenza intentata contro l’ex Graham Oliver, che tenta di appropriarsi del nome della band, ma viene respinto con perdite in Tribunale. L’altra “seccatura”, più importante musicalmente, vede il nuovo abbandono di Glockler, stavolta motivato da ragioni personali, portando il singer alla ricerca immediata di un sostituto, rinvenuto stavolta nel pur valido Fritz Randow, ex Victory, completando così il processo di “germanizzazione” che il gruppo sta portando avanti, avendo label, drumming e management rigorosamente teutonici, tanto per tenersi al passo con i tempi, ormai votatissimi alla ricerca della massima visibilità commerciale, oltre che ovviamente musicale. L’intro di tastiere che apre le giostre ha un qualcosa di notevolmente cupo e drammatico, che in circa due minuti evidentemente tenta prospettare quello che l’album offrirà, riecheggiando (in ciò) quello che un decennio prima avevano fatto i “Preti di Giuda” con l’altrettanto intensissima The Hellion a fare da apripista all’immensa Electric Eye, anche e soprattutto dal vivo con le memorabili entrate di Rob Halford sulle loro note: nel caso del quintetto dello Yorkshire, il brano appare spaziale e gotico al tempo stesso, tanto da essere ideale opener nientemeno che per la titletrack, la quale irrompe subito con un riffone spaccatimpani, il drumming piacevolissimo del nuovo arrivato e specialmente la voce di Byff che appare letteralmente…trasformata; diversamente dalle performance da screamer purissimo, qui ascoltiamo il singer in una versione “sperimentale”, nel senso di essere anzitutto più gutturale e maggiormente propensa alle estensioni del mezzo vocale. La stessa appare anche “effettata” in studio e maggiormente profonda, mentre la coppia Quinn/Scarratt sfoggia un assolo da levarsi il cappello, che dirada gradualmente verso la ripresa della struttura del brano, su cui il singer continua a proporre la sua voce più modulata ed allenata ad arte per tenere a lungo le note che la traccia richiede.

Si passa ad Are We Travellers In Time, su cui la band sfoggia tempi apparentemente medi, ma che sono funzionali allo svolgimento del brano, con Randow ottimo nella sua energica semplicità, non memorabile ma di sicuro effetto: gli arzigogoli delle chitarre sono da sfondo ad un ottimo assolo centrale, che codifica bene l’affiatamento delle due asce, che tornano in fretta a rivestire le rispettive mansioni ritmico-solistiche, senza inficiare l’efficacia del brano, i cui testi certificano l’avvicinamento della band a tematiche che esulano da quelle canoniche del metal, pur ben eseguite e rafforzate da un ossessivo refrain che Byff dispensa a pieni polmoni. L’intro di Conquistador è brevemente spagnoleggiante con la acustica ben armonizzata, salvo poi cambiare registro in fretta con una cavalcata che più che metal potrebbe apparire quasi “power” alla Gamma Ray, band tedesca e quindi dai ritmi ben noti al buon Randow che qui pesta a più non posso e lascia ben scorrere le doppie casse e la grancassa in un ideale mix tecnico e potente. Byff alla grande su toni e timbriche ancora molto manierate e di sicuro effetto, mentre la coppia di asce strabilia ancora una volta per l’esecuzione sicura e solida di quanto di competenza. What Goes Around è un brano apparentemente semplice nella sua struttura, ma il cantato di Byff lo rende tutt’altro che disprezzabile: certo, la base elementare ed i “gridolini” del singer non rendono facile la valutazione della traccia, che comunque procede spedita verso il bersaglio grosso di una buona fase centrale a cura del duo di asce ancora infuocate e necessitanti sempre di sfornare assoli validi e coinvolgenti come quelli che ascoltiamo lungo il brano, abile a chiudere con un corale lavoro del quintetto. Con Song Of Evil si torna a menare fendenti, anche grazie alla sagacia di Randow che con il suo ritmo teutonico dona alla traccia quel quid di energia e potenza che anche Byff coglie con l’esibizione del suo vocione, qui nuovamente affilato. La fase centrale vede semiacustiche ben accennate ed a disegnare il successivo slot elettrificato che qui si appalesa con arpeggi non indifferenti che durano quasi tutto il brano, che Byff chiude degnamente con grida belluine come ai vecchi tempi.

