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18th Giu2019

Intervista ai Neshamà

by Marcello Zinno
Interessante chiacchierata quella che abbiamo fatto con Carlo, mente, chitarra e voce dei Neshamà, una band che punta su tematiche e messaggi difficili da trovare in altri progetti musicali. La loro ispirazione è la spiritualità che viene messa in musica usando il rock ma anche tantissime altre sfumature. Ecco cosa ci hanno raccontato i Neshamà.

R.G.: Ciao Carlo, ti chiedo di presentarci i Neshamà. Parlaci del perché è nata questa band e cosa avevate in mente di comunicare.

N.: I Neshamà sono un power trio, difficile da definire a livello musicale, ultimamente ci presentiamo come una band dark prog rock. Siamo un trio, basso, batteria e chitarra, io suono la chitarra e canto. Il progetto nasce con ‘urgenza di esprimere concetti essenzialmente spirituali, il nostro motto è “tutto è uno” che è un motto esoterico e che riassume il senso dei Neshamà; noi approfondiamo tutte le dottrine sacre e vogliamo dimostrare il fatto che tutte le dottrine sacre trattano lo stesso argomento anche se con parole diverse in base al periodo storico, alle persone a cui si propongono.

R.G.: Un’ambizione forte…

N.: Diciamo che è velleitaria…c’è un motto indiano che diceva “tira la freccia, tirala verso il cielo, sicuramente non arriverà al cielo ma almeno supererà il cespuglio”. Me lo ricordo da quando ero piccolino e mi è rimasto in testa. E questa è l’idea, il nostro cammino.

R.G.: Sì, già ascoltando l’album, “Animante”, questo arriva. Chiaramente arriva molto di più in sede live, noi abbiamo potuto sperimentare, però la vena spirituale è molto evidente anche già solo ascoltando i brani. Questa è una caratteristica che vi distingue dalle altre band, come mai sentite questa necessità di usare la musica per trasmettere messaggi di spiritualità.

N.: La musica è un veicolo, è un veicolo emozionale principe. La musica è condivisione perché alla fine l’emozionalità porta a creare empatia tra persone e condividere. Lo scopo della spiritualità è la condivisione, l’unione e la relazione tra le persone, come dicono i pellerossa, infatti noi bruciamo la salvia sacra sul palco apposta per richiamare anche questi spiriti. A me sembrava naturalissimo legare la musica e la spiritualità.

R.G.: Va detto che non tutte le spiritualità o le religioni sono condivisione. Vi sono alcune fedi che sono vissute in maniera molto individuale. Tu dici che tutte le dottrine bene o male hanno un messaggio univoco ma come si incontra questo con il fatto che vi sono delle religioni molto individualiste ed altre protese alla condivisione?

N.: Ma in realtà l’eremita è la persona che più in assoluto a livello spirituale si dedica agli altri. È una persona che si isola dal mondo secondo l’esoterismo è colui che investe tutte le proprie energie per il mondo, perché per assurdo più sei vicino ad una persona e più ti vai a scontrare con dei meccanismi come le abitudini, i preconcetti, che ci portano a non comunicare. Quindi l’eremita si stacca da tutto per trovare la sorgente e si relaziona con il mondo senza nessuna barriera. È un compito difficile e profondo, l’asceta per assurdo è il massimo della relazione, può sembrare un controsenso ma è così. Non è un discorso di relazione tra persone, ma di energia.

R.G.: Però in quel caso, l’eremita in realtà ha come obiettivo quello di trascendere il sé, non come persona fisica ma come spirito. Quindi l’obiettivo è comunque legato a se stesso.

N.: Le nostre idee, i nostri pensieri non sono nostri. Già il linguaggio non è nostro, non lo abbiamo creato noi, è la parola che è il pensiero. Quindi se la parola non l’abbiamo creata noi, il pensiero non è il mio ma di qualcun altro. L’essere umano è come un’antenna, le persone ricevono in base al livello di vibrazione che scegliamo di adottare e percepiamo certe cose. Quindi più ti “alzi” e più percepisci certe cose. Si parlava prima dell’intervista di coincidenze, la coincidenza non esiste perché è un collegamento extra ordinario, più ti alzi ad un livello vibrazionale più vai a connetterti a qualcosa di più universale. L’asceta è colui che arriva a vibrare ad un livello molto elevato e si collega alla sorgente, alla origine e a tutto ciò che c’è dietro di noi. Io sono arrivato anche a rivalutare il cristianesimo che fin da fanciullo ho rinnegato, perché anche il cristianesimo si fonda su dei principi molto elevati; le suore di clausura lavorano nella loro idea proprio nella direzione dell’evoluzione della spiritualità intesa come spirito comune, cioè per gli altri.

R.G.: Torniamo al concetto che dicevi tu prima del “tutto è uno” indipendentemente dal tipo di religione. Puoi spiegarcelo maggiormente, anche magari per qualcuno che è lontano da queste tematiche?

N.: Bella domanda, cioè spiegarla non in termini spirituali. Tra due persone estranee è il limite, adesso c’è la cultura molto sportiva del “supera i tuoi limiti”, anche molto capitalista, del vincere, della competizione…”no limits” secondo me è un po’ una cagata perché non devi superare i limiti per diventare il superuomo di Nietzsche, ma è disinnescare i propri limiti. Se tu disinneschi un tuo limite, che è un confine, tu vai oltre e scopri cose nuove ciò che prima era estraneo da te ora diventa confidenziale, è empatia; più vado avanti in questa direzione, più abbatto confini e più mi convinco che le persone sono simili. Io sono convinto che se vai in quella direzione ti rendi conto che l’unica soluzione per il benessere è l’empatia, la condivisione.

R.G.: Un’altra cosa che ci incuriosiva era approfondire questo concetto del “tutto è uno”: come si differenzia tra la visione puramente occidentale del nostro credo e quella orientale?

N.: Il messaggio è lo stesso. Tu pensa agli indiani, secondo cui si crede al dahara, che è un puntino piccolissimo che all’interno del tuo cuore riesce ad entrare in una porticina microscopica che ti ricorda un po’ l’idea della cruna del lago, se ci pensi. Quella roba lì vale universalmente, come la tua anima che si può collegare con tutti. Lo stesso Cristo cercava di riunire il più possibile le persone…

R.G.: Be’ per certi versi anche dividere. Lui non portava un messaggio semplice, piuttosto un messaggio che avrebbe diviso. La parola che Lui ha portato non era sempre una parola di unione, a volte la parola creava dei nemici.

N.: Quello è fondamentale, distruggere per far spazio, l’unione non viene mai in pace e amore, infatti il nostro brani XI è anche distruzione, perché per creare prima dei fare spazio, quindi prima devi distruggere ed è fondamentale. Io lo trovo ad esempio nell’Islam che parla di guerra santa; Guénon, un grande studioso dell’Islam parla di “piccola guerra santa” che è quella che combatti fuori poi c’è la “grande guerra santa” che è quella che combatti contro te stesso. Comunque è sempre una guerra per arrivare a pulirti e poi…Cristo diceva tornate ad essere bambini, non diceva i bambini verranno a me, quindi vuol dire che tu devi fare il tuo percorso, poi devi distruggere tutto quello che hai fatto.

R.G.: In realtà questo è un messaggio anche orientale.

N.: Sì esatto, identico.

R.G.: Tu scrivi e canti “Tutto quello che so non lo so, ho tutti i vizi di Dio, ogni virtù uccide l’io, capire è morire“. Puoi spiegarci questo passaggio?

N.: Be’ le mie influenze sono socratiche, e questo mi sembra abbastanza palese, poi c’è molto di Jung in questa canzone. Ho voluto lanciare questa provocazione, “ho tutti i vizi di Dio”, perché noi vediamo i vizi come negazione e le virtù come positivo, ho fatto questo gioco…immagina Brama, che sarebbe la divinità massima, di lui non puoi dire nulla puoi solo negare Brama, tutte le negazioni sono Brama, sembra una follia. Questo serve semplicemente a scombussolare la razionalità, perché è fondamentale ingannare la nostra razionalità.

R.G.: Quindi nel discorso dei vizi è come se dicessi due negazioni che diventano un’affermazione…

N.: Sì, poi infatti dico “capire è morire” che è tratto proprio da Jung, lui alla fine era uno psicanalista che ha scritto un libro molto ambiguo, un po’ eretico, e in questo libro spara massime esoteriche che trascendono la spiritualità. Quindi in realtà arriverai a capire quanto morirai, questo è il primo senso. L’idea è che tutti pensiamo di morire, questa è una cosa che penso da tempo ma che forse non ho mai detto: secondo me la gente non muore ma si spegne pian piano o si spegne di colpo ma non muore. Morire è qualcosa di molto più nobile. Morire vuol dire chiudere un cerchio e io ho paura di spegnermi prima di morire, io devo morire. Perché chiudo il cerchio e questo si collega anche a Socrate e alla filosofia antica che era molto legata alla spiritualità degli orientali che hanno mantenuto. Noi l’abbiamo persa, noi la filosofia la studiamo ad un livello teorico e infatti si contraddicevano i filosofi di una volta perché erano degli esercizi spirituali che servivano ad aprire la mente, quindi a distruggere alcuni concetti, ed era il procediamo che era importante, non le massime.

R.G.: Questo però era un approccio filosofico più greco, più basato su meccanismi matematici, mentre invece la filosofia orientale è sempre stata meno legata alle logiche e più alla spiritualità.

N.: L’esercizio più pieno della filosofia tu sai che era esercitarsi alla morte, si doveva comunque arrivare a delle massime ma che contenevano tutto un mondo dietro. Le massime erano un simbolo, erano tue quando richiamavano tutto il lavoro che avevi fatto tu a livello iniziatico. Perché in realtà la filosofia orientale che sembra più sempliciotta è molto più complicata della nostra sotto certi aspetti perché hanno tantissime divinità, loro sono molto più celebrali, però la differenza è che noi siamo molto legati alla logica, i greci hanno sempre un esercizio mentale, mentre loro lavorano anche a livello fisico. Nel momento in cui concepiscono i chakra, cominciano ad usare l’energia del corpo e la mente non è più sovrana, iniziano a lavorare con gli stadi extra ordinari utilizzando il corpo. Se tu ci pensi tutte le tribù e le religioni un tempo si basavano sulle droghe, le droghe in fondo erano lo stordimento della razionalità affinché qualcosa che c’era dietro si rivelasse.

R.G.: Diciamo che erano un facilitatore per raggiungere dei concetti a cui la logica non ti permetteva di arrivare.

N.: Sì, diciamo per viverli. A me piace la meditazione, medito, ma l’idea è che quando arrivi a vivere una certa cosa è una figata. L’estasi arriva proprio quando arrivi a vivere una certa cosa. Gli orientali invece, anche usavano le droghe, ma lavoravano molto con il corpo e con il respiro perché è con il respiro che si può fare tutto, è questo il gioco. Ma è difficile arrivare a questi risultati per cui a volte serve una scorciatoia.

R.G.: Infatti la maggior parte delle sedute che vengono praticate per vivere delle esperienze legate alle proprie vite precedenti sono attivate da appositi esercizi di respirazione.

N.: Sì, è verissimo.

R.G.: Tu parli del Gesù che verrà e dici che sarà donna. Perché lo vedi come una donna?

N.: La nostra società si basa su un’idea capitalistica, l’uomo è il simbolo del costruire, del fare. Costruire significa che prendi una cosa, la distruggi e la trasformi in qualche altra cosa e questo creare in maniera materiale si basa sulla distruzione. Parte la competizione e tutto ciò che è negativo adesso. In questo momento invece l’idea deve essere conservativa, protettiva. Io non parlo di donna intesa come sesso femminile ma come energia femminile.

R.G.: L’energia femminile la vedi quindi come qualcosa protesa al conservare?

N.: Sì perché è l’energia passiva mentre l’energia maschile è quella attiva, esotericamente parlando. Poi nella materialità è diverso. Quindi l’energia femminile frenerà la smania attiva…noi siamo un missile che siamo arrivati in alto ma alla fine continui a spingere ma ad un punto dovremo iniziare a scendere; in questa discesa se lasciamo le redini all’energia maschile, cadiamo e non scendiamo mentre l’energia femminile conserva e protegge lungo la discesa. L’energia femminile ci rende anche più empatici, mentre l’energia maschile è incentrata sulla competizione.

R.G.: Be’ anche molte donne puntano alla competizione (risate generali ndr)…ma capisco cosa vuoi dire, parli di energia non di sesso. Un uomo può usare energia femminile e viceversa.

N.: Sì infatti l’emancipazione femminile le sta portando paradossalmente ad usare l’energia maschile. Questo è peggio perché quando la donna è spinta ad usare la sua energia maschile, contro la sua natura, diventa un mostro se ci pensi, diventa il grottesco dell’uomo. Come il transessuale che vuole essere donna, diventa una donna per eccesso, diventa eccessiva.

R.G.: Ok, adesso passiamo a parlare di musica. Parliamo delle esperienze che avete vissuto come band. È mai capitato che qualche altra band o qualcuno che lavora nella musica vi abbia un po’, come dire, bullizzati o sottovalutati per i temi che trattate?

N.: Di primo acchitto quando ti presenti alle band rimangono sempre un po’ straniti, però in realtà è il clima che si viene a creare. Abbiamo avuto sempre ottimi rapporti, gente che ci apprezza a livello umano e gente che capisce anche il nostro messaggio, ostacoli non ne ho mai avuti. Da dietro so che qualcuno ha detto qualcosa, io nei live arrivo vestito da prete e quindi qualcuno abbastanza bigotto ha detto qualcosa. Anni fa suonavamo al Legend e un ragazzo, secondo me un po’ bigotto, ha detto che non dovevo permettermi di vestirmi da prete…mi voleva menare anche se me l’hanno raccontato dopo.

R.G.: Avevi dato un brutto esempio da prete.

N.: Sì (risate generali ndr). Comunque va detto che non passiamo inosservati. O ci sono gli esaltati metallari che si esaltano ma travisano l’idea, o altri che capiscono l’idea e con loro si instaura un dialogo. Ci sono poi quelli che si divertono a livello goliardico e non interessa approfondire.

R.G.: Quindi il messaggio arriva.