All Guns Blazing non fa sconti, subito in evidenzia la doppia cassa di Randow, mentre Byford parte in quarta come una metal band dovrebbe fare: bridge e refrain molto ben strutturati, con echi di quel sano hard’n’roll tedesco che tanto piace ai vecchi bucanieri delle fucine metalliche; ancora un lavoro non indifferente delle due chitarre, a conferma che la sezione delle sei corde marcia quasi con il pilota automatico, tanto da accompagnarci al successivo ed enorme ritorno della sezione ritmica, che poderosamente ci guida alla fine di un brano che non ha nulla da invidiare a quello omonimo dei “Preti di Giuda” (a volte ritornano). Prisoner evidenzia ancora di più la voce superba di Byff che, pur effettata in studio o magari anche sovraincisa, non perde un’oncia di spessore o valore, grazie ad ottime alchimie da studio che il produttore Charlie Bauerfeind ha instillato nella registrazione, specialmente nelle chitarre che qui appaiono magicamente cristalline e limpide, sia nella fase di accompagnamento che in quella solista, grazie anche al singer che appare migliorare invecchiando, come le migliori annate del vino pregiato. Piss Off va in controtendenza, con un riffone iniziale dai tempi quasi contrari allo svolgimento canonico della traccia: è una traccia hard classica più che metal, pur beandosi di una buona struttura di base. Certo, non tra i brani memorabili del lenght per una sua semplicità di base, ma non mancano al suo interno alcuni momenti di luce purissima, come i distinti e separati assoli di Quinn e Scarratt, che si equivalgono per bravura e tecnica.

Tagliente e deciso, l’intro di Watching You lascia presagire quello che sarà, ovvero una classica cavalcata metallicissima, di ispirazione quasi “doom” in alcuni passaggi: il tema della privacy qui trattato anticipa tematiche relative alla rete di clamorosissima attualità; sempre Byford sugli scudi, “eccessivo” sia sui versi che sui ritornelli, mentre un signor assolo sotto traccia rende il brano ancor più poderoso, diretto e di impatto sonoro. Si chiudono le danze con Sea Of Life, dove sono ancora le chitarre a predominare: il successivo sviluppo semiacustico potrebbe definire il tutto una ballad, quale magari appare per qualche momento ma l’elettricità di fondo spariglia ancora le carte, con Byff ed una voce stavolta molto bella da vecchio marpione del set. Anche i tempi si rallentano, per consentire alla buona sezione ritmica di poter ben tratteggiare le tempistiche di un brano articolato, di durata rilevante tale da consentire vari slot di esibizione ai musicisti, su cui prevalgono ancora le asce che accompagnano fino alla fine e che vanno a sfumare nelle tastiere qui suonate dal singer dei Freedom Call, a chiudere un album che prosegue sulla falsariga della rinascita artistica del gruppo, pronto a tuffarsi nel nuovo millennio con energia rinnovata e rinnovabile, magari non come le pale eoliche ma con la stessa affidabilità e garanzia.

Autore: Saxon Titolo Album: Metalhead
Anno: 1999 Casa Discografica: Spv
Genere musicale: Heavy Metal Voto: 7
Tipo: CD Sito web: www.saxon747.com
Membri Band:
Byff Byford – voce
Paul Quinn – chitarra
Doug Scarratt – chitarra
Tim Carter – basso
Fritz Randow – batteria
Chris Bay – tastiere
Tracklist:
1. Intro
2. Metalhead
3. Are We Travellers In Time
4. Conquistador
5. What Goes Around
6. Song Of Evil
7. All Guns Blazing
8. Prisoner
9. Piss Off
10. Watching You
11. Sea Of Life
Category : Recensioni
Tags : Saxon
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23rd Apr2021