N.: Sì arriva. I miei compagni di band all’inizio erano un po’ terrorizzati, mi dicevano “Carlo non puoi fare queste cose…rischiamo grosso…”. Anche perché noi solitamente distribuiamo le ostie, ripercorriamo il rito della comunione come rito della condivisione…ma quando lo abbiamo ripetuto un po’ di volte e abbiamo visto che andava e che funzionava allora si sono convinti. Poi dipende come lo fai, io lo faccio in maniera giocosa non in maniera seriosa. Una volta ad un concerto dopo che avevo spiegato diverse idee che sono alla base della nostra musica uno ha urlato “Dio Cane” ma alla fine ci abbiamo riso, io ho detto ben venga, noi accogliamo tutte le religioni, se il tuo Dio è un cane ben venga il tuo Dio Cane.

R.G.: Ma lì non è cane nell’accezione animale…

N.: Certo (risate ndr).

R.G.: Ma non potevi dire altro, altrimenti ti beccavi un secondo urlo con un altro animale, tipo il porco…

N.: Eh sì (altre risate ndr).

R.G.: Ma a livello musicale tu hai presentato la band come un progetto dark prog rock, ma quali sono le radici che hanno formato te e i musicisti della band? Perché noi abbiamo sentito alcune partiture progressive ma dire che siete una band progressive rock potrebbe essere fuorviante.

N.: Musicalmente è un gran casino. Sì non siamo assolutamente una band progressive rock, noi veniamo dal metal, il metal c’è, ma siamo prog anche perché ci piacciono i tempi dispari, ci piace spezzare le misure. Io ho studiato chitarra classica e principalmente ascolto musica classica, quindi risulta difficile dirti i generi che più ci influenzano tutti…per me Bach, Vivaldi sono i capisaldi del mio passato a livello emozionale anche se sono un chitarrista elettrico. Il batterista della band è mio fratello, siamo cresciuti insieme, il bassista viene da un passato punk…da ragazzini abbiamo avuto anche una band pop rock.

R.G.: Noi solitamente quando recensiamo un album cerchiamo sempre di coglierne la chiave di lettura; io personalmente cerco di fare anche un ulteriore esercizio per capire o ipotizzare una possibile evoluzione stilistica o concettuale della band, a volte ci becco altre volte no. Nel vostro caso è molto più difficile anche per la sostanza del messaggio di cui siete portatori. La domanda è se l’evoluzione del vostro progetto artistico sia anche legata all’evoluzione spirituale di cui voi state facendo esperienza e non solo all’evoluzione di voi come musicisti.

N.: Sì, il messaggio sarà comunque lo stesso anche in futuro. L’autenticità è importante, al di là delle cazzate per fare successo o non successo, alla fine io sono autentico, io dico quello che faccio, è il vestito che volente o nolente mi si addice. Poi sicuramente si possono usare parole più efficaci, quello potrebbe essere un punto di arrivo, essere più universali, più semplici ma profondi. E’ un ulteriore passo.

R.G.: Be’ il messaggio di base vostro è già universale.

N.: Sì però riuscire ad essere in termini di comunicazione più diretti…essere più universale. Questo è un obiettivo. E poi anche essere più teatrali. Noi abbiamo già collaborato con artisti, giocolieri…l’idea è spingerci molto di più verso la teatralità per riuscire ad essere…

R.G.: …diciamo unire una parte più visuale al vostro modo musicale di esprimervi?

N.: Sì, noi cerchiamo di mettere dei rituali in scena ma riuscire ad inserirli sempre di più, rituali che sono collegati all’energia, questo è un obiettivo.

R.G.: Ecco sul rituale io volevo chiederti di spiegarci il concetto da voi citato di “concerto-messa”.

N.: E’ proprio questo, secondo noi le canzoni sono i salmi, ci sono le omelie che sono certe cose che diciamo tra un brano e l’altro, dei messaggi, e poi ci sono dei rituali che sono dei gesti semplici che richiamo certe cose.

R.G.: Questi aspetti, secondo te, non potrebbero essere limitativi nel momento in cui tu pensi ad un album successivo? Cioè, il vostro album è un concept album che in versione live rappresenta una messa, un altro album futuro dovrebbe essere una messa diversa?!

N.: Tu pensa a quante maniere possono essere usate per esprimere lo stesso concetto. Yahweh aveva 72 nomi!! Il bello è quello, poi al di là della forma il concetto resta lo stesso. E’ una sfida, sicuramente.

R.G.: Avete già pensato quindi al nuovo album e al messaggio “nuovo”?

N.: Abbiamo già parecchi brani nuovi che hanno delle venature un po’ più…non commerciali…abbiamo smussato certe ruvidità. In passato l’urgenza di dire era poco filtrata, troppo ruvida, mentre adesso stiamo cercando di essere, appunto, più universali, per entrare con più dolcezza.

R.G.: E sarà sempre un concept album?

N.: Chissà quali di questi brani…poi anche l’idea dell’album…magari ci verrà in mente qualcosa di diverso…sarebbe bellissimo collaborare con qualcuno nel teatro che sposa le medesime intenzioni nostre. Le idee sono relative, ma alla fine le intenzioni possono unire.

R.G.: Bene dai, ti ringrazio Carlo per la disponibilità e la chiacchierata davvero molto interessante.

N.: Grazie a te!

Category : Interviste
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21st Mag2019

Intervista a Turilli / Lione Rhapsody

by Piero Di Battista
Al RocknRoll di Milano abbiamo incontrato Luca Turilli, fondatore ed ex-membro dei Rhapsody Of Fire che, assieme a Fabio Lione, ha realizzato il disco Zero Gravity (Rebirth And Evolution), che uscirà il prossimo 28 giugno per Nuclear Blast. Ecco cosa ci ha raccontato.

R.G.: Ciao Luca, benvenuto su RockGarage!

L.T.: Ciao e grazie!

R.G.: A fine giugno uscirà il nuovo disco “Zero Gravity”, vuoi parlarcene un po’?

L.T.: Certo, è un disco particolarissimo perché rappresenta un nuovo inizio dopo 2 anni di tour a celebrare i successi dei Rhapsody. Avevo dunque voglia di qualcosa di nuovo; ti dirò, avevo anche pensato di lasciare l’heavy metal per sempre, però vedendo i riscontri ed il successo con questo tour ed essendomi trovato molto bene con Fabio (Lione, ndr) abbiamo pensato di far qualcosa di veramente nuovo. Ci siamo messi a tavolino e senza alcuna pressione abbiamo pensato di poter fare qualcosa che ci piaccia veramente, qualcosa che corrisponda a quanto ci piace ascoltare oggi. Ti racconto un aneddoto: all’inizio il nostro nome doveva essere “Zero Gravity”, proprio come il disco, però ci è stato suggerito da chi lavora per noi che per diversi motivi era meglio un nome che comunque richiamasse il nostro passato, perché come ben saprai, il business musicale funziona così attualmente. Però, come già ti ho detto, al di là del nome, volevamo creare qualcosa di lontano dai Rhapsody, volevo qualcosa di più moderno, quindi metal moderno ma senza trascurare le nostre influenze sinfoniche e dando tanto spazio a suoni più attuali. Essendo io compositore ascolto mille cose, tra le quali i Muse e Adele che al momento sono gli artisti che preferisco. Pensa che saranno 12-13 anni che non ascolto più nulla di metal! Questo concetto l’abbiamo voluto ribadire nel titolo dell’album Zero Gravity (Rebirth And Evolution), più chiaro di così! Dopo 3 mesi di lavoro in studio per noi era importante uscirne pienamente soddisfatti, e così è stato, tutto questo prima della campagna di crowdfounding.

R.G.: Ecco, te l’avrei chiesto più avanti ma dato che l’hai citata te…come mai questa scelta di affidarvi al crowdfounding?

L.T.: Guarda, non avendo più dei budget come in passato per i dischi dei Rhapsody, abbiamo chiesto aiuto ai nostri fan, che hanno risposto alla grande.

R.G.: Noi abbiamo avuto l’onore di ascoltarlo in anteprima e la prima cosa che risalta è una evoluzione, o meglio, un concetto di sperimentazione davvero forte, ad esempio per lunghi tratti sembra quasi un disco “prog”, sei d’accordo?

L.T.: Certo! D’altronde una delle mie band preferite sono i Dream Theater, che magari uno può pensare che mi abbiano influenzato anche in passato ma invece no, li ho scoperti non da molto. Pensa che quando portai i primi demo a Simone Mularoni, che poi si è occupato di registrazione, mixaggio e masterizzazione del disco, lui stesso mi ha detto che c’erano due brani che “suonavano molto Dream Theater”, io dissi che li conoscevo poco se non per l’unico disco che avevo in casa che era Images & Words, e quindi sono andato ad ascoltarmi anche gli ultimi loro lavori, rimanendone piacevolmente soddisfatto perché avevo scoperto qualcosa di veramente eccezionale. Ora sono talmente preso che mi sto comprando tutti i loro live in blue-ray perché voglio vedere anche la loro resa live, avendoli visti dal vivo solo una volta 20-25 anni fa.

R.G.: Olre al “prog” ho notato anche che ci sono tanti spunti di musica etnica, concordi?

L.T.: Guarda, praticando yoga e meditazione da 7 anni era prevedibile che certe sonorità potessero finire in ciò che creo musicalmente, cosa che anche Fabio ha apprezzato. Se con i Rhapsody non avevamo tanta libertà di spaziare, con questo nuovo progetto ho anche ritrovato questa stessa libertà, quella di poter spaziare e sperimentare a 360°.

R.G.: Considerate tutte queste novità, che reazioni ti aspetti? In particolare dai fan di vecchia data.

L.T.: Come dice il titolo, rinascita ed evoluzione, ho seguito ad esempio il cambio di sonorità che fecero i Nightwish da Wishmaster a Once, o anche i cambiamenti dei Within Temptation; sono cambiamenti dei quali devi mettere in conto di poter perdere qualche vecchio fan, ma anche di poterne acquisire dei nuovi.

R.G.: Come ti rapporti con la tecnologia attuale che riguarda la fruizione della musica? Mi spiego, sei un musicista che da sempre ha avuto una cura particolare per il suono, ma sai anche che i dischi oggi vengono per lo più ascoltati con gli smartphone e compagnia, non ti fa uno strano effetto?

L.T.: Hai fato un’ottima osservazione, ne parlavo proprio poco tempo fa con Simone; discutevamo del tanto lavoro e impegno che ci abbiamo messo, pur sapendo che il 90% della musica si ascolta tramite i telefonini, è paradossale, ma fa parte del progresso e non so quanto possiamo farci.

R.G.: Torno un attimo a una tua frase di poco fa, ovvero quella che non ascolti più metal da molti anni, non c’è proprio nulla che ti abbia incuriosito recentemente?

L.T.: Ma guarda, un gruppo che continua a piacermi sono i Within Temptation, perché mi piace il fatto che continuano a sperimentare. Ho ascoltato i nuovi pezzi dei Rammstein e mi sono piaciuti molto, non vedo l’ora di ascoltare il disco per intero. Sai, io mi ero totalmente stufato dei soliti accordi, gli stessi che continui a ripetere album dopo album, io come compositore e come musicista da band ho bisogno di cambiare, di nuovi stimoli, ad esempio ho un progetto di emotional-piano stile Ludovico Einaudi. Insomma ho un’età che vorrei sfruttare per poter finalmente fare ciò che mi piace, senza alcun vincolo.

R.G.: Parliamo dell’aspetto live, innanzitutto se ci sono già date in programma, e poi se dobbiamo anche aspettarci qualche sorpresa.

L.T.: Si, saremo in alcuni festival, dopodiché ci sposteremo in Asia verso fine anno, per poi ripartire con il un tour il prossimo anno.

R.G.: Un’ultima curiosità: hai ascoltato l’ultimo disco dei Rhapsody Of Fire?

L.T.: (ride, ndr) Guarda su questa cosa è nata una polemica sterile: rispondendo alla stessa domanda che mi era stata fatta da un tuo collega ho detto che ne avevo solo ascoltato un paio di minuti. Mi hanno dato dell’arrogante, ma io ho semplicemente detto la verità, non ascolto più quel genere, l’ho fatto per pura curiosità, per sentire in particolare le chitarre, perché considero Roberto (De Micheli, chitarrista dei Rhapsody Of Fire, ndr) un ottimo chitarrista, tutto qui. Purtroppo per colpa dei social viene spesso buttata benzina sul fuoco, fortunatamente io non ho né Facebook né Instagram né altri canali, vengo da un’altra generazione e sto bene così senza (ride, ndr).

R.G.: Grazie Luca e in bocca al lupo per il disco, vuoi salutare i lettori di RockGarage?

L.T.: Grazie a te e a RockGarage, a presto!

Category : Interviste
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10th Mag2019

Conferenza stampa: Banco Del Mutuo Soccorso

by Cristian Danzo
Martedì 7 maggio, presso la sede di Sony Music a Milano, è stato presentato il nuovo album del Banco Del Mutuo Soccorso dal titolo Transiberiana. Un ritorno atteso da 25 anni, di cui l’anteprima con ascolto pre conferenza stampa aveva creato, palpabilmente, una grande elettricità fra i presenti in sala. Moderati dal direttore della rivista cartacea Prog Italia Guido Bellachioma, Vittorio Nocenzi (storico tastierista del Banco) , il chitarrista Filippo Marcheggiani ed il vocalist Tony D’Alessio, hanno risposto alle domande dei presenti, parlando del nuovo lavoro, ma non solo.

D.: Dopo l’ascolto del nuovo album, dobbiamo dire che oltre che essere bellissimo è anche portatore dell’impronta ed è un manifesto del progressive italiano. Come siete riusciti a mantenere, in tutti questi anni, questa continuità sonora senza che diventasse manierismo fine a se stesso?