Saxon – Unleash The Beast

by Giancarlo Amitrano
Finalmente ci siamo: dopo aver tanto atteso che i Nostri tornassero alle origini, aver pazientemente “sorbito” una serie di album a dir poco interlocutori e non del tutto graditi, ecco che l’audience tutta e lo zoccolo duro dei suoi fan vengono ripagati alla grande, oltre che con gli interessi, dalla band britannica con il disco della definitiva rinascita. Oltre a ciò, il gruppo “decide” di regalarsi ulteriore nuova linfa, inserendo alla seconda ascia l’ottimo Doug Scarratt, che porta in dote una notevole capacità compositiva (oltre che ad essere il vicino di casa di Glockler, tanto per restare in ambito “familiare”). Il prezzo da pagare è l’abbandono dello storico chitarrista Oliver, oramai stanco e non più motivato a proseguire la collaborazione con la band, che già nel tour di Dogs Of War inserisce in pianta stabile il nuovo axeman, tanto per “testarlo” sin da subito prima di entrare in studio. Ed è una piacevole sorpresa, il suo ingresso il sala registrazione: la nuova sei corde pare essere da tempo presente a bordo, per la sua freschezza e la sua abilità a tenere benissimo le tempistiche del suo strumento, che porta finalmente una ventata di energia e potenza nel sound del gruppo.

L’album inizia con una presentazione “cinematografica” che Gothic Dreams riesce ottimamente a fornire con i suoi circa 90 secondi di tensione musicale a base di tastiere molto drammatizzate, tanto per fare da apripista alla titletrack, che parte sparatissima come un destro del miglior Tyson: Byff torna a ruggire come ai bei tempi, la sezione ritmica è tagliente e mortifera e la coppia di asce svolge ottimamente il suo lavoro, il ritornello è gradevolissimo e resta facilmente impresso nella memoria, il riffone centrale è appunto eccessivo all’estremo, tanto da concedersi un finale con tempi appositamente “mid” per far apprezzare meglio l’ennesimo assolo potente ed incisivo che chiude una già solida traccia. Terminal Velocity procede alla medesima velocità di crociera, tale da consentire a Byford di scandire pulitamente ogni singola nota, ben architettata dal punto di vista musicale, come anche il refrain molto intrigante e gradevole, la cui ripetizione non cozza con il successivo enorme assolo che la coppia Quinn/Scarratt riesce a produrre. L’esecuzione di Circle Of Light è molto tecnica, con la coppia di chitarre che tiene il tempo a menadito, rintuzzata in questo dal drumming potente di Glockler, sempre tecnicamente impeccabile: si canta molto aggressivi, pur sulla base di una traccia apparentemente elementare nella sua struttura, che paradossalmente si rivela essere il suo punto di forza, nel senso di dare facilmente l’opportunità alle asce di essere immediatamente presenti nella fase cruciale della traccia ed usare il consueto wattaggio nell’esecuzione di un altro robustissimo assolo.

The Thin Red Line vede Byff cimentarsi nell’esecuzione di un cantato più “teatrale”, accentuando maggiormente le note che risultano più eleganti e più intense proprio a causa della loro intonazione; mentre le chitarre fanno ampiamente il loro dovere, anche il drumming di Glockler ed il basso di Carter sono fulgidi nella loro funzione di accompagnamento agli assoli delle medesime, che sono sempre magicamente ispirate. Ministry Of Fools è un altro brano potente ed intenso, con la struttura che prende subito forma attraverso gli strali vocali di Byff che viene egregiamente supportato dal restante quartetto: crash e timpani fanno da padrone, consentendo al brano di essere veloce e ben congegnato, specie nei legati tra le varie fasi, tutti raccordati da un signor assolo centrale. L’organo che fa da intro a The Preacher rende il prosieguo ad alta tensione: la band è sul pezzo, in primis con il singer che si avventa sulle note con la sua voce roca e graffiante come da tempo non si ascoltava, mentre il resto della band non lesina generosamente ritmicità e solismo equamente e sapientemente ripartiti, pur se il brano in sé non è la fine del mondo. Bloodletter torna ad infiammare cuori e menti degli aficionados: suoni quasi “priestiani” per la loro struttura sono un invito a nozze per il quintetto che non vedeva l’ora di esibirsi in una traccia dai parametri quasi “speed” in alcuni passaggi e non per questo fuori luogo: le chitarre, anzi, sono fra di loro ampiamente affiatate, come dimostra bastevolmente la loro esecuzione centrale magica ed infuocata su tutto il pentagramma, con super Byford a correre ai limiti della contravvenzione stradale eccedente il range vocale.