V.N.: Hai centrato uno dei caposaldi del progetto. Uno dei primi traguardi che ci eravamo prefissati era quello di non fare il verso a noi stessi. Il rock progressivo nasce proprio come allergia al luogo comune, alle banalità, ai clichés, ai dejà-vu. Un pericolo grosso era proprio quello di fare il verso ai padri fondatori di questo genere, almeno in Italia, e cioè a noi stessi. Focalizzata questa cosa, ci siamo posti l’obiettivo che il disco doveva obbligatoriamente essere vero, non un disco alla… Davanti a questo concetto che sembra banale e semplice, ma in realtà non lo è, l’album doveva essere ispirato, credibile, che raccontasse chi siamo realmente e come la pensiamo. Oggi vorrei parlarvi di come la pensiamo nei confronti della vita in genere, perché, non per essere prolissi, ma è un tutt’uno con la musica che avete appena ascoltato. Crediamo che il lavoro di un artista deve sempre offrire una visione ed una tensione etica. In questo modo, qualunque arte tu frequenti ti uscirà più bella. Ci siamo anche domandati che significato avesse che il Banco Del Mutuo Soccorso, nel 2019, facesse un nuovo album, per di più un concept. Siamo partiti proprio da lì, con molta onestà verso noi stessi ed anche autocritica. Il significato stava in quello che , crediamo, vediamo tutti e sta davanti ai nostri occhi. Non è vero che la gente accetta passivamente tutta questa globalizzazione spenta, cinica, morta, miope, autodistruttiva. L’essere umano è anzitutto spirito, e lo dico da laico. L’uomo si nutre, ha bisogno anche di danaro per vivere la migliore vita possibile, ma non si può ridurre tutto solo ai soldi. Non è vero, è una falsità. E questa paccottiglia di falsi riferimenti ce l’abbiamo tutti davanti agli occhi. E’ ora di piantarla di guardarla come se fosse un film che ci scorre davanti. E’ il degrado del vivere contemporaneo. Il significato più vero di tornare ad incidere un disco è quello di dare una risposta a quanti la pensano come noi. Appartengo ad una generazione, non per scelta ma per motivi anagrafici, dove la musica era un veicolo importante di idee, di messaggi, di considerazioni. Il nostro ritorno coincide anche con questo, scrivendo qualcosa che avesse coerenza anche con questa caratteristica. Cosa c’è di più bello di un concept che ti dà la possibilità di una narrazione ampia? Altra domanda che mi sono posto. E mi avrebbe ispirato questo format? Mi avrebbe fatto tornare la voglia di scrivere musica l’idea di un disco con una canzone staccata l’una dall’altra? Sicuramente no. Un racconto più ampio, una narrazione che ti fa intravedere orizzonti ed utopie, il potere raccontare la vita, era una cosa che mi stimolava molto di più. Poi l’idea della Siberia, una terra che sta al limite del mondo vivibile da un essere umano. C’è un posto dell’estrema Siberia Nord dove si vive a -71° al giorno. E’ inconcepibile solo sentirlo raccontare. E queste condizioni estreme del vivere sono un’altra metafora di quello che secondo noi è l’estremismo del vivere a cui stiamo assistendo in questi giorni. Giorni senza ideali, senza una scala di riferimento dei valori. Soltanto soldi. Hai i soldi? Allora hai capito tutto. Non hai i soldi? Allora non capisci niente. Non è così! Allora lo scrivere certi testi con Paolo Logli (coautore delle lyrics, nda), scrivere un racconto sulla Transiberiana è estremamente autobiografico, perché comunque questa band ha una certa età ed è comunque bello che in questa fase della nostra carriera facessimo un’opera autobiografica, dando un ulteriore senso a quello che potevamo scrivere. Sotto questo punto di vista è stata una ulteriore fonte di ispirazione e di sensazioni. Anche l’idea di fare un disco su un racconto di viaggio, che tra l’altro è uno dei miei generi letterari preferiti, era molto affascinante. Anche se il concetto di verità era sempre il punto cardine su cui doveva reggersi il tutto. Allora ci siamo messi dei paletti, di cui uno era: “Ragazzi, un tempo dispari non fa rock progressivo”. Torniamo al discorso di non fare il verso al prog, altrimenti diventa una cosa grottesca ed incoerente. Una musica che nasce come anarchica agli schemi ed agli stilemi della musica tradizionale, che nasce dicendo che un brano può durare 13 secondi così come 18 minuti, che ingloba il ritorno ai temi musicali portanti di un’opera… sarebbe assurdo introdurre tempi dispari in una canzone solo per sottolineare che fai prog, o parlare dei massimi sistemi nei testi solo per dargli una levatura che sembra innalzare culturalmente il lavoro. Se hai fatto la seconda elementare, non puoi affrontare certi temi: prima li si deve studiare e poi se ne può parlare opportunamente. Molti dischi progressive del periodo d’oro sono stati scritti da bravissime persone ma sono stati una specie di caricatura del genere. Altro paletto era quello di essere coerenti con noi stessi, ma non per dimostrare qualcosa a qualcuno, anche perché penso che dopo 50 anni non dobbiamo dimostrare nulla a nessuno, ma per una necessità di andare controcorrente anche oggi. Non ci rispecchiamo nelle modalità della vita contemporanea, perché ci troviamo davanti ad una forbice che va dai fanatici integralisti agli ignoranti presuntuosi, che sono due abomini che viviamo tutti i giorni. Quella meravigliosa macchina che è internet consente anche a chi non è preparato su un tema a dire ad uno che invece è preparato di aprire un tavolo di discussione e dire: “Mi spiace, tu non ci capisci niente”. Contemporaneamente, i prodotti culturali vengono considerati degli inciampi e delle pesantezze che si presentano sulle nostre strade. Ed attenzione, per cultura io intendo la conoscenza, non il preside che si mette sul piedistallo dicendo adesso te lo dico io come stanno le cose. Transiberiana nasce dalla legacy edition di Io Sono Nato Libero (album del 1973,nda) che contiene un inedito intitolato La Libertà Difficile che per noi è la conoscenza. E la conoscenza è una cosa difficile, perché richiede impegno, tempo, esposizione in prima persona. Senza conoscenza non c’è libertà e siamo ridotti a marionette a cui tirano i fili ogni giorno. Il Banco è una scelta di vita perché il cantare di certe tematiche non si esaurisce nella buona prova sul palco perché dopo ti devi comportare coerentemente. Non puoi proporre certi argomenti e poi comportarti nella vita all’esatto contrario. Il nostro pubblico si è formato durante questi 50 anni anche per questo. Mi è capitato di incontrare persone che hanno deciso di vivere la loro vita in un certo modo ispirati dai nostri dischi e non mi sembra che sia una cosa così scontata. E’ stata una stagione dove la musica era ispirata, dove ascoltare certi artisti ti portava a fare certe scelte di vita. Fare un nuovo disco voleva anche dire far fronte a questo ed a queste aspettative, coerente con la nostra storia ed il nostro percorso artistico.

D.: 50 anni di carriera di cui 25 senza incidere nulla in studio. Avete mai riflettuto sullo scorrere di questi 25 anni, che questo disco poteva essere fatto con qualche anno di anticipo e di conseguenza sarebbe stato cantato da un’altra voce?

V.N.: Certo che sì. Però se non è accaduto ci sono dei motivi. La musica come ogni arte nasce direttamente dai tempi in cui vivi. E’ il contesto umano che ti ispira una canzone, una poesia, che ti fa girare un film. Ciò che ha ispirato Transiberiana è il vivere quotidiano e contemporaneo. Quello che non ha ispirato tutto il lavoro precedente. Evidentemente anche noi non avevamo ancora maturato tutta una serie di considerazioni che sono state scatenanti per la composizione. Poi abbiamo capito che era sbagliato aver dato troppo spazio e troppo tempo all’attività live a scapito dell’attività in studio. Infatti in questo momento non vedo l’ora di registrare il prossimo disco. Si tratta di bilanciare in modo adeguato i due contesti. Ci siamo sempre rifiutati di registrare dischi senza sentire il bisogno di farlo. Sennò sarebbe una produzione industriale che fa a pugni con il nostro modo di vedere la realizzazione della musica. Probabilmente ci voleva anche il dolore della perdita di due cari compagni di viaggio che stavano con noi (Francesco Di Giacomo, il cantante storico, scomparso nel 2014 a seguito di un incidente stradale e Rodolfo Maltese, chitarrista, scomparso nel 2015, nda) ma che sono ancora con noi in realtà, sulla Transiberiana, con il naso schiacciato sui finestrini a guardare fuori. Vi racconto un aneddoto per chiarire questo pensiero: Nicola (Di Già,attuale chitarrista,nda) e Filippo sono andati dalla moglie di Rodolfo per farsi dare le sue chitarre, ma lo lascio raccontare a Filippo direttamente.

F.M.: Abbiamo deciso di registrare con le chitarre acustiche di Rodolfo e vi assicuro che quelle chitarre sono possedute. Quando suono una sua chitarra mi rendo conto che non sono le mie dita a suonare. E’ una cosa incredibile. Ho avuto l’onore di condividere il palco con lui per 25 anni ed è stata una presenza importante e fondamentale per me, in primis dal punto di vista umano.

D.: Avete cambiato qualcosa nel vostro processo creativo? E quando è iniziato questo viaggio sulla Transiberiana?

V.N.: Sicuramente c’è un nesso profondo tra quello che ci è accaduto e la tematica che ha ispirato il nuovo concept. Non potevamo non parlare del viaggio che ognuno di noi fa, che è il vivere, che è un viaggio impegnativo spiritualmente, fisicamente e moralmente. Vivere, oggi più che mai, è una bella scommessa. Certamente l’accanimento con cui il destino è sembrato volersi scagliare su questa band… sapete, non vorrei sembrare infantile ma a febbraio viene a mancare Francesco, alla fine dell’estate io in emorragia cerebrale ed in coma, poi viene a mancare Rodolfo… sembrava che il destino avesse deciso di farci sparire. Quello che è accaduto ha a che fare con Transiberiana in toto. Forse il senso di una vita non sciupata e sciatta sta nel fatto di sapere trasformare in positivo ciò che ti accade negativamente. Momenti in cui vieni assalito dai lupi, proprio come nel pezzo del disco. Transiberiana ha in sé due risposte: la prima, una risposta verso il nostro pubblico, perché, e non lo dico per piacioneria, ma un artista non deve mai dimenticare che c’è qualcuno che lo ama, lo considera e lo rispetta. Non devi mai dimenticarlo perché la gente ha tanti di quei problemi nel vivere quotidiano che trovare il tempo per ascoltare un disco, entusiasmarsi e farti anche i complimenti non è una cosa così scontata. Quando una persona ti dona la parte di sé che è il fanciullo che ha dentro è un regalo meraviglioso che non va mai sottovalutato. Per questo dovevamo fare nuova musica. Il secondo motivo per cui andava fatto il nuovo disco è che il nostro lavoro proseguirà nell’affetto delle persone. Se ci fossimo fermati, Francesco e Rodolfo sarebbero venuti a mancare per la seconda volta e la dimostrazione sta nel fatto che ancora oggi stiamo parlando di loro, qui, con affetto, amicizia e tenerezza. Non è retorica ciò che sto affermando. Poi ognuno può vederla come gli pare.

D.: Tony, tu arrivi da una matrice ed un background prog? Vorrei anche capire come sei arrivato a partecipare a X-Factor e cosa ti ha lasciato questa esperienza.

T.D.A.: Io nasco rocker, i primi dischi che mi hanno influenzato sono stati quelli di prog metal. La mia passione per questo tipo di musica c’è sempre stata. Da piccolo ascoltavo il Banco in radio, poi mi sono avvicinato ai mostri sacri come Genesis, Area ed altri. Così come ci sono sempre stati il metal ed il rock. X-Factor è stata un’esperienza, un gioco in cui mi sono molto divertito, nel quale ho cercato di portare la mia visione, visto che è televisione più che musica. Quando l’ho fatto avevo 43 anni ed è stato un modo per dire: “Guardate che ci sono anch’io”. Volevo anche incuriosire gli spettatori sul mio personaggio, visto che sono sempre stato me stesso lungo tutta la durata del programma. Basti vedere le infradito che mi sono ostinato ad indossare fino alla fine.

D: Vittorio hai ascoltato il disco solista di Francesco? (“La Parte Mancante” uscito il 21 febbraio 2019, nda) Ti è spiaciuto, vista la grande amicizia che vi legava, non averci lavorato?

V.N.: Ho avuto il piacere di seguire la produzione artistica del suo primo album solista (Non Mettere Le Dita Nel Naso del 1989, nda) in cui tra l’altro suonammo e suonarono tutti i musicisti del Banco all’epoca. Ma era un disco solista, non di una band. Il piacere di lavorare ad un disco solista di Francesco era già avvenuto. Del nuovo album, di cui conoscevo il processo artistico perché lui me ne parlava, non mi ha sorpreso la qualità dei testi, perché per me lui era uno dei più grandi autori della musica italiana. Non mi ha fatto impazzire la sonorità generale, dal punto di vista tecnico, probabilmente per qualche difficoltà, presumo, a livello di mixaggio. Ma è un disco importante, che rispecchia il suo grande cuore.

D: Di tutti i rimandi fatti oggi a proposito della Transiberiana non abbiamo ancora parlato di Gianni (Nocenzi, tastierista del Banco dall’esordio fino al 1985 e fratello di Vittorio, nda)

V.N.: Gianni, più passa il tempo, più diventa bravo. Mio fratello soffre molto per la mediocrità culturale della nostra nazione e questo non è che sia la massima ispirazione che può spingere un artista a tornare. Lui in questo momento, dal punto di vista artistico e musicale, è felicemente single (risate, nda). Anche se non fa più parte della band ci guarda le spalle, incoraggiandoci e guardandoci da lontano.

D.: Abbiamo parlato di responsabilità, cultura, messaggio. Pensi, Vittorio, che la tua generazione abbia fallito nella trasmissione delle generazioni dopo? Avete mancato il ruolo di “maestri”?

V.N.: La mia generazione ha sicuramente fallito altrimenti non ci sarebbero tutte queste macerie intorno. C’è un degrado del buon gusto che è talmente insopportabile che io la sera mi addormento triste e mi sveglio triste. Abbiamo dimenticato la meraviglia della bellezza.

F.M.: Voglio dire qualcosa io che sono della generazione “di mezzo”. La generazione di Vittorio ci ha trasmesso tantissimo ma è successo qualcosa, soprattutto in questo paese, che ha creato una frattura totale con il passato. E’ un miracolo che il nostro nuovo disco sia in cima alle classifiche di prevendita dei maggiori siti internet perché rispetto al deserto totale che ci circonda è un risultato incredibile. Poi negli anni ’90 si è fatto di tutto, a livello mediatico, per cancellare la cultura musicale italiana. In Italia e nel mondo esiste ancora tanta gente affamata di cultura e non di banalità ma questa gente è stata messa da parte, insieme agli artisti, come se non facesse più prodotto interno lordo. Questo è quello che è successo. Si è persa di vista una parte incredibile dell’arte.

V.N.: Io mi prendo, come generazione, una parte di colpa nell’essere stato cattivo maestro. Ma i media devono prendersi anche la loro parte di colpa. I media hanno fatto dei danni pazzeschi e mi spiace dire questa cosa a voi. La società dei media ha aumentato esponenzialmente l’informazione creando però un grande equivoco che è quello di avere scambiato l’informazione con la conoscenza. La conoscenza è un’altra cosa. La conoscenza è l’elaborazione dell’informazione. Grazie a questa elaborazione ognuna si fa la sua idea ed in questo modo cresce. Siccome adesso abbiamo un’infinità di dati a disposizione, scambiamo l’informazione per conoscenza. Tu sei ignorante come ieri ma ti pare di sapere talmente tanto che hai bisogno di parlare di tutto su tutto. Aggiungiamo che la natura umana ti porta a saltare sul cavallo del vincitore, che in Italia è sport nazionale, e questo atteggiamento non fa bene a nessuno. Siamo stati cattivi maestri, perché abbiamo predicato bene e razzolato male.

D.: Vi state riferendo ai 20 anni di berlusconismo che ci siamo lasciati scivolare addosso?

F.M.: Non stavo facendo un discorso politico perché penso che anche la Sinistra abbia le sue responsabilità in questo azzeramento. Le ultime kermesse musicali di questo paese ne sono la dimostrazione. Sono il nulla.

V.N.: Dal 1995 mi sono inventato un format, il concerto didattico multimediale, che ha coinvolto 200.000 studenti delle scuole superiori di tutte le regioni italiane, le cui basi sono le immagini e la musica, che utilizzavo per parlare di tutto, dove la musica era la principale chiave di accesso per andare a parlare poi di pittura, arte ed attualità. Ho lavorato anche per le istituzioni politiche in alcuni progetti. Il problema è che poi la forza mediatica è mastodontica rispetto a quello che faccio io.

D.: Qual è il background culturale di “Transiberiana”? Ci sono letture, opere o film che hanno influenzato o ispirato in qualche modo il concept?

V.N.: Non abbiamo sicuramente una diretta esperienza del viaggio sulla Transiberiana però mi sono sentito un po’ come Emilio Salgari (scrittore italiano di romanzi d’avventura, nda) che scriveva di posti esotici da casa sua. Non volendo però fare un esercizio salottiero sono andato a leggermi libri sulla Siberia. Una terra difficile, con il grande problema dell’alcolismo che affligge uomini e donne, composta da 250 etnie che parlano lingue diverse, che hanno subito una russificazione pesantissima. Ci sono stati genocidi, in una terra dura e tosta. Queste letture però non hanno influenzato la decisione dell’argomento, sono state di approfondimento dopo la decisione della tematica del concept che era in primis la metafora del viaggio della vita.

Category : Interviste
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17th Apr2019

Intervista ai Mortado

by Marcello Zinno
Abbiamo incontrato, nello studio A.D.S.R. Decibel Studio di Busto Arsizio, GL che ormai ha abbandonato i panni di singer degli Extrama e si è lanciato nella sua nuova esperienza, i Mortado freschi di pubblicazione del primo studio album. Vediamo subito cosa ci ha raccontato, mentre ascoltavamo le tracce del disco, sia del suo presente che del suo passato.

R.G.: Ciao GL, visto che siamo partiti dalla prima traccia, parlaci proprio di Rupert The King e del personaggio che ha ispirato questa traccia.

GL.: Rupert The King è la mia licenza poetica in cui chiamo il sovrano di questo pianeta che è Lucifero, o Belzebù, o Apollo o Giove…o come lo volete chiamare. Rupert The King proviene dalla password che nell’ultimo tour con i Death Angel ho avuto in un pub a Berlino Est dove siamo finiti. In questo pub c’era il diavolo ovunque. Quando la padrona ci portò la password della wifi, ce la portò scritta su di un foglio, non ce la disse, lei era serissima, ce la mise sul tavolo così. C’era scritto “Rupert The King” con le “t” rovesciate. Io l’ho tenuta, tra l’altro Rupert è la versione inglese del nome perché sarebbe Ruperct che è un famoso re tedesco che sono andato a spippolare (GL usa “spippolare” per intendere “cercare in rete” ndr) ma che in quel pub rappresentava il diavolo, probabilmente questo re tedesco non dovrà essere stato proprio uno stinco di santo. Però è una mia licenza poetica, il diavolo non è quello che ci hanno detto nel medioevo, è l’antico culto pagano del toro.

R.G.: Quindi se la password fosse stata un’altra parola, il brano si sarebbe chiamato in un altro modo?

GL.: Esatto, può darsi ma io non credo al caso. Anche che quel giorno abbiamo camminato fino ad arrivare a quel pub…io volevo fermarmi molto prima, faceva molto freddo, avevo una fame della madonna…e invece siamo finiti proprio lì. Infatti dopo un po’ siamo dovuti andare via perché le birre volavano giù che era una meraviglia e costavano anche poco. Dopo essere entrati in quel posto tutto è andato in maniera strana, anche il tour stesso…ma questo è un altro argomento. “Rupert The King” è quindi quello che tutti segretamente, che poi non è nemmeno più un segreto, amano, dal Vaticano a…tutti. È sempre lui, è il sempre nostro caro e vecchio Lucifero. Come il libro di Enoch, l’ho nominato perché mi sono interessato alla teologia negli ultimi tempi, mi sono andato a cercare quelli che sembravano più seri e ho notato che il libro tratta del Vaticano nascosto, che poi è stato finalmente sdoganato da Dan Brown. Ci sono molte cose ancora nascoste…il libro di Dan Brown che è stato un altro libro su richiesta, non c’è un libro fatto da uno solo, lo dice Gorge Orwell, nel senso che i libri che conosciamo di più sono su commissione a partire da Karl Marx stesso. Cioè tutte le ideologie sono state programmate, in una sorta di socio-ingegneria. Io parlo di questi signori che ci stanno praticamente fottendo. Ma in fondo tutto è ciclico, siamo all’interno di una roba che poi finisce e riparte di nuovo, e se noi non ci connettiamo alla verità…questo è il mio credo finale arrivato a 50 anni compiuti pochi giorni fa. E quindi è un ciclo, il nostro dovrebbe essere un ciclo di 26.000 anni. Il testo stesso dice che questi signori (intende probabilmente gli uomini della chiesa ndr) hanno già fatto tutto, si sono divertiti, hanno già fatto travestimenti, si sono stradrogati…loro ci hanno fatto diventare esattamente come sono loro, né più né meno, solo che loro davanti compaiono con il sorriso…noi siamo dei topolini. L’importante è risvegliarsi, la musica serve anche a questo, è una frequenza e serve anche ad inviare un messaggio.

R.G.: Qual è il messaggio principale dei Mortado?

GL.: È quello che è riportato sul CD, “what was fake is gone but what was real is still here“, quello che era falso se ne andrà fuori dalle palle, prima o poi ci risveglieremo tutti. Ho capito che tutto è studiato per mantenerti sotto ipnosi e non vedere quello che hai davanti ai tuoi occhi che percepisci con i tuoi sensi. Ci hanno levato l’uso della logica, è come l’acqua che diventa il contenitore, devi contenerla. Pensaci bene, non c’è un esempio in natura in cui l’acqua sta intorno al niente eppure noi crediamo che sta intorno alla nostra palla (intende la Terra ndr) ne siamo convinti. Nessuno mette dubbi su questo. Ma è una roba logica. Rupert The King chi è? Per me è il grande bugiardo, nella mia licenza poetica ovviamente, è un nome e un nome rimane un nome, io vengo dalla scuola Bruce Lee, l’importante non è il nome ma quello che c’è dietro. La band l’ho dovuta chiamare con un nome, potevo chiamarla GL e i Tre Bastardi (risate generali ndr).

R.G.: Ma quindi Mortado come è uscito fuori?

GL.: Mortado ce l’ho nel cassetto penso da più di trent’anni. Io sono stato un accanito lettore di fumetti, dai 15-16 anni in poi ho letto tantissimo Tex e su un numero c’era questo mago, Mortado, mi è piaciuto il nome, l’ho tenuto nel cassetto. Poi da sfiga c’è un’altra band che si chiama così, sono tre messicani, l’ultimo album è uscito nel 2015 e non so se sono ancora attivi. Infatti avevamo parlato di cambiare nome dopo aver scoperto questi ragazzi e il primo a dirlo sono stato io, avevo fatto anche delle proposte. Ma agli altri membri del gruppo piaceva e lo abbiamo tenuto. Già qualche anno fa avevo minacciato di fare questa band con la mia ex fidanzata…c’era anche uno scherzo sul nome, da Mortado ti viene da dire Mortadella..e si scherzava dicendo “aspettiamoci il Mortadella tour”. Ma questa band l’avrei fatta prima o poi ed è uscita adesso, è uscita quando doveva uscire. Tutto ha un suo tempo. Rupert The King è un pezzo che ha 12 anni ed è rimasto tale e quale. Tutti i brani dell’album sono pezzi datati, il secondo, In The Middle Of The Night ha 30 anni.

R.G.: Quindi tutti i brani dell’album sono stati scritti da te?

GL.: Sì tutti tranne due che sono Venom e Secret Society che sono state scritte da Manuel (il batterista ndr). Venom l’ha scritta come un pazzo e poi l’ha registrata senza niente, ha fatto play e basta, batteria e click, tutto a memoria.

R.G.: Dicevi 30 anni. Ma in trent’anni sono cambiate diverse cose, non è rimasto tutto uguale. Sono capitate anche cose molto negative…

GL.: Sì, ma io non sono una persona negativa, sono positivo mi piace sorridere alla vita ma non vedo un ottimo futuro perché questi signori sono capaci di mentire… ci sono cose talmente incredibili che penso non abbiamo nulla di buono previsto per noi. In questo secondo pezzo parlo di robotica, ho seguito la robotica negli ultimi tempi e mi sono spaventato. A parte tutti i droni, non mi riferisco al robottino quello che fanno vedere al supermercato, ho visto dei robot che fanno cose pazzesche, non oso immaginare se dei robot del genere venissero armati come sono già armati i droni. I militari adesso non sono più armati, sono lì che comandano i droni e gli aerei, tutto viene fatto dalla robotica. Anche quelli che vanno a bombardare in Medio Oriente sono telecomandati da uno che non è lì, usano proprio i joystick della playstation.

R.G.: Però secondo me di queste varie teorie che tu dici…

GL.: Si chiamano teorie di complotto!

R.G.: Ecco, siccome lo hai detto tu le posso chiamare teorie di complotto. Secondo me però il punto è il “quando”. Perché se queste teorie si dovessero dimostrare vere tra 200 o 300 anni, allora io potrei stare al tuo posto, fare altre tesi e filosofie e dire “queste cose succederanno”.

GL.: Be’ queste idee non sono venute da poco, è un’evoluzione lunga tutta la mia vita. Io leggevo già a 4 anni, il primo anno di scuola non avevo fatto nulla. A me già mi avevano preso perché nei fumetti della Marvel c’era già tutto, mutazioni genetiche, bombe atomiche, raggi gamma ecc. A parte che Spiderman ha sempre fatto le corna quindi il primo metallaro che io ho visto è stato lui…perché l’uomo ragno sparava le ragnatele così?! (indica il gesto di Spiderman ndr) Domandatelo un po’. Questa è un’altra cosa che volevano farci vedere, è tutta programmazione del cervello. Te la fanno da bambino, tutto era in agenda. Io non pensavo di diventare un cantante di thrash metal o di heavy metal che dir si voglia. Basta con queste suddivisioni, stare a seghettare, tra un po’ arriveremo al pink metal, al green metal…che ne so! Va bene heavy metal.

R.G.: Quindi il vostro è un album più heavy metal che thrash metal?

GL.: La matrice è thrash metal ma c’è della melodia. Io arrivo molto dall’hardcore, il thrash si è fuso con l’hardcore. Io da ragazzo frequentavo il Leoncavallo dove se ti bevevi una Cocacola e mettevi le scarpe della Nike ti rompevano i coglioni. Avevano ragione, io ai tempi dicevo “che rompicoglioni che siete” e invece avevano ragione loro con il senno di poi. Mi avvertivano che dietro tutta la bella facciata dei bei pensanti c’è la peggio merda. E quindi cosa mi tocca fare? Questa è la mia missione. Io non volevo fare questa roba qua (intende l’album dei Mortado ndr), con Manuel c’era l’intenzione di fare qualcosa per campare e si sa che con il metal non si campa. Volevo fare qualcos’altro, poi io e Manuel ci siamo guardati e ci siamo detti “forse è meglio tornare a fare il buon e caro metallo” perché è quello che so fare meglio e perché sono un uomo in missione. Se io sono qua c’è un perché, si vede che dovevo vedere qualcosa. Soprattutto pedalando, mi sono fermato dalla musica e il primo lavoro che ho trovato è stato consegnare pizza e patatine per quasi due anni e a furia di pedalare mi è tornato in mente che forse era meglio tornare a fare il mio mestiere.

R.G.: È da quel momento che hai pensato di usare i brani?