Asce ancora infuocate con Cut Out The Disease, qui ad imbastire una superba base di sottofondo sulla quale il cantato possa esaltarsi in una esposizione vocale molto teatrale: gradevolissimo ascoltare la fase centrale nella quale Byff trascina in una ideale fucina di metallo e ce la faccia visitare attraverso la sua voce, il tutto senza dimenticare un enorme solo centrale semiacustico che accompagna le ulteriori acrobazie vocali del Nostro. Absent Friends e la sua malinconia da ballad autentica pagano il tributo che la band dedica ad amici scomparsi lungo il suo tragitto e l’enfasi che Byff mette nell’interpretare il pezzo è davvero encomiabile nel farci vivere in prima persona il trasporto che il singer adopera nell’esecuzione del brano, delicato ma al tempo stesso capace di donare un signor assolo di metà brano tale da far risaltare ancor di più la bravura del quintetto dello Yorkshire. Si chiude con All Hell Breaking Loose, con cui la band decide di mollare un ultimo graffio ai condotti uditivi, con una partenza trascinante come ai suoi esordi, quando (come finalmente anche ora) Byff conduce le danze con il suo tipico timbro e la band segue a ruota in un tripudio di chitarre a tutto tondo che si esaltano nell’ennesimo “assolissimo” che chiude degnamente (e finalmente) il disco della rinascita del gruppo da ceneri che iniziavano a divenire preoccupanti.

Autore: Saxon Titolo Album: Unleash The Beast
Anno: 1997 Casa Discografica: Cmc
Genere musicale: Heavy Metal Voto: 7
Tipo: CD Sito web: www.saxon747.com
Membri Band:
Byff Byford – voce
Paul Quinn – chitarra
Doug Scarratt – chitarra
Tim Carter – basso
Nigel Glockler – batteria
Tracklist:
1. Gothic Dreams
2. Unleash The Beast
3. Terminal Velocity
4. Circle Of  Light
5. The Thin Red Line
6. Ministry Of Fools
7. The Preacher
8. Bloodletter
9. Cut Out The Disease
10. Absent Friends
11. All Hell Breaking Loose
Category : Recensioni
Tags : Saxon
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16th Apr2021

Saxon – Dogs Of War

by Giancarlo Amitrano
A metà degli anni 90 i Saxon non hanno più bisogno di decidere cosa fare da grandi: la fama e la grandezza ormai raggiunte consentono alla band di poter reggere e parare bene i colpi che la sorte tenta assestare a tutti. Nel nostro caso, c’è da affrontare, con questo album, il canto del cigno di uno dei membri storici del gruppo, con Graham Oliver oramai in totale disaccordo (e ti pareva…) con le scelte commerciali del combo e la conseguente decisione di mollare subito dopo l’uscita del lenght. Ma, come si diceva, i Sassoni sono in grado di tirare avanti sempre con relativo compiacimento riguardo la loro opera che, nel caso di specie, si concretizza in 10 tracce ancora valide e gradevoli. Si inizia con la titletrack ed un energico rullante di Glockler che accompagna le svisatone delle asce, metronome e quasi ossessive nella loro ripetitività, mentre il cantato di Byff sembra riacquisire il graffio dei bei tempi, grazie anche ad un coro gradevole che rafforza le evoluzioni del singer, che capisce quando fermarsi per consentire l’esecuzione di un validissimo assolo. Burning Wheels e la sua scia del tutto metallica consentono di apprezzare il drumming “sporco” ed originale di Glockler, che usa a dovere tutti gli ammennicoli della grancassa per accentuare gli stacchi che il brano richiede: il basso di Carter risulta ampiamente sopra le righe, grazie alla potenza di ogni singola nota che echeggia ala grande quasi come una sei corde ritmica, mentre la coppia Oliver/Quinn macina da par suo il necessario voltaggio di assoli.