GL.: Sì, in realtà questo album doveva uscire già negli altri album degli Extrema o dei Rebel Devil (altro progetto che doveva lanciare GL ma che poi non è uscito ndr) ma qualcuno, non faccio nomi né cognomi, ha detto che non andava bene, che la mia linea di pensiero non era in linea con tutti gli altri, non ero cagato quando si parlava di testi, cosa che mi dava molto fastidio. Io ho cercato sempre di parlare con gli altri. Una band è una band, io potevo uscire con un album con il nome mio ma io preferisco avere una band. I membri di questa band mi sono caduti dal cielo, a partire da Manuel, dal batterista, che mi ha chiamato. Attenzione, sia ben chiaro, io sono uscito dagli Extrema per mia spontanea volontà, perché in alcuni siti c’è scritto che sono stato licenziato ma questa è una menzogna che va cancellata. Io ero uscito già due mesi prima, con un’ultima chiamata che avevo avuto con il mio grande amico, perché ci conosciamo da trent’anni, ma lo siamo ancora, perché io non c’ho mica nessun problema con il Sig. Tommy…

R.G.: Che però chiami sempre Sig. Tommy…

GL.: Ah perché sennò poi magari mi prendo una denuncia (risate generali ndr), visto che lui non dice il mio nome…comunque io sono uscito due mesi prima con una chiamata specificando che avrebbero dovuto cercarsi un cantante, io non li avrei lasciati nella cacca in caso di date, ma che da quel momento in poi dalla chiusura di quella chiamata, io ero già fuori dalla band. Io avevo già deciso. Era un po’ che non ci pensavo, per varie motivazioni, anche perché stavo peggiorando anch’io come carattere e vedevo che non c’era più un’interazione. Io una volta lo dissi già: “un giorno farò una band che vi farà il culo”. Lo dicevo a quelli che stavano sempre lì a insultarmi. È per questo che mi fa piacere aver incontrato Manuel, il mio batterista a 16 anni era ai concerti degli Extrema nel massacro collettivo, quindi è un piacere suonare con lui. Poi piano piano è entrato Steve Volta che suonava con Pino (Scotto ndr)…io uscivo da un periodo difficile, separazione dalla famiglia, vai a vivere da solo, abbandona una band dopo 30 anni, sono cambiate molte cose nella mia vita, dovevo fare un album con i Rebel che non si è fatto…mi sono trovato completamente in un’altra dimensione, dovevo riprendere anche la voglia di fare delle cose quindi ringrazio anche gli altri che mi hanno spronato e aspettato. Poi è arrivato il bassista Simone, ci conoscevamo già, ha un repertorio alle spalle devastante con una cover band degli Iron con dei pezzi suonati così bene che io li ho sentiti ben poche volte se non dagli Iron.

R.G.: Anche poi per le prove in studio?

GL.: Sì tutto è stato fatto molto spontaneamente, mi sono trovato bene fin dall’inizio, sono passate le mie crisi depressive…poche prove. Fare le prove è stato complesso, chi ha famiglia, chi i suoi cazzi, in due senza patente tra l’altro, lo studio è a Bergamo…la logistica non era banale, io penso che questo album sia un vero miracolo.

R.G.: I pezzi hai detto che sono stati scritti molto tempo fa, come mai non sono mai usciti prima o presi in considerazione?

GL.: Questi pezzi per i Rebel Devil non andavano bene, anche se in questo album (quello dei Mortado ndr) è uscito un riff che era molto Rebel, c’è un linguaggio musicale…ecco anche perché anche con Steve Volta, che è un chitarrista eccezionale, quando aveva fatto i primi soli nella prima demo non aderivano proprio al massimo, nonostante la sua bravura. Come dire: c’è un linguaggio power metal? C’è un linguaggio folk metal? In un linguaggio musicale di un certo tipo ci si deve un po’ star dentro. Il nostro è comunque heavy metal, che poi c’è dentro un po’ di tutto, c’è una matrice thrash…io ho il cuore nel thrash, come quando da ragazzino ho ascoltato Kill ‘Em All: Phantom Lord è il primo pezzo che ho sentito che mi ha fatto chiedere un album. Non lo avevo mai chiesto dei Judas, mai degli Iron…dopo aver ascoltato Phantom Lord mi sono detto: “chi cazzo sono questi?”. Voglio l’album. E da lì sono partito e non mi sono più fermato.

R.G.: Restando ai Metallica, visto che sono una delle prime band a cui sei legato, mi veniva da pensare, un po’ provocatoriamente, un musicista che suona in una band storica, visto che gli Extrema suonano da oltre 30 anni, ad un certo punto va via, crea il suo progetto e ha voglia di rifarsi. Proprio parlando dei Metallica, mi è venuta in mente la storia dei Megadeth, anche se oggi siamo in un’epoca diversa però la storia sembra simile o sbaglio?

GL.: Be’ è un po’ diversa, questi pezzi li avevo scritti da molto tempo. Questa è la verità. Sono pezzi che secondo “il capo” (si riferisce a Tommy ndr) non erano abbastanza Extrema. Ho sempre cercato di proporre dei pezzi ma non erano abbastanza…questa è la verità. La verità è che se uno ti suona un riff e ti senti dire che non sono abbastanza Extrema…(momento di pausa ndr) in fondo mi ha fatto anche un favore. Io avevo anche minacciato di fare una band tanti anni fa, perché avevo avuto già un battibecco. Avevo avuto un piccolo problema ai tempi di The Seed Of Foolishness (album uscito nel 2013 ndr) e per 2-3 settimane non mi ero fatto sentire, avevo già intenzione di non fare più un cazzo e avevo detto di voler fare questa band. Un momento di pazzia, una giornata in cui ero veramente incazzato, ho alzato la cornetta e mi sono sfogato. Forse dissi anche il nome della band e dissi che gli avrei fatto un culo così. È stato solo un momento di sfogo. Per noi era come un fidanzamento, ad un certo punto si rompe qualcosa, si inizia a non frequentare più come prima, si inizia a non essere più in sintonia, vuoi per un motivo vuoi per un altro. Chi ha la colpa o la ragione non ha più senso. Bisogna riconoscerlo, ho cercato anche di parlare e di comportarmi un po’ meglio anche perché tutti sanno che GL qualche volta ha esagerato…mi porto indietro ancora questa cosa dopo che per anni non mi sono fatto più vedere e mi sono isolato, mi sono calmato, ancora me la porto dietro e nessuno me la perdona. Ho voluto anche dimostrare che non era vero quello che diceva qualcuno e cioè che io senza gli Extrema non avrei mai fatto un cazzo. A parte l’album dei Rebel Devil per il quale io ho aggiunto solo la voce, i pezzi già erano stati scritti e sarebbero dovuti entrare nel nuovo album dei Cappanera…ma una cosa mia non l’avevo mai fatta. Da piccolo venivo già a Busto Arsizio a provare con la mia primissima band farlocca, ci chiamavamo Deathcore, il mio amico di Busto faceva una fanzine molto bella, si chiamava Suicidal Maniac, che io portavo al Leoncavallo. Io cercavo di intervistare anche Tommy ai tempi ma Tommy non me la concesse perché già se la tirava. Questa è la verità. Perché io ero fan degli Extrema quindi la mia è una storia romantica perché poi sono diventato cantante degli Extrema. Io da Novara mi trasferii a Milano, perché a Novara non c’era un cazzo, non c’era una persona con cui parlare di metal…quindi la storia dei brani e di uscita con la band è accaduta oggi ma poteva accadere prima. Chi ci ha creduto è stato anche Manuel. A lui gli è stato addirittura sconsigliato di collaborare con me, gli è stato detto che non sono una persona affidabile; qualcuno nel settore ha scommesso che questo album non sarebbe uscito, pensa un po’! E invece in culo a tutti quanti (risate ndr).

R.G.: Però con il senno di poi possiamo dire che i pezzi erano nati 30 anni fa per i Mortado e che era destino che uscissero nel 2019. Non è una casualità no?!

GL.: Io li ho proposto a Tommy varie volte, anche nelle fasi in cui si era in blocco compositivo tra un album e l’altro…il chitarrista ovviamente era lui. Il metal è basato soprattutto sui riff, quando non ti escono i riff non puoi scrivere canzoni. Tra l’altro è un altro studio quello del riff, è uno studio ipnotico, il riff è fatto apposta, il riff è fondamentale. Se qualcuno si blocca con il riff sei fottuto. E io ho fatto delle proposte, ovviamente il mio modo di suonare è basico, Tommy è un manico nel suonare, a livello ritmico secondo me è uno dei migliori chitarristi al mondo nel metal, infatti lui ha un modo di suonare molto nervoso e molto intenso, non si lasciava molto spazio alle parti cantate. Il modo di suonare esprime anche il modo in cui tu sei caratterialmente…e poi io non mi sono mai evoluto come chitarrista, io sono influenzato più che altro da quanto ascolto. Quelli dei Metallica non mi sono più piaciuti, eccetto l’ultimo che è un buon album, ma visto che nessuno suona più le cose che mi piacciono ho riproposto cose mie. L’orecchio ce lo butto su quelli più giovani, sono diventati tutti molto più bravi a suonare, il livello tecnico è salito tantissimo, non è più come quando ho incominciato io, però fanno i copia-incolla! Faccio un esempio, in molte band nuove del thrash senti proprio la parte Exodus, la parte Anthrax…proprio uguale! Sono band che hanno fatto talmente tante cover di quelle band che non sviluppano una personalità loro. Io invece, e noi come musicisti con gli Extrema, non abbiamo fatto cover, abbiamo avuto subito l’istinto di fare inediti.

R.G.: Qual è secondo te il miglior album thrash metal degli ultimi anni?

GL.: Ecco degli ultimi anni…ce ne sono state sicuramente tantissime e io me ne sarò persa qualcuna di sicuro. Non potrei darti un giudizio specifico. Una band nuova che mi è piaciuta sono stati gli Ultra Violence…mi sono piaciuti.

R.G.: Anche i Game Over!

GL.: Anche i Game Over, anche gli Injury. Noi abbiamo delle ottime band, infatti non capisco perché siamo stati sempre all’ancora…non abbiamo avuto un modo di lavorare in team. All’estero l’anno fatto. Gli svedesi hanno una scena, i tedeschi hanno una scena, mentre noi abbiamo lavorato tutti separatamente. Abbiamo fatto un errore. E poi c’è il pubblico, non c’era stato ricambio generazionale. La mia generazione veniva ai concerti anni fa, ma poi chi si sposa, chi si accasa, esci sempre di meno…noi abbiamo creato un massacro collettivo e la gente veniva proprio a divertirsi ma il pubblico piano piano si è ridotto, è diventato adulto. Io a 40 anni ho messo su famiglia, il ricambio generazionale non c’è stato. Giravi Milano una volta e i metallari li vedevi, nelle strade, c’erano posti come il Sound Cave alle colonne (il locale esiste ancora ma si è spostato ndr), adesso non ci sono più i metallari, ci sono i pischelli che ascoltano trap. Adesso il ragazzino entra da Zara o da H&M o da una di queste catene di merda, esce vestito da metallaro ma non ascolta una nota nemmeno di Elvis Presley…è una tristezza. Ma questo è il famoso disegno che è in agenda.

R.G.: Detto quindi che il materiale è stato scritto tanto tempo fa per i Mortado di oggi, mi chiedo se, guardando avanti magari al secondo album dei Mortado, tirerete fuori altro materiale vecchio o saranno tutti pezzi nuovi ex novo?

GL.: Sicuramente non sarà più così. Io penso che i Mortado hanno una potenzialità incredibile, nel senso che due pezzi sono stati fatti da Manuel all’ultimo istante. Io gli ho chiesto se era sicuro che voleva farli e lui, una traccia, l’ha registrata senza la chitarra, l’ha fatta a click, a memoria, non so come cazzo ha fatto…ho già sentito i riff di Stefano, sento già la potenzialità che può avere, ma c’è anche Simone…penso che la band avrà modo di esprimersi in futuro. Ma questo primo album è più un sassolino dalla scarpa che dovevo togliere. Ora sto molto meglio. Ma il potenziale si esprimerà in futuro e spero che sia devastante. Ma bisogna mantenere questa attitudine rock’n’roll. Io penso che l’arte sia davvero carpe diem, quando fai un ruff tu “ce l’hai” ma se per sbaglio ti alzi un attimo, basta che cambi un accento per un secondo e sei fottuto. L’arte è il momento che cogli. Sarebbe utile registrare costantemente, ma penso che il massimo sia farlo con la band perché la seconda volta che tu riproduci un’esperienza sei già in riproduzione. L’esecuzione è una cosa ma la verità che ci metti nell’esecuzione è un’altra cosa.

R.G.: Ok grazie mille GL, chiudiamo qui la nostra intervista e ti ringraziamo per la disponibilità.

GL.: Ok grazie a voi!

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09th Apr2019

Intervista ai Korpiklaani

by Piero Di Battista
Poche ore prima del loro concerto abbiamo incontrato i Korpiklaani nel backstage del Live Music Club di Trezzo sull’Adda. Jonne Jarvela (voce e chitarra) e Sami Perrtula (fisarmonica) ci hanno raccontato di Kulkija, ultimo fatica della band finlandese e loro decimo album. Ecco l’intervista.

R.G.: Ciao ragazzi e benvenuti su RockGarage, pronti per stasera?

K.: Grazie! Certo siamo prontissimi!

R.G.: Da poco avete pubblicato il vostro decimo disco, “Kulkija”, che sensazioni avete a riguardo?

K.: Molto buone direi, è stato un lavoro lungo ma allo stesso tempo gratificante. Il materiale a disposizione era veramente tanto ma, nonostante qualche ragionevole dubbio, non abbiamo accantonato nulla; proprio durante il periodo di lavoro in studio, man mano che il tempo passava, ci rendevamo conto che niente di ciò che era pronto poteva essere scartato.

R.G.: Prima di ogni dubbio, sto pronunciando correttamente il titolo?

K.: Si certo è giusto così!

R.G.: Questo è il vostro decimo disco, vi aspettavate di arrivare così avanti?

K.: Di certo è un bel traguardo ma ti dirò ci ho sempre creduto e quindi non ne siamo meravigliati.

R.G.: Rispetto ai dischi precedenti deduco quindi ci sia stato un approccio diverso, a partire dal produttore, importante novità, giusto?

K.: Esatto, il disco è stato prodotto da Janne Saksa. Abbiamo deciso di cambiare semplicemente per provare nuove strade, non per altri motivi, difatti non c’è stato alcun problema col precedente produttore anzi. L’approccio è stato diverso come appunto ti dicevo poco fa, pensa che abbiamo registrato il disco in mezzo alla campagna, lontani da ogni distrazioni e soprattutto in mezzo al silenzio, è bastato essere semplicemente molto concentrate sul lavoro.

R.G.: Che riscontri avete avuto dai fan?

K.: Direi molto buoni, tieni anche conto che nella fase di lavorazione abbiamo avuto un approccio più incentrato sull’aspetto live, e la resa è indubbiamente ottima.

R.G.: “Kulkija” significa “vagabondi”, vi sentite anche voi dei vagabondi?

K.: Io penso che tutti siamo dei vagabondi, o anche dei viaggiatori senza meta; il nostro nuovo album è un lungo cammino dove chi lo ascolta può tranquillamente intraprendere appunto questo viaggio, questa voglia di sperimentare, ma allo stesso tempo mantenendo salde le cose essenziali della vita.

R.G.: Dalle liriche dei brani presenti nel disco si percepisce infatti che le tematiche affrontate possono essere pari a quelle che ognuno di noi affronta nel quotidiano.

K.: Esattamente, nei testi di Kulkija affrontiamo diversi temi, ad esempio l’amore e come rendere sempre vivo questo sentimento. Ma anche il dolore e la nostalgia di quando questo viene a mancare. Quindi tutti sentimenti forti che prova qualunque essere umano ed a maggior ragione viene facile immedesimarsi quando si ascoltano le parole dei nostri brani.

R.G.: L’artwork del disco è molto suggestivo, volete parlarcene?

K.: Sì, il disegno è opera di Jan Yrlund come nelle precedenti copertine. Di diverso c’è che stavolta abbiamo voluto puntare su un paesaggio che il “vagabondo” del disco immagina, in modo che anche chi ascolta si possa immaginare in quel luogo.

R.G.: Siete in tour da diverse settimane e a fine marzo termineranno le vostre date europee, avete qualcosa in programma per la primavera/estate?

K.: Sì, a maggio suoneremo in Australia e Nuova Zelanda, mentre per l’estate abbiamo in programma alcuni festival europei. Quindi non vi resta che seguirci sui nostri canali per essere informati su tutto.

R.G.: Certamente! Intanto vi ringraziamo per l’intervista, volete salutare i nostri lettori?

K.: Grazie a te, un saluto ai lettori di RockGarage!

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26th Mar2019

Intervista agli Extrema

by Cristian Danzo
Al Rock ‘N Roll di Milano, noto locale che da anni vede riunirsi metallari e rocker della città meneghina, abbiamo incontrato Tommy Massara, chitarrista e leader storico degli Extrema, band che ha in uscita negli store fisici e digitali il nuovo album dal titolo Headbanging Forever nella vicinissima data del 10 maggio. Vediamo cosa è venuto fuori dalla nostra chiaccherata.

R.G:. Ciao Tommy e benvenuto su RockGarage. Apriamo parlando del nuovo album di imminente uscita. Come è stato il processo di composizione, registrazione e, soprattutto, di produzione visto che te ne sei occupato tu direttamente.

T.M.: Un saluto a tutti i lettori di RockGarage. Allora, il processo di scrittura è durato molto perché ho iniziato a scrivere i pezzi nel 2014 ma non riuscivamo mai a completare il materiale perchè c’erano delle situazioni che poi sono esplose. La scrittura dei brani ha avuto un’accelerazione quando è entrato Tiziano nella band (Spigno, che ha sostituito GL Perotti nel 2017 nda). Le canzoni musicalmente già pronte erano 5 o 6 e dopo alcuni concerti, nel settembre 2017, abbiamo iniziato con il discorso di scrittura musica-liriche. Al 99% le musiche sono state composte da me quindi, questa volta, è tutta colpa mia (risate nda). Con Tiziano ci siamo visti in quel periodo un po’ di volte proprio per conoscerci ed approfondire meglio quel lato lavorativo ed il periodo di integrazione con la band, anche sotto questo punto di vista, è stato molto veloce. Devo dirti che ci siamo subito trovati in ottima sintonia, sia sul palco e nella dimensione live che sulla scrittura, che è la parte più difficile, perché ti posso assicurare che andare d’accordo in questa fase non è proprio così semplice come si pensa. Per chiudere il tutto poi ci sono voluti pochi mesi, con ognuno di noi che lavorava da casa nel proprio home studio. In questa fase io componevo la musica e mi confrontavo molto spesso con Francesco (LaRosa, nda) per il discorso della batteria. Proponevo delle idee che lui traduceva poi in pattern e poi ne ridiscutevamo per mantenere le idee di entrambi che ci sembravano più efficaci. Stesso processo è stato affrontato con Tiziano per le liriche. Abbiamo lavorato a quattro mani solamente su The Call, il pezzo che apre il nostro nuovo lavoro. Quello è stato il momento in cui mi sono reso conto che poteva benissimo lavorare da solo per poi poterci confrontare. Le registrazioni sono avvenute in due fasi: una pre produzione demo da proporre alle etichette con il materiale realizzato negli studi di casa a cui è seguita una produzione in studio gestita da noi senza aspettare il responso di una etichetta. E’ stata realizzata ai Fear Studio ai Alfonsine, in provincia di Ravenna, insieme a Gabriele Ravaglia che ormai è nostro mentore da tempo. Il lavoro è stato diviso in tre scaglioni, dal mese di aprile al mese di agosto. Il prodotto finito è stato poi inviato a varie case discografiche fino a quando non è stato trovato in Rockshot Records il partner ideale per permettere l’uscita dell’album.

R.G:. Anche se parzialmente ne hai parlato prima, come ti sei e vi siete trovati con un nuovo cantante?

T.M.: Tiziano ha sicuramente portato nella band quello che mancava…purtroppo, e lo dico con dispiacere e senza volere dare un parere negativo verso GL, non c’erano più le condizioni umane e professionali per andare avanti. Non me ne voglia Gianluca ma lui anteponeva la sua rabbia e la sua voglia di dare il suo messaggio, peraltro non condiviso dagli altri, alla musica. Prima veniva il messaggio e poi tutto il resto. L’arrivo di Tiziano ha rasserenato tutto l’ambiente, ha portato una ventata di serenità che ci mancava da anni, che ci ha permesso finalmente di riconcentrarci sulla musica e su quello che è il lavoro di una band, evitando di sprecare energia su cose collaterali estranee agli Extrema.

R.G:. Il tuo approccio nel songwriting è cambiato rispetto al passato vista l’entrata di un nuovo singer nel gruppo oppure è rimasto invariato?

T.M.: No, non è cambiato in nessun modo. Avevo un’idea chiara già dalla prima fase di scrittura: volevo fare un album e mi volevo divertire a suonare quell’album. Non voglio dire che non mi sia divertito a suonare nei prodotti passati. La differenza sta nel fatto che il nuovo materiale è nato in maniera completamente spontanea. Prima, tanto per farti un esempio, magari componevo delle cose ma le sentivo datate e quindi scartavo quelle idee. Questa volta invece mi sono focalizzato completamente su ciò che mi piace. Lo diciamo nei nostri comunicati: Headbanging Forever è un album che a tratti ricorda qualcosa di classico, non di vecchio, suonato in un modo molto moderno. Questa è la filosofia del nuovo prodotto: ci sono assoli, ci sono riff alla vecchia maniera. Ci tengo a spiegare però cosa intendo con questa definizione. Non come se uno dicesse suoni “old school” o suoni vecchi. Ho scritto materiale di oggi che vale oggi ma che ricorda quel modo di suonare che c’era tempo fa. Quindi l’album è volutamente così. Un’altra cosa importantissima, e subito chiara a tutta la band dalla separazione da Gianluca, è che non volevamo un cantante che prima di tutto fosse un clone di GL. Ci perdonino i fan, ma questa è stata una decisione voluta fin dall’inizio. A quel punto, volevamo anche un cantante che si discostasse dallo stile che contraddistingue moltissimi singer attuali, gente che urla come un pazzo, che durante le strofe si sgola e poi arriva al ritornello e sembra Justin Bieber. Volevamo un cantante che avesse ovviamente la tecnica ma anche un carattere quasi blues, nel senso che tu sei consapevole di essere in presenza di una persona che sta cantando e che sa cantare. Quando Tiziano è stato scelto dopo le audizioni, è stato scelto perché si discostava da quello che suonavamo ed è stata una sfida agganciare un cantante che tendenzialmente oggi non ti aspetteresti mai, al nostro stile.

R.G:. Parliamo ora dell’artwork, di come avete deciso di scegliere quel determinato artista per realizzare la vostra copertina.

T.M.: Per quanto riguarda l’artwork abbiamo deciso di andare sull’internazionale. Avevamo un po’ di nomi in mente con i quali lavorare. La difficoltà è stata subito nel trovare qualcuno che rendesse l’idea del titolo dell’album traducendola nella veste grafica. Il primo che è stato contattato è stato un mio caro amico tedesco il quale però non ci ha convinti. Abbiamo poi sentito Gustavo (Sazes, che ha realizzato le copertine per, tra gli altri, Arch Enemy, Iced Earth e Angra nda) e dopo qualche scambio di mail la mia proposta è stata: “Il titolo è questo, hai carta bianca e vediamo cosa viene fuori“. A lui è venuto in mente questo concetto di lame che girano, di macchine industriali che si perpetuano di continuo. E’ un’opera davvero di impatto, che ci ha molto soddisfatti e che sarà davvero una grande copertina. Magari non traspare proprio chiaramente il concetto di headbanging ma è davvero un’illustrazione di forte impatto che ci ha molto soddisfatti.

R.G:. Ci sono pezzi nel nuovo lavoro che ti soddisfano più di altri? Che a livello personale ti hanno dato più soddisfazione rispetto ad altri oppure è tutto allo stesso livello?

TM: E’ un po’ un discorso che si fa con i figli: non c’è il figlio più bello o quello più brutto. Mi piacciono tutte le canzoni poi dipende dal momento in cui mi trovo dove posso apprezzarne più una rispetto ad un’altra. Diciamo che a differenza del passato questo è un album molto più eterogeneo in quanto ho cercato di restringere il più possibile il focus compositivo e di stile. Ad esempio se prendi The Seed Of Folishness (disco precedente realizzato nel 2013 nda) l’ultima track che vira sul southern è stata inserita per gioco anche perché in quella release abbiamo veramente spaziato sempre rimanendo all’interno delle coordinate di quello che è il metal. Il nuovo lavoro invece ha un approccio più ristretto, come dicevo prima, ed è un album che lascia quasi senza respiro perché ogni pezzo è martellante. Sono molto contento del lavoro svolto. Sento cose, quando lo riascolto, che mi suscitano emozioni e ricordi perché come spiegavo prima è un album che stilisticamente vede un forte riferimento al modo di suonare passato.

R.G:. “Headbanging Forever” uscirà anche in vinile. Il ritorno prepotente di questo tipo di supporto, secondo te, è più una moda o è finalmente il riconoscimento ufficiale dell’ascolto migliore che esista?

T.M.: Non penso assolutamente che sia una moda. I nostri album sono usciti sempre tutti su vinile. Rockshot Records ne realizzerà quanti ne richiederà il mercato, a differenza degli ultimi due nostri lavori che, per quanto riguarda la stampa in vinile, vedevano un accordo con Night Of Vinyl Dead Record, etichetta che stampa un tot numero di copie decise preventivamente e che poi non ristamperà più, perché la loro filosofia è legata non al mercato ma proprio all’oggetto. Ed uso questo termine volutamente perché loro non pensano che quello che realizzano sia un prodotto ma proprio un qualcosa di unico. Sicuramente il ritorno del disco è partito più che come revival come una cosa da nerd. Però è figo andare in giro con un supporto così sotto braccio. Mi ricordo quando uscimmo con Tension At The Seams (esordio egli Extrema datato 1993 nda) che i tre formati diffusi all’epoca erano i seguenti: cassetta, cd e vinile. La cassetta ovviamente era comoda e, lasciamelo dire, anche se sembra che ci sia un revival anche di quella, come supporto è una porcheria. Il vinile invece era il supporto migliore ma era diventato “scomodo” anche se in realtà è sempre stato il supporto più importante, sia a livello sonoro che visivo: copertina grande,il gatefold che apri e ti fa godere ancora di più. E’ un’esperienza a tutto tondo, per come la vivo io, anche rispetto al CD perché è una cosa grande. E’ un po’ come l’America dove tutto è grande! Il sound è più grande, la copertina è più grande e puoi permetterti di non sacrificare più il dettaglio. Infatti nelle nostre copie ci sarà un collage di foto della band da quando è entrato Tiziano, per sottolineare il fatto che gli Extrema hanno una storia molto lunga ma che oggi è come se fossero una band completamente nuova. E nel vinile, rispetto al CD, si troveranno molte più foto. Inoltre le prime 500 copie usciranno in quattro colori diversi. Esaurite queste copie partirà poi la tiratura classica di colore nero.

R.G:. Se non foste italiani avreste avuto una carriera ed un responso completamente diverso?

T.M.: Sì. Ne sono convinto. Per come la vivo io, essere italiano mi da più onore e più orgoglio perché comunque, per la realtà che siamo, abbiamo fatto tantissimo. Quindi critiche o frasi del tipo: “Non hanno mai fatto un cazzo” lasciano il tempo che trovano. Essere qui e leggere recensioni che arrivano dall’estero che dicono che dopo sette dischi sembriamo dei ragazzini che hanno addosso la voglia e la passione, ti fa capire come fuori dai nostri confini avremmo fatto molto di più. E comunque nel nostro piccolo abbiamo fatto tanto ed in passato ci abbiamo anche guadagnato dei soldi. Quindi tu pensa a farlo in un paese dove il mercato è molto più ricettivo, con strutture che avrebbero lavorato in modo diverso sulla band, con a disposizione molte possibilità diverse. Il problema è che l’Italia, purtroppo, ha molta poca memoria e le band italiane che ce l’hanno fatta anche in altri paesi non sono con un contratto sotto etichette italiane. Che sono quelle che ti fanno discorsi tipo siete vecchi o non ci sono i numeri, tanto per farti capire. Questa storia dei numeri, ad esempio. I numeri sono riportabili ovviamente solamente davanti al mercato nel quale ti trovi. Noi, per quello che abbiamo fatto, ci siamo ritagliati un nostro spazio importante, pensando anche alla realtà di cui ti dicevo sopra.

R.G:. Dipende anche da altri fattori questa situazione? Scena disunita o invidiosa, fan esterofili che snobbano prodotti interni?