Il tempo mid di Don’t Worry consente paradossalmente alla traccia di risultare ancor più aggressiva, nonostante il cantato sia stavolta leggermente meno intenso, grazie ad una linea saggiamente modulata che le chitarre riescono ad offrire: è intenso ed ossessivo il ritornello che si offre con sapiente durezza sulle ali di asce infuocate e di crash a ripetizione che si infrangono sulla linea sonora di una traccia potente ed intensa. Big Twin Rolling  è una traccia hard’n’roll, con Byff che declama le note secondo i canoni dei brani di genere: si è quasi indotti al ballo, da parte di note intriganti ed allegre, sulle quali perfino gli strumenti paiono leggermente più ammorbiditi, salvo poi esplodere in un robusto assolo a sei corde che non fa a pugni con la struttura del brano. Si torna ad una maggiore intensità con Hold On e ad un cantato più cadenzato, su cui Byff si trova ampiamente a proprio agio, accompagnato bene dalle chitarre le quali, si danno molto da fare sia per tenere bene la linea ritmica che soprattutto per esplodere come si deve al momento di essere chiamate alla bisogna per il consueto robusto assolo. The Great White Buffalo è una traccia che si mette in moto progressivamente, grazie anche all’esibizione del singer, qui abile a destreggiarsi tra le righe di un brano molto “western” e pertanto bisognevole di una linea sonora adeguata, che la band ritiene adottare con l’uso (forse eccessivo) di grancassa e rullanti che spesso spezzano l’atmosfera di un brano pur discreto.

Con Demolition Alley riconosciamo ancora una volta la bravura di Carter, qui alle prese con una lunga sessione con il suo basso ad accompagnare le evoluzioni della sei corde e della grancassa che Glockler adopera con sapiente abilità: è ancora Byff ad esporsi in prima persona con la sua voce graffiante che ben si presta a coprire la lunghezza del brano, stavolta impeccabile anche nell’effettuazione dei vari assoli. L’esecuzione di Walking Through Tokyo ci appare improvvisamente fuori posto: l’esecuzione dell’intro molto “orientaleggiante” stona con la forza che solitamente i nostri promanano, ma tant’è che addirittura delle insinuanti tastiere (!) ci propongono una versione del quintetto del tutto inconsueta, stavolta anche nei pur buoni solo delle chitarre, che però fanno a pugni con quanto premesso. Give It All Away torna a calcare ritmi più consoni, stavolta magari (ri)facendo il verso a quella famosa band dei fratelli Young: ma fortunatamente Byff non è Bon Scott, il che gli consente di mantenere il proprio stile stavolta fatto di una linea vocale univoca ed inderogabile, il cui ritornello appare abbastanza gradevole da far sembrare la traccia più valida di quello che in realtaà è, pur non senza una buona dose di tecnica di base come sempre impeccabile.

Si chiude con una potente sezione ritmica di Yesterday’s Gone che consente a Byff di dosare alla perfezione ogni suo intervento, quasi che il brano fosse una ideale piattaforma di lancio per il refrain di sicuro riscontro, rafforzato anche da inattesi cori: è per questo che l’assolo che improvvisamente si manifesta ci lascia gradevolmente colpiti sia per la sua relativa brevità che soprattutto per la sua indiscussa validità tecnica che chiude con i controfiocchi un album comunque ancora non del tutto convincente, ma sempre più che sufficiente.

Autore: Saxon Titolo Album: Dogs Of War
Anno: 1995 Casa Discografica: Virgin
Genere musicale: Heavy Metal Voto: 6
Tipo: CD Sito web: www.saxon747.com
Membri Band:
Byff – voce
Graham Oliver – chitarra
Paul Quinn – chitarra
Tim “Nibbs” Carter – basso
Nigel Glockler – batteria
Tracklist:
1. Dogs Of War
2. Burning Wheels
3. Don’t Worry
4. Big Twin Rolling
5. Hold On
6. The Great White Buffalo
7. Demolition Alley
8. Walking Through Tokyo
9. Give It All Away
10. Yesterday’s Gone
Category : Recensioni
Tags : Saxon
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