T.M.: In Italia i dischi non si vendono. Non li vendono i nomi grossi figurati le realtà piccole. Più di una volta mi sono schierato con l’affermazione che la scena si lamenta ma non fa niente per la scena, e questo è un dato oggettivo. Purtroppo i numeri hanno un’importanza: se tutti i fan del metal in Italia comprassero i dischi delle band metal, non saremmo qui a parlare di questa cosa. Non si vede una band metal italiana sotto contratto con un’etichetta italiana che sia in classifica. E non venite a dirmi che merda la classifica non c’entra nulla. Torniamo al discorso dei numeri: se tu li realizzi sei un’istituzione. E volente o nolente, questi numeri fanno parte della realtà dell’entità musicale, non ci sono storie. Non è colpa di nessuno e non si punta il dito contro nessuno, ma il dato di fatto è questo. Abbiamo stretto un accordo di distribuzione con Universal Music ed ho letto commenti tipo: “Che bello finalmente una band italiana distribuita major“. Noi abbiamo avuto tre dischi distribuiti da una major. Il problema è sempre quello: la memoria è corta, ed anche se la gente pensa sia un bel segnale, se poi i dischi non vengono acquistati rimane tutto bloccato vita natural durante. Per farti capire, quando è uscito Tension At The Seams da un giorno all’altro avevamo venduto 15.000 copie. Letteralmente dalla mattina alla sera. Voglio vedere, oggi, se può succedere ancora una cosa del genere. Poi certo in questo periodo puoi avere le visualizzazioni e tutto il resto ma le copie non le vendi comunque. Non è il like su Facebook che fa la differenza. E’ anche un discorso di guadagni ma non nel senso di diventare miliardari. Se fai questo mestiere devi guadagnare qualcosa per vivere perché ci sono anche delle spese. Infatti io ho anche un altro lavoro attualmente, sempre all’interno del mondo dell’entertainment, ma comunque è un altro lavoro.

R.G:. Hai dei rimpianti riguardo alla vostra lunga carriera?

T.M.: Ne ho uno solo e ce l’avrò sempre. Quando è uscito il nostro primo album, Contempo (la casa discografica che ha pubblicato Tension At The Seams, nda) ha avuto questa offerta da parte di Atlantic America di far firmare gli Extrema. Al posto di cedere il master per 60.000 dollari (ed il master di Tension era costato 20.000 ai tempi) con un guadagno di 3 volte, avevano chiesto solo per la licenza 700 milioni di lire, vanificando il tutto. Questo è l’unico vero rimpianto che ho perché in quel momento del metal così importante a livello internazionale, l’album avrebbe potuto fare sfracelli. Ci penso ancora oggi a distanza di anni. Se pensi che Atlantic, che voleva gli Extrema, aveva sotto contratto in quegli anni Skid Row, AC/DC e Pantera… al posto nostro hanno preso i Clutch.

R.G:. Rispetto ai vostri esordi come sono cambiati il mondo del business della musica e la fruizione da parte del pubblico?

T.M.: Quando noi abbiamo iniziato era molto più difficile fare dischi. Noi avevamo lavorato così tanto ed eravamo così convinti di conquistare il mondo, e non prendermi per un esaltato, perché ci siamo quasi arrivati. Oggi la vedo come una cosa impossibile. Noi italiani siamo molto romantici e la si può vedere nel modo più romantico possibile ma anche il metal è un mondo fatto di affari e la musica è fatta dai musicisti e dai business-men. Qualsiasi band, anche la più super schierata all’estero, ha un business plan, con un business manager. Non si scappa da questo. E’ ovvio che per fare tour, dischi, video, promo dietro c’è un investimento di soldi. Band italiane che fanno qualcosa con etichette estere ci sono ma si contano veramente sulle dita di una mano.

R.G:. Il momento migliore ed il momento peggiore vissuto in questi 30 anni di carriera.

T.M.: Il momento top sono stati i primi quattro anni, dall’uscita di Tension al tour di The Positive Pressure(Of Injustice) (1995,nda). Non direi che fossimo baciati dalla fortuna perché nessuno ci ha mai regalato un cazzo. Per arrivare alla pubblicazione del primo disco abbiamo fatto sette anni di gavetta, ci siamo trasferiti negli Stati Uniti, organizzavamo concerti in un periodo dove organizzare un live di metal estremo era quasi impossibile. La nostra carriera ce la siamo costruita dal niente. E’ stato tutto una figata. Il momento peggiore è stato da dopo The Seed Of Folishness quando purtroppo ci siamo allontanati da GL a livello di feeling. Lì si è perso tutto, con grande dolore e dispiacere perché comunque c’era un’amicizia molto forte ed importante che ci legava. Un altro momento difficile è stato nel 2009 quando l’impero globale della musica è crollato su se stesso. E me lo ricordo bene, perché uscimmo con Pound For Pound e SPV, che era il nostro distributore, fallì dopo un mese dall’uscita del disco, con conseguenza che lo stesso non va sul mercato e Youtube Germania che blocca tutto il materiale della SPV e quindi zero visualizzazioni per non pagare i diritti, con tutte le conseguenze che sono poi arrivate. Duro lavoro per fare la release, un tour europeo precedente con i Death Angel andato benissimo, e poi ti trovi con un disco praticamente da buttare. Lì è iniziato un periodo oscuro culminato con la separazione da Gianluca. Per fortuna siamo andati avanti con la filosofia del prendere quello che arrivava, per non fermarci definitivamente, e di goderci di nuovo una band che si focalizzasse sul divertimento senza menate, e penso che siamo riusciti a rimettere in piedi tutto molto bene. Ora c’è una serenità incredibile e tantissima voglia di fare. Prendiamo il meglio del passato e lo misceliamo con la calma che c’è oggi. Come se fosse un nuovo inizio, anche se non mi piace per niente usare questa frase.

R.G:. Grazie Tommy per la disponibilità ed il tempo speso con noi.

TM: Grazie a te ed ai lettori di RockGarage. Spero che i nostri fan di vecchia data apprezzeranno il nostro nuovo lavoro e quelli di nuova generazione si avvicinino dopo l’ascolto di Headbanging Forever. Un saluto a tutti.

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11th Feb2019

Intervista ai Beartooth

by Piero Di Battista
Qualche ora prima del loro show, di supporto agli Architects, abbiamo incontrato per un’intervista il cantante e leader dei Beartooth, Caleb Shomo, nei camerini dell’Alcatraz di Milano. Con lui abbiamo parlato di Disease, disco che la band americana ha pubblicato lo scorso settembre ma anche di tanto altro. Ecco il resoconto della nostra chiacchierata.

R.G.: Ciao Caleb e benvenuto in Italia, come stai?

C.S.: Grazie! Sto molto bene, abbiamo passato una bella giornata. Anche perché avendo un amico fotografo che vive qui a Milano ne abbiamo approfittato per fare un bel giro; ci ha portato in bei posti, girato la città, bevuto caffè e mangiato croissant e gelato. Non penso possa esistere una maniera migliore per iniziare la giornata.

R.G.: Quindi immagino tu sia bello carico per stasera, vero?

C.S.: Assolutamente si!

R.G.: Siete in tour da qualche mese ormai, come sta andando?

C.S.: Alla grande direi! Suoniamo assieme a ottime band e finora i concerti sono andati tutti benissimo e senza alcun problema.

R.G.: Lo scorso settembre avete pubblicato “Disease”, ci parli un po’ di questo nuovo album dei Beartooth?

C.S.: Il disco è stato registrato in più studi in giro per il mondo, mentre Agressive, l’album precedente che è uscito circa due anni fa, l’ho registrato io a casa mia. La fase di registrazione poteva ricordare un po’ come avveniva negli anni 70; con tape machine e consolle di registrazione, quindi, se vuoi sapere la principale differenza tra i due dischi direi che è questa.

R.G.: Esatto, mi hai anticipato sulla domanda che avrei voluto farti, parliamo però di te, più che altro se è cambiato il tuo approccio rispetto a due anni fa.

C.S.: Nel realizzare Disease è come se avessi avuto più chiarezza, o meglio, una visione più ampia soprattutto riguardo il songwriting, su cui l’impatto emotivo forse è stato più determinante e penso che si possa capire ascoltando il disco, in particolare le parole, con attenzione. (pausa, ndr) Si, è stato molto più impegnativo dal punto di vista emotivo.

R.G.: Come ogni artista, avrai avuto dei punti di riferimento musicale, quali sono?

C.S.: AC/DC! Sono la mia band preferita di sempre! Hanno avuto su di me un’enorme influenza e considero loro la più grande rock band di sempre. Hanno un’energia pazzesca e semplice allo stesso tempo. Prendo ispirazione da questo e dal divertimento che provo ogni volta che li ascolto.

R.G.: Quello di stasera sarà il vostro unico concerto in Italia di questo tour, ti piace suonare qui?

C.S.: Tantissimo! Abbiamo suonato qui a Milano 3-4 volte in passato, ma questa sarà la prima volta che suoniamo in una location più grande. Siamo molto curiosi di vedere come andrà, ma allo stesso tempo siamo convinti che faremo un grande show.

R.G.: Da americano quale sei, che differenze noti tra il pubblico del tuo Paese e quello europeo?

C.S.: I concerti in Europa sono più..folli! I fan sono più pazzi, più calorosi. Per noi è logisticamente più difficile suonare qui in Europa e quindi penso che i fan apprezzino tanto quando finalmente riusciamo a trovare il tempo di venire qui. La stessa cosa può accadere anche negli U.S.A., ma logicamente lì suoniamo molto più spesso ed in generale la scena americana è molto più satura di concerti.

R.G.: Grazie dell’intervista Caleb, vuoi salutare i lettori di RockGarage?

C.S.: Grazie a te e a RockGarage! Vi aspetto stasera per lo show!

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20th Dic2018

Intervista ai Mudhoney

by Piero Di Battista

Intervista Piero Di Battista con Steve Turner dei MudhoneySiamo al Santeria Social Club di Milano, esattamente nel backstage, dove abbiamo incontrato Steve Turner, storico chitarrista dei Mudhoney. Con lui abbiamo parlato del loro ultimo album Digital Garbage, di politica e soprattutto di grunge. Ecco l’intervista.

R.G.: Benvenuto a Milano, sei carico per stasera?
S.T.: Grazie! Sì sono assolutamente carico, come sempre d’altronde!

R.G.: Come sono andati i concerti di Roma e Bologna? Vi siete divertiti?
S.T.: Sono stati entrambi due ottimi show, molto divertenti, anche il pubblico credo si sia parecchio divertito.

R.G.: Siete in tour per promuovere “Digital Garbage” il vostro ultimo disco; che riscontri avete avuto a riguardo?
S.T.: Al pubblico sta piacendo! È un disco direi molto “impegnato”, Mark (Arm, cantante dei Mudhoney, ndr) si sente molto coinvolto dalla direzione che sta prendendo il nostro paese da quando c’è Trump, e questo ha parecchio influenzato la sua scrittura. Come dicevo, è un disco impegnato, ed è proprio questo il feedback principale che abbiamo ricevuto.

R.G.: “Digital Garbage” è pieno di rabbia, quindi, da quanto mi hai anticipato, è figlio dell’aria che attualmente si respira negli U.S.A.?
S.T.: Assolutamente sì! Innanzitutto f**k Trump, sempre! Sai che è una cosa imbarazzante tutto questo? Non è facile parlare di ciò che sta accadendo a casa nostra, lo stato in cui si trova il mio Paese è scioccante, deludente…imbarazzante!

R.G.: Nel disco ci sono anche forti critiche riguardo l’uso sproporzionato dei social network; tu, o comuqnue voi Mudhoney, come vi rapportate con questi?
S.T.: Sai, Mark ad esempio non è su nessun social network, io invece sì, sia su Facebook che su Instagram, li uso per mantenere i contatti con amici e familiari più lontani, ma sinceramente sto pensando di eliminare il profilo Facebook per via degli scandali usciti fuori ultimamente riguardo il loro modus operandi soprattutto su questioni politiche che riguardano gli U.S.A.. Comunque tornando alla tua domanda nel disco parliamo anche di questo, in particolare nel brano Kill Yourself Live.

R.G.: Sei quindi d’accordo sul fatto che la musica può essere ancora oggi una potente forma di protesta?
S.T.: Certamente! Magari non potrà portare a un cambiamento immediato, ma di certo fa sentire le persone meno sole. Mi è sempre piaciuta la musica fortemente politicizzata, in particolare il punk rock o il folk, ma per quanto riguarda i Mudhoney alla fine non è che stiamo facendo qualcosa di nuovo, anche ripensando alla nostra primissima band quando nel 1982 scrivevamo molti testi politici, anche se facevamo hardcore!

R.G.: 30 anni di Mudhoney…l’avresti mai detto?
S.T.: Assolutamente no! In realtà, dopo 10 anni dalla nostra nascita ho pensato “beh, a questo punto proviamo ad andare avanti!”, ero molto sorpreso in quel momento e così abbiamo continuato, semplicemente, e da lì non è sembrato più strano, anzi.

R.G.: Voi venite dalle radici del grunge, l’ultima vera “scena” musicale; che ricordi hai di quel periodo?
S.T.: Beh di ricordi ne ho tantissimi, il grunge fu un gran movimento e da allora non ho mai più visto niente di simile. Anche se però devo dire che magari non è che ne facevamo parte, la storia la fecero soprattutto Nirvana e Pearl Jam, assieme erano come un gigante con due teste! È stato bello e divertente far parte di questa scena, vedere il nostro nome abbinato a tutto questo, e soprattutto vedere tanti amici che hanno poi avuto un grande successo, anche se noi non è che ce la passavamo male sia chiaro. Però vedere quello che poi hanno passato i Pearl Jam e soprattutto i Nirvana mi fece pensare “No cazzo! Io non ho firmato per avere questo, voglio semplicemente suonare in una band!”.

R.G.: E invece attualmente cosa ascolti?
S.T.: Tanta musica! Ancora oggi mi piace collezionare dischi punk underground, ieri eravamo a Roma e ne ho approfittato per andare in un negozio che si chiama Radiation Records; ho comprato tantissimi singoli punk degli anni 70, Mark invece si è comprato una maglietta dei The Users. Tieni conto anche che io lavoro in una ditta che stampa dischi a Portland; molti miei colleghi che hanno più o meno la tua età suonano ancora in gruppi hardcore, quindi sto ascoltando molto più hardcore rispetto a una volta. Tardo hardcore, anni 90/2000. Uno dei ragazzi con cui ho lavorato suona in una band chiamata Tragedy, non li avrei mai conosciuti se non avessi iniziato a lavorare li…e sono bravi!

R.G.: Deduco quindi che vi piaccia molto venire in Italia a suonare; ma ti ricordi il vostro primissimo show qui da noi?
S.T.: Sì! Credo che il nostro primo show in Italia fu a Rimini…o Bologna? Credo Rimini ma non ci giurerei. Ricordo però quel concerto a Bologna, fu memorabile perché era in uno squat, molto punk rock come situazione! Inoltre era pieno di belle ragazze, e noi eravamo anche molto giovani (ride, ndr).

R.G.: Grazie per l’intervista Steve! Vuoi mandare un salute ai lettori di RockGarage?
S.T.: Grazie a te! Saluto i fan di RockGarage e vi aspetto ai nostri prossimi show italiani!

Category : Interviste
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06th Dic2018

Intervista agli Hatesphere

by Antonluigi Pecchia

Intervista Pete Hatesphere con Antoniluigi PecchiaLa scena metal underground è sempre stata ricca di band che con il tempo sono riuscite ad affermarsi e ad emergere dalla loro natura di band di nicchia affacciandosi sul mercato mainstream (Behemoth e Gojira possono essere due nomi rappresentativi), altre invece hanno abbandonato la scena per svariati motivi e invece esistono band come i danesi Hatesphere che continuano a portare l’etichetta di band underground con orgoglio, non lasciandosi deteriorare dal tempo e sempre carica e pronta a sfornare nuova rabbia messa in musica. Infatti dopo quasi due decadi sotto questo nome dalla release dell’omonimo debutto, uscito per la nostrana Scarlet Records, la band nel mese di ottobre è ritornata sulla scena con Reduced To Flesh, decimo album della loro carriera, rientrando nella scuderia della loro etichetta di origine. In occasione dell’unica data italiana che li ha visti accompagnare i Sinsaenum in tour per l’Europa abbiamo avuto modo di chiacchierare con Pepe, mastermind dei riff del combo danese per farci raccontare qualcosa in più sul loro nuovo disco.

R.G.: Ciao Pepe, bentornato in Italia, innanzitutto come sta procedendo l’attuale tour?
P.: Bene grazie, stiamo coprendo un bel po’ di nazioni: Inghilterra, Finlandia, oggi siamo in Italia, il programma prevede di coprire gran parte del territorio europeo lasciando fuori Spagna, Portogallo e tutto l’est Europa.

R.G.: Il vostro ultimo “Reduced To Flesh“ uscirà tra una settimana circa (al momento dell’intervista ndr) ed è strano vedervi in tour prima della sua release, come mai avete preso questa decisione?
P.: Effettivamente la situazione ideale sarebbe stata se l’album fosse uscito poco prima che partissimo in tour ma purtroppo in questo caso è stato impossibile. Comunque credo che suonare per un pubblico nuovo sia sempre un’ottima cosa perché se la tua musica sarà apprezzata dal vivo allora sicuramente ci sarà qualcuno che acquisterà il nuovo disco quando gli sarà possibile farlo. Subito dopo questo tour saremo in compagnia dei Decapitated, il nostro nuovo disco sarà già disponibile in vendita e andremo a coprire gran parte dell’est Europa con Repubblica Ceca, Slovacchia, Austria e Turchia, tutte nazioni che non saranno toccate durante questo tour.

R.G.: Dalle anticipazioni del disco sembrerebbe quasi che avremo modo di gustarci un disco più politico per quanto riguarda i testi del singolo Corpse Of Mankind o comunque dati i titoli dei brani contenuti in esso.
P.: Sì può darsi che Reduced To Flesh sia un disco più politico per quanto riguarda le tematiche dei testi, direi più che si tratta di un misto tra politica ed esperienze personali, penso che Esben (voce della band ndr) sia stato carico di rabbia per i testi proposti in questo nuovo disco.

R.G.: Ma innanzitutto, raccontaci un po’ dell’album in generale.
P.: Musicalmente si tratta di un disco molto old school, thrash metal sempre in chiave Hatesphere ma con aggiunta di una dose massiccia di death metal e di atmosfera data dalle parti orchestrali che hanno arricchito l’album di parti sinistre e oscure, soprattutto per quanto riguarda gli intermezzi. Questo è stato frutto della collaborazione con l’inglese Jon Phipps che aveva già collaborato per gli ultimi lavori di Moonspell e Amorphis tra gli altri. Non è stato semplice vederci in questo tipo di collaborazione e non sapevamo cosa ne sarebbe venuto fuori ma una volta registrato e mixato il tutto, il risultato è stato soddisfacente. Credo che sia un disco spaventoso in alcuni frangenti.

R.G.: Nella vostra ormai quasi ventennale carriera siete stati sempre molto impegnati in tour ma ho notato che per la promozione del precedente “New Hell“ non avete viaggiato moltissimo rispetto ai vostri standard, avete preferito ritagliarvi un po’ più di tempo per la realizzazione del nuovo album?
P.: Dopo la release di New Hell siamo stati in tour con i Soilwork e abbiamo suonato anche qui in Italia, successivamente siamo partiti per la Cina per un tour da headliner durato due settimane, poi siamo stati di nuovo in tour per l’Europa da headliner per un breve periodo. Lo scorso anno abbiamo suonato con i Metallica in Danimarca, fatto qualche data insieme ai Crowbar e abbiamo partecipato ad alcuni festival estivi, poi abbiamo iniziato a scrivere l’album nuovo. Sì, hai ragione, rispetto ai nostri canoni non abbiamo trascorso molto tempo in tour lo scorso anno e sì, abbiamo preferito concentrarci e lavorare sul nostro disco, inoltre agli inizi di quest’anno siamo tornati in Cina e abbiamo anche suonato in Giappone.

R.G.: Wow, ormai suonate spesso nel continente asiatico quindi! Esiste molta differenza tra il pubblico asiatico e quello europeo?
P.: Sì, devo ammettere che il pubblico giapponese è molto attivo durante i nostri show, come popolo sembra pacato e tranquillo eppure sanno come divertirsi durante i concerti metal!

R.G.: Ritorniamo su Reduced To Flesh, cosa ritroveremo di diverso in quest’ultimo rispetto alle vostre ultime produzioni?
P.: Rispetto ai nostri ultimi due album credo che si tratti di un lavoro più sporco e grezzo come lo era in passato, la differenza principale si può riscontrare nelle orchestrazioni che rendono l’opera più sinistra ma soprattutto questa volta abbiamo voluto provare a concentrarci maggiormente sugli intermezzi dei brani provando a svilupparli meglio, rendendoli più lunghi. Abbiamo sempre voluto suonare thrash metal ma il nostro intento è quello di inserirci nuovi elementi al suo interno rendendolo più complesso come parti più melodiche tendenti al rock o come anche altre più groove, alternando attimi più veloci ad altri più lenti. L’obiettivo finale è quindi di non proporre mai qualcosa che sia sempre e solo veloce o sempre e solo lento ma il giusto mix di tutto. Abbiamo composto delle ottime canzoni senza mai dimenticare la nostra identità di band.

R.G.: Credo che sia proprio questa la vera forza degli Hatesphere, il marchio di fabbrica che vi ha reso famosi fin dai tempi dal debutto e in cui perseverate ancora oggi. Sono molte le band che hanno cambiato il genere proposto nel corso della loro carriera, alcune ricreandosi e ottenendo comunque successo. A ciò però si contrappone la perseveranza che credo sia anche una forma d’arte. Quindi chiedo a te che sei il principale compositore, quale è la formula per mantenere l’identità degli Hatesphere nel corso di questi quasi venti anni di carriera?
P.: Io penso che il fatto di essere il compositore della band abbia facilitato questa nostra fedeltà in quanto a sound nel corso dei dischi. Non è una cosa che faccio intenzionalmente, a me piace scrivere la musica che scrivo ma ogni volta che scrivo qualcosa di nuovo voglio che suoni realmente come qualcosa di nuovo per me, le sensazioni non devono essere uguali ad altre canzoni. Noi suoniamo come gli Hatesphere, ascoltando la nostra musica non ci paragoneresti a nessuna altra band se non a noi stessi.

R.G.: Toglimi una curiosità, che sensazioni hai avuto scrivendo i brani del vostro ultimo album?
P.: (ride, ndr) Non lo so, semplicemente ero seduto nel mio seminterrato e ho provato a scrivere nuovi riff e così ho scritto qualche parte melodica e qualche parte più dark, mentre altre erano idee che già avevo in mente da un po’ di tempo e che dovevo solo perfezionare, così le ho registrate e ho pensato che sarebbero state perfette per le canzoni che stavo scrivendo. E’ difficile spiegartelo perché ogni volta non penso a come dovrebbe suonare il prodotto finito, bensì scrivo canzoni che vorrei scrivere in quel preciso momento della mia vita. Ascoltando il disco con tutte le sue sfaccettature mi ritrovo pienamente soddisfatto del lavoro da me svolto.

R.G.: Cosa ne pensi invece della risposta del pubblico di questo tour per i nuovi brani proposti?
P.: Non te lo saprei dire ancora perché fino ad ora, in questo tour, abbiamo proposto solo Corpse Of Mankind, primo singolo estratto dal disco e il responso dal pubblico è più che positivo. Forse da stasera inseriremo qualche altro brano nuovo in scaletta e vedremo.

R.G.: Quali saranno i vostri progetti futuri dopo questo tour?
P.: Dopo il tour con i Decapitated ci prenderemo un po’ di tempo per noi, riprenderemo l’attività live a marzo con il tour danese e poi saremo ospiti di qualche festival estivo. Spero che avremo l’occasione di tornare a suonare in Giappone perché Reduced to Flesh sarà pubblicato anche lì.

R.G.: Ok grazie mille!
P.: Grazie a voi!

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22nd Ott2018

Intervista alla Mr Vertigo Vinyl Records

by Sara Fabrizi

Intervista Sara ai ragazzi di Mr Vertigo Vinyl RecordsAbbiamo scambiato 4 chiacchiere con gli amici di Mr Vertigo Vinyl Records, start-up di Isola del Liri (FR), che si occupa fondamentalmente di registrazione e stampa di vinili. Di seguito un po’ di informazioni e curiosità su questa loro attività innovativa che strizza l’occhio al passato.

R.G.: Ciao ragazzi! Come è nata questa vostra idea di intraprendere questo tipo di attività?

Mr.V.V.R.: E’ nato tutto nel 2015 dalla necessità di stampare il nostro disco (trattasi di musicisti, oltre che di produttori di vinili n.d.r.). Abbiamo svolto una serie di ricerche sospinti sia dalla fretta di trovare una soluzione sia dalla curiosità e abbiamo scoperto questo mercato, ancora semi vergine e in espansione. Quindi abbiamo deciso di buttarci dentro questa avventura mettendo su quest’attività.

R.G.: Ci sono stati, quindi, progetti simili da cui avete preso spunto o ispirazione?

Mr.V.V.R.: La nostra ispirazione principale ci è stata data da varie realtà europee. Poi, naturalmente, ci siamo mossi ed evoluti in modo autonomo ed originale andando a coprire tutti i formati di vinile e includendo tutte le varie fasi/attività di produzione nella nostra attività. Ad esempio siamo stati i primi in Italia a lanciare la personalizzazione on line del disco.

R.G.: Descrivetemi brevemente in cosa consiste la vostra attività, cosa producete nello specifico, per chi, come si articola il vostro lavoro anche nelle sue sotto attività o attività collaterali.

Mr.V.V.R.: Stampiamo ogni supporto audio, quindi CD, vinili, musicassette, anche se la nostra specializzazione è sui vinili quindi logicamente il 90% delle richieste che riceviamo riguarda il vinile. A richiedere il vinile sono semplici privati che vogliono stampare una o più copie per un’idea regalo o per un uso personale. Poi ci sono i musicisti che vogliono questo tipo di supporto per diffondere/vendere il loro prodotto, vuoi perché affascinati dal calore del vinile vuoi perché hanno compreso quanto esso stia “tornando di moda”. Paradossalmente a riportare al vinile sono stati proprio gli mp3 e gli altri formati digitali. Infatti la musica “liquida” ha mostrato i limiti del supporto CD, che ormai spadroneggiava da più di 2 decenni, orientando verso la riscoperta dei formati e dei suoni analogici quali appunto quelli del vinile e poi anche delle musicassette. Inoltre produciamo anche per le etichette discografiche. L’altra nostra attività peculiare, come accennato prima, è l’innovativo servizio di personalizzazione on line del disco. Sul nostro sito web a questa pagina, mettiamo a disposizione una piattaforma dal semplice utilizzo per ordinare il proprio vinile completo di grafica e file audio. Ci occupiamo, inoltre, su richiesta, di progettazione grafica, missaggio e mastering. Infine offriamo un servizio di cutting, ossia di taglio delle lacche per dischi in cera lacca, per gli impianti di pressaggio interessati ad esternalizzare questa fase di produzione. In particolare lavoriamo con la PPM (nuova realtà nella provincia di Lodi) con cui abbiamo un rapporto di esclusiva e di scambio reciproco. Infatti per le tirature alte esternalizziamo il pressaggio, mantenendo invece l’attività di incisione, delegandolo proprio alla PPM come è accaduto per la produzione del nuovo disco di Bugo.

R.G.: In quanti siete a far parte di questo progetto? Avete una divisione/gerarchia di ruoli?

Mr.V.V.R.: Siamo in due, Davide Saccucci e Alessandro Ferrante, ed entrambi ci occupiamo di ogni fase di progettazione e produzione senza alcuna divisione di ruoli.

R.G.: Avete finora raggiunto buoni risultati in termini di quantità di lavoro e di profitti? Mirate a crescere e a diventare competitivi sul mercato?

Mr.V.V.R.: In 3 anni siamo cresciuti in modo assolutamente soddisfacente. Miriamo a diventare sempre più competitivi ricercando una continua ottimizzazione della produzione aumentando la velocità senza che ciò avvenga a discapito della qualità. Trattandosi di una produzione artigianale, e non industriale, la qualità è lo standard irrinunciabile. Ed i prezzi dei nostri prodotti sono, naturalmente, calibrati sul costo di un lavoro che cura ogni fase con estrema precisione e accuratezza.

R.G.: Ok grazie mille ragazzi!

Mr.V.V.R.: Grazie a voi.

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